FAKE NEWS A SCUOLA imparare a difendersi dalle false notizie

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di Fiorella Farinelli su Rocca
Fake news, notizie false. Volutamente false. C’è più di un frequentatore di Internet su due (il 52,7% del totale, il 58,8% dei più giovani) a cui è capitato, secondo l’ultimo Rapporto Censis, di incappare nelle notizie false della rete. Ma incappare vuol dire anche crederci? E a crederci sono solo i più ignoranti, la tanta gente giovane e vecchia che in Italia ha avuto troppo poca scuola? Niente affatto. A crederci, dicono i numeri, è il 51,9% di chi ci è finito dentro per caso. E di questi più della metà è fatta di persone istruite, o almeno in possesso di titoli di studio di livello medio-alto. Diplomi e lauree. Se non è anche questa un’informazione falsa, c’è da aver paura. Di Internet ma anche della carta stampata, della televisione, della scuola, delle università. Complici, inefficaci, inerti?

il Grande Fratello dei nostri tempi
Ad essere preoccupati delle foto manipolate e delle informazioni taroccate che girano in abbondanza nel web, sono anche molti politici. Soprattutto quando battono all’uscio prossime scadenze elettorali. Il 23 novembre Matteo Renzi, segretario del Pd, ha chiesto ai social e in particolare a Facebook «di aiutarci ad avere una campagna elettorale pulita». Negli ultimi giorni i dirigenti di quel partito sono tornati insistentemente sul rischio che si scateni contro di loro – contro uno degli ultimi governi di centrosinistra in Europa – una campagna di disinformazione e di discredito manovrata da avversari particolarmente spregiudicati come Lega e Cinquestelle.
Nel clima politico statunitense arroventato dalla sospettata ingerenza russa a favore del candidato Trump nell’ultima campagna per le presidenziali, l’autorevole New York Times ha riferito che, secondo diversi analisti, oggi sarebbe l’Italia il paese più sotto tiro dell’intera Europa. E il più vulnerabile. Si moltiplicano, del resto, anche in altri paesi i tentativi di convincere gli amministratori dei social più importanti a tenere sotto controllo il fenomeno delle fake news, anche rimuovendo le pagine incriminate. Chris Norton, portavoce di Facebook, ha dichiarato che il suo amministratore sta cercando di eliminare gli incentivi economici che alimentano la pubblicazione di notizie false e che a questo scopo sta investendo in tecnologie che potrebbero risolvere il problema. Chissà, vedremo. Sembra però improbabile che al Grande Fratello dei nostri tempi – miliardi di dati personali regalati dagli utenti, miliardi di finanziamenti in pubblicità sparata su quei dati – si possano tagliare facilmente le unghie.

rischio di censura
Le richieste di chiusura delle pagine che contengono notizie false possono del resto suonare, alle orecchie di molti, come un tentativo di censura. Tanto più insopportabile se a chiederlo è una politica, è ancora il Censis a dirlo, la cui credibilità è precipitata a minimi spaventosi. È l’84% degli italiani a dichiarare di non avere nessuna fiducia nei partiti politici, con il 74% che non ne ha neanche per il governo, In caduta libera sono anche i mitici «corpi intermedi», con 180mila tessere perdute nell’ultimo anno dai sindacati tradizionali. Mentre nei sondaggi, si sa, vola il partito-non partito, il movimento «antipolitico» dei Cinquestelle che come veicolo principale del rapporto con gli elettori ha scelto, non per caso, il digitale.
Non aiuta, quindi, che a denunciare il pericolo delle fake news sia la politica. Perché quella denuncia può apparire, e forse lo è davvero, solo un argomento pro domo sua. Ma il problema c’è, è molto serio, riguarda la qualità della vita democratica. Riguarda, prima ancora, la qualità della testa della gente. Si può fare qualcosa? E come?

