Venne maggio

maggio francease 1968di Gianni Loy
“Venne Maggio” e fu speranza, cantava Ivan Della Mea negli anni delle barricate, negli anni di una lotta che, ammoniva, va vissuta, e non cantata.
nuit debout
Quasi mezzo secolo dopo, gruppi di giovani continuano a presidiare una piazza di Parigi per ragionare sul futuro, la notte, in piedi. Ed intanto arriva maggio. Squadre di “flic” in tenuta antisommossa, proprio allo scadere della mezzanotte, che segna il limite dell’autorizzazione per i giovani ad occupare il suolo pubblico, hanno caricato con forza quanti tentavano di prolungare l’occupazione della piazza.
I lavoratori, qualche giorno fa, sono di nuovo scesi in piazza per manifestare contro la proposta di riforma del mercato del lavoro, la legge El Khomri, che tra qualche giorno approderà in parlamento e sarà accompagnata da un’ennesima manifestazione di piazza.
Corsi e ricorsi storici. Il 28 aprile, mentre i sardi (forse) festeggiavano “Sa die”, gli studenti francesi erano impegnati in un serrato dibattito con i sindacati per una prova di convergenza. Studenti operai uniti nella lotta? Un vecchio slogan. Non sembra ancora scontato, gli studenti non sono del tutto convinti, ma il dibattito è capace di evocare esperienze vissute.
Ed intanto arriva maggio, ritorna. Maggio è il mese delle rose, il mese della Madonna, la festa della mamma, ma anche il “maggio francese”, soprattutto è il primo maggio, la festa dei lavoratori.
Quel primo maggio che noi poveri cagliaritani, da sempre Sant’Efisio gli ha rubato la scena, non abbiamo potuto celebrare come ci sarebbe piaciuto. Anche con rammarico, nei momenti quando sembrava che il mondo del lavoro potesse regolare i tempi della società, imporre le sue regole, senza niente togliere al convertito romano che ci ha salvato dall’invasione delle cavallette.
Ora, ahinoi, il primo maggio non riesce a strapparci le emozioni di un tempo. Da qualche anno è soprattutto un grande concerto in piazza del popolo. Ma anche quelle note sembrano sempre più lontane.
Qualcuno potrà pensare che son passati i tempi, che la società non è più quella di un tempo. Certo. è cambiata profondamente. Abbiamo imballato le nostre pene quotidiane nello scintillio delle città mercato. Abbiamo ridotto al minimo essenziale le luminarie natalizie, quelle che, un tempo, conferivano aria di festa alle vie commerciali della vigilia. Il carnevale l’abbiamo soffocato. Qualche mese fa, nel giorno di martedì grasso, ho inutilmente esplorato le vie del centro, alla ricerca di qualche assembramento spontaneo, epigone di quella ratantira che trascinava canciofali al rogo. Le strade di Stampace erano deserte, tristi. Magari i cagliaritani festeggiavano all’interno di qualche circolo, i bambini in uno dei tanti ritrovi gonfiabili dove è a la page festeggiare compleanni e comunioni.
E vabbe! Ma le strade del centro deserte, nel pomeriggio di un martedì grasso, fanno venire il malumore.
Sarà per un’altra volta!

Se fosse vero che i lavoratori non hanno più niente da recriminare, più niente da rivendicare. Se fosse vero che lo sfruttamento è roba del secolo passato, che con un minimo salariale si può condurre una vita dignitosa, che per un giovane non è difficile trovare uno straccio di lavoro, se tutto questo fosse vero, non ci sarebbe niente da dire.
Ed invece, le nuove forme di precariato, l’abuso della flessibilità, i salari corti, il lavoro nero, le umiliazioni troppo spesso richieste per ottenere un lavoro, offendono ancora, e più di prima, la dignità di uomini e donne, giovani o anziani, cittadini o immigrati che siano.
Ed una società non può reggersi, non può progredire, se le condizioni e le regole del lavoro, oggi più di ieri, non riconoscono la dignità della persona umana.
Le previsioni annunciano, per il giorno delle feste, cielo poco nuvoloso con qualche pioggia e schiarite.

