La crescita della disuguaglianza. Brutalità e complessità nell’economia globale. Che cosa si può fare?

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Gravi fratture nelle società disuguali
di Remo Siza*

1.Una società disuguale
In questi ultimi anni, numerose ricerche hanno evidenziato la crescita delle disuguaglianze e la crescente concentrazione delle ricchezze e dei redditi. Tre economisti, in particolare, sono riusciti a rappresentare organicamente le varie dimensioni della diseguaglianza presente nelle società contemporanee, il consolidarsi di una società diseguale e i suoi effetti sulla vita delle persone. Stiglitz (2015; 2012) ha rilevato la “grave frattura” che separa l’1 per cento dei ricchi dal restante 99 per cento della popolazione e l’esigenza di individuare modi alternativi di gestire la globalizzazione al fine di costruire una società più equa. Piketty (2014) ha documentato con precisione altri aspetti, in particolare il progressivo consolidarsi di una società dei patrimoni, nella quale il patrimonio ereditato dal passato una volta costituito, si riproduce da solo e cresce molto più in fretta di quanto cresca il prodotto e il reddito da lavoro, alimentando ulteriormente la disuguaglianza. Atkinson (2015) ha rivolto principalmente la sua attenzione alle azioni che è possibile promuovere per contrastare la disuguaglianza con la consapevolezza che la diseguaglianza è una scelta politica, non è inevitabile, non è il prodotto di forze che stanno al di fuori del nostro controllo. Nel suo ultimo libro sostiene che è necessario contrastare non solo le disuguaglianza delle opportunità ma anche le modalità e i processi attraverso i quali si costruiscono, pur garantendo in alcuni ambiti uguaglianza delle opportunità, le disuguaglianze degli esiti e come queste si trasmettono da una generazione ad un’altra.
La rilevanza di queste analisi non può essere messa in dubbio, in quanto hanno evidenziato con chiarezza le rilevanti trasformazioni che segnano le società contemporanee, gli effetti della attuale disuguaglianza sulla vita delle persone, sulla loro salute e speranza di vita, sull’accesso ai servizi sanitari e all’istruzione, sui livelli di povertà. Le analisi della disuguaglianza ci aiutano a comprendere molte tendenze presenti nelle società contemporanee, ma, allo stesso tempo, rischiano di non rendere visibili altre condizioni di vita: la deriva sociale di alcuni gruppi sociali, la fuoriuscita radicale dal sistema del lavoro e del welfare che una parte molto rilevante della popolazione vive come minaccia incombente e un’altra parte sperimenta da tempo nella sua vita quotidiana, i crescenti rischi di una esistenza individualizzata.

2. Are we the “99 percent”?
La crescente disuguaglianza nel reddito e nella ricchezza è considerata come la più grande minaccia dei nostri tempi. L’1% dei più ricchi contribuisce ad una crescita della disuguaglianza guadagnando sempre di più, ma anche utilizzando la sua infinita ricchezza per convincere l’opinione pubblica e i decisori che questa avidità è giustificata dal merito e dalla sua capacità e porterà comunque vantaggi alla società nel suo complesso (Dorling 2015). Sul sito web “wearethe99percent” sono descritte le esperienze personali del restante 99%: sono quelli che hanno perso la loro casa, che non possono accedere ad una assistenza medica di qualità, che lavorano molte ore per una paga molto bassa e sono privi di diritti nel loro lavoro.
