Alzare lo sguardo. Poi, sorvolare o guardare a terra?

rosa di maggio
di Alberto MAGNAGHI, da “Dialoghi Mediterranei”, n. 28, 2017

Gli interessi della politica e della finanza globale sono sempre più stellarmente lontani dai mondi e dai luoghi di vita, soprattutto da quando come scriveva André Gorz nel 1981: “ogni politica […] è falsa se non riconosce che non può esserci più la piena occupazione per tutti e che il lavoro dipendente non può più restare il centro dell’esistenza, anzi non può più restare la principale attività di ogni individuo”.

Nello sgomento crescente di questa distanza fra economia, politica e benessere, si verifica una tacita intesa nelle comunicazioni, sia superficiali che profonde tra le persone, quando i corpi sono vicini (prossimi per Gorz, di contatto per Choay, conviviali per Illich): allontanare sullo sfondo ciò il cui senso ormai sfugge (i flussi globali della finanza, del lavoro eterodiretto, della guerra) e parlare lingue e saperi locali per curare e rafforzare attività autonome e reti solidali. Parafrasando ancora Gorz (Les chemins du paradis, Galilée, 1983): ridurre, contrarre, allontanare le attività lavorative necessarie (lavorare meno, lavorare tutti, esito opposto alla disoccupazione di massa da automazione), espandere, ampliare, sviluppare le attività autonome, sottratte alla schiavitù del lavoro eteronomo; con il mio linguaggio: liberare il “tempo proprio” contro il “tempo nemico” (Un’idea di libertà, DeriveApprodi, 2014), facendo crescere soggettività per la “società del tempo liberato”.

Non avviene ovviamente dappertutto. Le macerie di cui parla Aldo Bonomi e i luoghi urbani, dolorosamente non più riconosciuti da Marco Revelli, hanno invaso le vite di una moltitudine di persone.

Ci sono tuttavia luoghi più intensi dove, per particolari eventi catastrofici o per peculiari processi di crescita di “coscienza di luogo” (i due percorsi sono sovente intrecciati), il distacco dal mondo dei flussi globali è più radicale e si manifesta in un formidabile brulichio di società locale, la “coralità produttiva” di cui parla Giacomo Becattini nel suo ultimo libro La coscienza dei luoghi (Donzelli, 2015), che si da in forme famigliari, cooperative, comunitarie o associative, autorganizzate alla scala locale, sovente emergenti dal “sommerso carsico” rievocato da Bonomi. Naturalmente in ogni luogo ci sono sia flussi globali che macerie e nuove tessiture comunitarie. Bisogna saper guardare, riconoscere, denotare e forse, con nuove forme delle politica, aiutare a crescere queste tessiture, a far rete.

Ma dove guardare?

I luoghi privilegiati dello sguardo sono laddove, oltre ad “andare in basso”, ci si è spostati “a lato”, nelle aree “interne” e “marginali”: le montagne, le colline, le valli, le campagne profonde e i Sud. Dove si sente di più la desertificazione prodotta dal movimento di “deportazione”, centralizzazione e concentrazione metropolitana: per sottrazione di ferrovie minori, di banche e università del territorio, di piccoli esercizi commerciali, di cooperative autentiche, di piccoli presidi ospedalieri, di tribunali, di piccoli comuni, di piccole e medie imprese, di istituti di ricerca e così via, in una inesauribile corsa verso il centro, il grande, l’accorpato, il lontano, l’inarrivabile. Ma proprio verso questi “deserti” marginali e periferici è iniziato il controesodo.

La crescita di “coscienza di luogo” è partita dall’affinare lo sguardo nel deserto e nelle macerie, dal riguardare a terra, alla terra, magari a cultivar desuete, reinterpretate; lo sguardo a terra è contagioso, i patrimoni (ambientali, paesaggistici, agroforestali, culturali, artigianali, artistici) come “molle caricate nei secoli” (Becattini, 2015) si moltiplicano, se solo ci si guarda intorno: dalle nuove coltivazioni multifunzionali, ai metabolismi energetici urbani e rurali, alle arti e i saperi contestuali della pietra, del legno, del ferro, alle reti solidali di produzione e consumo, alla cura dei borghi, dei paesi, delle piccole città e delle loro reti, all’ospitalità diffusa, alla cura dell’ambiente e del paesaggio come beni comuni territoriali.

Attraversando questi cantieri comunitari di società locali si ha la sensazione che l’ansia collettiva che le percorre sia quella di rafforzarne l’autonomia, l’autodeterminazione, l’autogoverno: ovvero allontanare, per non esserne soffocati, i poteri esogeni, le centrali di decisione dei partiti, della finanza, della guerra, attraverso la costruzione di mondi locali di produzione e di consumo in grado di riprodurre la vita nelle forme scelte da ogni comunità e ricostruire da qui le relazioni con il mondo. Questi cantieri sono stati avviati da montanari per scelta, da giovani neocontadini e allevatori, da neoartigiani: un popolo colto, connesso in rete, cosmopolita, attrezzato con tecnologie appropriate, un occhio a terra e uno al cielo; soggetti per cui l’emancipazione concreta oscilla a spirale fra la coppia erranza/attraversamento e neoradicamento/comunità; ai quali dunque è connaturato proiettarsi in un mondo di comunità solidali federate, piantate a terra su economie sociali, solidali, fondamentali, circolari, ecologiche.

Per me, “continuare a cercare” significa dunque ragionare e agire in forme di ricerca-azione, di conricerca con queste “comunità di luogo” in costruzione, da cui può avvenire una rinascita della politica, quel “non ancora” della comunità concreta di Olivetti di cui abbiamo discusso con Aldo Bonomi e Marco Revelli ne Il vento di Adriano (DeriveApprodi, 2015).

Ma a che punto sono in Italia queste esperienze comunitarie di autonomia e autogoverno?

Su questo Osservatorio delle buone pratiche della Società dei territorialisti/e sta organizzando le proprie energie (insieme ad altri centri di ricerca-azione) per denotare, comunicare e relazionare esperienze territoriali, disegnando una controgeografia che indichi la strada ai viandanti ricostruttori di luoghi dove valga la pena vivere.

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