Impegnati per il NO

Sardegna No dei sardi Mirasola1NO SARDEGNALa riforma costituzionale serve alla Sardegna?
di Nicolò Migheli

By sardegnasoprattutto/ 17 ottobre 2016/ Società & Politica/
Ci ha pensato Eugenio Scalfari che con il candore dei vecchi ci dice che il re è nudo. Nel dibattito con Zagrelbelsky sostiene la tesi che ogni democrazia è alla fin fine oligarchica. Molti i chiamati che siedono sui vagoni ma pochi gli eletti a condurre il treno. Uno studio inglese di qualche anno fa dimostrava che negli ultimi duecento anni tra le èlite britanniche ricorrevano sempre i soliti 150 cognomi. Però la patria della democrazia non conobbe l’evento traumatico della Rivoluzione Francese che un po’ di teste le ha tagliate e che impose che le oligarchie democratiche siano sempre a tempo, relative al mandato.

Ancora una volta è il termine riforma ad esprimere la sua connotazione ambigua. La nostra tradizione politica dal Settecento in poi la qualifica come avanzamento, conquista di diritti e spazi partecipativi. Invece in tutti questi anni quella parola per noi ha significato riduzione dei diritti per molti, ad esempio il jobs act, e vantaggi per pochi, quella di controriforma. In effetti siamo di fronte alla cancellazione di quello spirito democratico nato dopo la II Guerra Mondiale. È il Concilio di Trento della crisi della democrazia.

La Restaurazione dello stus quo ante favorevole alla ri-creazione del ceto degli ottimati dell’Italietta post risorgimentale. La riforma costituzionale è talmente confusionaria che molti esponenti del fronte del SI lo riconoscono invitando a votarla perché comunque sarebbe un cambiamento. Altra parola di cui diffidare. Nel testo approvato si possono trovare svarioni o dimenticanze come questa: Costituzione vigente: ”Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato.” Costituzione modificata: ”I membri del parlamento esercitano le loro funzioni senza vincolo di mandato.” Però chi rappresentano? Il popolo, la nazione, il partito, il Presidente del Consiglio, se stessi?

È evidente che le mediazioni hanno partorito un testo che alla fine, se approvato, darà lavoro per anni a moltitudini di costituzionalisti. Nel dibattito sulla riforma vi è il cotè sardo. Un interesse partito distrattamente ora si è acceso con dibattiti, iniziative pubbliche. A differenza di quello italiano, si caratterizza per tre scelte: Il SI, il No ed il NI. Il fronte del SI, che a prima vista sembrerebbe monolitico ha dentro di sé più posizioni. La sindrome del Titanic: votano si perché Renzi ci si gioca la faccia e le loro carriere politiche presenti o ipotetiche sono legate alla sua figura, se cade lui cadono tutti, il referendum è l’ordalia.

Perché tenersi la specialità se l’abbiamo usata male? Questo è il retro pensiero del gruppo più abile. Ufficialmente dichiarano che il nuovo testo costituzionale non tocca il Titolo V e le prerogative della Sardegna resteranno immutate. Non dichiarano però che è una norma transitoria, che lo Statuto Sardo dovrà essere sottoposto ad un accordo Stato Regione, che esso verrà profondamente influenzato dal mutato contesto costituzionale; e se anche si riuscisse ad ottenere un testo più avanzato dell’attuale, quest’ultimo sottoposto all’approvazione del parlamento non passerebbe mai.

I sardi sono il 2,6% del corpo elettorale, i conti sono presto fatti. Luciano Violante, esponente del SI, dichiara che solo Tentino Alto-Adige e Valle d’Aosta hanno diritto alla specialità perché frutto di accordi internazionali, il resto è antistorico. Opinione molto diffusa tra gli esponenti delle regioni ordinarie e i parlamentari. La stessa clausola di supremazia viene liquidata dal Presidente della Regione con un atto di fiducia nei confronti di Roma, come se Roma non ci avesse già imposto il carico più alto d’Italia di servitù militari e non esitasse, se le condizioni ci saranno, a portare qui il Deposito Unico delle Scorie Nucleari.

In realtà sono dei centralisti e la Regione ridotta alle competenze di una vecchia provincia non li disturba, lo auspicano da sempre. Gli opportunisti. Votano sì e vogliono che Renzi lo sappia, però sperano o sono convinti che vinca il no e poi si vedrà. Niente da aggiungere. Non bisogna rifiutare il cambiamento, bisogna cavalcarlo. Sono convinti che ogni cambiamento sia utile per spezzare l’immobilismo italiano, credono che la riforma sia buona e che è stata attesa per troppo tempo. Credono che ci saranno risparmi nei costi della politica, che il senato delle autonomie sia la scelta giusta, citano la Germania e il Bundesrat, dimenticandosi che quella è una repubblica federale, mentre la revisione costituzionale italiana disegna uno stato neo-centralista.