Ma la realtà di molte società avanzate è quasi sempre più articolata e meno polarizzata. È difficile considerare una percentuale così alta della popolazione come un gruppo omogeneo nelle sue condizioni di vita: nel 99 per cento è possibile distinguere gruppi sociali che condividono condizioni – in termini di reddito, lavoro, patrimonio, partecipazione alla vita sociale – molto differenziate. Ad un estremo superiore si colloca la parte delle classi medie che vive condizioni di vita soddisfacenti e posizioni lavorative solide: dirigenti pubblici e privati, liberi professionisti e altri lavoratori autonomi con un discreto giro di affari. All’estremo inferiore le povertà persistenti, persone e famiglie che vivono da lungo tempo condizioni di povertà con limitati livelli di formazione e generiche capacità professionali. In mezzo, fra queste due posizioni sociali, si consolida un’area sociale molto estesa che comprende le classi medie con redditi più bassi e le classi operaie, caratterizzate da redditi insufficienti, una crescente precarietà lavorativa, risorse di welfare decrescenti e una scarsa mobilità sociale verso posizioni sociali più elevate. La distanza fra questa parte della classe media e una parte considerevole delle classi operaie sta diminuendo e le distinzioni fra questi due strati sociali stanno diventando più fluide. Cresce, invece, la distanza (principalmente in termini di reddito e di rischio di povertà) tra questo strato sociale e la classe media con redditi elevati e più stabili e, all’estremo opposto, con le famiglie in condizione di povertà persistente. La condizione diffusa di disagio economico in una parte consistente delle società avanzate e il crescente divario tra famiglie a basso reddito e il resto della popolazione è rilevata da un recente studio dell’OCSE (2015). Il disagio economico non coinvolge soltanto i percettori di reddito molto più bassi – il 10% della popolazione più povera – ma una fascia molto più ampia di basso reddito – il 40% della popolazione che si colloca all’estremità inferiore della distribuzione dei redditi. Nella sua analisi l’OCSE osserva che gli stili di vita e i redditi del top 1% sono evidenti e visibili a tutti i ricercatori, ma concentrarsi solo su questo segmento rischia di oscurare la situazione di severo declino economico che vivono le famiglie a basso reddito.
La condizione di vita delle famiglie che si collocano nel mezzo della stratifi-cazione sociale è cambiata profondamente soprattutto in quest’ultimo decen-nio. Sono famiglie che condividono un insieme di incertezze economiche, di timori, di interessi comuni che orientano buona parte delle loro relazioni di vita. Queste aree sociali sono maggiormente esposte a rischi di povertà con oscillazioni di reddito frequenti, vivono una fragilità delle condizioni di vita per il diffondersi di instabilità nel mercato del lavoro e nelle relazioni fami-liari. Persone che vivono situazioni particolarmente fluide, dai contorni non ben definiti, in cui tutti i soggetti sono consapevoli che le cose possono mutare, in un senso o in un altro, non sono stabilmente acquisite o stabilmente perse. La disuguaglianza che è cresciuta in questi decenni ha sottratto loro notevoli risorse in termini di reddito e di ricchezza patrimoniale posseduta e ha invertito la fase di crescita che avevano avuto fino agli anni Ottanta. Ma in molte società non ha creato una condizione polarizzata, ma una pluralità di condizioni di vita, di segmenti sociali che si differenziano e prendono le distanze l’uno dall’altro.
Alla “grave frattura” che separa l’1 per cento dei ricchi dal restante 99 per cento della popolazione che Stiglitz (2015; 2012) descrive nelle sue ricerche, si accompagnano altre “fratture sociali” meno visibili, ma che in realtà stanno cambiando profondamente molti aspetti delle società avanzate.

3. Verso i margini sistemici
Queste fratture e queste articolazione delle posizioni sociali non emergono con nettezza se ci limitiamo a descrivere le società contemporanee come società diseguali e se, soprattutto, non osserviamo come le società avanzate non solo creano disuguaglianze, ma tendano a ridurre i loro ambiti di integrazione e le loro intenzioni inclusive. In alcuni ambiti, in alcune nazioni del mondo, le attuali economie si sviluppano secondo una logica che un autore come Harvey (2005) ha definito il ritorno ad una “accumulazione per spoliazione”, inteso come ritorno ad una logica di accumulazione primitiva fondata su un potere arbitrario e in alcuni casi sulla violenza e la guerra: la spoliazione dei contadini in molte parti del mondo, la sottrazione di risorse naturali con la complicità di governi locali corrotti, l’accaparramento delle terre nei paesi poveri, fino all’arbitrarietà che presiede la spoliazione dei diritti alla salute, alla pensione, la confisca delle abitazioni, la riduzione degli indennizzi ai risparmiatori truffati dalle banche, le politiche di austerità che hanno distrutto l’economia greca.
