Elezioni/Documentazione

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http://www.libertaegiustizia.it/wp-content/uploads/2018/02/LG_VERSO_IL_4_MARZO_GUIDA_ULTIMA.pdf
(Dal sito di Libertà & Giustizia – a cura di Gianni Pisanu)
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L’art. 53 Cost. detta due principi fondamentali a cui deve ispirarsi la disciplina del sistema tributario nel suo complesso: la «capacità contributiva» e la «progressività».
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Secondo il principio della «capacità contributiva», a nessuno può essere imposto un prelievo fiscale eccessivo rispetto al proprio reddito e al proprio patrimonio: tale principio vale come limite sostanziale al prelievo fiscale, a integrazione del limite formale sancito dall’art. 23 Cost., per il quale solo la legge può imporre prestazioni patrimoniali (o personali). Sarà così costituzionalmente legittimo solo il prelievo fiscale disposto per legge e non eccedente la capacità contributiva dei singoli contribuenti.
Secondo il principio della progressività, la percentuale di reddito o patrimonio oggetto di imposizione fiscale deve crescere al crescere del reddito o del patrimonio: così, per esempio, un soggetto che ha 100 subirà un prelievo fiscale del 10%, mentre un soggetto che ha 500 subirà un prelievo fiscale del 25%. La giustificazione sta nella teoria dell’utilità marginale decrescente, in base alla quale più aumenta la disponibilità di denaro meno utile esso risulta (diceva Luigi Einaudi che 10 lire non hanno lo stesso valore per un povero o per un ricco, perché il primo le usa per comprare un bene di prima necessità come il pane, il secondo un bene voluttuario come un biglietto per il teatro). Va aggiunto che, per rispetto del principio di uguaglianza, i sistemi tributari progressivi funzionano normalmente a scaglioni per cui, in base all’esempio precedente, il contribuente che ha 500 pagherà un’aliquota del 10% sui primi 100 e il 25% sui restanti 400.
Moltiplicando il numero degli scaglioni fiscali (negli ultimi quarant’anni quelli dell’Irpef sono scesi da trentadue a cinque) si potrebbe diminuire la pressione fiscale sui redditi bassi e medi e aumentarla sui redditi alti (secondo l’economista Tony Atkinson, si dovrebbe portare al 65% l’aliquota per i redditi più elevati e discorso analogo dovrebbe valere per l’imposta di successione);
Poiché attualmente la progressività del sistema è essenzialmente garantita dall’Irpef, la sua trasformazione in flat tax (tassa ad aliquota uguale per tutti, dunque proporzionale) annullerebbe di fatto la progressività dell’intero sistema tributario: dunque, produrrebbe un effetto contrario al dettato costituzionale. Dal complesso di questi principi si è ricavato che, per la Costituzione italiana, il dovere tributario non si giustifica come corrispettivo dei servizi e delle prestazioni erogate dallo Stato (come avveniva nello Stato ottocentesco), ma come componente essenziale del dovere di solidarietà (art. 2 Cost.).
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La Costituzione individua il proprio «fondamento» nel lavoro (art. 1 Cost.), che declina, nel contempo, come diritto e come dovere dei cittadini. È un diritto, perché solo attraverso il lavoro ci si può procurare i mezzi per vivere. Ed è un dovere, perché solo attraverso il lavoro si può contribuire a rendere migliore la società in cui si vive.
In quest’ottica, tutti i lavori hanno pari dignità: quello manuale come quello intellettuale, perché il miglioramento della società dal punto di vista «materiale» è importante tanto quanto il suo miglioramento dal punto di vista «spirituale». Strettamente collegata all’idea di lavoro affermata dall’art. 4 Cost. è la disposizione del secondo comma dell’art. 3 Cost., in forza della quale spetta alla Repubblica il compito di realizzare le condizioni affinché tutti i «lavoratori» possano prendere attivamente parte «all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». La Costituzione ci dice, insomma, che non si deve vivere passivamente, che l’avanzamento della società è un diritto-dovere che spetta a tutti realizzare e che nessuno deve vivere parassitariamente, facendosi portare “sulle spalle” dagli altri.
