Un paese sfiduciato. E i giovani sempre meno protagonisti. Quel che va male ma troviamo anche segnali positivi

censis 50rapporto_2016RAPPORTO CENSIS
A chi, a cosa gli italiani danno fiducia
di Fiorella Farinelli, su Rocca 1/2017

E’ nell’ultima pagina, la 546esima del 50° Rapporto Censis, che si spiega quel suo continuo aggirarsi attorno al tema delle «giunture». Le giunture che si sono logorate e smarrite, le giunture che bisogna ricostruire contro i precipizi inquietanti di un populismo distruttivo. A chi, a cosa gli italiani di oggi danno più fiducia? In testa alla classifica ci sono due soggetti molto diversi per funzioni e gestione, e però interpreti entrambi di interessi/valori collettivi, al primo posto le forze dell’ordine col 48,7% di fiducia, al secondo le associazioni di volontariato col 42,5%. Poi, a grande distanza, il 25,1% dei più giovani che credono nelle imprese agricole, segnale di un rinnovato interesse alla terra come nuova opportunità di impiego o di iniziativa imprenditoriale. Seguono un modesto 16,7% per la Chiesa, assai al di sotto del prestigio etico e spirituale di papa Bergoglio (e dimezzato inoltre all’8,8% tra i più giovani), e un ancora più modesto 12,1% per le grandi imprese/grandi marchi che, contrariamente alla vulgata ufficiale, la dice tutta sulle delusioni di tanti rispetto al ruolo giocato per lo sviluppo e per l’occupazione. Più in basso, con una fiducia che scivola al 9,1%, ci sono le istituzioni locali, intese come Comuni (e chissà fin dove si scenderebbe se la si fosse verificata anche per le Regioni). Ancora peggio va per i sindacati, ridotti dai fasti di un tempo a un misero 6,6% e tuttavia in grande vantaggio rispetto ai partiti politici. Ma ciò che colpisce di più è che agli ultimi due posti si trovino non solo le banche (1,5%) che dal 2007 hanno in verità fatto di tutto per meritarlo, ma anche la politica, che non le supera se non per un impalpabile decimo di punto (1,6%).

distanza tra società e poteri

Eccole, dunque, le giunture che non ci sono. Il grande scollamento tra cittadini e tutto ciò che è politica, istituzioni, poteri. Lo spazio desertificato in cui scorrazza indisturbato il vento di un populismo che mina alle radici la democrazia rappresentativa e, prima ancora, la coesione sociale. Ma di populismi in verità sembrano essercene più di uno perché secondo il Censis anche il potere, per conquistare consenso, tende a rispecchiarsi nella parte di società che segue la pancia più che la testa. Il caso limite è quello di Trump negli Usa ma anche in Italia, osserva Giuseppe De Rita che del Censis è l’eterno ispiratore, non sembra esserci volontà o capacità di una politica diversa. Col rischio che «alla fine vada in scena un derby tra populisti che finisce per forza con la vittoria di un populista».

Ma com’è successo che tra società e poteri economici e politici si sia prodotta una tale distanza? Che in un paese connotato da decenni di vitale dialettica democratica non ci siano quasi più istituzioni e organizzazioni che godano di una fiducia sufficiente ad essere ritenuti interlocutori credibili da parte dei cittadini interessati a far pesare interessi non solo particolaristici? E da dove viene la crisi profonda di tutti o quasi i corpi intermedi e di tutte le rappresentanze? Ci sono, certo, gli effetti di una lunga stagione di rifiuto, da parte del potere, di ogni «intermediazione», alla ricerca di un rapporto diretto – più semplice, più efficace, e soprattutto foriero di consensi non spartibili con altri attori – con i cittadini. E poi il risultato di istituzioni da un lato svuotate del loro ruolo di intermediazione con la società da una politica che le ha asservite o le ha rese povere e quindi impotenti, dall’altro travolte per loro colpa dalla corruzione, da perverse porosità alle pressioni e agli interessi di pochi, da mix indigeribili tra inefficienze e privilegi.

un corpo sociale attivo e reattivo

Ma c’è anche un’altra narrazione, nel cinquantesimo Rapporto Censis. Che permette di riproporre, insieme alle inquietudini, anche un filo di ottimismo. Come il Censis ha del resto sempre fatto, nelle sue annuali analisi tese ad offrire al Paese una sorta di «autocoscienza collettiva».

