Claudio Napoleoni

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Claudio Napoleoni, L’ultima domanda
di RANIERO LA VALLE

claudionapoleoni05In un saggio limpido e accorato si racconta con emozione l’ultimo tratto della strada terrena di un grande uomo e grande intellettuale, il cui insegnamento è stato uno dei più alti del Novecento.

Premessa eddyburg
di Edoardo Salzano su eddyburg
È certamente per ragioni personali che ho raccolto, letto e rieditato per i lettori di eddyburg questo lungo testo di Raniero La Valle su Claudio Napoleoni. In anni molto lontani, alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, ho conosciuto e frequentato Claudio a casa del mio maestro Franco Rodano e ho avuto la fortuna di imparare molto da lui. Da allora ho cercato di seguirlo nei suoi scritti, sebbene le vicende della vita mi abbiano allontanato dalle amicizie, dai luoghi e dalle passioni di quegli anni. Claudio era spesso presente a casa di Franco e Marisa Rodano quando ragionavamo sui temi della mia competenza disciplinare (la città e l’urbanistica), e imparavo dai miei mentori a vederle in un quadro di storie e di saperi (e di emozioni) più vaste e più elevate di quelle nelle quali ero solito collocarle. Raccolsi più tardi i frutti delle discussioni di quegli anni nel libretto Urbanistica e società opulenta (Laterza, 1969)

Da quegli anni ho sempre cercato di seguirlo nei suoi scritti, ma non ho mai più avuto l’occasione d’incontrarlo; tuttavia è sempre rimasto una guida remota per i miei pensieri. Grazie ai racconti e ai testi del comune amico Bruno Roscani l’ho ritrovato pochi mesi fa, e ho avuto da Bruno la possibilità di raggiungere e leggere l’ampio e appassionato scritto su Napoleoni di Raniero La Valle. Un testo la cui lettura è stata per me emozionante. Mi ha rivelato un uomo diverso da quello che avevo conosciuto e seguito, ma altrettanto capace di comprendere e far comprendere la complessità e la ricchezza dell’universo nel quale viviamo, la molteplicità delle dimensioni che lo rendono meritevole d’essere abitato, la suggestiva incertezza dei destini che ci attendono. E la convinzione profonda che la pace tra gli uomini, e tra la nostra razza e le altre realtà con cui lo condividiamo, sia il bene più prezioso per cui combattere. (e.s.)

Abbiamo ripreso e rieditato per eddyburg il testo che segue, di Raniero La Valle, mediante una scansione dalla rivista bimestrale bozze88, Edizioni Dedalo, luglio/agosto 1988, anno 11°, n. 4

L’ULTIMA DOMANDA
[segue]
L’ultima domanda di Claudio Napoleoni e anche la domanda ultima, quella oltre la quale non può essercene un’altra di eguale portata, perche essa decide di tutto: può l’uomo salvarsi da solo? Si può, senza il coinvolgimento di Dio, uscire dalla grande distretta in cui tutto il corso storico è venuto a concludersi? Oppure è necessario disporsi oggi a «una rinnovata cooperazione» tra Dio e l’uomo; è necessario oggi un atteggiamento religioso, non solo individuale e privato, ma collettivo e politico, «di invocazione, attesa e preparazione» dell’azione di Dio, sono necessari oggi «degli atti, delle operazioni, proprio di apertura verso la divinità, di eccezionale fervore nei confronti degli altri, degli altri, insomma, che non sono degli atti politici normali, sono degli straordinari atti di amore e di sacrificio, all’infuori dei quali da questa situazione storica non si viene fuori»?

II fatto che questa domanda sia stata l’ultima di Claudio Napoleoni, e che egli l’abbia lasciata aperta per noi mentre, sulla soglia della morte, nel culmine dell’Eucarestia con cui si disponeva ad accoglierla, con l’ultimo filo di voce ci diceva: «adesso vado a vedere come stanno le cose», ha un senso preciso. Il senso sta nello statuto laico, e vorrei dire «politico», di questa domanda, che pure e una domanda schiettamente religiosa. Essa veniva formulata infatti dalla parte dell’uomo, dalla parte della storia, al termine di un percorso intellettuale che aveva attraversato con estremo rigore tutta l’esperienza della cultura contemporanea, e che aveva tenuto ferma fino alla fine come significante la teoria marxiana dell’alienazione, ma nello stesso tempo l’aveva oltrepassata, identificando un ’alienazione più essenziale di quella specifica del capitalismo: un’alienazione, spiegava Napoleoni, che domina tutta la storia dell’Occidente e si basa sul presupposto dell’assoluta manipolabilità del mondo; in forza di essa l’uomo guarda alla cosa, all’oggetto, come a nient’altro che il «producibile», e si rapporta al mondo come a ciò che è destinato ad essere prodotto, e in questa producibilità universale finisce per trovarsi egli stesso incluso, diventando egli stesso un oggetto producibile, un prodotto, annullandosi come soggetto e rimanendo perciò contraddittoriamente identificato al suo opposto.