che può fare la scuola?
Uno dei terreni più promettenti è la scuola, 8 milioni e più di giovani, 24-25 milioni di familiari direttamente interessati, più di 730mila gli insegnanti. La più grande macchina di cultura del Paese. Si può fare? C’è qualche norma o regolamento che lo impedisce? Niente affatto, anzi. Imparare a distinguere il vero dal falso è costitutivo della conoscenza e dell’apprendimento. E imparare a farlo per muoversi con discernimento nella vita sociale è parte integrante di quell’obiettivo scritto a lettere d’oro che è l’«educazione alla cittadinanza».
Lo si sta facendo? Qua e là, come tante altre attività che in una scuola ci sono e in un’altra no, che possono durare qualche mese (i «progetti») e poi inabissarsi nel dimenticatoio. Dipende dagli insegnanti, e da tante altre variabili. Ma esperienze ce ne sono, e spiegano bene come si fa. Prendiamo un caso tipico di fake news, quelle che sostengono che Auschwitz è una bufala, che le immagini delle migliaia di persone sterminate dallo Zyklon B sono fotomontaggi, che si trattava solo di un ordinario campo d’internamento o di lavoro per disertori o per soldati nemici, che la dimostrazione è che gli aerei inglesi dall’alto lo vedevano benissimo e avrebbero quindi potuto facilmente, se davvero lì si gasava e si cremava ogni giorno della gente (prigionieri britannici compresi), raderlo al suolo. Insomma che la storia di Auschwitz è tutta un imbroglio, ordito dai vincitori della seconda guerra mondiale (dai sovietici, dai comunisti, dagli ebrei, da Israele, dagli americani…). In una fake news come questa – e nelle tante altre analoghe che l’algoritmo richiama immediatamente sullo schermo di chi ha intercettato la prima – ci si può incappare per caso, o andarci direttamente perché è l’insegnante che chiede di farlo. Che si fa a questo punto? Nella scuola di un tempo l’insegnante poteva decidere di lasciar perdere per una mattina il libro di testo e fare una lezione coi fiocchi, portare in aula la documentazione di cui era in possesso o facilmente reperibile, offrire una bibliografia, affidare a qualche studente particolarmente curioso o diligente di leggere un libro sull’argomento e poi riferirne in aula. C’era spesso chi lo faceva – le fake news non nascono con i social – ma ci voleva molto tempo e magari poi non se ne trovava più (i programmi, si sa, incombono) per tornarci sopra. Agli studenti rischiava di restare in testa solo una cosa, che l’insegnante aveva detto quelle cose perché di parte politica diversa o perché di mamma ebrea, La ricostruzione, insomma, a proprio uso e consumo della storia.

metodi e strumenti didattici
Anche ora non è facile, ma con Internet è molto diverso, si può lavorare più rapidamente ed efficacemente perché il lavoro possono farlo gli studenti. L’insegnante infatti può affidargli di fare in proprio una ricerca sul web che vada oltre la raccolta dei «commenti» (perché quelli sono solo opinioni che segnalano che il tema è controverso, non prove), si può farla fare intotale autonomia oppure indicare da subito o in progress studi, archivi storici, atti di processi, i giornali del tempo, i musei dedicati all’Olocausto, le testimonianze, libri, siti, filmati. Anche gli aerei inglesi che non hanno bombardato pur intuendo o sapendo che cosa si faceva ad Auschwitz è un tema studiato in una quantità di saggi storici che spiegano le alchimie della politica (che c’è sempre anche nei conflitti, sebbene si usi dire che la guerra nasce a causa dei fallimenti della politica). C’è una montagna di documentazioni in proposito, basta cercarle, leggerle, confrontarle. Un’azione didattica di questo tipo non ha come obiettivo quello di far cambiare idea agli studenti che alla bufala ci hanno creduto, ma di far sperimentare a tutta la classe, loro compresi, che è da superficiali (pigri, ingenui, ignoranti: ognuno scelga) dar retta al primo che ti dice una cosa. Perché su quello stesso argomento ci sono molte altre fonti cui è possibile accedere facilmente per farsi un’idea più precisa. O almeno per trovare dei buoni motivi per avere dei dubbi. È un metodo che si può applicare ai temi più diversi, compresi quelli di tipo scientifico, e che in effetti viene usato in molte scuole. Con maggiore velocità, ovviamente, in quelle provviste di banda larga in cui può esserci un personal computer collegato su ogni banco. Più lentamente quando si può ricorrere solo agli smartphone o ai computer di casa.
È in questo modo, comunque, che in parecchie scuole si è lavorato tempo fa attorno all’argomento controverso dell’obbligo di vaccinazione. E che si lavora attorno a quelli, altrettanto controversi, relativi all’immigrazione, dove le fake news abbondano. Le migliaia di rifugiati che approdano ogni giorno sulle nostre coste, i 20 milioni di immigrati che si sono stabiliti in Italia, i 5 milioni di musulmani, gli stranieri che rubano i posti di lavoro, e così via.
Ma questi sono solo metodi e strumenti didattici. Utili a far crescere una familiarità con gli strumenti base della ricerca ma insufficienti a sviluppare negli studenti l’habitus della curiosità culturale, il rispetto del pluralismo, il fastidio per il conformismo e l’omologazione, lo spirito critico. Per questo ci vuole altro, prima di tutto insegnanti che danno l’esempio nell’insegnamento di tutti i giorni. Solo così le fake news scivolano addosso senza lasciare traccia.
Fiorella Farinelli
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One Response to FAKE NEWS A SCUOLA imparare a difendersi dalle false notizie

