ECONOMIA & POLITICA. Il voto dei mercati

ciambella-fm

di Roberta Carlini, su Rocca

Che fine hanno fatto i mercati internazionali? Nella lunga, estenuante e inconcludente fase politica che si è aperta dopo il 4 marzo, spicca per assenza il protagonista di tutte le emergenze italiane degli ultimi tempi: quello che secondo alcuni è il voto con il portafoglio di chi, spostando soldi da un Paese all’altro, dà implicitamente la fiducia o la sfiducia; e secondo altri è la speculazione internazionale, di chi può permettersi di giocare con le sorti di un Paese. Comunque sia, sono scomparsi. Apparentemente indifferenti alle sorti dell’Italia, passata da una lunga campagna elettorale a un parlamento incapace di esprimere una chiara maggioranza di governo. Eppure, l’Italia è la nazione con il più alto rapporto tra debito pubblico e Pil nel cuore dell’euro, un terzo del quale è piazzato all’estero; è una potenza esportatrice; il suo Nord è pienamente integrato con la filiera della produzione che va dalla Germania all’Est europeo; potrebbe diventare il primo Paese nell’Ue nel quale partiti etichettati come «populisti» raggiungono il governo, e leader che hanno urlato nelle piazze «no all’euro» potrebbero andare a sedere nell’eurogruppo; in alternativa, potrebbe trascinarsi. Eppure i famosi mercati dormono sonni tranquilli, beati. Lo spread, la differenza di rendimento tra titoli del debito pubblico italiano e quelli tedeschi, è ai minimi da un anno. La Borsa di Milano vivacchia, senza infamia e senza lode. Non si registrano fughe degli investitori, né di risparmio. Com’è possibile?

la dittatura dello spread
La storia del voto dei mercati o della «dittatura dello spread» è lunga. Un liberista convinto come Guido Carli, protagonista economico della Prima Repubblica, sosteneva che «una democrazia autentica non si manifesta soltanto attraverso il periodico esercizio del voto nell’urna elettorale, ma anche attraverso la partecipazione alle scelte di interesse collettivo. Questa partecipazione avviene in forme molteplici. Una di queste è investire liberamente il proprio risparmio in titoli emessi dallo Stato». In questo modo, sostiene Carli nella sua autobiografia («Cinquant’anni di vita italiana», Laterza 1993), il cittadino esprime «un voto quotidiano sull’operato del governo, della classe politica, scegliendo se convogliare il proprio risparmio su titoli della Repubblica o su quelli di altri Stati». Una visione di certo un po’ romantica dei mercati finanziari: l’esercizio del voto attraverso il portafoglio, anche nei tempi descritti da Carli, sarebbe comunque limitato ai soli abbienti, quelli che hanno un ammontare di risparmio sufficiente a una gestione sofisticata, affidata agli intermerdiari bancari. Ma soprattutto, il mondo e la finanza sono cambiati da allora. La velocità delle transazioni, la diffusione di strumenti di investimento dei capitali complicati, l’uso dei prodotti derivati che assicurano dal rischio, il potere di influenza delle agenzie internazionali che danno le pagelle ai Paesi (il «rating»), l’instabilità finanziaria globale: tutto ciò fa sì che oggi il «voto» dei mercati si eserciti, più che sull’operato concreto dei governi, sulle previsioni su quel che può succedere, e queste previsioni sono a loro volta influenzate da complesse interazioni di centri di potere nelle quali il merito – i «fondamentali» dell’economia di un Paese – conta fino a un certo punto. Questo dà fiato alle tesi complottiste e dietrologi- che, quasi sempre infondate o esagerate: come quelle che vedono la lunga mano di personaggi come Soros dietro ogni movimento, ed essendo il miliardario Soros ebreo rievocano anche parole e etichette che speravamo sepolte per sempre. Ma la stupidità (o il malcelato razzismo) dei complottisti non tolgono il fatto che i mercati, piuttosto che termometro della salute di un’economia, ne sono diventati in qualche modo anche gli artefici, e tra le forze che li guidano oltre alle grandezze reali, oggettive, ci sono elementi di soggettività e previsione spesso arbitrari, molto legati a quello che si pensa che succederà invece che a quel che è successo. E in questa valutazione entrano elementi molto discrezionali.
Dunque, cosa stanno aspettando «i mercati»? Una prima interpretazione della bonaccia post-4 marzo è, appunto, l’attesa. Prima di sbilanciarsi in investimenti o disinvestimenti, gli operatori aspettano che un governo si formi. Un’altra è legata al contesto internazionale, ben più preoccupante di Di Maio e Salvini: c’è il vento di protezionismo che viene dagli Usa e che mette tutta l’Europa a dura prova, gioco più grande di noi nel quale conterà quel che l’asse franco-tedesco deciderà di fare. C’è poi l’effetto positivo della politica della Bce, che fa da scudo contro speculazioni con il suo impegno a coprire il collocamento dei titoli sovrani ricomprandoli dalle banche; effetto che però a un certo punto finirà, e sarà quella – con l’aumento generalizzato dei tassi – la vera tempesta pericolosa per gli Stati più deboli, come il nostro. Infine, c’è l’attendismo delle stesse istituzioni europee, che hanno già detto che l’Italia avrà bisogno di un’ulteriore correzione ai conti pubblici ma non ne hanno decretato la necessità immediata; anche l’eurogruppo aspetta che il governo si formi prima di emanare il suo verdetto
cogente.