Sassen rileva (2014; 2016) che la nozione di disuguaglianza rischia di nascondere più di quanto riveli. Gli strumenti che utilizziamo per interpretare le attuali trasformazioni non ci aiutano a cogliere una realtà più estesa e meno visibile. È vero che le economie di mercato avanzate sono sempre state contraddistinte da una certa disuguaglianza e che l’ordine di grandezza della disuguaglianza di oggi distingue l’attuale fase del capitalismo da quella dei decenni post-bellici. Ma è ancora più vero che interpretare questa differenza come un semplice salto di scala, come un semplice incremento della disuguaglianza o della povertà significa precludersi la possibilità di cogliere la tendenza di fondo di una disuguaglianza che procede rapidamente, supera i confini del sistema e diventa una forma di espulsione (Sassen 2014). La crescita economica non è mai stata molto delicata, ma le accelerazioni degli ultimi tre decenni segnano un’epoca nuova, in quanto minacciano una quantità crescente di esseri umani e spingono famiglie e persone verso i margini del sistema. Ci sono delle rotture in corso. Non si tratta soltanto di un “di più” della stessa cosa (Sassen 2014). Le condizioni di vita dei gruppi sociali che superano questi margini sistemici assumono connotazioni nuove, estreme. Per chi è arrivato al vertice della piramide sociale dopo aver accumulato tutte le risorse possibili, superare i margini del sistema significa liberazione dalle responsabilità, liberazione dai legami di appartenenza alla società, assumere un altro sistema valoriale. Verso il fondo della scala sociale, per le masse di poveri e indigenti, superare i margini del sistema significa espulsione dallo spazio vitale, dall’accesso ai mezzi di sussistenza, dal contratto sociale.
In molte società avanzate, le povertà persistenti escono completamente dal sistema, da quello del lavoro e del welfare di qualità, diventano meno visibili, si separano dalle povertà provvisorie (Siza 2009), i luoghi dove abitano diventano periferie urbane profondamente segregate, periferie che, a differenza delle periferie degli anni Sessanta descritte da Wilson (1987), non hanno, se non in modo estremamente limitato, interessi e legami economici con la parte centrale della città.
Il conflitto si sposta tra chi è dentro i margini del sistema e chi vive e si sente, per un motivo o per un altro, per ricchezza o per povertà, fuori dalle opportunità e dalle risorse che il sistema stesso offre nella normalità del suo funzionamento (le scuole pubbliche, la sanità pubblica, i luoghi di relazione della maggioranza delle persone), ma anche dai suoi vincoli, dai suoi limiti valoriali, dalle sue regole, dalle sue norme, fuori dalla socialità della maggioranza delle persone e dai criteri e dalle regole che distinguono i comportamenti leciti dai comportamenti riprovevoli. Fuori dal sistema vive una parte significativa dell’alto, del basso e del mezzo della scala sociale. Non è più l’esclusione sociale dal sistema che abbiamo osservato nel passato e che coinvolgeva soltanto la parte più povera della società. È un fenomeno nuovo che riguarda la struttura delle società avanzate i modi nei quali esse funzionano e si riproducono.

Quella che emerge è sicuramente una società diseguale, ma anche una società che consente o costruisce attivamente, ai suoi margini esterni, spazi di vita, di socialità, separati, divisi, non più regolati, abitati dai ricchi da una parte, dai poveri dall’altra. In uno spazio sociale intermedio, quello più esteso, si costruiscono le condizioni di vita di una buona parte delle classi medie e delle classi operaie che hanno perso molte delle loro sicurezze e vivono condizione economiche insoddisfacenti e temono di perdita ulteriori posizioni.