  1. […] Oggi si parla di “post-verità” in riferimento a una notizia completamente falsa che, accreditata per autentica, è in grado di influenzare una parte dell’opinione pubblica, divenendo di fatto un argomento reale, dotato di un apparente senso logico. Il termine ha conosciuto, infatti, un forte aumento del suo impiego soprattutto nelle discussioni relative alla comunicazione politica, mettendo in pericolo la salvaguardia della democrazia. Ciò perché, sulla base delle post-verità la notizia viene percepita e accettata come vera dal pubblico, senza alcuna analisi concreta della effettiva veridicità dei fatti raccontati; in una discussione caratterizzata da “post-verità”, i fatti oggettivi – chiaramente accertati – sono meno influenti nel formare l’opinione pubblica, rispetto ad appelli ad emozioni e convinzioni personali. Il termine, impiegato nelle discussioni relative alla comunicazione politica, sta creando molte difficoltà nel funzionamento delle istituzioni democratiche. La “postificazione” – afferma Marcel Gauchet – filosofo francese, professore emerito all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi e direttore della rivista “Le Débat”, in “La guerra delle verità” (MicroMega 3/2018), è un male antico e, nonostante il suo continuo riproporsi, non si può certo dire che esso abbia mai contribuito a migliorare il discorso politico in modo da “contribuire ad illuminare le menti sulla novità della nostra condizioni storica”. Perché succede che il rapporto fra politica e menzogna caratterizzi il modo attuale di funzionare della democrazia, tanto da giustificare che i due termini vadano “a braccetto?”, si chiede Gauchet. La risposta, secondo il politologo francese, sta nel fatto che nell’opinione pubblica si è radicato il convincimento che la “falsità veicola in essa una sorta di verità”; pertanto “voci assurde”, “leggende metropolitane” e “discorsi demagogici” assumono uno “spessore che ne rende difficile la confutazione, anche quando quest’ultima poggia su dati incontestabili”. I dati, però, nelle post-verità, non hanno alcun impatto su ciò che viene reso di pubblico dominio senza il minimo fondamento; ciò perché si è convinti che “se il vero può a volte non essere verosimile, è altrettanto possibile a volte che il falso abbia un aspetto verosimile”. La relativizzazione del discordo politico, osserva Gauchet, pone inevitabilmente il problema di conoscere il messaggio che viene trasmesso attraverso le post-verità e che cosa è ciò che assicura alle non-verità la capacità di convincere il pubblico, al punto di garantire la forza per esistere alla confutazione. Le post-verità possono essere comprese nel loro significato solo se ci si colloca all’interno del contesto sociale nel quale esse “maturano” e non si separano dalle contestazioni e dalle proteste (normalmente qualificate dagli establishment consolidati come populiste) che stanno caratterizzando la vita delle democrazie moderne. Se intese in questo senso, le post-verità devono allora “il loro successo – afferma Gauchet – al fatto di presentarsi come un’alternativa rispetto alla ‘verità’ ufficiale dei grandi media dominanti”; in tal modo, le post-verità devono essere collocate “all’interno di una lotta che si mostra per certi aspetti come un nuovo volto della lotta di classe”, che vale ad attribuire la loro credibilità al convincimento che la verità “rivelata” dai media, o ciò che questi presentano come verità, non sia la verità fattuale. La denuncia della verità ufficiale diventa così il modo col quale chi intende accreditarsi presso larghi strati insoddisfatti della popolazione, può farlo anche con discorsi privi di ogni fondamento. Tale constatazione evidenzia allora che diventa impossibile rifiutare le post-verità senza affrontare la questione del perché è accaduto che l’evoluzione del discorso nediatico abbia suscitato tanta diffidenza nei suoi confronti, da parte di quei larghi strati della popolazione, sino a trasformarsi, a volte, in aperta ostilità. Si tratta, secondo Gauchet, di un fatto grave, perché colpisce una delle condizioni che, seppure non sancita da nessuna parte, che sottostanno la salvaguardia della democrazia. La diffidenza nei confronto dei media, infatti, colpisce la “condizione cognitiva” della democrazia, ovvero la possibilità, per un suo corretto funzionamento, “di contare su fatti accertati prima di discutere della loro interpretazione e delle decisioni che possono conseguirne”; è dalla possibilità che le decisioni ufficiali siano fondate