Cantico dei Cantici

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Cantico dei Cantici – Un invito alla lettura
Carlamaria Cannas – San Rocco 4 marzo 2018
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Il Cantico dei cantici è un libro molto piccolo: 117 versetti, in ebraico 1250 parole in tutto, ma con ben 48 hapax, cioè termini che non compaiono in altre parti della Bibbia e che quindi creano molti problemi di traduzione. Attorno a questi 117 versetti si sono accaniti per oltre duemila anni esegeti e teologi, scrittori e interpreti, lettori rigorosi e lettori fantasiosi. Prima di addentrarci nella comprensione di questo testo poetico, vale la pena soffermarci un momento sul come ha attraversato i secoli creando difficoltà di interpretazione via via diverse. Ci ritorneremo con più attenzione la prossima volta, ma credo che sia utile fare anche qui un piccolo cenno a queste difficoltà per poter poi apprezzare meglio il testo.
Fa un po’ sorridere, nota Enzo Bianchi, che per buona parte di questo periodo esegeti espertissimi, tra cui persone della spiritualità di Girolamo, abbiano letto il Cantico del Cantici senza vederne l’aspetto più letterale, senza capire che parla dell’amore umano. Bianchi ritiene, tuttavia, che Girolamo abbia compreso che questo è un canto d’amore profano; ma che forse lo dica come poteva dirlo al suo tempo, che cioè nella Bibbia c’erano libri più difficili di altri, per cui il Vangelo di Giovanni andava letto dopo i 25 anni ma il Cantico dopo i 60.
Il fatto è che dire chiaramente queste cose, ad esempio traducendo il testo nella lingua parlata dalla gente comune, era effettivamente pericoloso. Basta pensare a Luis de Leon, poeta ed ecclesiastico spagnolo del XVI secolo, che, dopo aver studiato all’università di Salamanca, fu denunciato all’Inquisizione per aver tradotto in spagnolo il Cantico dei Cantici (1560), e, incarcerato nel 1572, fu assolto e scarcerato solo quattro anni dopo.
La ‘diversità’ del Cantico dei Cantici rispetto agli altri testi biblici sembra generata da una sorta di interdetto ad accogliere nella Bibbia un testo francamente erotico. Da qui l’infinità di interpretazioni, sia in ambito ebraico che cristiano che laico. Per darvi un’idea dell’evoluzione nel tempo di questa varietà di interpretazioni vorrei farvi ascoltare che cosa pensava del Cantico Rabbì Akiba, famoso rabbino e saggio ebreo imprigionato e ucciso dai romani attorno al 132 d.C. per il suo ruolo nella rivolta di Bar Kokba. Eccola:
Il mondo intero non vale quanto il giorno in cui il Cantico fu donato a Israele, poiché tutte le Scritture sono sante ma il Cantico dei cantici è il Santo dei santi.
Qui Akiba fa uso della norma dell’ebraico che riguarda la ripetizione delle parole, per la quale come il Santo dei Santi significa il Santo per eccellenza così Cantico dei Cantici significa il Cantico per eccellenza, un canto da leggere per la sua bellezza, a patto ovviamente di comprenderla. Leggerlo come un canto erotico umano è una possibile maniera di capirlo, ma Akiba non si sbilancia oltre.
Circa un secolo dopo questo giudizio, Origene, giovane brillante studente del Didaskaleion, famosa scuola teologica di Alessandria d’Egitto, nel 202 d.C. si trovò improvvisamente privo di mezzi quando il padre fu messo a morte nella persecuzione di Settimio Severo, che vietava appunto il proselitismo giudaico e cristiano. Origene si mise allora (a 17 anni! e senza alcun titolo riconosciuto) a insegnare per sostenere la famiglia. Il suo insegnamento pare fosse allora fondato tutto e soltanto sulle Scritture. Il suo tenore di vita era improntato a un rigido ascetismo. Asceti, del resto, erano quasi tutti i predicatori religiosi e i filosofi del tempo. A questo periodo risale anche la sua evirazione, mutilazione volontaria probabile conseguenza del desiderio del giovane maestro di evitare sospetti in una scuola frequentata anche da donne. Probabilmente sì è trattato di un’interpretazione eccessivamente letterale dell’invito a farsi eunuchi per il Regno dei Cieli (Mt, 19, 12).
Successivamente Origene riprese gli studi e divenne il pioniere dell’interpretazione allegorica della Scrittura. Ecco che cosa pensava Origene del Cantico:
Beato colui che penetra nel Santo, ma ben più beato colui che penetra nel Santo dei santi. Beato chi comprende e canta i cantici della Scrittura, ma ben più beato colui che canta e comprende il Cantico dei cantici.
È chiaro da questo giudizio che per Origene capire il Cantico significa trovare la chiave giusta per risalire dal testo all’interpretazione allegorica più convincente, (o, forse, più edificante). Quanto di più lontano dall’evidenza della semplice lettura testuale come poema erotico.
Bisognerà arrivare ai tempi nostri per trovare un giudizio del Cantico che ne riconosca la natura fondamentale di canto erotico umano. Questo riconoscimento è dovuto a Dietrich Bonhoeffer, il pastore luterano impiccato dai nazisti nel carcere di Flossenbürg, per espresso ordine di Hitler, il 9 aprile 1945. Bonhoeffer era nato nel 1906 a Breslavia e la sua famiglia apparteneva all’alta borghesia dell’impero austroungarico. Per parte materna era di tradizione cristiana, ma non praticante. Dal 1912 la famiglia si trasferì a Berlino per seguire il padre Karl, eminente psichiatra con cattedra all’università di Breslavia, che nel 1912 accettò la nomina alla cattedra di psichiatria e neurologia a Berlino. Divenne così la persona più autorevole nel campo in tutta la Germania. Il suo insegnamento si caratterizzava per il rifiuto di ogni tipo di teoria confusa quali quelle religiose. L’autorevolezza della cattedra gli consentì di mantenersi saldo in questo rifiuto.