Gianni Loy
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Il Meridione e la Sardegna «le» risorse per arrestare e superare il declino del Paese Italia
29 apri 16  Faddalampada aladin micromicroLa Sardegna viene spesso omologata all’interno dell’insieme più vasto del Meridione d’Italia, perdendosi così la sua specificità, sia per quanto riguarda i peculiari aspetti positivi, ma anche per quanto riguarda quelli negativi. Entrambi la rendono “unica”. Tuttavia vi sono numerosi aspetti comuni tra tutte le regioni del Meridione d’Italia che autorizzano l’assunzione dello stesso come unico oggetto d’analisi, rendendo pertanto sostenibili studi e proposte di carattere generale, che non pregiudicano la necessità di interventi specifici e differenziati per la Sardegna rispetto alle altre regioni meridionali. Pietro Greco, nelle riflessioni che avanza sull’ultimo numero del quindicinale Rocca (09, 1 maggio 2016), si occupa del Sud nel suo complesso, condividendo la tesi del presidente dello Svimez, Adriano Giannola, secondo cui “… il Sud sia una «risorsa», anzi sia «la» risorsa per la ripresa dell’intero Paese”. Riaffermando, come fanno pochi “la amico di ... Paolo Faddacentralità” della «questione meridionale». Questo dibattito – certo presente in Sardegna e in Italia – è tuttavia allo stato del tutto inadeguato rispetto all’importanza delle questioni in ballo. Al riguardo, per pertinente collegamento: ben vengano per questa finalità di ampliamento e approfondimento le iniziative come quella tenutasi ieri 29 aprile a Cagliari in Confindustria in occasione della presentazione del libro di Paolo Fadda “L’amico di uomini potenti” (Carlo Delfino Editore), su cui contiamo di tornare, anche ospitando rielaborazioni degli interessanti interventi che hanno animato il dibattito e che sono stati sacrificati dal tempo tiranno e dal protagonismo del conduttore Giacomo Mameli (a dire il vero giustificato dalla sua competenza ed esperienze professionali in materia). Ci piacerebbe pertanto che su questa news apparissero gli interventi di Antonio Sassu, di Roberto Mirasola, di Gianni Loy, di Franco Farina, di Marco Santoru, di Lucetta Milani, di Francesco Marini, di Carlo Delfino e degli altri intervenuti dei quali c’è sfuggito il nome. Come un tempo quando i quotidiani riportavano nei giorni successivi i dibattiti tenutisi nelle relative diverse occasioni d’incontro, ampliandoli e rilanciandoli. Oggi ne avremo particolare necessità.
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SUD D’ITALIA
Come costruire il futuro

di Pietro Greco, su ROCCA 1 maggio 2016

C’è chi dice che il Mezzogiorno deve dedicarsi solo e unicamente al turismo e diventare la Florida d’Italia. C’è, al contrario, chi sostiene che deve accettare di tutto, dalle trivelle in Basilicata e l’Ilva a Taranto, anche a costo di rischiare un po’ di più in termini di ambiente e di salute. Inutile dire che le due ricette, specularmente opposte, per rilanciare il Mezzogiorno non tengono. E non solo perché, da un lato, nessun Paese al mondo vive di solo turismo e, dall’altro, perché le vecchie industrie inquinanti sono, appunto, vecchie e, dunque, fuori mercato. Ma anche e soprattutto perché nessuna delle due ricette tiene conto che viviamo nell’era (certo un bel po’ disordinata) della conoscenza e che per essere competitivi non basta mettere due ombrelloni al sole e neppure produrre del buon acciaio. Per essere competitivi occorre produrre beni e (e, si badi bene, non o) servizi hi-tech, con un alto tasso di conoscenza e di sostenibilità ambientale incorporato.

un grido di allarme

Eppure un merito, queste grida poco fondate – fate turismo! accontentatevi di ospitare vecchie industrie! – ce l’hanno: contribuiscono a rompere il muro dell’attenzione che da troppi anni avvolge e quasi stritola il Mezzogiorno. Costringono a pensare il futuro del Sud.

Per la verità, il merito principale di questo ritorno di attenzione sul destino del Meridione è dovuto quasi per intero al «grido di dolore» che l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno (Svimez) ha lanciato con il suo ultimo rapporto: il Sud è alla deriva. Il distacco delle regioni meridionali dal resto d’Italia e d’Europa è ormai enorme. Tanto che qualcuno sostiene sia al limite della irreversibilità. Dovesse continuare questa condizione, scrive il Presidente di Svimez, Adriano Giannola, in un libro di cui parleremo tra poco: tra pochi anni, nel 2040, ci accorgeremo che il Mezzogiorno è svanito, «senza clamore, per eutanasia».

Ben vengano dunque le grida, quelle infondate ma soprattutto quelle fondate, perché rompere il trentennale silenzio sulla irrisolta «questione meridionale» è condizione necessaria per evitare la morte in un «flebile lamento» del Mezzogiorno d’Italia.