La distanza tra società e poteri nasce anche dal fatto che il «corpo sociale» sareb- be stato capace, pur all’interno di una crisi stremante, di reagire in modo molecolare alle difficoltà, di inventare rimedi alla disoccupazione, di far leva sulle proprie risorse per trovare altri redditi, di realizzare forme inedite di sharing economy utilizzando anche i vantaggi della disintermediazione offerti dalle nuove tecnologie. Le case e i terreni che smettono di essere beni rifugio per diventare struttu- re ricettive extralberghiere, bad and bre- akfast, stanze in affitto, agriturismi. I bassi salari e le basse pensioni che vengono integrate a via di lavori e lavoretti tra il chiaro e il sommerso. La disoccupazione che viene contrastata utilizzando le opportunità del territorio e i supporti delle reti di prossimità. Le spese che vengono messe sotto controllo anche con ricicli, riusi, e-commerce, economia solidale. Le famiglie che rimediano all’impoverimento del welfare con nuovi comportamenti e nuove solidarietà. Il risparmio – e perfino l’anticipo delle eredità – che risolvono problemi di figli e nipoti. Un corpo sociale così attivo e reattivo, così capace di continuare per la sua strada nonostante tutto, così adattivo e creativo, è orgoglioso della sua tenuta e proprio per questo ha maturato una sempre maggiore distanza da istituzioni, partiti politici, sindacati, istituti di credito, sistemi di welfare incapaci di sostenerlo e di supportarlo. Oltre che, s’intende, di cambiare la situazione.

il sommerso di oggi

De Rita, in verità, ammette che l’informale, il flessibile, il sommerso oggi non funzionano più come negli anni Settanta, quando dettero luogo a nuove forme di sviluppo industriale ed imprenditoriale delocalizzato. Il sommerso di oggi è piut- tosto una forma di difesa, un fenomeno più statico che evolutivo, e senza «sistemici orientamenti di sviluppo». Basti pensare all’accumulo, dal 2007 a oggi, di una massa di denaro liquido pari a 114,3 miliardi di Euro che resta nelle cassette di sicurezza senza venire utilizzato in investimenti di lungo respiro. Senza produrre, quindi, nuova ricchezza, e tantomeno nuovo sviluppo. Un paese rentier che non investendo non costruisce futuro? Tutto ciò consente però di restare a galla, e sarebbe proprio la percezione di farcela nonostante tutto ad alimentare il diffuso di- sprezzo per una politica che invece guarda solo a se stessa, e che viene ritenuta incapace di strategie di successo. Perché condizionata dai vincoli europei, perché senza possibilità di incidere sulla globa- lizzazione economica e sull’immigrazione globale, perché senza coraggio e senza idee. Una casta, insomma, si tratti di politici, manager pubblici, grandi imprese, banche.