le nubi d’autunno
L’attesa a un certo punto finirà, e il nuovo governo dovrà decidere che atteggiamento avere verso l’Europa. E se un governo non si formerà, e avremo solo un esecutivo di transizione verso il prossimo voto? Nella finanza pubblica non si può stare «a bocce ferme». Ma in assenza di una legge di sta- bilità per il 2019 le bocce non resteranno ferme. Scatterà, per automatismo, l’aumen- to dell’Iva deciso anni fa con le «clausole di salvaguardia»: l’imposta sul consumo au- menterà, ed entreranno nelle casse pubbli- che quasi 13 miliardi. Visto che tutti – ma proprio tutti, chi più chi meno – i partiti si sono presentati alle elezioni con program- mi di aumento della spesa pubblica e con scarse o nulle indicazioni delle coperture, a prenderli alla lettera si dovrebbe pensare che qualunque governo si formasse avreb- be per esito un aumento del deficit pubblico, non una sua riduzione. Dunque, per i guardiani della stabilità dei conti pubblici uno scenario senza governo sarebbe para- dossalmente preferibile a uno scenario con governo. Senza scomodare i precedenti di Germania, Spagna, Olanda e Belgio, che negli ultimi anni hanno vissuto lunghissi- me fasi post-elettorali senza un governo pienamente investito e sono ciononostan- te sopravvissuti alla grande, basterebbe questo per capire perché l’attuale fase di stallo non impressiona moltissimo né i mercati né i censori di Bruxelles.
Questo non vuol dire che possiamo stare tranquilli. L’ipotesi di aumento dell’Iva è vista come una sciagura, e a ragione. Nel 2019 aumenterebbe dal 10 all’11,5% l’Iva agevolata, su beni di largo consumo come zucchero, latte, uova e su servizi come i lavori di manutenzione delle case (3,4 miliardi di gettito). E aumenterebbe dal 22 al 24,2% l’Iva ordinaria, su tutti gli altri beni (quasi 9 miliardi di gettito). Questa tagliola, al contrario di quanto comunemente si pensa, non è stata messa dal rigorista Monti, ma dal precedente governo Berlusconi, nel 2011, in una delle sue ultime manovre economiche. Il decreto Berlusconi-Tremonti prevedeva che scattassero i tagli, in modo lineare e senza distinzioni, per le detrazioni e agevolazioni Irpef (da quelle sui figli ai mutui ai lavori di ristrutturazione: le cosiddette tax expenditures); furono poi i governi di Monti e successivi a spostare il peso sull’Iva, sempre però dandosi da fare per evitare che la clausola di salvaguardia scattasse. Qualora questo succedesse, si avrebbero effetti redistributivi negativi ma anche effetti economici positivi. Tra questi ultimi, oltre al parziale riequilibrio del deficit e del debito pubblici, anche un aumento dell’inflazione che, visti i livelli bassi attuali, sarebbe benefico perché svaluterebbe un po’ il debito esistente e gonfierebbe i valori nominali, di fatto aiutando il raggiungimento degli obiettivi di rapporto tra deficit e Pil. Sono invece regressivi gli effetti sulla popolazione, sulle famiglie: poiché la quota di reddito che viene destinata al consumo è più alta per le famiglie più povere, si tratterebbe di fatto di una manovra a tutto vantaggio dei più ricchi. C’è un modo per evitare questo effetto, agendo all’interno delle aliquote dell’Iva? Difficile, visto che per ottenere sufficienti introiti non si può che agire su beni di largo consumo: aumentare solo l’Iva sui beni di lusso avrebbe un valore simbolico, ma scarso impatto pratico. Senza contare il fatto che aumenterebbe l’incentivo ad evadere l’imposta, cosa niente affatto difficile anche dopo le ultime manovre che ne hanno un po’ ridotto la possibilità. Ritornare ai tagli alle detrazioni e deduzioni – l’originaria «tagliola» di Berlusconi-Monti – potrebbe invece meglio, dal punto di vista dell’equità, ma solo se si agisse all’interno della selva di tax expenditures tagliando privilegi e inutili elargizioni, e salvaguardando i redditi più bassi. Ma commissioni e documenti si sono affastellati nelle stanze del ministero delle Finanze, senza riuscire a mettere mano a questo ginepraio: per la qual cosa serve intenzione e forza politica, non certo alla portata di un governo senza maggioranza e «balneare». Insomma, la clausola-tagliola messa a suo tempo da un governo di centrodestra, confermata e disinnescata di anno in anno da governi tecnici, di larghe intese e di centrosinistra, è il vero convitato di pietra nella formazione del nuovo governo. Le varie personalità incaricate, politici ed esploratori, di cercare una maggioranza avrebbero potuto usarla proprio come test e guida, nei loro colloqui: se siete in grado di accordarvi su quei 13 miliardi, potete cominciare a governare. In alternativa, ancora più coesione e determinazione ci vuole per rompere il meccanismo, aumentare il deficit e sfidare l’Europa – e anche l’Italia, in assenza di un programma realistico di riequilibrio negli anni futuri. Di tutto ciò non si è parlato affatto, per giorni e settimane. L’estate porterà consiglio?
Roberta Carlini

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