Il lavoro diventa, così, condizione di cittadinanza: essere cittadini significa, per un verso, essere liberi di condurre una vita dignitosa, senza dipendere da altri, e, per altro verso, svincolati dall’impellenza di soddisfare bisogni materiali, poter effettivamente contribuire alla realizzazione del modello di società che, nel quadro costituzionale, ci si prefigge come obiettivo.
In questo quadro, gli articoli 35-40 della Costituzione si occupano, più in specifico, di lavoro, con l’obiettivo di offrire adeguata tutela alla parte più debole del rapporto, quella dei lavoratori dipendenti. I temi sono tutt’oggi attualissimi: la tutela del lavoro in tutte le sue forme, la solidarietà internazionale tra i lavoratori, la formazione professionale dei lavoratori, la misura della retribuzione, la durata massima della giornata lavorativa, l’irrinunciabile riposo settimanale e annuale, la protezione contro lo sfruttamento del lavoro femminile e del lavoro minorile, l’avviamento professionale degli «inabili» e dei «minorati» (affinché possano anch’essi essere cittadini a pieno titolo), il diritto di associazione sindacale, il diritto di sciopero, il divieto di serrata, la protezione di coloro che non lavorano perché non trovano lavoro (disoccupazione involontaria), perché non possono lavorare (per infortunio, malattia, invalidità) o perché hanno finito di lavorare (vecchiaia).
In una prima fase della storia repubblicana, questo corpo di disposizioni costituzionali ha trovato attuazione essenzialmente attraverso due pilastri: una serie di interventi legislativi, tra i quali spicca la legge n. 300 del 1970, meglio conosciuta come “Statuto dei lavoratori”, volta a tutelare la libertà sindacale sia dei singoli lavoratori, sia delle organizzazioni sindacali; e un’attività di tutela giurisdizionale svolta dalla magistratura del lavoro anche attraverso l’applicazione diretta delle disposizioni costituzionali.
A partire dalla seconda metà degli anni Novanta si è avviata una seconda fase, di segno inverso, volta a comprimere il livello di tutela dei lavoratori raggiunto in precedenza, considerato eccessivamente costoso per le imprese: dapprima attraverso la moltiplicazione di forme contrattuali precarie alternative a quelle ordinarie, poi con la crescente apposizione di ostacoli all’attività sindacale, quindi con l’indebolimento delle tutele previste per le stesse forme contrattuali ordinarie (emblematica l’eliminazione della tutela reale prevista dall’art. 18 dello “Statuto dei lavoratori”), da ultimo rendendo più difficile e oneroso l’accesso alla protezione giudiziaria. Oggi la regola per i nuovi lavori è quella dell’instabilità dei contratti, dell’indurimento delle condizioni di lavoro, dell’impoverimento delle retribuzioni, in assenza, peraltro, di conseguenze positive sul fenomeno della disoccupazione, in particolare giovanile.
Appare allora indispensabile: • operare a favore della ricomposizione della classe lavoratrice, rilanciando le libertà sindacali individuali e collettive, in particolare attraverso il sostegno all’attività sindacale e la difesa del diritto di sciopero; • invertire la rotta rispetto all’incredibile proliferazione delle forme contrattuali avvenuta negli ultimi decenni – a partire dalle aberrazioni del lavoro precario, povero, gratuito o semi-gratuito – individuando come obiettivo da conseguire la costituzione di rapporti di lavoro stabili e vincolando l’utilizzo di rapporti a scadenza a oggettive esigenze di carattere temporaneo; garantire a tutti un reddito di base sganciato dalla prestazione lavorativa, in modo che nessuno sia costretto ad accettare condizioni di lavoro inique sotto il ricatto del bisogno; • ripristinare la reintegrazione sul posto di lavoro come rimedio generale contro il licenziamento ingiustificato; • eliminare gli ostacoli procedurali ed economici che oggi rendono più difficile di un tempo l’accesso alla tutela giurisdizionale da parte dei lavoratori.

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