LAVORO E NUOVO MODELLO DI SVILUPPO. Rivoluzione tecnologica lavoro e investimenti pubblici

L’impatto socio-economico negativo che sembra doversi attendere dalla penetrazione della nuova rivoluzione tecnologica non può essere affrontato dal Governo con misure relativamente palliative come è successo finora. Servono robusti interventi pubblici atti a ridefinire un nuovo modello di sviluppo, ovvero impieghi di risorse in settori ad elevato effetto moltiplicatore su Pil e lavoro. Purtroppo, un orientamento del genere trova molte resistenze, sia da parte dei vertici decisionali dell’economia, motivati da fini settoriali, sia da gran parte della classe politica, che agisce essenzialmente secondo logiche populistiche.
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di Valentino Gandolfi, su Rocca*

Dalla rivoluzione tecnologica emergente si attende un impatto sull’organizzazione dell’economia e sulla occupazione superiore a quello verificatosi con le precedenti rivoluzioni industriali (determinate dalla macchina a vapore, dall’elettricità, dall’elettronica). Si parla ora di quarta rivoluzione industriale per indicare la potenzialità trasformativa dell’interconnessione nei processi produttivi. Nonostante la denominazione, essa trascende l’industria, permeando tutte le attività lavorative, da quelle manageriali alle attività di assistenza sanitaria, della finanza e del commercio al dettaglio.

i rischi del lavoro automatizzato
Il suddetto impatto della nuova rivoluzione industriale è stato indagato da diversi enti di ricerca a livello mondiale con esiti alquanto convergenti. Il McKinsey Global Institute ha recentemente analizzato gli effetti dell’automazione sul lavoro in 46 Paesi, che comprendono l’80% della forza lavoro globale (A future that works: Automation, Employment and Productivity, January, 2017). Da questo studio risulta che è totalmente automatizzabile circa il 5% dei lavori. Per l’Ocse (The Risk of Automation of Jobs in Oecd Countries, 2017), nei 21 Paesi dell’area risulta ad alto rischio di sostituzione con l’automazione il 9% degli attuali lavoratori.
La valutazione cambia se si entra nel merito delle attività elementari e delle competenze che costituiscono le singole occupazioni. Con questo approccio, McKinsey ha calcolato che oltre la metà delle occupazioni è soggetta ad automazione parziale.

Tenendo conto dei diversi gradi di automazione, McKinsey stima che nel mondo siano sostituibili in tutto o in parte 1,2 mld di posti di lavoro, di cui 62 mln nei soli 5 big europei. Secondo Frey e Osborne della Oxford University (The future of employment: How susceptible are jobs to computerization?, 2013), in Usa oltre il 47% degli impieghi potrà essere automatizzato entro 10-20 anni. Anche dalla ricerca presentata al World Economic Forum del 2016 (The future of the jobs), riferita alle 15 maggiori economie (che comprendono il 65 % della forza lavoro mondiale), è emerso che con la nuova tecnologia il lavoro perso sarà maggiore di quello creato, con un saldo negativo di oltre 5 milioni di posti di lavoro. Lo studio presentato da The European House-Ambrosetti a Cernobbio nel settembre 2017 rileva che quasi il 15% del totale degli occupati in Italia (pari a 3,2 milioni) potrebbe perdere il posto di lavoro entro 15 anni.

la nuova disoccupazione tecnologica
Il progresso tecnologico ha sempre causato, parallelamente all’aumento della produttività e della ricchezza complessiva, una perdita di posti di lavoro conseguentemente alla sostituzione di forza lavoro con le macchine. In passato si è comunque avuto un bilancio enormemente positivo tra distruzione di posti e creazione di nuove professioni. La quarta rivoluzione produttiva (identificata anche come Industria 4.0) presenta una natura diversa da quelle precedenti. Non si limita a produrre macchine per aiutare l’uomo nelle attività esecutive: i robot e l’intelligenza artificiale realizzano interi processi produttivi e agiscono al posto dell’uomo, anche in attività intellettuali, incluse quelle decisionali.
Chiaramente, non si può escludere che nel tempo la creazione di nuove professioni compensi in buona misura ciò che viene perso all’inizio del ciclo tecnologico, ma è molto probabile che la discrasia fra i due percorsi perduri a lungo nel tempo, con le conseguenze sociali che si temono. L’effetto negativo che ne deriva richiede dunque la predisposizione di massicci ammortizzatori sociali (consistenti in sussidi e redditi minimi garantiti), ma c’è il rischio che siano insufficienti. Sono perciò indispensabili adeguate politiche governative, atte a minimizzare il saldo negativo tra le due dinamiche occupazionali. È a tal fine che in questo articolo si vogliono prendere in considerazione alcune politiche sociali finora esperite e proposte avanzate onde valutarne l’applicazione alla situazione prospettata.