Personalmente aveva verso la psicanalisi e verso ogni altra forma di religione un atteggiamento che si potrebbe definire agnostico. Pur non personalmente credente rispettava l’attenzione che la moglie riservava all’educazione religiosa dei figli. Ciò non gli impediva di trasmettere ai figli, anche solo con un’alzata di sopracciglio, la propria insofferenza per ogni forma di sciatteria nell’esprimersi e di insegnar loro a parlare solo quando avevano qualcosa da dire. Negli scritti del figlio Dietrich questa caratteristica essenzialità è evidente, soprattutto nelle parti teologiche delle lettere dal carcere.
Sentiamo da una di queste che cosa pensa Dietrich del Cantico:
Dio e la sua eternità vogliono essere amati con tutto il cuore; non in modo che ne risulti compromesso o indebolito l’amore terreno, ma in un certo senso come cantus firmus, rispetto al quale le altre voci della vita suonano come contrappunto … Nella Bibbia c’è il Cantico dei Cantici e non si può pensare un amore più caldo, sensuale, ardente di quello di cui esso parla. È davvero una bella cosa che appartenga alla Bibbia, alla faccia di tutti coloro per i quali lo specifico cristiano consisterebbe nella moderazione delle passioni (dove esiste mai una tale moderazione nell’Antico Testamento?). Dove il cantus firmus è chiaro e distinto, il contrappunto può dispiegarsi col massimo valore.
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È evidente in queste parole la consapevolezza di quanti danni abbia fatto l’idea della separazione tra corpo e anima e quella di considerare impuro tutto ciò che è sessuale (omnia munda mundis!) Se la sessualità fosse davvero una cosa ‘sporca’ da usare solo come remedium concupiscentiae e/o per procreare, dovremmo forse accusare Dio di averci creato malignamente maschi e femmine? Alla contrapposizione tra corpo e anima Dietrich Bonhoeffer sostituisce l’analogia con la teoria musicale del contrappunto che permette di riservare per l’amore divino, senza alcuna limitazione, il ruolo di cantus firmus e a quello terreno il suo contrappunto.
Di qui l’esaltazione del Cantico come poema erotico nel quale l’incanto reciproco nell’ammirazione del corpo dell’altro/a, e la tenerezza nel cercarsi e ritrovarsi di lei e lui, si esprime senza riserve, e in cui il creato, la natura giocano un importante ruolo di paragone e riferimento. Altre interpretazioni sono possibili ma nulla possono o devono togliere al significato principale, al canto d’amore umano, che deve rimanere libero da ipotetici e arbitrari vincoli di moderazione.
È così che possiamo recuperare la capacità di meravigliarci del creato, capacità che abbiamo perso perché immersi nell’ossessione di un amore vissuto come possesso e licenza di sfruttamento. La gravità di questa ossessione è evidente se si pensa ai tanti che in gondola nei rii di Venezia invece di ammirare ciò che li circonda passano il tempo a guardare gli smartphone o a farsi selfie, o davanti a un tramonto pensano solo a fotografarlo senza goderne, per continuare a possederlo.
E da queste piccole cose a cose via via ben più gravi fino ad uccidere per la paura di poter perdere la persona, diciamo così, amata, che per una falsa idea di relazione viene intesa come proprietà esclusiva; e allora l’amore si trasforma in odio, la tenerezza in violenza.
Come molti altri testi biblici anche il Cantico non sfugge alla sorte di essere un testo più citato che letto. Questo è vero soprattutto nell’ambiente cattolico, dove fino al Concilio Vaticano II la lettura senza guida dell’Antico Testamento in particolare e della Bibbia in genere, era proibita ai semplici fedeli e addirittura passibile di scomunica. Forse il versetto più citato è “l’amore è forte come la morte”, magari trasformato in “l’amore è forte più della morte”, che staccato dal contesto perde buona parte del suo significato.
Molti commenti mi hanno fatto venire il rimpianto di non conoscere l’ebraico, perché fanno capire che leggere il testo originale e non le traduzioni aggiunge poesia a poesia, per il gioco della ripetizione di suoni che sono una musica nel testo; sappiamo che tradurre è sempre tradire, per l’impossibilità di trovare parole in un’altra lingua che esprimano esattamente il significato del testo, ma nel Cantico si aggiunge l’impossibilità di riprodurre in un’altra lingua i suoni che evocano le immagini. Qualche piccolo esempio spero di riuscire a farlo, cominciando dal secondo versetto che vi obbligherà a fare delle prove di pronuncia, ma non renderà certo quanto se fosse letto da un ebreo.
Per preparare questo invito a leggere il Cantico ho consultato svariati testi e svariate traduzioni, trovandomi abbastanza spesso di fronte a traduzioni decisamente opposte. Alcune differenze possono essere considerate ininfluenti, come il nome dei fiori a cui la lei del Cantico è paragonata, ad esempio margherita e papavero invece di narciso e giglio, ma altre ne cambiano completamente il senso, come il tempo dei verbi.
Sono arrivata perciò alla decisione di proporvi di volta in volta o il testo più chiaro e poetico o due traduzioni divergenti, commentandole ma lasciando a voi la scelta di quella che vi sembra più appropriata.