lavoro e welfare

C’è del vero, in questa narrazione tinta di ottimismo delle capacità del corpo sociale italiano di «ruminare» anche le peggiori difficoltà, metabolizzando criticità e novità e inventandosi modi nuovi di essere anche nelle peggiori emergenze, dai terremoti alle migrazioni. E c’è del vero anche nella segnalazione dei successi che pure continuano ad esserci, nell’export, nel manifatturiero, nella filiera agricolo- alimentare e in quella del lusso, nel turismo, in un made in Italy attrattivo in tan- te parti del mondo. E tuttavia è proprio la descrizione di tutto un insieme di fe- nomeni, soprattutto nei capitoli dedicati al lavoro e al welfare, a sbattere sul tavolo la crudezza di ciò che avviene e l’impossibilità, al momento, di uscirne per la porta principale. La disoccupazione è diminuita, tra il 2014 e il 2015 c’è stato il recupero di 186.000 occupati, gli incentivi e le detrazioni fiscali del Jobs Act hanno «fatto fibrillare il mercato del lavoro». Ma non si tratta di nuovo sviluppo, e neppure di incremento della ricchezza collettiva. Sono per lo più lavori di bassa produttività, di modesta professionalità, di breve durata, lo dicono i 277 milioni di contratti di lavoro stipulati tra il 2008 e il 2015 (pari a 83 contratti medi pro capite, tanti di pochi mesi e perfino di pochi giorni) e i 70 milioni di nuovi voucher emessi nei primi sei mesi del 2016. Ad essere particolarmente penalizzate, in questo quadro di mancato sviluppo, sono le figure professionali di livello medio-alto, i quadri, i tecnici, gli impiegati che non trovano lavoro nell’industria e nei servizi del privato e a cui è stata chiusa, causa spending review e innalzamento dell’età di pensionamento, la porta di accesso al settore pubblico. Con una sofferenza diffusa, quindi, oltre che dei giovani diplomati e laureati, anche di una parte importante del ceto medio che dall’impoverimento dei suoi figli rispetto ai coetanei di venti e trent’anni fa trae un’insicurezza profonda, foriera di comportamenti adattivi o conservativi. Il 61,4% è convinto che il proprio reddito non crescerà nei prossimi anni, il 57% è certo che figli e nipoti non vivranno meglio di loro, tutti temono che senza un nuovo sviluppo l’area delle professioni e del lavoro esperto subirà senza possibilità di recupero gli effetti di spiazzamento delle tecnologie digitali che fagocitano intere procedure, meccanismi di controllo e processi decisionali.

un paese economicamente fermo

Un paese che non fa figli. Un paese che non prepara il suo futuro. Un paese che penalizza i millennials, nati tra gli ultimi anni del secolo passato e i primi del nuovo, che hanno un reddito inferiore del 15,1% rispetto alla media dei cittadini, si sposano poco e mettono al mondo pochi figli, passano gli anni delle migliori energie nell’attesa di cambiamenti che non si vedono. La loro insicurezza si moltiplica in quella dei genitori. All’insicurezza diffusa contribuisce del resto anche l’incessante indebolirsi delle tutele dai rischi, assicurate un tempo dal welfare. Esemplare il caso della sanità. Sono 11 milioni gli italiani che nel 2016 hanno dovuto rinunciare a prestazioni sanitarie di vario tipo, odontoiatriche, specialistiche, diagnostiche. Il rientro dal disavanzo della spesa sanitaria tra il 2009 e il 2014 (da 3,5 miliardi a 275 milioni di euro) è stato pagato dagli utenti, con un incremento della spesa privata del 34,8%, pari ormai al 24% dell’intera spesa sanitaria. Mentre, nello stesso periodo, sono aumentate del 74,4% anche le spese di compartecipazione, cioè dei ticket sanitari e farmaceutici, e sono diminuiti i posti letto, dagli 11,7 milioni del 2009 ai 9,5 del 2014.

Dati noti, e dinamiche note. Che il Censis richiama per spiegare perché il nostro Paese si è seduto, perché non investe, perché accumula risparmio solo al fine di difendersi dall’insicurezza e di far galleggiare i propri figli. Un richiamo in puro spirito keynesiano al fatto che parlare di welfare non è parlare solo di assistenza e di solidarietà ma anche di sviluppo. Già, ma qual è la via maestra per uscirne? Su quali priorità, con quali strategie si dovrebbero ricostruire le giunture andate perdute? E dove sono gli attori politici capaci di farlo?
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Rocca 1 gennaio 2017
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Aumentano le diseguaglianze intergenerazionali
«La ripartenza? Solo per pochi. Troppe disuguaglianze e Sud al palo»
Intervista. L’ex ministro e inventore del Bes Enrico Giovannini: il benessere italiano è ancora inferirore ai livelli pre-crisi