la difficile redistribuzione del lavoro
Una prima indicazione verte su una larga estensione della forza lavoro occupata, contemporaneamente ad una contrazione dell’orario medio di lavoro. Anche per il nostro Paese è stata avanzata recentemente dal sociologo De Masi una politica nazionale di redistribuzione dell’orario di lavoro, ampiamente discussa anche su Rocca.
Nel caso italiano la proposta trova una valida ragione nell’orario medio del totale degli occupati, che secondo l’Ocse nel 2016 era maggiore del 22% rispetto alla media delle ore lavorate in Francia e Germania. Si tratta di un differenziale utilizzabile
però con enormi difficoltà normative, aziendali, sindacali e da parte degli stessi lavoratori, anche perché la riduzione delle ore lavorate dovrebbe essere accompagnata probabilmente da compressione degli emolumenti percepiti dai lavoratori, che in Italia sono ora mediamente più bassi di quelli dei Paesi di confronto.
In Francia la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro messa in atto negli scorsi anni è stata perseguita con un intervento legislativo basato su un rigoroso sistema di incentivi pubblici per la riduzione fiscale del costo del lavoro in caso di assorbimento di nuovi occupati congiuntamente a provvedimenti per rendere meno conveniente il ricorso al lavoro straordinario e al prolungamento dell’orario di lavoro. Conta altresì rilevare che l’uso di tale potenziale servirebbe già per ridurre le sacche di sotto-occupazione diffuse in vari settori e per livellare il tasso di occupazione italiano a quello di altri Paesi dell’Ue. Quindi, anche una redistribuzione del lavoro come quella auspicata lascerebbe comunque irrisolto il problema della distruzione netta di posti di lavoro attesa in futuro dall’estensione di Industria 4.0.

la decontribuzione discutibile
Un’altra politica del lavoro, ben utilizzata dal Governo italiano, è la decontribuzione degli oneri sociali per le imprese al fine di «creare» posti di lavoro. È una misura che ha suscitato molte perplessità. La prima condizione per assumere nuovo personale è la crescita della domanda specifica, che dipende in parte anche dal livello di competitività aziendale, a sua volta riconducibile allo stato degli impianti produttivi.
Secondo una recente indagine dell’Ucimu, un terzo dei macchinari dell’industria italiana aveva nel 2014 più di 20 anni, e circa l’80% degli impianti non era ancora integrato con sistemi informativi. In effetti, le nostre imprese devono recuperare consistenti gap di produttività cumulati nel tempo, e ciò comporta necessariamente drastiche riduzioni di addetti. Insistere con tale politica decontributiva vuol dire disincentivare gli investimenti in innovazioni tecnico-organizzative e aumentare margini di profitto che difficilmente si traducono in nuova occupazione. «I pur significativi benefici in termini di occupazione – è stato rilevato dal Governatore della Banca d’Italia con riferimento a queste misure per il lavoro – si sono rivelati effimeri perché non sono stati accompagnati dal necessario cambiamento strutturale di molte parti del nostro sistema produttivo». È peraltro una grossa forzatura parlare di «significativi benefici» conseguiti ultimamente. I provvedimenti introdotti hanno prodotto senz’altro una trasformazione di lavoro provvisorio in posti stabili secondo le cosiddette «tutele crescenti», ma un incremento molto dubbio di nuovi posti. Manca al riguardo la minima verifica statistica per valutare l’effetto della decontribuzione e del Jobs Act.
L’incremento registrato dall’Istat è riconducibile essenzialmente alla ripresa economica che ha riguardato l’eurozona, in ordine alla quale Mario Draghi ha tra l’altro affermato che la politica monetaria della Bce ha creato 7 milioni di posti di lavoro in quattro anni. È da presumere che qualcosa sia arrivato anche da noi! Volendo continuare a privilegiare il mondo delle imprese, il Governo dovrebbe quanto meno passare dalla logica della decontribuzione a quella della incentivazione di piani di reskilling da attuare in adeguati ambiti territoriali, e da gestire con il coinvolgimento di imprese e lavoratori, onde elevare il livello di competenze tecnologiche. Misure del genere sono messe in atto con successo da qualche anno in Usa (Alternative Trade Adjustment Assistance for Older Workers), dove i piani di riqualificazione professionale sono combinati con programmi di garanzie salariali.