Vorrei anche cambiare il modo di presentarvi il testo, rimandando alla prossima volta le informazioni su data e luogo di composizione, attribuzione di autore, panoramica sui commenti allegorici e simbolici e sull’esegesi del testo. Stasera punterò soprattutto sulla lettura e attualizzazione di una parte del testo. Capiremo così perché Girolamo consigliava di leggere il Cantico dopo i 60 anni e perché venga attribuito a Salomone che l’avrebbe composto nella sua età giovanile, quando scopre che l’amore è relazione con un altro da sé, con la persona che Dio ci ha posto di fronte.
Vi accenno solo il fatto che il Cantico è al femminile, visto che protagonista principale è una donna, una giovane donna innamorata, che parla in prima persona, il secondo protagonista che intreccia con lei i canti di tenerezza e meraviglia è un giovane uomo e che fanno loro contorno un coro di fanciulle di Gerusalemme e uno di giovani e, forse, una voce solista. Il tutto immerso in un ambiente primaverile carico di profumi e di fiori, con immagini di colombe, pecore, capre; bellezza della natura che si confronta con la bellezza di un amore senza falsi pudori, senza i tabù di cui siamo stati e siamo vittime. Come ci dice il Cantico l’amore è fiamma divina, l’amore umano sessuale è immagine dell’amore di Dio per l’umanità.
Il testo può essere suddiviso in vari modi e non sempre è chiaro chi parla, mi vien da dire che più traduzioni ho letto più in alcune parti mi si sono confuse le idee su chi dice cosa. Inoltre, come avviene anche in altri testi biblici, ad esempio i salmi, ci sono imprevedibili oscillazioni tra la seconda e la terza persona, con conseguenti problemi interpretativi. Penso che il primo suggerimento che si può dare è leggere il Cantico come un’affascinante poesia d’amore e solo dopo averlo gustato cominciare a ragionarci su. Enzo Bianchi ha fatto una traduzione per me molto bella e poetica, che vi proporrò come confronto, perché, come i due innamorati, Bianchi non ha paura delle parole.
Nel leggere, osservate come vengono descritti reciprocamente i corpi dei due innamorati: ogni volta le diverse parti del corpo sono paragonate a elementi della natura o a animali o a costruzioni umane, la descrizione va per ciascuno dei due una volta dalla testa ai piedi e una volta viceversa, e si intuisce che i corpi sono nudi o appena velati. Notate gli slanci e le ritrosie, ma soprattutto il continuo perdersi e cercarsi, e ritrovarsi e riperdersi e ricercarsi, perché nell’amore non ci può essere staticità, perché staticità vuol dire abitudine, noia, mancanza di interesse e slancio verso l’altro, in una parola la morte dell’amore. E i due innamorati dialogano, ricordandoci che anche la mancanza di dialogo conduce alla morte dell’amore, perché significa chiudersi all’altro, non ascoltare il tu che ci sta di fronte.
Una domanda che ci possiamo porre è se tra i due giovani l’amore come amplesso è solo sognato o è realizzato. Canto onirico di due promessi sposi visto che soprattutto lei sembra sognare la conclusione logica di un amore che è meraviglia e estasi reciproca? O ci troviamo davanti a un amore realizzato anche fisicamente, anche se al di là delle regole? Interrogativi senza risposta, le interpretazioni di esegeti validissimi portano a conclusioni opposte. Inoltre, poiché i titoli non appartengono al testo biblico, un buon numero di commentatori sono concordi che indicare lei e lui sempre come sposa e sposo è improprio, perché il testo non parla di matrimonio; anzi uno dei problemi per l’inserimento nei canoni ebraico e cristiano è stato, oltre l’assenza del nome del Signore, l’assenza di qualunque riferimento a figli e discendenza, che per gli ebrei indicavano l’immortalità.
Penso che ognuno di noi a questo punto sia libero di scegliere la versione che più si avvicina al proprio modo di sentire, a come meglio il testo risuona nella sua esperienza di vita e di relazione. Nel leggere il Cantico ricordate che in esso è descritta la corporeità dell’amore senza ipocrisie, perché la contemplazione del corpo è frutto di amore e non di desiderio di possesso; immergetevi nei profumi, nella tenerezza, nei colori e nei suoni della natura, nella fisicità di un amore vissuto intensamente e casto. E vedremo la prossima volta come la purezza di questo amore abbia portato i commentatori soprattutto medievali a vedere nello sposo Dio o Gesù e nella sposa l’anima, o la Chiesa, o Maria.
Potremmo dire in ogni caso, senza timore di smentita, che il Cantico canta l’Amore con la A maiuscola col pieno coinvolgimento di sentimenti, emozioni e corporeità.
Cominciamo a leggere confrontando tre versioni dei primi quattro versetti, ma prima dovete fare un esercizio, che vi chiarirà subito il mio dispiacere di non saper leggere e pronunciare l’ebraico.
In ebraico la sua bocca si dice “pihû”: provate a pronunciarlo e concentratevi su come dovete atteggiare le labbra: noterete che la posizione delle labbra è uguale a quella che le labbra hanno quando si dà un bacio. Quindi Mi baci con i baci della sua bocca fa immedesimare chi legge o canta nell’azione del dare un bacio.
Non conoscendo l’ebraico perdiamo anche il gioco dei suoni delle due parole shem (nome) e shémen (profumo), che ci dicono che basta il nome per sentire il profumo dell’amato e perdiamo poi la dolcezza del temine dodì, (mio tesoro, mio diletto, mio amato nelle diverse traduzioni).