Questa, secondo Napoleoni, era la vera radice del generale «sistema di dominio e di guerra» che avevamo denunciato nella «lettera ai comunisti»; e dunque a questa profondità, dove si trattava di recuperare l’uomo a se stesso e di realizzare una società rifatta secondo la sua misura, si poneva la questione della costruzione della pace.

E a questo punto estremo dell’analisi che faceva irruzione il discorso su Dio. Esso non aveva preceduto la ricerca, come un «apriori» religioso, da cui dovesse discendere al modo degli integristi, un certo assetto della società; al contrario, il rapporto con Dio veniva postulato al termine di un itinerario nel quale tutte le risorse dell’azione e del pensiero erano state esperite fino in fondo, nel quale le possibilità di un’uscita teorica e politica dalla crisi storica erano state scandagliate con rigore e nel quale, in risposta alla radicalità di questa crisi, egli era pervenuto a prospettare un «compito», quello di un rapporto diverso, «non soggettivistico», tra l’uomo e il mondo, come via per la restituzione dell’uomo a se stesso, e della pace alla terra; e veniva postulato non all’interno di una riflessione religiosa, con implicazioni di carattere strettamente personale e privato, ma all’interno e come svolgimento di una riflessione politica, con implicazioni di carattere collettivo e pubblico.

Quasi echeggiando Bonhoeffer, il teologo della secolarità, Napoleoni poneva in tal modo il discorso su Dio non al di fuori o ai margini della piazza dove si discute e decide il destino della città, ma «nel centro, non nella debolezza ma nella forza… non ai confini, ma in mezzo al villaggio».

Una concezione alta della politica

Se è stata possibile questa domanda «politica» su Dio, lo è stata in forza della concezione alta che Napoleoni aveva della politica. Per lui la politica non aveva niente a che fare con le competizioni di potere, ma era intesa in senso forte, come sforzo di interpretazione della realtà, nella sua interezza, e come realizzazione di un obiettivo generale, comprensivo, avente a che fare con la condizione e il destino dell’uomo sulla terra. Qui era la sua distanza dai cultori del pensiero debole, dai teorici del frammento, da coloro che negano la dicibilità e perciò la plasmabilità del mondo; era questo, più che Marx, a dividerlo da Emanuele Severino, che nella crisi del marxismo non vede che un caso particolare dell’esaurimento di tutte le filosofie e di tutte le religioni che pretendono di misurarsi col tutto, e che sarebbero tramontate nella scienza moderna, sarebbero radicalmente e irrimediabilmente trascese dalla civiltà della tecnica, nella quale si è risolta la tradizione dell’Occidente; questa nuova civiltà conosce solo «problemi e soluzioni particolari, specifici», e sarebbe la nuova forma del divenire e dello sviluppo dell’uomo.

Ma se non si da più filosofia e religione come senso del tutto, figurarsi la politica: anch’essa non può che essere compito specialistico, ingegneria settoriale e gradualistica nella permanenza del sistema, non procedura «volta a risolvere in modo globale il problema della società umana». Napoleoni invece teneva fermo il concetto (marxiano, certo, ma non solo marxiano) della politica come attinente alla totalità sociale, come risposta razionale al problema di come organizzare la vita comune degli uomini sulla terra.

Al I Convegno di Cortona, organizzato da Bozze 86, nel quale egli fa il relatore principale sul tema della «liberazione dal dominio», avverti che «quando noi proponiamo queste cose, dobbiamo renderci conto di fare un’operazione molto lontana dalle correnti dominanti della cultura e della mentalità contemporanea; noi riproduciamo, riproponiamo infatti una visione totalizzante del mondo e della politica, di nuovo tentiamo di appropriarci della realtà come di un tutto, come di una totalità; di nuovo cerchiamo di superare il concetto della politica proprio della politologia, cioè della politica come di un insieme non necessariamente coordinato di azioni determinate e singole, relative a problemi singoli e determinati, e riconferiamo alla politica un obiettivo generale e comprensivo, che si riferisce cioè al destino dell’uomo e non a suoi particolari problemi; il che non significa che i suoi determinati e particolari problemi non devono essere affrontati, ma significa affrontarli all’interno di una visione di quello che può essere concepito come il suo destino».