Angelo Mastrandrea su il manifesto online EDIZIONE DEL 15.12.2016

«L’Italia sta ripartendo? Sì, se ci si basa solo sugli indicatori economici. Ma il benessere italiano è ancora lontano dai livelli del 2009, prima della crisi». Ex presidente dell’Istat e ministro del Lavoro nel governo guidato da Enrico Letta, Enrico Giovannini è l’inventore del Bes, un indice unico al mondo che misura il grado di benessere dei cittadini e non solo la ricchezza complessiva. Complementare al Pil, più che sostitutivo, ma fondamentale per comprendere più a fondo la società italiana, anche se «alcuni indicatori andrebbero resi più tempestivi, come già accade per il Pil», sostiene. «Fin da quando lavoravo all’Ocse, mi sono battuto contro la cultura del numero unico sulla quale si basa il Pil», dice. Invece, «bisogna accettare la complessità», dunque la possibilità che «alcuni parametri migliorino e altri no» o che il benessere possa essere distribuito a macchia di leopardo, perfino all’interno della stessa città. Come portavoce dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (Asvis), Giovannini è pure soddisfatto del fatto che l’Istat per la prima volta abbia adottato degli indicatori di sviluppo sostenibile, ascoltando i suggerimenti delle Nazioni Unite, «anche se avrebbero potuti essere noti prima perché fossero utilizzati per la legge di bilancio appena approvata».

Insomma, professor Giovannini, il Paese sta ripartendo e molti cittadini non se ne sono accorti?

Se ci si basa sui normali indici economici, questi dicono che c’è una ripresa, ma è contenuta e non compensa affatto gli anni della crisi. Se andiamo a guardare bene, notiamo che siamo ancora ben al di sotto dei valori del 2009. Le piccole variazioni che ci sono state non bastano a recuperare il terreno perduto. A questo va aggiunto l’aumento delle disuguaglianze, che sono fortissime.

Che tipo di disuguaglianze?

Soprattutto quelle intergenerazionali, tra gruppi sociali e territoriali. Un piccolo aumento dell’occupazione non basta a certo a compensare il divario.

Vuol dire che i giovani stanno decisamente peggio dei loro genitori e nonni e il Sud peggio del Nord?

Sì per quanto riguarda il primo punto, non necessariamente per il secondo. Ci sono aree del Nord Italia che non stanno messe meglio del Mezzogiorno, ad esempio alcune periferie di grandi città.

È il tema che si pone all’attenzione della politica pure nel resto dell’Europa e sta mettendo in crisi le élite continentali, a vantaggio dei populismi.

Certo. Se leggiamo il rapporto dell’Istat sulla soddisfazione di vita delle persone, pubblicato di recente, notiamo che esiste un forte disagio in molte città a causa del peggioramento dei servizi di trasporto. In questo caso è la qualità della vita a peggiorare, perché tutti odiano il tempo trascorso su bus, treni locali, tram e metropolitane.

Una delle poche novità, forse l’unica, del neonato governo Gentiloni è il ritorno di un ministero che dovrà occuparsi del Mezzogiorno. Senza voler scomodare la vecchia «questione meridionale», la considera una scelta che va nella giusta direzione, ossia di una riduzione del divario tra il Nord e il Sud dell’Italia?

È un segnale di attenzione, soprattutto se si pensa all’attuazione della programmazione dei nuovi fondi strutturali europei 2014-2021. Ora si tratta di realizzare il processo che abbiamo cominciato con il governo Letta e una regia centrale può spingere perché vengano utilizzati, anche se poi il compito spetta soprattutto alle regioni. Spendere questi soldi è un’assoluta necessità, perché solo in questo modo si può creare una massa critica che non si riuscirebbe a realizzare a causa dei vincoli di bilancio. Se non lo si fa, non si può nemmeno immaginare quel salto di qualità di cui abbiamo bisogno.

In ogni modo, il Sud rimane fanalino di coda in numerosi parametri.

Tutti i dati contenuti nel rapporto mostrano come il divario con il resto dell’Italia sia inaccettabile. Faccio un solo esempio: gli asili nido, che sono un elemento cruciale per la crescita delle disuguaglianze tra donne e uomini. Anche nel resto d’Europa ci sono aree che sono indietro e che stanno recuperando, penso alla Polonia. Se in Italia non riusciamo a far crescere il nostro meridione non di qualche zero virgola ma di diversi punti percentuali, non risolveremo il problema e l’intero paese non beneficerà neppure dell’effetto di trascinamento di questa crescita.

Il dossier sul Benessere equo e sostenibile dipinge un quadro non univoco. Non tutti i dati sono terribili. Come va interpretato, secondo lei?