1 Il Cantico dei Cantici di Salomone.
2 Mi baci coi baci della sua bocca!
poiché migliori del vino sono le tue carezze,

3 all’odore i tuoi profumi sono buoni;
profumo di Turak è il tuo nome;
per questo le ragazze ti amano!

4 Tirami dietro a te, corriamo!
Il re mi ha introdotto nelle sue stanze;
esultiamo e gioiamo in te;
Lodiamo le tue carezze più del vino!
A ragione esse ti amano!
{versione Elena Bosetti}

[1] Cantico dei cantici, che è di Salomone.
[2] Mi baci con i baci della sua bocca!
Sì, le tue tenerezze sono più dolci del vino.

[3] Per la fragranza sono inebrianti i tuoi profumi,
profumo olezzante è il tuo nome,
per questo le giovinette ti amano.

[4] Attirami dietro a te, corriamo!
M’introduca il re nelle sue stanze:
gioiremo e ci rallegreremo per te,
ricorderemo le tue tenerezze più del vino.
A ragione ti amano!
{versione CEI}

2 Mi baci con i baci della sua bocca!
Si, i tuoi abbracci mi eccitano più del vino.
Il tuo odore è profumo inebriante,
il tuo nome aroma che si impone,
perciò le ragazze si innamorano di te.
Prendimi, corriamo!
Sei un re, fammi venire dentro:
godremo, ti farò festa.
I tuoi abbracci migliori del vino.

Mille ragioni per innamorarsi di te. {Bianchi}
Notate come nel versetto 2 si passi dal lui al tu, per poi tornare alla terza persona e poi alla seconda nel versetto 4. Ed ecco proprio al versetto 4 una prima difficoltà, certo non banale, perché un verbo al passato [mi ha introdotta] ha un significato molto diverso da un verbo al congiuntivo [mi introduca]. Se infatti accettiamo la versione al passato abbiamo una lei che ricorda momenti di intimità già avvenuti, se invece accettiamo la versione al congiuntivo abbiamo una lei che sogna un amplesso non ancora realizzato.
Tutto il cantico è giocato sulla tensione verso l’unione fisica dei due innamorati ed è da molti commentatori interpretato come una serie di sogni stimolati dal desiderio che finalmente l’unione si realizzi: ma se usiamo i verbi al passato siamo obbligati a pensare a un qualcosa di già avvenuto. Questa seconda interpretazione la troviamo nel commento di Enzo Bianchi (L’amore umano nel Cantico dei cantici), in quello di Elena Bosetti e anche nella traduzione di Standaert, che però nel commento riprende la forma “mi faccia entrare, il re, nelle sue stanze”. Anche il commento di Mazzinghi presuppone che l’unione tra i due innamorati sia reale e non solo un sogno in attesa di realizzazione, facendo riferimento a una prevista possibilità rituale che i promessi, ormai in vista delle nozze, potessero avere rapporti sessuali.
Il testo originale si presta a traduzioni diverse e quindi a interpretazioni diverse, e non di rado il testo viene modificato dal commentatore per costringerlo alle proprie idee preconcette o alle proprie paure. Perché un canto d’amore umano così libero può anche far paura. Un’ultima osservazione: avete notato che Bianchi traduce abbracci e non semplici carezze?
Andiamo avanti con la descrizione che lei fa di sé, cui farà seguito un duetto tra i due innamorati:
Cap. 1,5-7
5 Bruna sono ma bella,
o figlie di Gerusalemme,
come le tende di Kedar,

come le cortine di Salomone.
6 Non state a guardare se sono bruna,
perché il sole mi ha abbronzato.
I figli di mia madre si sono sdegnati con me:
mi hanno messo a guardia delle vigne;
ma la mia vigna, proprio la mia, non l’ho custodita.