E in quello stesso Convegno venne poi la risposta a Giulio Girardi che gli aveva chiesto da quale «luogo antropologico» egli parlasse quando faceva quel discorso della uscita dall’alienazione e della liberazione dal dominio, se da una cattedra di intellettuale o da un fronte di lotta, e da quale luogo geopolitico, se dal centro del sistema, dall’interno dei problemi dell’Occidente, o dalla periferia, dall’interno dei processi di liberazione del III mondo, dove le urgenze storiche del cambiamento premono ben diversamente che nette società ad alta concentrazione di tecnologia, di capitali e di Industrie.

Napoleoni rispose che il luogo da cui tentava di parlare non era il luogo accademico che gli derivava dalla sua professione, ne un particolare luogo che fosse definibile in termini antropologici, e nemmeno il luogo di un pregiudizio eurocentrico, ma era il luogo della politica, qui in Occidente, sapendo che se non si aggredisce il dominio, l’alienazione, la guerra che si annidano nel centro del sistema, nei punti più condizionanti e «più alti» del corso storico, se non si cambia la struttura del «centro», anche la questione della liberazione dei popoli della «periferia», dei popoli oppressi, e destinata a ristagnare. E aggiunse: «Io non avrei in vita mia affrontato mai una questione teoretica se non fossi stato spinto a farlo da un Interesse politico. Io ho cominciato ad occuparmi di politica nel momento in cui ho cominciato a ragionare, e ho affrontato determinate questioni anche all’interno di una determinata disciplina, solo perché mi consentivano di capire meglio la politica; e posso dire che questa forza che ha avuto la politica come luogo in cui Stare e da cui parlare, e naturalmente derivata dal fatto che la politica era concepita come lo strumento di una liberazione».

La causa della liberazione

A questa causa della liberazione Claudio Napoleoni ha dedicato tutta la sua vita, e in particolare le ultime forze della sua vita: dal «Discorso sull’economia politica» del 1985, al Convegno di Cortona del 1986, allo scambio di lettere con Cacciari su Micromega, fino alle “carte” che stava scrivendo per ripercorrere criticamente l’itinerario di Franco Rodano e dare una risposta nuova al problema che egli poneva del superamento della società fondata sul modo di produzione capitalistico, il problema cioè della rivoluzione in Occidente.

E la questione della liberazione era diventata la questione essenziale che egli poneva allo stesso partito comunista; l’aveva posta insieme a noi, come i lettori di questa rivista ben sanno, nella «Lettera ai comunisti» del 1986, e la pose con particolare forza nel gennaio di quest’anno, nell’incontro che i dirigenti comunisti avevano voluto avere con i gruppi parlamentari della Sinistra Indipendente per discutere l’elaborazione programmatica del partito: «altrimenti – disse provocatoriamente – perché chiamarsi ancora partito comunista?».

Assumere il problema della liberazione come contenuto specifico dell’impegno politico, significava per Napoleoni assumere il problema delle nuove alienazioni, in una società frantumata, che e cosa ben diversa che rendere più efficiente tale società; perché queste nuove alienazioni, per le quali l’uomo moderno è incluso dentro meccanismi pubblici e privati che ne espropriano l’autonomia, lo assoggettano alle cose, ne fanno l’elemento di una macchina e lo ambientano in una natura in via di distruzione, non sono che lo svelarsi, aggravato in ragione dell’impetuoso sviluppo della società tecnologica, di quella «vecchia cosa», di quella alienazione connessa ai meccanismi di produzione e di mercato che il marxismo, ribadiva Napoleoni, ha già analizzato e che il partito comunista farebbe male a dimenticare proprio nel momento in cui si pone sul terreno di una nuova definizione programmatica.

Nel rivolgersi in tal modo ai suoi interlocutori politici, Napoleoni non solo postulava un’esigenza, ma incoraggiava ad assumerla affermando che il processo storico era arrivato ad un punto in cui la questione dell’uscita dal capitalismo, finora definita solo in termini negativi, poteva ormai essere posta in termini positivi, affrontando tre questioni cruciali: quella del lavoro, in un progresso tecnologico non più fine a se stesso, quella femminile, intesa non come liberazione della donna, ma dell’uomo tout court, e quella della natura, sottratta ad una manipolazione in forma di dominio.

La questione della laicità

Credo che questo sia stato l’ultimo intervento in sede politica di Claudio Napoleoni. E nella sua riflessione ulteriore, braccata ormai dall’imminenza della fine, che i problemi gli si sono posti con ancora maggiore radicalità. L’impresa di un superamento della società data, dell’«uscita dal sistema di dominio e di guerra», nel quale egli vedeva non un incidente di percorso ma l’esito dell’intero corso storico, gli è apparsa in tutta la sua drammatica difficoltà; si è chiesto, riprendendo il pensiero di Rodano, se fosse sufficiente la sua fondazione della «laicità» per impostare in termini puramente politici la trasformazione di tale società; e in una lettera ad Adriano Ossicini ha posto il problema se le sole forze umane ce la facciano a tale compito, o se non si debba dire, con Heidegger, che «ormai solo un Dio ci pub salvare».