su verità realmente accertate che dovrebbe derivare il ruolo cruciale del “quarto potere”, che si esprime attraverso l’apparato mediatico, nel funzionamento del sistema istituzionale della democrazia. Esso dovrebbe rappresentare la forza indipendente che dovrebbe garantire la veridicità dei fatti, grazie alla quale i cittadini dovrebbero essere messi nella condizione di giudicare, con cognizione di causa, le decisioni politiche che vengono prese. La crescita e il potere acquisiti dai media, nonché il livello di indipendenza raggiunto, associato alla concorrenza che ha motivati il sistema mediatico a presentare nel modo più compiuto la verità dei fatti, avrebbero dovuto costituire il viatico col quale i media avrebbero dovuto garantirsi la continuità della fiducia dei cittadini; invece – afferma Gauchet – è accaduto il contrario, nel senso che i cittadini si sono allontanati dai media, per cui “ci si deve chiedere quale perversione abbia potuto generare un tale allontanamento”. Le post-verità, secondo il politologo francese, rappresentano, all’interno delle democrazia attuali, “una variante della cultura dell’opposizione”, che si è affermata dopo che i cittadini hanno perso la fiducia nel tipo di informazione sui fatti “somministrata loro dai media. Questo tipo di opposizione si è affermato dopo l’avvento della “principale novità tecnica costituita dai nuovi media, dai social network e dall’underground informativo”; in queste nuove tecniche di comunicazione, secondo Gauchet, le post-verità avrebbero trovato la loro “nicchia ecologica naturale, un sostegno a prova di bomba e una cassa di risonanza formidabile”. Le nuove tecniche di informazione, pur celebrando con il “politicamente corretto”, condiviso dagli establishment, “le meraviglie dell’intelligenza collettiva”, hanno consentito nel contempo di disgelare il “tradimento” dei media tradizionali. In tal modo, si è affermata una modalità di funzionamento anomalo della democrazia, che occorre conoscere, afferma Gauchet, se si vuole, in qualche modo, evitarne le conseguenze negative. A tal fine, occorre rendersi conto che le post-verità contestative non hanno nulle a che vedere con la natura delle “verità” rivelate dalle ideologie e con la loro pretesa d’essere delle “verità” indiscutibili; esse non poggiano sulla fede fanatica che consentiva alle ideologia di assimilare Le “convinzioni politiche alla credenza religiosa”. Esse, le post-verità, si muovono su un terreno che, per quanto reso incerto dalla indefinitezza dei criteri sui quali sono fondate, sono però rese forti dalla percezione della “povertà costitutiva” del discorso pubblico condotto su “fatti e cifre” dominanti la scena politica; è proprio sulla base di questa percezione che le post-verità possono diventare credibili. Con il prevalere dell’economia, il discorso politico sul piano organizzativo si è svuotato, nel senso che ha smarrito il suo ruolo latente, inclusivo e identitario, fino a volte ostacolarlo, invalidarlo o negarla. Il risultato è stato che il discorso politico, con l’appoggio del “quarto potere” mediatico, ha cessato di parlare “con una parte importante della popolazione”, apparendole menzognero e non più rispondente ai propri bisogni vitali. Non per questo, la popolazione, disattesa nelle sue aspettative, ha rinunciato alla propria difesa, utilizzando l’unica risorsa rimastale disponibile: “contraddire il discorso pubblico ufficiale, in modo tale per cui le modalità di conduzione della contestazione popolare avessero l’”effetto solo di renderla credibile”. Nel perseguire tale effetto, le post-verità utilizzate nell’azione contestatrice non hanno lo scopo di dimostrare la falsità del discorso pubblico ufficiale, ma solo quello di dimostrare la sua natura menzognera. Il persistere di questa situazione costituisce la vera sfida che devono affrontare le democrazie; una sfida che può essere vinta soltanto attraverso il ricupero del senso di appartenenza dei cittadini a un’organizzazione politica democratica della società, nelle quale sia possibile, da parte degli stessi cittadini, esercitare il controllo sulla rispondenza delle decisioni pubbliche alla reale natura dei fatti; per questo scopo, urge un’informazione obiettiva che origini dal dibattito sui fatti, della cui obiettività i media ovrebbero essere i garanti imparziali. ————————– * Anche su Democraziaoggi. ————————– Per correlazione: articolo di Fiorella Farinelli su Rocca n.1 del gennaio 2018. […]

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