Condizione necessaria, ma purtroppo non sufficiente. Non basta essere consapevoli e persino gridare che il re è nudo. Occorre anche rivestirlo e restituirlo alle sue funzioni. Occorre, fuor di metafora, un piano che eviti al Mezzogiorno il suo triste destino. Occorre riproporre in termini nuovi l’antica «questione meridionale». Molti osservatori nei mesi scorsi – da Eugenio Scalfari su Repubblica a Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera – hanno suggerito, in maniera più o meno esplicita, questa seconda necessità. Ma pochi l’hanno declinata. Pochi hanno indicato la strada possibile per evitare che il Mezzogiorno prosegua nella sua deriva.

non un peso ma una risorsa

GIANNOLA_libro SudAdriano Giannola, invece, ha scritto un libro in cui non solo denuncia il colpevole silenzio sulla deriva del Mezzogiorno, ma indica anche la strada per riprendere la rotta verso un porto sicuro. Il libro si intitola, un po’ a sorpresa, Sud d’Italia. Una risorsa per la ripresa (Salerno Editrice, Roma 2015, pagg. 108, euro 8,90) e dopo un’efficace ricostruzione storica dell’origine e dell’evoluzione del dualismo tra Settentrione e Meridione d’Italia indica come «costruire il futuro».

Adriano Giannola guarda al Sud non solo come a un pezzo d’Italia alla deriva, ma anche come a una risorsa per la ripresa dell’intero Paese. È piuttosto significativo che questa visione non sia stata sottolineata neppure da Scalfari e da Galli della Loggia. Questa differenza segna il grado di consapevolezza, non esaltante, che anche gli intellettuali italiani più acuti hanno oggi del problema.

un Sud blocca Nord?

C’è, tra questi intellettuali avvertiti, chi pensa che il Sud sia il vagone piombato di un treno-Paese che impedisce alla locomotiva, il Nord, di correre a briglia sciolta. Adriano Giannola ne cita uno autorevole, come Massimo Cacciari, che pone la «questione settentrionale» in questi termini: «il peso che il Nord deve sostenere per i conti generali del Paese è un dato oggettivo [...] perché lì ‘al Sud’, una grande fetta dell’economia è in mano alla criminalità [...]. O si ricomincia dalla locomotiva o non c’è ripresa. Mica i vagoni possono portare avanti il Paese [...] e allora cerchiamo di non strozzare la gallina». In altri termini, risolviamo la «questione settentrionale» e poi, vedrete, anche il Sud sarà trascinato verso lo sviluppo.

C’è chi pensa che le due questioni, quella settentrionale e quella meridionale, siano collegate e che siano aspetti di una più generale «questione Italia». Anche se poi stentano a definire cosa sia questa «questione italiana».

Ma pochi sostengono – come fa Giannola nel suo libro – ©. E, dunque, pochi affermano la centralità della «questione meridionale».

Nel suo libro, come abbiamo detto, Adriano Giannola ripercorre la storia del dualismo Nord/Sud, con rapide ma efficacissime pennellate. Torneremo in un altro momento su questa ricostruzione, illuminante. Prendiamo in considerazione, ora, la parte di analisi che riguarda il presente e la parte progettuale: come costruire il futuro. Il futuro dell’Italia, beninteso, non solo della sua parte meridionale alla deriva.
L’analisi lega alcuni fatti.
1. La «questione italiana» non è contingente e non nasce con la crisi finanziaria mondiale del 2007. L’Italia è in una fase di declino relativo, che secondo Giannola dura da vent’anni e secondo noi da almeno trenta. Sono due, anzi tre, decenni pieni che l’Italia corre meno degli altri Paesi europei, per non parlare di quella dozzina di Paesi cosiddetti a economia emergente dell’Asia sud-orientale (Cina in testa) e di altri paesi sparsi in America Latina e persino in Africa e nel Medio Oriente dilaniato da infinite guerre.
2. La crisi italiana è strutturale. E ha origine nella specializzazione produttiva del sistema Paese. La nostra specializzazione produttiva è nei beni a media e bassa tecnologia e nei servizi a medio e basso tasso di conoscenza aggiunto. Con la cosiddetta «nuova globalizzazione» e l’entrata sulla scena dell’industria e del commercio mondiale di Paesi con un basso costo del lavoro, il modello di produzione italiano, da alcuni definito «senza ricerca», è entrato inevitabilmente in crisi.
3. La risposta del sistema Italia alla «nuova globalizzazione» è stata ed è tuttora miope. Si è pensato di conservare il vecchio modello produttivo e di accettare la sfida dei Paesi meno avanzati cercando di agire sul costo del lavoro (stipendi minori, maggiore flessibilità, erosione dei diritti) invece di cercare di cambiare specializzazione produttiva e accettare la sfida dei Paesi più avanzati nei settori a maggior tasso di conoscenza aggiunto. Gli effetti di questa scelta, messi in luce da Giannola, sono stati devastanti: sul piano economico hanno prodotto la desertificazione industriale del Mezzogiorno e la diminuzione del mercato interno, determinando un avvitamento della crisi; sul piano sociale e politico hanno prodotto una «narrazione artefatta e consolate»: l’idea che il rallentamento del treno Italia fosse prodotto dal Sud incapace e in mano alla criminalità. Di qui una serie di politiche tese a «sganciare» il vagone piombato, abbandonandolo al suo destino, e a «liberare» la locomotiva del Nord.