E a questo punto che e intervenuta la conversazione del 12 maggio, che appare, come sua estrema testimonianza, in questo numero della rivista. È stata una conversazione del tutto informale, tra amici, che non si pensava affatto di dover pubblicare; se è state registrata, come avevamo fatto quando avevamo discusso, tre anni fa, la «lettera ai comunisti», e stato solo perché si pensava di poterne trarre qualche elemento utile per l’imminente secondo Convegno di Cortona, del quale egli avrebbe dovuto essere relatore, e al quale invece non sarebbe potuto venire. E infatti il dialogo prese le mosse da li, dalla questione del lavoro da riformulare in una prospettiva di pace, in rapporto all’altra dimensione umana essenziale, quella della contemplazione, del «Sabato», che era appunto il tema che egli avrebbe dovuto svolgere a Cortona.

Dio perduto

Ma ben presto si giunse al punto cruciale, all’«ultima domanda», la domanda su Dio. Vi si giunse naturalmente, perché la rottura dell’equilibrio tra l’uomo e il suo lavoro, e l’origine dell’assoggettamento e del dominio, furono da lui collocate molto indietro nel tempo, all’alba della storia, nella rottura originaria tra le due dimensioni antropologiche fondamentali, del lavoro e della contemplazione, che egli vedeva rappresentate nel libro del Genesi nella duplice affermazione dell’uomo come somiglianza e dell’uomo come immagine di Dio: l’uomo, simile a Dio nel fare e nel creare, lo aveva perduto però come immagine, come l’Altro in cui riconoscersi e riflettersi, e con ciò aveva perduto anche se stesso.

Ora, al termine della parabola storica, quando la somiglianza con Dio è stata spinta al massimo della potenza, al punto di una creazione che distrugge se stessa, mentre ogni rapporto di contemplazione — di alterità — e andato perduto, è possibile rovesciare il corso delle cose senza ristabilire quel rapporto, e senza che Dio sia rimesso in gioco? Postulare ciò, pareva però a Napoleoni significare un abbandono della condizione, cara a tutta la cultura moderna, e cara anche a noi, della laicità, onde questa opzione sarebbe stata un’opzione di destra.

Su questo si sviluppò la discussione, nella quale toccò a me la parte del contraddittore; e fu un vero dialogo, nel quale le posizioni non restarono alla fine quali erano state all’inizio, perché Napoleoni sapeva stare al dialogo; sempre pronto a concedere le ragioni dell’interlocutore, ma anche tenace nel tenere e argomentare il punto, e anzi l’interrogativo, che gli sembrava essenziale. La conversazione permise di chiarire che ciò che egli rimetteva in questione, non era in effetti la laicità, ma era piuttosto l’ateismo; ma valse anche a focalizzare l’errore di quella laicità, comune a tanti credenti, che si risolve nel peggiore ateismo, perché non nega Dio, ma lo licenzia da tutti gli ambiti significativi eccedenti il puro spazio privato dell’uomo.

II dialogo consentì altresì di precisare che l’invocazione a Dio innalzata dai lacci della storia, non aveva nulla di apocalittico, non significava ricorrere all’ultima risorsa quando le forze umane vengono meno e la ragione e sconfitta, non significava rinunzia alla operazione e alla responsabilità delle creature, ma significava mettersi in stato di disponibilità e di accoglienza, e fare appello alla intera umanità dell’uomo, a un’etica più esigente di quello che un orizzonte puramente razionale e una morale solamente laica comportano.

Arricchita da queste acquisizioni, non per questo quella conversazione pretese di chiudere in una risposta la domanda che l’aveva animata. Quella domanda restò aperta; e Claudio Napoleoni, ricevuta la trascrizione del dialogo, si propose di lavorarci sopra per un eventuale uso di esso in una discussione ulteriore e più larga. Poi, nell’ultimo giorno, mi disse di utilizzarlo, se credevo, cosi com’era. E a me che gli riferivo di averlo fatto leggere all’amico biblista Barbaglio, e come egli avesse trovato che nella nostra disputa era lui ad avere ragione, rispose: «Noi non possiamo dire niente, questo e un giudizio che non può essere giudicato». Ma intanto il suo sguardo già si spingeva oltre l’«agorà» che era stata la sua casa, già si inoltrava nel Sabato, già contemplava e pregustava di «andare a vedere come stanno le cose».

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