Anche qui emerge l’esigenza di distinzione, di separatezza. La loro vita sociale costeggia i luoghi dell’esclusione sociale, è esposta a continui rischi di coinvolgimento nei processi che l’hanno determinata, è vissuta con la preoccupazione costante di evitare punti di contatto con la povertà stabile. La sopravvivenza di queste famiglie è legata alla loro capacità di distinguersi dalle persone stabilmente povere, di riaffermare stili di vita ben distinti, di non essere confuse con esse e con il comportamento lavorativo e sociale che frequentemente adottano. Il vivere quotidiano è segnato da una delimitazione di territori relazionali e dal contemporaneo abbandono dei luoghi sociali in cui non si riesce ad affermare un adeguato controllo. Allo stesso tempo, in questo strato sociale emerge un’intenzione opposta, quella di costruire modi di vita, capacità e relazioni che consentono di migliorare la propria condizione e di superare crescenti divari e differenze. Per questo motivo, principalmente cercano di costruire un legame con la parte delle classi medie che vive condizioni di vita più sicure, con i suoi luoghi di lavoro, di abitazione, di incontro, con i suoi stili di vita.
In una società disuguale tutti guardano in alto: i ricercatori che analizzano le condizioni di vita dell’1 per cento della popolazione, i decisori politici perché dall’alto e dai rapporti di potere che si costruiscono in quei luoghi di-pende la loro sopravvivenza; la gente comune perché gli stili di vita e le ten-denze si producono nei gruppi più privilegiati.

4. La crisi di una fase inclusiva
Atkinson nel suo libro Disuguaglianza (2015) propone 15 misure per ridurne l’estensione. L’autore, prevedendo le critiche, afferma che non tutte le pro-poste potrebbero essere fattibili oppure auspicabili. Alcune di queste – quali il salario minimo, il reddito di partecipazione, il child benefit, più efficaci schemi di protezione dalla disoccupazione – sembrano rispondere efficace-mente alle esigenze di una società frammentata, di una società che consolida condizioni di vita molto differenziate, che non contrasta la precarietà dei redditi e il peggioramento della qualità del lavoro.
Le società avanzate che hanno enfatizzato in questi ultimi decenni il valore positivo della disuguaglianza per la crescita economica e per l’arricchimento individuale si poggiano sul principio dell’individuo libero che rappresenta i suoi interessi. L’individualismo funzionale, disciplinato, orientato dai valori condivisi è ritenuto un principio fondante la società moderna perché ne assi-cura la crescita e il dinamismo complessivo. Parsons (1978) pensava a que-sta forma di società e con il termine “individualismo istituzionalizzato” in-tendeva riconciliare l’esigenza di un ordine sociale con l’auspicata capacità di iniziativa dell’individuo. Beck ha ripreso questa definizione riferendosi alla esigenza degli individui di condurre un’esistenza autonoma, di realizzare i propri progetti di vita nell’ambito, comunque, di regole poste, principal-mente, dalle istituzioni e dal mercato. Beck (2009) ha definito individualiz-zazione le dinamiche di affrancamento dalle tradizioni e dai legami collettivi e ha affermato che questi processi insieme alla globalizzazione hanno tra-sformato radicalmente i fondamenti della vita comune, i modi di costruire la propria identità e il proprio futuro (Beck and Beck-Gernsheim 2009). Con il termine individualizzazione Beck non intende indicare soltanto una scelta del singolo, ma soprattutto un carattere centrale di una società moderna e al-tamente differenziata, la necessità di autorealizzarsi perseguendo autono-mamente interessi economici, ma anche progetti affettivi costruiti però auto-nomamente e con un proprio spazio, nell’ambito comunque di valori comuni ed esigenze funzionali chiaramente delimitate (Siza 2014).