La realtà non può essere sintetizzata in un singolo numero: lei la guiderebbe un’automobile che le indica solo la velocità e poi magari la lascia senza benzina? Quello del numero unico è un riflesso condizionato della cultura del Pil, contro la quale mi batto da tempo. Bisogna accettare la complessità e rendersi conto che alcune condizioni migliorano e altre no. Il quadro che emerge non è però contraddittorio: nonostante alcuni segnali positivi, è evidente che complessivamente la situazione del benessere è lontana dai livelli pre-crisi. Considerando la crescita delle disuguaglianze, i miglioramenti non sono percepibili allo stesso modo da tutta la popolazione.
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Enrico Giovannini
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Il Belpaese, società dell’incertezza permanente
Rapporto Bes/Istat. Dal quarto rapporto sul benessere equo e sostenibile (Bes) dell’Istat emerge un paese in cui si parla di “benessere soggettivo”. Resta da capire come vivere i prossimi anni in uno dei paesi più diseguali d’Europa

di Roberto Ciccarelli, su il manifesto EDIZIONE DEL 15.12.2016

Dal quarto rapporto sul benessere equo e sostenibile (Bes) dell’Istat emerge un paese ambivalente dove cresce il «benessere soggettivo» e l’incertezza per il futuro. Più che il timore di un peggioramento, cresce la quota di chi ritiene di vivere in una società dell’incertezza rispetto a quanto accadrà domani.

UN PAESE DIVISO I 130 indicatori del rapporto fotografano le diseguaglianze territoriali tra Centro-Nord e Sud. Nell’ultimo anno al Nord e al Centro è stato registrato un miglioramento nella gestione dell’ambiente, nella salute dei cittadini e nell’istruzione, mentre negli altri «domini» (sono dodici in tutto), come la «qualità dei servizi», il benessere economico o la sicurezza, si sta tornando ai livelli del 2010, l’ultimo anno di relativa stabilità prima che la crisi iniziasse a mordere davvero. Fatta eccezione per la qualità del lavoro, non a caso. Nel Mezzogiorno, invece, il 2010 è un anno lontano. Pesano condizioni economiche compromesse, peggiora la qualità del lavoro, insieme a un altro criterio dalla forte valenza simbolica: la «soddisfazione per la vita».

PARTECIPAZIONE La sfiducia rispetto ai partiti e alle istituzioni è alta, anche se quest’anno l’Istat sostiene di avere «avvertito» un’inversione di tendenza rispetto al Parlamento, al sistema giudiziario o alle istituzioni locali. «Ma il clima resta negativo», precisa. La partecipazione politica e civica è diminuita (dal 66,4% al 63,1%) nel 2015. In questo caso non esiste una differenza tra Nord e Sud: l’abbandono è diffuso, senza distinzioni territoriali. Interessa uomini e donne di tutte le fasce d’età e si fa sentire in particolare tra i 35 e i 59 anni.

Resta ancora stabile la quota delle persone che sostengono di svolgere attività sociali e partecipano a reti informali: l’81,7% degli interpellati conta su una rete potenziale di aiuto, il 14,8% ha finanziato associazioni, il 10,7% svolge attività di volontariato. Dal 2013, anno elettorale che ha segnato un’inversione di tendenza della presenza femminile negli organi legislativi ed esecutivi, è stato registrato un miglioramento della partecipazione delle donne alla vita istituzionale. Oggi la loro rappresentanza nel Parlamento europeo tocca il 37%, nel 2009 era il 35%. A livello nazionale supera la quota del 30%, un aumento di dieci punti dal 2009.

GIOVANI NEET Il peso delle diseguaglianze si fa sentire nell’accesso all’istruzione, al mercato del lavoro e all’economia della conoscenza. Il divario territoriale tra Nord e Sud è tradizionalmente stabile. Il tasso di abbandono scolastico è in diminuzione a livello nazionale: 14,7% nel 2015, ben al di sopra della media Ue (11%). La situazione assume tutta la sua gravità vista dai territori. L’abbandono si è attestato all’11,6% nel Centro-Nord e al 19,2% nel Mezzogiorno, dove la quota dei Neet – i ragazzi tra i 15 e i 24 anni che non studiano né lavorano – è al 35,3%. Quasi doppia rispetto al Nord (18,4%).