Industria 4.0 ed esuberi
Va nella direzione di accelerare la trasformazione del sistema produttivo delle imprese conformemente agli imperativi della nuova rivoluzione industriale il piano «Industria 4.0» avviato nel settembre 2016. Verte su detrazioni fiscali per chi investe in tecnologie innovative, credito di imposta per la R&S, tassazioni agevolate sui redditi da hitech (brevetti, copyright, ecc.), superammortamento per l’acquisto di beni strumentali nuovi, l’iperammortamento per l’acquisizione di macchinari «connessi». Il piano viene rifinanziato dalla Legge di Bilancio 2018 e verrà esteso ad attività di formazione connesse con la digitalizzazione. Anche in altri Paesi europei vi sono iniziative governative per l’industria 4.0, ma in Italia si hanno trasferimenti ben più generosi, sia per il credito d’imposta sia per gli ammortamenti, rispetto, ad esempio, a Francia e Germania. Chiaramente, i contributi nazionali di Industria 4.0 possono aver incentivato l’introduzione delle nuove tecnologie, ma sarebbe riduttivo ritenere che il management aziendale abbia deciso tali innovazioni sulla base di detti contributi. Ne è prova il fatto che il tasso di crescita di produttività nei settori che più hanno investito in tecnologie digitali e automazione è cominciato ben prima della erogazione dei contributi.
Incentivi a parte, preme sottolineare che la modernizzazione tecnologica della struttura produttiva, quale condizione necessaria per migliorare la competitività, non si traduce univocamente né in ampliamento di capacità produttiva né, tantomeno, in crescita dei posti di lavoro. Come si è già accennato, l’aumento di produttività, a pari capacità produttiva, determina una riduzione degli addetti. In alcuni piani di automazione della produzione in corso, anche di piccole e medie dimensioni, sono annunciati esuberi dell’ordine del 25%.

la leva degli investimenti pubblici
È inverosimile ritenere di creare in prospettiva una quantità significativa di po- sti di lavoro nella sola industria e nei connessi servizi. L’espansione della base produttiva trova dei limiti sia nella domanda interna sia nel trend strutturale della crescita della domanda globale. Aggiungasi che molti Paesi emergenti tendono a saturare il più possibile la domanda interna con produzione autoctona.
Stanti i relativi limiti delle politiche sociali perseguite, occorre necessariamente ricercare l’espansione dell’occupazione nel terziario e in particolare nei servizi pubblici, ove vi sono ampie potenzialità di creazione di ricchezza e di lavoro. Anche il Governatore della Banca d’Italia ha affermato che «Deve tornare a crescere la spesa per gli investimenti pubblici: in calo dal 2010, la sua incidenza sul prodotto era appena superiore al 2 per cento nel 2016, circa un punto in meno che negli anni precedenti la crisi e tra i valori più bassi nell’area dell’euro».
I campi di impiego sono ben noti: la costituzione di invasi per trattenere l’acqua piovana, il rifacimento di condotte idriche, l’assetto idrogeologico e il rimboschimento, la messa in sicurezza degli edifici pubblici, la ristrutturazione antisismica del patrimonio immobiliare, le diverse infrastrutture viarie, e così via. Sono interventi che spesso consentono di prevenire catastrofi e che perciò nel lungo termine si configurano anche come importanti risparmi di risorse. Gli stessi concorrono altresì ad arricchire l’insieme dei fattori che danno luogo al cosiddétto sistema-paese, quale base esogena della competitività delle imprese e della attrazione di investitori esteri. Tutto ciò ci induce a ipotizzare un «nuovo» modello di sviluppo, che nel caso italiano riflette le aree di intervento appena richiamate. Come per ogni modello di sviluppo la precisa declinazione può essere letta solo a posteriori, ma è indubbia la sua forte connotazione pubblica, come viene rilevato anche dai contributi ospitati ultimamente da Rocca.