Il fronte del NO, anche qui due posizioni principali. Sono contro comunque. È la riforma di Renzi? Votano no perché è la sua, sperano che con essa cada anche il governo. Gli informati. Non è detto che tutti si siano letti il testo, però cercano di documentarsi, ascoltano pareri, si sono fatti l’idea che la riforma non sarà positiva né per la Sardegna né per l’Italia. Il NI. Area vasta che raggruppa gli astensionisti cronici e quelli delusi dalla politica. Rispetto al resto della Repubblica, vi è una componente tutta sarda e che spesso coincide con alcuni – non tutti, si badi bene- movimenti indipendentisti. Gli apocalittici.

Loro sono per il tanto peggio tanto meglio, se perdiamo l’autonomia i sardi si renderanno ancor più conto del rapporto coloniale che Roma ha con l’isola. Posizione che ricorda molto quella di alcuni gruppi extraparlamentari degli anni Settanta. I moderati utopisti. È questione tutta italiana, sostengono, per cui asteniamoci come abbiamo sempre fatto per le elezioni in cui non fossimo presenti, se proprio vogliamo essere utili a noi stessi lavoriamo per una nuova Carta de Logu.

Eppure per tutti la domanda dovrebbe essere una ed una sola: la riforma costituzionale serve alla Sardegna? Per me NO.
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NO NO NOOOPerché voterò no al referendum
Domenico Gallo, su Rocca

Non una revisione, una sostituzione.
Dalla semplice lettura del titolo: «Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parla- mentari, il contenimento dei costi di funzio- namento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione» ci rendiamo conto che la riforma che il popolo italiano sarà chiamato ad approvare o a rifiutare con il referendum prossimo venturo non è una semplice legge di revisione della Costituzione. Si tratta di un intervento che modifica o sostituisce ben 47 articoli, oltre un terzo dell’intero corpo normativo, realizzando in questo modo la sostituzione dell’ordinamento democratico previsto dalla Costituzione del 48 con un altro ordinamento, ispirato a princìpi e ragioni affatto differenti da quelli che avevano guidato i padri costituenti. Si tratta, pertanto, di un progetto ambizioso simile a quello che in Francia nel 1958 determinò il passaggio dalla IV alla V Repubblica con la riforma De Gaulle.

un metodo inaccettabile: la Costituzione di minoranza
La prima critica che si deve muovere alla riforma costituzionale concerne il metodo con cui è stata approvata. La Costituzione della Repubblica italiana fu approvata dall’Assemblea costituente il 22 dicembre 1947 con 458 voti favorevoli e 62 contrari. I deputati dell’Assemblea costituente furono eletti con sistema proporzionale, rappresentavano tutte le componenti politiche sociali e culturali presenti nel popolo italiano e vararono la Costituzione con un accordo quasi unanime. Si trattava di edificare le mura della casa comune per unire il popolo italiano e trasformarlo in una comunità politica unita da un destino comune. La nuova Costituzione fu scritta ad iniziativa e ad impulso esclusivamente del Parlamento, senza che il Governo potesse mettervi becco. Quando l’Assemblea Costituente discuteva del progetto della Costituzione i banchi del Governo rimanevano vuoti. Tutto il contrario di quello che è successo quest’anno con l’approvazione della revisione costituzionale. Quando il capo del Governo si è presentato in Parlamento l’11 aprile per concludere la discussione finale sulla sua nuova Costituzione, i banchi del Parlamento erano vuoti, mentre il banco del Governo era strapieno. Questo dovrebbe far riflettere sulla totale delegittimazione politica del percorso che ha portato una maggioranza risicata, frutto di un Parlamento eletto con una legge maggioritaria dichiarata incostituzionale (Corte Cost. sentenza n. 1/2014), ad approvare sotto dettatura dell’esecutivo la più pesante riforma della Costituzione della storia repubblicana.