Con la trasformazione dell’università nell’esamificio del «3+2» e l’enfasi sulla professionalizzazione dell’istruzione secondaria, il nostro paese è riuscito a ridurre solo leggermente il basso tasso di istruzione diffuso. Tra il 2004 e il 2015 è cresciuta la quota di persone tra i 25 e i 64 anni con un diploma superiore (al 59,9%, +11%) e quella tra i 30 e i 34 anni con una laurea (25,3%, +10%).

DIPLOMATI E LAUREATI Rispetto alle medie europee, resta l’abisso. La quota di 25-64enni con almeno il diploma è di oltre 16 punti inferiore alle media europea, così come il tasso d’istruzione terziaria dei giovani 30-34enni è inferiore di oltre 13 punti e ancora molto lontano dall’obiettivo nazionale previsto da Europa 2020 (25-26%). È la prova del fallimento della ventennale strategia neoliberale che ha inteso aumentare il numero dei laureati. Oggi assistiamo a un fenomeno imprevisto per i «riformatori» del sistema: il calo degli iscritti all’università. Tra i pochi risultati positivi c’è la partecipazione alla scuola dell’infanzia che supera il 92% per i bambini tra i 4 e i 5 anni, una delle più alte in Europa.

Il taglio di 8 miliardi alla scuola e di 1,1 all’università, voluto dal governo Berlusconi nel 2008, ha prodotto conseguenze devastanti su un sistema dove gli investimenti sulla conoscenza e l’innovazione sono ben al di sotto la media Ue sulla spesa per ricerca e sviluppo, i brevetti, l’occupazione hi-tech e qualificata. Nel 2014 era all’1,38%, in aumento sul 2013, inferiore all’obiettivo dell’1,53%. Una percentuale raggiunta solo al Nord.

SERVIZI PUBBLICI Aumentano le differenze territoriali nell’erogazione dei servizi pubblici. Le politiche di austerità che hanno tagliato i fondi sociali agli enti locali, il blocco del turn-over, hanno inciso sull’offerta dei servizi socio-educativi per la prima infanzia. La spesa impegnata dai comuni è in diminuzione dal 2011. L’obiettivo è garantire il 33% dei posti in strutture pubbliche ogni 100 bambini da 0 a 2 anni.

Il divario fra le regioni del Centro e del Nord e quelle del Mezzogiorno è rilevante. Questo significa che la conciliazione tra i tempi del lavoro e quelli della vita dei genitori diventa sempre più difficile man mano che si scende da Roma in giù.
Nei servizi di pubblica utilità si registra un aumento dei black out in Sicilia: sono state più di cinque nel 2015. Altrove ci sono state 2,4 interruzioni dell’elettricità per utente, erano due nel 2014.

BENI CULTURALI I tagli hanno inciso anche sulla capacità di gestire i beni culturali in un paese che conserva il primato nella lista del patrimonio mondiale dell’Unesco per numero di beni iscritti: 51, pari al 4,8% del totale. La spesa pubblica destinata alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio culturale continua a diminuire: dallo 0,3% del 2009 allo 0,2% del 2015.

Cresce – a dispetto della crisi dell’edilizia – l’abusivismo. Nel 2015 sono state realizzate venti costruzioni abusive ogni 100 autorizzate, contro le 17,6 dell’anno precedente e le 9,3 del 2008. Cresce anche la percezione del degrado paesaggistico: il 22,1% nel 2015 contro il 20,1% dell’anno precedente. E si registra anche il fenomeno opposto: diminuiscono gli italiani che considerano l’abusivismo tra i principali fattori della rovina del paesaggio: 15,7% nel 2015, 17,1% nel 2014.

SALUTE Il Belpaese resta uno dei paesi più longevi d’Europa, anche se la speranza di vita è sotto la media europea. Diminuisce l’età media, da 82,6 a 82,3 anni. L’aumento della mortalità ha fatto discutere. Per l’Istat le cause sono dovute a una combinazione di elementi: oscillazioni demografiche e fattori congiunturali di natura epidemiologica e ambientale che hanno comportato un aumento dei decessi nella popolazione più anziana. Lo stesso fenomeno è stato registrato in altri paesi europei.

L’incremento della mortalità non ha avuto conseguenze sulla qualità degli anni da vivere. Resta da capire come vivere i prossimi anni in uno dei paesi più diseguali d’Europa.

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