7 Dimmi, o amore dell’anima mia,
dove vai a pascolare le greggi,
dove le fai riposare al meriggio,
perché io non debba vagare
dietro le greggi dei tuoi compagni?

Un’altra traduzione Sono scura di pelle, io, ma affascinante, rende a mio parere meglio la descrizione di sé. L’essere chiara di pelle era un vanto per le donne ebree cittadine e quindi l’essere scura era una diminuzione della bellezza: lei afferma con decisione che questo non è vero, lei è affascinante e si paragona sia alle tende di Kedar, tende, brune, dei nomadi nel deserto, che alludono alla vita fuori dalla città, sia a uno splendido ornamento della reggia, le ‘cortine di Salomone’, che alludono invece al lusso della città. In tutto il cantico troveremo questo alternarsi di campagna e città, tra due modi di essere popolare e regale, tra l’amato che porta le greggi al pascolo o è paragonato a Salomone, tra l’amata che custodisce la vigna o che viene detta ‘figlia di nobile’.
Bianchi riguardo all’abbronzatura traduce “è il sole che a lungo mi ha guardata”: ovviamente io non sono in grado di giudicare le diverse traduzioni, ma questa mi sembra deliziosa, lei è così affascinante che anche il sole indugia a guardarla.
Lei dunque è abbronzata, e accusa i fratelli di essere causa del suo essere scura, in quanto l’hanno messa a guardia delle vigne. Ritroveremo i fratelli alla fine del Cantico.
L’immagine della vigna è chiaramente un riferimento alla sessualità della donna, che afferma così la sua libertà di correre dietro all’amato e la libertà dell’amore da vincoli familiari e culturali. L’amore non si può imporre o negare in nome di nessuna legge, l’amore non conosce vincoli.
In tutti i brani che leggeremo fate attenzione alle parole che definiscono i due giovani: lei è amica, amata, sposa, sorella, amante, lui è amico, ma soprattutto amante, tesoro, diletto, in ebraico per 26 volte dodì, mio tesoro, mio diletto. Lui è per lei un re e lei per lui una regina: e questo non ci stupisce perché è il linguaggio di sempre tra due innamorati. Notate anche come viene chiamato l’innamorato: “amore dell’anima mia” o “amore della mia vita”, cioè un amore totale che coinvolge tutto l’essere.
Continuiamo la lettura del cap. 1: il coro risponde alla domanda di lei, dove lui pascoli il gregge e alla risposta segue un duetto tra lei e lui che continua nel cap. 2,1-6
8 Se non lo sai tu, bellissima tra le donne,
segui le orme del gregge
e pascola le tue caprette
presso gli accampamenti dei pastori.
[coro]
9 Alla puledra del cocchio del faraone
io ti assomiglio, amica mia.

10 Belle sono le tue guance fra gli orecchini,
il tuo collo tra i fili di perle.
11Faremo per te orecchini d’oro,
con grani d’argento
. [lui]

12 Mentre il re è sul suo divano,
il mio nardo effonde il suo profumo.

13 L’amato mio è per me un sacchetto di mirra,
passa la notte tra i miei seni.

14 L’amato mio è per me un grappolo di cipro
nelle vigne di Engàddi.
[lei]

15 Quanto sei bella, amata mia, quanto sei bella!
Gli occhi tuoi sono colombe.
[lui]

16 Come sei bello, amato mio, quanto grazioso!
Erba verde è il nostro letto,
17 di cedro sono le travi della nostra casa,
di cipresso il nostro soffitto.
[lei]
21 Io sono un narciso della pianura di Saron,
un giglio delle valli.
[lei]

2 Come un giglio fra i rovi,
così l’amica mia tra le ragazze
. [lui]

3 Come un melo tra gli alberi del bosco,
così l’amato mio tra i giovani.
Alla sua ombra desiderata mi siedo,
è dolce il suo frutto al mio palato.