la Costituzione è un bene comune: non appartiene ad un partito o ad un Governo
La riforma della Costituzione dovrebbe fiorire da un dibattito collettivo, aperto e condiviso perché in essa sono scolpite le basi della convivenza civile. Le Costituzioni si modificano infatti con assemblee costituenti, in ogni caso con Parlamentari eletti con sistemi proporzionali a seguito della più ampia condivisione tra le forze politiche. Le Costituzioni sono fatte per unire un popolo, per questo non possono essere imposte da una fazione politica.
La Costituzione italiana ha unito il popolo italiano costituendolo in comunità politica che si riconosce in un destino comune. Quel destino che i padri costituenti vollero garantire alle generazioni future, ancorandolo ad una serie di beni pubblici repubblicani, quali: l’eguaglianza, la pace, il pluralismo, l’istruzione, la solidarietà sociale, la salubrità dell’ambiente, la dignità del lavoro, che sono tutt’ora di straordinaria attualità anche se da molti anni languono nei palazzi della politica, quando non sono apertamente ripudiati. Grazie alla Costituzione, il popolo italiano è rimasto unito anche quando si sono verificate drammatiche rotture storiche, come la guerra fredda. È la Costituzione che ha impedito che la guerra fredda ci trascinasse nella tragedia della guerra civile, com’è avvenuto in altri Paesi. È la Costituzione che, attraverso l’indipendenza della magistratura, ci ha salvato da sbocchi autoritari ed ha tenuto unito il popolo italiano nelle drammatiche contingenze della strategia della tensione e del terrorismo. Adesso che, per le vicende della globalizzazione e delle crisi politiche del dopo ’89, si sono sfal- date le grandi organizzazioni di coesione sociale, come i sindacati, i partiti e le associazioni di massa, nella società liquida in cui l’individualismo imposto dal mercato trionfa, la Costituzione è l’unico baluardo che mantiene l’unità del popolo italiano, che ci consente di essere ancora un comunità politica unita da un destino comune in cui tutti possiamo riconoscerci.

il convitato di pietra: la riforma elettorale
Sebbene taciuto, in realtà esiste un legame inestricabile fra la riforma elettorale e quella costituzionale, l’una sorregge e giustifica l’altra e viceversa, e tutte e due insieme concorrono a delineare il nuovo volto della democrazia italiana che verrà fuori dal processo delle riforme. Poiché è proprio il legame con la legge elettorale che svela la natura autoritaria di questa riforma costituzionale, adesso si cerca di correre ai ripari, «aprendo» ad improbabili modifiche dell’italicum. Senonché dietro queste apparenti «aperture» vi è solo fumo perché non avanza alcun ripensamento dell’impostazione politico/ideologica alla base del sistema elettorale scelto ed imposto al Parlamento con tre voti di fiducia. A questo punto dobbiamo chiederci qual è la concezione della democrazia sottesa a queste riforme istituzionali. La democrazia – scriveva Schumpeter nel suo saggio del 1942, Capitalismo, socialismo e democrazia – è «lo strumento per giungere a decisioni politiche, in base al quale singoli individui ottengono il potere di decidere attraverso una competizione che ha per oggetto il voto popolare». Secondo questa concezione, la vera funzione del voto è quella di consentire ai cittadini di scegliersi un governo «direttamente o attraverso un corpo intermedio che a sua volta genererà un esecutivo». Ciò che davvero conta è che dalle elezioni emerga l’indicazione chiara ed univoca di un Governo e del suo capo. Insomma la democrazia, secondo questa concezione che oggi è ritornata in voga, si risolve nel diritto dei cittadini di scegliere da chi vogliono essere comandati. La riforma elettorale, italicum, è perfettamente coerente con questa visione. Il giorno stesso del voto sapremo a quali individui è stato conferito il potere di prendere le decisioni politiche ed è irrilevante che siano prescelti da una minoranza di elettori. Non è questa la democrazia che i padri costituenti avevano promesso al popolo italiano quando scrivevano che la sovranità spetta al popolo e che tutti i cittadini hanno diritto di concorrere a determinare la politica nazionale. Nella loro ingenuità pensavano che il popolo dovesse contare veramente qualcosa. Se questa è la concezione della democrazia che emerge dalla riforma elettorale, allora è evidente che la Costituzione formale deve essere modificata per raccordarla a questo sistema.
La prima cosa che si deve eliminare è che ci siano due Camere legislative elette direttamente dal popolo. Non possiamo più permettercelo, perché nessuna alchimia elettorale può garantirci che gli elettori investiranno del potere di governare lo stesso gruppo di individui sia alla Camera che al Senato. Col sistema proporzionale per oltre 40 anni ci sono state maggioranze omogenee sia alla Camera che al Senato, però se si taroccano i risultati del voto non possiamo più aspettarci che ci sia omogeneità politica. Poiché il premio di maggioranza si vince o si perde anche per un solo voto, avere due Camere elettive sarebbe un azzardo che potrebbe portare all’ingovernabilità più assoluta se il premio venisse assegnato alla Camera dei Deputati ad una lista ed al Senato ad un’altra lista concorrente.