Ciò che non è sufficientemente enfatizzato da quanti osservano la disugua-glianza è che il crescere di questa condizione sta diventando sempre meno compatibile con il principio dell’uomo libero valorizzato dal neoliberismo e con la radicalizzazione dei processi di individualizzazione. Le dinamiche che hanno determinato in questi anni la crescita della disuguaglianza – il consoli-darsi di una società dei patrimoni, le elevate disuguaglianze nella distribu-zione dei redditi, la disuguaglianza nelle opportunità e negli esiti, una limita-ta mobilità sociale ascendente, un mercato del lavoro flessibile – incidono severamente sui singoli individui. L’esistenza individualizzata di chi non si avvantaggia più dall’appartenenza a soggetti collettivi, di chi vive in una so-cietà che non offre opportunità di affermazione, con scarsa mobilità sociale, con una distribuzione dei redditi che premia solo alcuni gruppi sociali, di-venta troppo esposta a rischi sociali. Gli individui che si affrancano dai vin-coli familiari e dalle appartenenze collettive, e acquistano autonomia rispetto alle condizioni ed ai legami primari, diventano sempre più dipendenti dal mercato del lavoro e dalle congiunture economiche. L’individuo moderno e dinamico che intende sottrarsi ai vincoli tradizionali della famiglia e della rete parentale, si affida in questo modo ad una nuova dipendenza: quello del mercato del lavoro, flessibile, precario, del lavoro sottopagato. Si vengono a creare così situazioni individuali fragili, totalmente dipendenti dal mercato del lavoro, con appigli nelle relazioni primarie sempre più incerti e precari (Beck 2009). L’individualizzazione da tutti rivendicata si scontra con l’esperienza della disoccupazione di massa, con bassi salari, con la crescita della precarietà e del lavoro informale, si configura come atomizzazione. La povertà entra così nella vita con il passo leggero della transitorietà (Beck 2009).
Nei confronti di questi gruppi sociali non si sviluppa più un progetto di inclusione, una politica espansiva che possa reintegrarli nel mercato del lavoro e nella vita sociale. Sassen ci ricorda che si è esaurito il ciclo di crescente inclusione sociale ed economica caratteristico del keynesismo. Negli anni Ottanta c’è stata una rottura radicale, una frattura rispetto al capitalismo keynesiano, la cui logica dominante – nonostante tutti i limiti – era l’inclusione, la riduzione delle tendenze sistemiche alla disuguaglianza, perché il sistema si reggeva sulla produzione e sul consumo di massa. La manifattura di massa, il consumo di massa, la costruzione di case e strade anche per i meno abbienti: tutto ciò è stato ottenuto espandendo lo spazio dell’economia e incorporando le persone nel sistema (Sassen 2014). Ora sulle macerie del keynesismo emergono nuove logiche fondate sulle espulsioni, espulsioni di individui, comunità, imprese e luoghi dagli ambiti della società, dagli ambiti dell’economia.
La possibilità di realizzare il progetto di vita individuale si affievolisce notevolmente. In una società che garantisce sempre meno sicurezze di base e meno opportunità di costruirle autonomamente con il proprio impegno, in una società divisa, ogni scelta di vita sembra presentare crescenti rischi sociali. Betz (1994), Inglehart and Welzel (2005) hanno rilevato una significativa correlazione fra l’insicurezza e il peggioramento delle condizioni di vita delle classi medie e operaie a causa della modernizzazione e la crescita di un “estremismo di centro”, una radicale diminuzione della fiducia nelle istituzioni e un degrado del senso civico. In termini più generali, possiamo rappresentare questo deterioramento delle fiducia e del senso civico come crisi dell’“individualismo istituzionalizzato”, una crisi che lascia emergere l’individualismo di chi teme di superare i margini sistemici, essere fuori definitamente dal mondo del lavoro, dalla rete di socialità e di sostegno, subire la sottrazione di diritti e di beni. Questa condizione coinvolge persone che non hanno più un progetto di vita, ma un insieme confuso di aspirazioni e rancori, di insofferenze per le regole e per le istituzioni e di chi si limita a costruire una strategia di sopravvivenza componendo valori e modi di vita molto differenti, oscillanti tra posizioni contrastanti, lontano da ogni forma di appartenenza, privo di fiducia nelle istituzioni e sulla possibilità di costruire beni comuni (Siza 2014). Nel passato questo individualismo privo di regole riguardava l’esercito degli esclusi che abitavano le periferie urbane, persone ritenute non affidabili né come lavoratori né come consumatori. Ora coinvolge un insieme molto esteso di persone, quelle che sono ai margini del sistema e quelle che temono di essere coinvolti in questa deriva.