4 Mi ha introdotto nella cella del vino
e il suo vessillo su di me è amore.

5 Sostenetemi con focacce d’uva passa,
rinfrancatemi con mele,
perché io sono malata d’amore.

6 La sua sinistra è sotto il mio capo
e la sua destra mi abbraccia.
[lei]

Per quel che riguarda le esclamazioni di ammirazione di lui alla vista di lei si può fare riferimento sia a Gen 1 che a Gen 2; infatti in Gen 1 Dio, osservando l’ultima opera della sua creazione, vide che l’umanità creata a sua immagine e somiglianza era molto bella. Siamo abituati a leggere che Dio vide che era molto buono, ma il termine ebraico vuol dire anche molto bello.
In Gen 2 abbiamo invece l’esclamazione gioiosa di Adàm al suo risveglio quando per la prima volta vede la donna; se non ci fermiamo alla traduzione italiana ma andiamo a considerare i termini ebraici riusciamo a mettere in evidenza l’appartenenza reciproca dei mitici progenitori che si chiamano ishishà. Ish e ishà si scoprono uno di fronte all’altro in una relazione di reciprocità in cui sono nudi e non provano alcun imbarazzo, non ne provano neanche quando Dio passeggia nel Giardino e infatti non si nascondono. Solo dopo aver ceduto alla tentazione scopriranno la nudità come un modo di essere di cui provare vergogna e nascondendosi imporranno al Signore la domanda: “Adamo, dove sei?”.
Il lui e la lei del cantico sono come ish e ishà, nella purezza dei loro sentimenti possono guardarsi o pensarsi nudi e ammirarsi senza vergogna come prima dell’episodio della tentazione; quella che sembra una condanna di Dio nei confronti di Eva, la passione della donna verso l’uomo che la dominerà, diventa nel cantico, come vedremo poi, anche passione dell’uomo verso la donna, con esplicita reciprocità di passione.
L’incanto dei due innamorati nell’ammirazione del corpo dell’altro/a indica come sia importante la corporeità e, ripeto, quanti danni abbia fatto l’idea della separazione tra corpo e anima e il considerare impuro tutto ciò che è riferibile alla sessualità.
Tutti i sensi sono coinvolti nell’esprimere la bellezza dell’altra/altro: la vista, ovviamente, ma anche l’udito, pensate al sobbalzare al suono della voce, l’odorato, con il paragone del nome al profumo, il gusto, con il sapore dei frutti freschi e secchi preparati per l’amato, il tatto, con ad esempio al cap. 2,6 e al cap. 8,3: ‘la sua sinistra sotto il mio capo/ e la sua destra mi abbraccia’.
La tenerezza caratterizza il cercarsi e trovarsi di lei e lui, e si esplicita nel guardarsi, ammirarsi con animo innocente, con lo stupore della scoperta reciproca, senza alcuna prevaricazione e senza isolarsi, ma coinvolgendo nella propria gioia gli amici. Che contrasto con Qohelet “Trovo che amara più della morte è la donna, la quale è tutta lacci: una rete il suo cuore, catene le sue braccia”!
Leggiamo ancora una descrizione del corpo di lei e di quello di lui, dal cap. 4 quando parla lui
1 Quanto sei bella, amata mia, quanto sei bella!
Gli occhi tuoi sono colombe,
dietro il tuo velo.
Le tue chiome sono come un gregge di capre,
che scendono dal monte Gàlaad.

2 I tuoi denti come un gregge di pecore tosate,
che risalgono dal bagno;
tutte hanno gemelli,
nessuna di loro è senza figli.

3 Come nastro di porpora le tue labbra,
la tua bocca è piena di fascino;
come spicchio di melagrana è la tua tempia
dietro il tuo velo.

4 Il tuo collo è come la torre di Davide,
costruita a strati.
Mille scudi vi sono appesi,
tutte armature di eroi.

5 I tuoi seni sono come due cerbiatti,
gemelli di una gazzella,
che pascolano tra i gigli
.
6 Prima che spiri la brezza del giorno
e si allunghino le ombre,
me ne andrò sul monte della mirra
e sul colle dell’incenso.

7 Tutta bella sei tu, amata mia,
e in te non vi è difetto.

8 Vieni dal Libano, o sposa,
vieni dal Libano, vieni!
Scendi dalla vetta dell’Amana,
dalla cima del Senir e dell’Ermon,
dalle spelonche dei leoni,
dai monti dei leopardi.

9 Tu mi hai rapito il cuore,
sorella mia, mia sposa,
tu mi hai rapito il cuore
con un solo tuo sguardo,
con una perla sola della tua collana!

10 Quanto è soave il tuo amore,
sorella mia, mia sposa,
quanto più inebriante del vino è il tuo amore,
e il profumo dei tuoi unguenti, più di ogni balsamo.

11 Le tue labbra stillano nettare, o sposa,
c’è miele e latte sotto la tua lingua
e il profumo delle tue vesti è come quello del Libano.

12 Giardino chiuso tu sei,
sorella mia, mia sposa,
sorgente chiusa, fontana sigillata.

13 I tuoi germogli sono un paradiso di melagrane,
con i frutti più squisiti,
alberi di cipro e nardo,

14 nardo e zafferano, cannella e cinnamòmo,
con ogni specie di alberi d’incenso,
mirra e àloe,
con tutti gli aromi migliori.