i limiti del bicameralismo perfetto e l’illusoria semplificazione della riforma
Da oltre vent’anni in Italia si punta il dito sull’anomalia rappresentata da un sistema legislativo incentrato su due Camere che hanno uguali competenze e che comportano una duplicazione dei tempi. Tuttavia le statistiche parlamentari – disponibili online sul sito del Senato – smentiscono radicalmente coloro che si strappano le vesti sulla lunghezza dei tempi di approvazione delle leggi. Nella legislatura 2008-2013 le leggi di iniziativa del governo, che assorbono in massima parte la produzione legislativa, sono arrivate alla approvazione definitiva mediamente in 116 giorni. Addirittura, per le leggi di conversione dei decreti legge sono bastati 38 giorni, che scendono a 26 per la conversione dei decreti collegati alla manovra finanziaria. Ci dicono che la riforma mira a semplificare e velocizzare il procedimento legislativo abolendo la navetta fra Camera e Senato, ma così non è. In realtà si allungano i tempi e si complicano le modalità della produzione legislativa; infatti si introducono almeno sei diversi tipi di leggi e di procedure che ricadono su ambedue le Camere: 1) le leggi sempre bicamerali, con intervento paritario di Camera e Senato, come le leggi costituzionali e di interesse europeo; 2) le leggi fatte dalla sola Camera che entro dieci giorni possono essere richiamate dal Senato; 3) le leggi che invadono la competenza regionale che il Senato deve entro dieci giorni prendere in esame; 4) le leggi di bilancio che devono sempre essere esaminate dal Senato che ha quindici giorni per proporre delle modifiche; 5) le leggi che il Senato può chiedere alla Camera di esaminare entro sei mesi; 6) le leggi di conversione dei decreti legge che hanno scadenze e tempi convulsi se richiamate e discusse anche dal Senato. Ciò crea un intrico di passaggi tra Camera e Senato e un groviglio di competenze il cui conflitto dovrebbe essere risolto d’intesa tra gli stessi presidenti delle due Camere che confliggono tra loro.
È singolare, poi, che si elimini il Senato, corpo politico elettivo di rappresentanti dei cittadini, per inventare un preteso Senato rappresentativo delle istituzioni territoriali, proprio quando si prevede di ricondurre allo Stato centrale competenze che, troppo superficialmente, sono state assegnate alle Regioni con la riforma del titolo V del 2001. Anzi uno degli obiettivi della riforma costituzionale è proprio quello di ridurre all’osso l’autonomia legislativa delle Regioni, alle quali vengono sottratte competenze tipicamente regionali come il controllo del territorio e la produzione e distribuzione dell’energia. Questo significa che il governo centrale potrà installare impianti di estrazioni petrolifere e realizzare altre grandi opere che incidono pesantemente sull’equilibrio ecologico, sull’economia locale e sulla salute della popolazione senza che le Regioni interessate possano mettervi becco.

gli obiettivi della riforma: il premierato assoluto

Nessuno si oppone ad un’opera di manutenzione della Costituzione che possa rimediare agli inconvenienti del bicameralismo perfetto, ma la grande riforma Renzi/ Boschi non interviene sulle inefficienze del bicameralismo. Essa persegue un altro obiettivo: quello di aggredire la centralità del Parlamento, cominciando ad eliminare una Camera ed assoggettando l’altra, eletta con metodo supermaggioritario, alla supremazia del Governo, che, essendo già padrone della maggioranza parlamentare, con la riforma, imponendo l’approvazione delle leggi a data fissa, nel termine di 70 giorni, si impadronisce dell’agenda dei lavori parlamentari. Il secondo obiettivo è quello di ritornare al centralismo statale e consentire al governo di spianare ogni resistenza regionale in tema di opere ed impianti che incidano profondamente sul territorio e sulla vita delle popolazioni locali. In questo modo viene appannata la distinzione fra potere legislativo e potere esecutivo, dal momento che il capo del partito politico «vincitore» delle elezioni, è a capo del potere esecutivo e controlla la maggioranza parlamentare, da lui stesso creata. A questo capo di partito che esercita un potere di fatto quasi senza limiti possono opporre solo un debole argine le istituzioni di garanzia, Presidente della Repubblica e Corte Costituzionale.
Attraverso le riforme, viene consolidato il passaggio da una democrazia rappresentativa, fondata sulla centralità del Parlamento, ad una democrazia dell’investitura, fondata sulla prevalenza dell’Esecutivo sul Parlamento e del governo centrale sulle autonomie regionali. Il risultato finale è quello di instaurare una sorta di Premierato assoluto. Se qualcuno reputa che rafforzando i poteri del capo dell’esecutivo si possano rafforzare i diritti dei cittadini garantiti dalla prima parte della Costituzione, pensi a quel che è accaduto in Turchia.

Domenico Gallo
mini_01 21 nov 2016
——
Per me è NO

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