Dallo stato italiano centralista a uno stato sardo, ugualmente centralista?

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di Francesco Casula*

I Principi rinascimentali prima e i sovrani assoluti poi tendono storicamente a contrapporre l’accentramento alla disseminazione del potere politico proprio del mondo feudale: tale posizione inol­tre – peraltro costante nella lunga vicenda dello Stato moderno – ­tende a negare ai cittadini qualsiasi ruolo politico e qualsiasi “po­liticità”, o, quanto meno a restringerla.

Tende cioè ad escluderlo da ogni ruolo effettivo decisionale e di potere, che non si riduca a semplice assenso o a manifestazione e rafforzamento del consenso. In questo modo la partecipazione al potere politico è solo for­male: il potere reale infatti rimane concentrato nello Stato e nei suoi apparati.

Così i Principi come i Sovrani tendono ad abolire ogni forma di politicità alternativa all’interno dei propri domini, sottraendo man mano ai signori feudali scampoli di potere per affidarli pro­gressivamente a una burocrazia stipendiata e “competente”,– per quanto è possibile – ma comunque subalterna e dipendente dal “Centro”.

L’attribuzione del potere a una minoranza ristretta – fin dal 1300 ma soprattutto nella successiva fase di sviluppo della socie­tà e dello Stato moderno – è legata in modo particolare all’esigenza di garantire il “naturale” dispiegarsi degli scambi sul mercato e di controllare nel modo più razionale e funzionale possibile conflitti e tensioni che man mano la società capitalistica – segnatamente dopo la Rivoluzione industriale – indurrà, produrrà e accelererà.

È soprattutto da questo punto di vista che lo Stato moderno assolverà essenzialmente a una funzione del meccanismo econo­mico del capitalismo e del mercato. Lo stato italiano risorgimentale, nonostante la posizione di Cavour che avrebbe preferito il sistema anglosassone del self–gouvernement e non il modello francese napoleonico, nasce dentro tale versante, come stato unitario accentrato e centralista.

Il Fascismo porterà a più coerenti conseguenze autoritarie e centralizzatrici strumenti e tendenze che erano già abbondantemente presenti nel regime liberale, giolittiano e prefascista. Di fatto annientando le istanze “regionalistiche” che si affermano nel primo dopoguerra, in modo particolare nelle regioni meridionali (con Gaetano Salvemini e don Luigi Sturzo) ma in specie in Sardegna con la nascita e l’affermazione del Partito sardo d’azione

La Resistenza, per come nasce, si sviluppa e si svolge ha “un carattere intrinsecamente regionalistico” (Leo valiani): pensiamo ai CLN regionali o alle repubbliche partigiane. Il processo di restaurazione moderata, con l’avallo e la complicità della Sinistra – se non addirittura per sua diretta iniziativa, – spazzerà le esperienze regionalistiche.

Ma è soprattutto con il dibattito alla Costituente prima e la vittoria dei moderati nel ’48 che si affosserà definitivamente il “regionalismo” e ancor più il federalismo. A difenderlo Lussu si troverà sostanzialmente da solo: destra, sinistra e centro, in una sorta di union sacrée, lo osteggeranno del tutto.
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Non a caso lo Statuto sardo che verrà concesso, nascerà debole e limitato, più simile a un gatto che a un leone, secondo la colorita espressione di Lussu. Ma c’è di più: persino i flebili miagolii del nostro gattino saranno completamente strozzati. Lo Statuto speciale infatti subirà un processo di progressi­vo svuotamento e di compressione sia dall’esterno, cioè da parte dello Stato centrale; sia dall’ interno, ovvero da parte delle forze politiche dirigenti sarde, che non sanno usare e, spesso, non vogliono utilizzare, gli stessi strumenti, possibilità e spazi che l’autonomia regionale offriva.

La Regione inoltre tenterà di riprodurre la struttura piramidale dello Stato: così al centralismo romano si aggiungerà il centralismo regionale. Con l’ingabbiamento e la marginalizzazione delle Autonomie locali e i Comuni in primis.A denunciarlo è il nostro più grande storico medievista, Francesco Cesare Casula, che scrive:” la Regione ha concentrato nell’istituto «ministerializzato» le funzioni amministrative che Costituzione e Statuto affidano alle autonomie sub-regionali. Sicchè al posto di un sistema «a stella» (sia all’interno delle Regioni sia dello Stato) si è mantenuto un sistema «a piramide»: una grande « piramide» al centro e tante piccole « piramidi», in ciascuna delle venti Regioni italiane”.

Ancora più ficcante la critica di Eliseo Spiga secondo cui la Regione sarda, non può essere considerata una istituzione di autogoverno della comunità sarda. “Non è tale – scrive Spiga – intanto, per la sua struttura organizzativa che è una misera e minuscola fotocopia dello Stato con i suoi assessori come ministeri e il suo accentramento politico-burocratico nel capoluogo cagliaritano. E non lo è perché la Regione non ha un reale rapporto giuridico con i Comuni, rimasti nella sostanziale dipendenza dello Stato, perché la Sardegna continua ad essere presidiata dai prefetti, che sono il simbolo oltre che lo strumento del centralismo statale; e infine perché deve coabitare forzosamente con le succursali provinciali dei Ministeri romani, pronti a pascolare anche abusivamente nei territori regionali”.

Bene: lo Stato sardo indipendente, cui corpose e importanti porzioni della società isolana sembrano guardare viepiù con interesse e simpatia, a mio parere deve essere il più dissimile possibile dallo stato italiano e dalla stessa regione sarda che storicamente abbiamo conosciuto. E non solo per quanto attiene al “centralismo”, o all’intreccio e alla confusione fra attività di governo e attività di amministrazione e gestione, (che comunque non è casuale: serve infatti a trasformare gli Assessorati in veri e propri califfati con cui creare consenso attraverso il clientelismo); ma per quanto riguarda il superamento di una democrazia meramente rappresentativa, istituzionale e istituzionalista, per dare luogo a una democrazia partecipativa e partecipata. O, se si preferisce: a una democrazia, diretta, di base. Dal basso. Anche sulla scia di Emilio Lussu secondo cui occorreva “sviluppare, esprimere e sprigionare le capacità e le forze alla base della società civile”. Il disegno di uno Stato sardo con questa ispirazione non emerge neppure dalla proposta, , “Sulla Carta pro sa Repùbblica de Sardigna” elaborata del Partito dei Sardi.

Anzi è sostanzialmente assente. Come acutamente ha rilevato Antonio Dessì, gia valente Assessore regionale all’Ambiente, che in una nota in proposito scrive :”La configurazione dello Stato sardo poi è davvero molto lontana dal prefigurare una democrazia di popolo. Inesistente la garanzia della distribuzione della sovranità e del potere interno verso il basso, limitato il richiamo agli istituti di democrazia diretta, blandissima la definizione del ruolo delle autonomie locali”.
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*Dallo stato italiano centralista a uno stato sardo, ugualmente centralista? Francesco Casula su il manifesto sardo.

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