15 Fontana che irrora i giardini,
pozzo d’acque vive
che sgorgano dal Libano.

Dal cap. 6 quando parla lei
9 Che cosa ha il tuo amato più di ogni altro,
tu che sei bellissima tra le donne?
Che cosa ha il tuo amato più di ogni altro,
perché così ci scongiuri?
[coro]

10 L’amato mio è bianco e vermiglio,
riconoscibile fra una miriade.

11 Il suo capo è oro, oro puro,
i suoi riccioli sono grappoli di palma,
neri come il corvo.

12 I suoi occhi sono come colombe
su ruscelli d’acqua;
i suoi denti si bagnano nel latte,
si posano sui bordi.

13 Le sue guance sono come aiuole di balsamo
dove crescono piante aromatiche,
le sue labbra sono gigli
che stillano fluida mirra.

14 Le sue mani sono anelli d’oro,
incastonati di gemme di Tarsis.
Il suo ventre è tutto d’avorio,
tempestato di zaffiri.

15 Le sue gambe, colonne di alabastro,
posate su basi d’oro puro.
Il suo aspetto è quello del Libano,
magnifico come i cedri.

16 Dolcezza è il suo palato;
egli è tutto delizie!
Questo è l’amato mio, questo l’amico mio,
o figlie di Gerusalemme.

I brani letti ci permettono di definire solo vagamente il tempo e l’ambiente in cui si svolge la vicenda dei due innamorati. Non è facile dare indicazioni in questo campo, anche perché le traduzioni di alcune strofe sono talvolta divergenti, nel senso che gli avvenimenti possono essere visti svolgersi all’alba o al tramonto, e questo cambia anche l’interpretazione.
Di sicuro siamo in primavera, come dicono i versetti 11-13 del capitolo 2:
11 Perché, ecco, l’inverno è passato,
sono finite le piogge, sono scomparse.

12 Sulla nostra terra compaiono dei fiori.
Viene la stagione dei canti gioiosi
E il tubare della tortora si fa sentire,
sulla nostra terra.

13 Il fico forma i suoi primi frutti
e le viti in fiore esalano il loro profumo
.

Scusate una piccola disgressione: ma ci rendiamo conto di quanto e di quanta bellezza noi popoli così detti civilizzati, moderni ci siamo persi? Abbiamo le zucchine e i pomodori a gennaio, le arance a luglio, ma non abbiamo la gioia di godere dei profumi e dei colori che ci danno i segni dei tempi. Ancora un mio piccolo pensiero: papa Francesco avrà pensato a questi e simili versetti del Cantico quando ha scritto la Laudato si’?
Torniamo al Cantico. Siamo in presenza di due notturni, due notti nelle quali lei, probabilmente nel sogno, vaga per la città alla ricerca del suo amore.
Ascoltiamo prima i versetti 1-4 del cap. 3:
1 Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato
l’amore dell’anima mia;
l’ho cercato, ma non l’ho trovato.

2 Mi alzerò e farò il giro della città
per le strade e per le piazze;
voglio cercare l’amore dell’anima mia.
L’ho cercato, ma non l’ho trovato.

3 Mi hanno incontrata le guardie che fanno la ronda in città:
«Avete visto l’amore dell’anima mia?».

4 Da poco le avevo oltrepassate,
quando trovai l’amore dell’anima mia.

Lo strinsi forte e non lo lascerò,
finché non l’abbia condotto nella casa di mia madre,
nella stanza di colei che mi ha concepito.

5 Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme,
per le gazzelle o per le cerve dei campi:
non destate, non scuotete dal sonno l’amore,
finché non lo desideri.

Poi i versetti 6-8 del cap. 5:
6 Ho aperto allora all’amato mio,
ma l’amato mio se n’era andato, era scomparso.
Io venni meno, per la sua scomparsa;
l’ho cercato, ma non l’ho trovato,
l’ho chiamato, ma non mi ha risposto.

7 Mi hanno incontrata le guardie che fanno la ronda in città;
mi hanno percossa, mi hanno ferita,
mi hanno tolto il mantello
le guardie delle mura.

8 Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme,
se trovate l’amato mio
che cosa gli racconterete?
Che sono malata d’amore!

Notate prima di tutto la ripetizione per quattro volte di l’amore dell’anima mia nel primo brano e per tre volte di l’amato mio nel secondo, ripetizioni che vogliono evidenziare l’intensità dell’amore. La ricerca dell’amato scomparso non conosce prudenza e sfida tutti i rischi. Immaginate una ragazzina che sola, di notte, va in giro per la città, chiedendo a chiunque trova se ha visto il suo amore: se la prima volta le è andata bene, è stata ignorata dalle guardie, non così la seconda, quando è stata scambiata per una prostituta ed è stata ferita. Ha sfidato tutte le convenzioni sociali e anche il normale buon senso: è innamorata, è malata d’amore! Ma per ben due volte non ha trovato il suo amore.
Provate a trasferire al giorno d’oggi questa ricerca notturna. Sarò pessimista, ma non penso che un simile comportamento si risolverebbe bene, lei sarebbe vista come facile preda sessuale da buona parte dei girovaghi notturni.
L’amore però non conosce limiti né riflessioni di opportunità: chi è “malata d’amore” ha fisso in mente un solo scopo, cercare e ritrovare chi si ha paura di avere perso, e questo ce lo conferma anche la ricerca diurna.
Infatti dal cap. 1
7 Dimmi, o amore dell’anima mia,
dove vai a pascolare le greggi,
dove le fai riposare al meriggio,
perché io non debba vagare
dietro le greggi dei tuoi compagni?
[lei]
8 Se non lo sai tu, bellissima tra le donne,
segui le orme del gregge
e pascola le tue caprette
presso gli accampamenti dei pastori.
[lui]