4. Queste politiche hanno prodotto un avvitamento della crisi. Il Sud è diventato un deserto industriale, il reddito è stato attaccato, la povertà è aumentata, l’ambiente si è degradato, i giovani (i pochi giovani) laureati o comunque qualificati sono emigrati. Nel medesimo tempo le aziende del Nord hanno non solo tenuto a fatica il passo con quelle dei Paesi di nuova industrializzazione, ma hanno assistito alla caduta del mercato interno.

come interrompere la crisi

Come si interrompe questa crisi che si è avvitata su se stessa? Adriano Giannola propone una ricetta – un piano industriale – che solo agli occhi di chi non ne ha compreso la natura appaiano spiazzanti. a) Capire finalmente che siamo entrati nella società della conoscenza. E che solo la capacità di competere nei settori ad alto tasso di conoscenza (scientifica ma anche non) può rilanciare la nostra economia. b) Considerare il Sud non come il vagone piombato del treno Italia, come un pozzo senza fondo che assorbe le ricchezze prodotte al Nord (analisi che, peraltro, non ha fondamento alcuno), ma come «la» risorsa per la ripresa.

c) Giannola individua anche tre settori in cuiilrilanciodegliinvestimentialSudpuò tradursi in un fattore importante di ripresa per l’intero Paese: il settore energetico; la logistica a valore; il territorio.

Cop 21, la recente Conferenza delle Parti che hanno sottoscritto la Convenzione delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici tenuta a Parigi, ha ormai dichiarato irreversibile la transizione dai combustibili fossili alle fonti di energia rinnovabili e carbon free. Ne deriva che non le trivelle della Basilicata, ma il solare, l’eolico, la geotermia sono le fonti del futuro. E il Sud d’Italia è nella condizione di produrre energia da queste fonti, regalando all’intero Paese una maggiore autonomia energetica.

Il Mezzogiorno d’Italia è un grande porto al centro del Mediterraneo, ovvero del mare a più alta intensità di traffico commerciale del mondo. Con l’ampliamento del Canale di Suez il traffico navale nel Mediterraneo è destinato ad aumentare. In particolare sono destinati a aumentare i traffici con Cina e India. Il Mezzogiorno, lavorando con un’ottica sistemica, può (anzi, deve) proporsi come snodo principale di questi traffici.

primo: rigenerazione

Giannola ritiene, infine, che la rigenerazione urbana ed ambientale sia la terza opportunità per il Mezzogiorno. Rigenerazione significa rilancio di un’edilizia di qualità e non di quantità; ma anche nuova industrializzazione (industrie della conoscenza); difesa del territorio (dal dissesto idrogeologico; dal rischio sismico e vulcanico); valorizzazione non dei giacimenti (conservazione passiva) ma delle fucine culturali: facciamo sì che la tutela integrale dei beni archeologici, per esempio, diventi occasione di nuovi lavori ad alto tasso di creatività.

Le città meridionali nel primo decennio del XXI secolo hanno perso il 3,3% della popolazione, mentre quelle del Nord hanno fatto registrare un incremento del 4,8%. Un’ulteriore sintomo del malessere e del depauperamento economico e culturale del Mezzogiorno. Siano le città del Sud il centro di una nuova industria, di un nuovo «piano del lavoro» che comprenda e integri l’intero territorio.

Se tutto questo avvenisse, il Sud potrebbe portare anche il Nord fuori da quella condizione di declino che interessa l’Italia intera, sia pure con modalità diverse, da trent’anni.

È dalle risposte che la classe dirigente nazionale (politica, ma non solo politica) ma anche europea saprà dare alle domande poste dalla «questione meridionale» sapremo, conclude Giannola, «come sarà, se ci sarà, questa nuova Italia». Perché oggi più che mai è valido l’ammonimento di Giustino Fortunato: «il Mezzogiorno, sappiatelo pure, sarà la fortuna o la sciagura d’Italia!».

Pietro Greco

rocca 09 1 mag 16

Rocca – Cittadella 06081 Assisi
e-mail rocca.abb@cittadella.org

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