5. La subordinazione del welfare alle logiche prevalenti
Il welfare state molto parzialmente riesce a far fronte a questi effetti sociali della disuguaglianza né sembra in grado di affrontare con azioni di politica sociale adeguate le logiche sistemiche alle quali si riferiscono Sassen e Harvey. In molte società avanzate, il welfare per troppi aspetti sembra subordinato alle logiche prevalenti dello sviluppo economico, si adatta ai nuovi as-setti sociali, senza provare a contrapporre con sufficiente insistenza i valori e i principi di una società differente.
Nelle società caratterizzate da elevata disuguaglianza, il modello emergente, dopo un decennio di politiche di riduzione della spesa, è un welfare dualizzato (Emmenegger et all. 2012) inteso come una organizzazione dei servizi che prevede una differenziazione del diritto a ricevere una prestazione sulla base della posizione sociale del beneficiario. In questo modello la maggioranza delle famiglie può contare su un sistema pubblico universalistico sempre meno efficiente e che garantisce una copertura dei rischi sempre meno este-sa. Le famiglie con redditi e condizioni lavorative soddisfacenti possono integrare le prestazioni pubbliche con assicurazioni private e con ulteriori benefici, quali il welfare aziendale, derivanti dalla loro posizione lavorativa. Le altre famiglie, invece, inevitabilmente possono accedere in termini molto limitati alle prestazioni private. Il modello di riferimento delle trasformazioni auspicate è quello adottato da anni da molte nazioni europee in cui il sistema pubblico convive con un sistema privato molto dinamico e finanziato prevalentemente da fondi assicurativi. Ora la dualizzazione è diventata un principio sulla base del quale si riorganizzano tutti gli ambiti di vita (una differenziazione nel sistema dei trasporti dall’alta velocità ai treni dei pendolari, nell’organizzazione degli spazi urbani, nello sviluppo economico di aree territoriali differenti) e si costruisce una società dinamica e moderna, senza alcuna preoccupazione sulle troppo estese disuguaglianze e separazioni che inevitabilmente contribuisce a consolidare.
Le politiche di welfare possono proporre e sostenere un’altra rappresentazione dei bisogni e dei destini delle persone, rendere visibili margini sistemici, criticità e aree di abbandono, possono essere ragionevolmente fondate su principi e modalità d’intervento innovativi. Le società avanzate sono società dinamiche, individualizzate nella quale ognuno cerca di realizzare il proprio progetto di vita. Le attuali politiche sociali e le politiche dell’istruzione, in particolare, troppe volte non sanno cosa farne del dinamismo e di questa crescente capacità autonoma delle persone, rischiano di essere la sfera di vita dei comportamenti passivi, in cui operatori e beneficiari delle prestazioni si adattano ad una cultura assistenzialistica, di attese e di reciproche dipendenze, senza costruire un futuro differente. Queste politiche possono diventare, invece, l’ambito, dove si realizzano i progetti di vita più innovativi, l’ambito delle passioni gioiose, dei giochi dei bambini e degli adulti, possono essere capaci di promuovere nuove forme di socialità, nuove forme di collaborazione e nuove modalità di stare insieme che contrastino realmente disuguaglianze e logiche sistemiche.

remo-siza-fto-micro*Remo Siza svolge attività di ricerca, formazione e consulenza in Italia e nel Regno Unito.
remo.siza@gmail.com

Riferimenti bibliografici
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