un nuovo modello di sviluppo
Il lato più critico di questo orientamento modellistico è il reperimento di risorse. Sovente si tende a ricondurre la questione ai vertici dell’Unione europea. È senz’altro ragionevole cercare di modificare la politica europea, che finora ha privilegiato in maniera eccessiva il settore primario, determinando tra l’altro delle assurde politiche protezionistiche nei confronti delle produzioni di Paesi economicamente sottosviluppati, come quelli africani, che si dice di voler aiutare a casa loro. Ciò rilevato, la fonte principale di finanziamenti per gli investimenti pubblici resta quella interna.
Senza entrare qui nel merito del loro reperimento, interessa portare l’attenzione sulla gerarchia dei settori di destinazione. Al riguardo può essere indicativo il settore idrico, dove, secondo le stime dell’Autorità nazionale per l’energia, servirebbero almeno 5 mld di euro all’anno per 12 anni. Da specifici studi realizzati in Usa dal Clean Water Council emerge che gli investimenti in infrastrutture idriche triplicano i loro effetti sulla domanda di beni e servizi, che si riflettono poi sull’occupazione. Un investimento di un mld di dollari sarebbe in grado di incrementare la domanda di beni e servizi per oltre tre mld e di generare 20-27 mila nuovi posti di lavoro. Sulla scorta del contributo del Cwc, è stato calcolato da AneA (Peruzzi, w.p. 2013/ 03) l’effetto moltiplicatore degli investimenti nel settore idrico italiano. È stato così ipotizzato che una spesa iniziale di 1,8 mld di euro produca un aumento dell’occupazione di quasi 50 mila nuovi posti di lavoro. Pertanto, con un investimento di 5 mld di euro nel settore idrico (come si è detto prima) si avrebbe un incremento dell’occupazione diretta e indiretta di circa 120-140 mila unità.
L’effetto moltiplicatore degli investimenti elaborato per il settore idrico non è dissimile da quelli elaborati dal Cer per il Piano del lavoro della Cgil del 2016 e dai valori scaturiti da talune indagini svolte da enti di ricerca italiani ed esteri sugli investimenti pubblici nella green economy, nell’efficientamento energetico e in altri settori a forte valenza strategico-sociale come il welfare. I dati riportati dovrebbero essere accostati agli effetti discutibili degli sgravi contributivi a favore delle imprese decisi dal nostro Governo negli ultimi anni, che sono costati circa 20 mld di euro. Queste risorse, impiegate nei suddetti servizi pubblici, in base agli effetti moltiplicatori degli investimenti indicati avrebbero potuto creare complessivamente circa 400 mila nuovi posti di lavoro, che si sarebbero aggiunti a quelli «fisiologici» determinati dalla ripresa economica. Di contro, per le assunzioni dei giovani la Legge di Bilancio in corso di elaborazione prevede ancora 2 mld di euro di sgravi contributivi nel biennio 2018-2019.
In stretta sintesi, l’impatto socio-economico negativo che sembra doversi attendere dalla penetrazione della nuova rivoluzione tecnologica non può essere affrontato dal Governo con misure relativamente palliative come è successo finora. Servono robusti interventi pubblici atti a ridefinire un nuovo modello di sviluppo, ovvero impieghi di risorse in settori ad elevato effetto moltiplicatore su Pil e lavoro. Purtroppo, un orientamento del genere trova molte resistenze, sia da parte dei vertici decisionali dell’economia, motivati da fini settoriali, sia da gran parte della classe politica, che agisce essenzialmente secondo logiche populistiche.

*Valentino Gandolfi docente di Economia e gestione delle imprese.
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