Incurante del caldo del meriggio, che doveva essere notevole nelle zone desertiche, e del pericolo del girare da sola tra gli accampamenti dei pastori, lei va alla ricerca del suo amato, perché
3 Io sono del mio amato/ e il mio amato è mio;/ egli pascola tra i gigli. (cap. 6,3) e (cap. 7,11)
11 Io sono del mio amato/ e il suo desiderio è verso di me.
Versetto che, come vi accennavo prima, ribalta quello di Gen 3,16, in cui Dio sanziona Eva che desidererà, bramerà l’uomo e ne verrà dominata; qui nel Cantico il desiderio è reciproco e casto, frutto di amore e non di possesso.
Sappiamo bene come in questi tempi all’origine di tante aggressioni e uccisioni di donne ci sia un amore vissuto non come dono reciproco, pur con tutti i problemi che possono esserci in una vita di coppia, ma come possesso, quasi sempre dell’uomo sulla donna, geloso e irrazionale, ossessivo ed escludente.
Adesso voglio brevemente accennare al fatto che in tutto il Cantico non compare mai il nome di Dio, né come tetragramma sacro né come Elhoim o Adonai, e anche questo è stato un problema per l’inserimento del Cantico nel canone ebraico e di conseguenza in quello cristiano.
Leggiamo dal cap. 8 i versetti 6 e 7
6 Mettimi come sigillo sul tuo cuore,
come sigillo sul tuo braccio;
perché forte come la morte è l’amore,
tenace come il regno dei morti è la passione:
le sue vampe sono vampe di fuoco,
una fiamma divina!

7 Le grandi acque non possono spegnere la’amore
né i fiumi travolgerlo.
Se uno desse tutte le ricchezze della sua casa
in cambio dell’amore, non ne avrebbe che disprezzo.

Questo è l’unico versetto in cui viene nominato, seppure come abbreviazione JAH, il nome di Dio, e certo non è un caso. Il versetto andrebbe commentato in ogni singola parola, ma mi soffermo solo su perché forte come la morte è l’amore, e le sue vampe sono vampe di fuoco, /una fiamma divina!
È questo un importante elogio dell’amore e della passione, considerati forti e potenti come la morte che nessuno può sconfiggere. Anzi l’amore è un fuoco che viene da Dio e perciò supera ogni potenza terrena, fuoco, acqua, trascende perfino la morte.
L’amore umano quindi è paragonabile all’amore divino per l’umanità, è relazione tra i due che si amano che va vissuta con pienezza come fiamma, scintilla divina che scalda e dà vita. L’acqua per quanto travolgente non può spegnere il fuoco dell’amore.
E se l’amore è fatto oggetto di acquisto, anche con enormi ricchezze, diventa possesso e non reciprocità, in una parola prostituzione.
Ma nessuna ricchezza può comprare l’amore vero, fiamma che viene da Dio.
L’amore tra i due giovani è perciò esigente e, se pure coinvolge nella gioia le amiche e gli amici, rivendica l’unicità dell’amata/amato al di sopra delle ricchezze e della possibilità di scelta tra numerose donne: infatti al cap. 6, 8-9
8 Siano pure sessanta le mogli del re,
ottanta le concubine,
innumerevoli le ragazze!

9 Ma unica è la mia colomba, il mio tutto,
unica per sua madre,
la preferita di colei che l’ha generata.
La vedono le giovani e la dicono beata.
Le regine e le concubine la coprono di lodi
.

Se penso alle tante mogli e concubine di Salomone questi versetti mi sembrano quasi ironici.
Lasciamo alla prossima volta il commento di altri versetti importanti soprattutto per capire le letture allegorico/spirituali che sono state fatte del Cantico e l’uso del Cantico stesso nella liturgia in occasioni che non ci aspetteremmo, diverse cioè dall’uso prevedibile nella liturgia del matrimonio.
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One Response to Cantico dei Cantici

  1. […] Gli editoriali di Aladinews. Beato chi comprende e canta i cantici della Scrittura, ma ben più beato colui che canta e comprende il Cantico dei cantici. Cantico dei Cantici Carlamaria Cannas – San Rocco 4 marzo 2018 ——————————————– […]

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