Dove va l’America?

talpe6-2018-def1_Trump dà l’ultima scossa
L’AMERICA CHE DISASTRO
2 OTTOBRE 2018 / EDITORE / DICONO I FATTI /

Il Paese che vorrebbe essere il più grande è il più devastato da un capitalismo selvaggio che spinge al massimo la ricchezza dei ricchi e crea milioni di poveri. Le statistiche dicono che dalla metà degli anni Settanta la povertà estrema è raddoppiata. I più ricchi sono Bill Gates, Jeff Bezos e Warren Buffett che in tre hanno più ricchezza della metà più povera degli americani (160 milioni di persone circa) mentre i 400 americani più ricchi hanno più ricchezza di 204 milioni di cittadini
di Elisabetta Grande sul sito “Volere la luna”
[segue]

Chiunque cammini per le vie di San Francisco, la capitale dell’enorme ricchezza proveniente dalla Silicon Valley e dall’innovazione tecnologica di Cupertino, non può che rimanere esterrefatto di fronte al paradosso che gli si para davanti. Lo spettacolo di destituzione umana, fatta di corpi che si ammassano disperatamente lungo i marciapiedi, nelle tende piantate sotto i viadotti o nei giardini della città, è sconcertante. La città è invasa da relitti umani, cui di umano è rimasto ben poco, abbandonati come sono alle temperie, al degrado, alla follia o a quella droga che giovani e anziani si iniettano senza pudore en plain air. A fronte di questo vero e proprio girone infernale dantesco, una domanda sorge spontanea e immediata: «Com’è possibile tanta miseria nel luogo più ricco del paese più ricco del mondo?».
La risposta è purtroppo che il paradosso che vive la città di San Francisco è quello dell’intero paese, per non dire dell’intero mondo capitalistico. Lo spettacolo che offre la città di San Francisco è infatti lo specchio più evidente degli effetti di un sistema economico, politico e giuridico in auge negli Stati Uniti fin dagli anni Ottanta del secolo scorso e in via di espansione nell’intero globo. Si tratta di un sistema che non solo spinge un paese sempre più ricco come gli States verso l’aumento della diseguaglianza fra le persone, cosicché tutta la crescita economica finisce nelle tasche di pochissimi ricchi; ma che addirittura consente a quei ricchissimi di rubare a poveri e a poverissimi, portando loro via quel nulla che hanno. La torta insomma cresce ma sono in pochi a mangiarne l’incremento (che va solamente al 10 per cento degli americani più ricchi, secondo i dati riportati da Saez e Zucman, Wealth Inequality in the United States since 1913), i quali non accontentandosi si sbafano pure progressivamente una parte della fetta dei più deboli.
È questo il quadro che viene fuori dalle statistiche ufficiali dello U.S. Census Bureau, che ci raccontano come dalla metà degli anni Settanta ad oggi, in un paese in cui la ricchezza è aumentata enormemente, la povertà estrema sia addirittura raddoppiata. Forbes di quest’anno, poi, ci fa anche sapere chi sono gli abbuffoni alle spalle di tutti gli altri: Bill Gates, Jeff Bezos e Warren Buffett possiedono in tre più ricchezza della metà più povera degli americani (160 milioni di persone circa), mentre i 400 americani più ricchi hanno più ricchezza di 204 milioni di cittadini statunitensi! Strano mondo quello che vede tutti preoccupati per una crescita economica che serve solo ai più ricchi e in cui il 90 per cento che non se ne avvantaggia non protesta neppure! Chi e cosa, poi, permette e ha permesso nel tempo il furto dei più ricchi a danno dei più poveri, provocando la miseria testimoniata da quella folla di senza tetto che abita San Francisco?
In una battuta la risposta potrebbe essere sintetizzata usando le parole di Frank Stricker: «Gli Stati Uniti possono avere alcuni milioni di persone estremamente ricche, oppure possono avere meno poveri e homeless. Non possono avere entrambi!».
Volendo essere meno sintetici, come ho avuto occasione di raccontare più estesamente altrove (cfr. Guai ai poveri. La faccia triste dell’America, Edizioni Gruppo Abele, 2017), spetta al sistema giuridico una grossa fetta di responsabilità al riguardo. L’assenza di una tutela giuridica nei confronti dei lavoratori americani meno qualificati (che le regole del GATT e del WTO avevano messo in competizione con i lavoratori più poveri di tutto il mondo) ha certamente giocato un ruolo importante nel determinare una distribuzione del reddito e della ricchezza esageratamente sperequata a favore delle multinazionali e dei loro manager (si pensi che questi ultimi hanno visto dalla metà degli anni Settanta crescere i loro stipendi complessivi di più del 1000 per cento, mentre il lavoratore mediano maschio, a parità di potere di acquisto, ancora oggi ha un salario più basso di allora). Senza protezione da parte del diritto, i lavoratori americani si sono, infatti, ritrovati ad avere un salario minimo troppo minimo per sopravvivere o una precarietà fatta non soltanto di facili licenziamenti, ma soprattutto di imprevedibilità assoluta dell’orario di lavoro e quindi di paga, e hanno visto una riduzione nel tempo dei permessi, delle ferie e dei benefici assicurativi. Oxfam America d’altronde ci dice che quasi la metà dei lavoratori statunitensi lavora per una paga oraria al limite della sopravvivenza!
Non è però stata soltanto la politica liberista del lassez faire nel campo del diritto del lavoro a causare negli States al contempo la maggior ricchezza dei ricchi e l’aumento della povertà estrema.
A partire da Reagan, ma anche e soprattutto con Clinton, a produrre quel risultato è stata pure la forte riduzione dello stato sociale, in combinato con riforme fiscali a vantaggio dei più ricchi. Già impoveriti e abbandonati in condizioni di precarietà estrema dall’assenza di un diritto del lavoro che li tutelasse, gli americani più deboli si sono così indeboliti ancor di più, diventando debolissimi. Tutti gli istituti creati per aiutare i più poveri, da Roosevelt prima e da Lyndon Johnson poi, a partire dagli anni Ottanta sono stati infatti ridimensionati, salvo essere in qualche minima misura ripristinati nel periodo della Great Recession. Ciò che ha caratterizzato l’era inauguratasi con Reagan e continuata con Clinton, è stato fra l’altro il passaggio dal welfare al cosiddetto workfare. Questo ha significato a un tempo accrescere, come direbbe Marx, l’esercito di riserva (e quindi contribuire al mantenimento di bassi salari), aumentare gli ostacoli burocratici a danno di coloro che hanno più difficoltà a superarli (I Daniel Blake di Ken Loach, per chi l’ha visto, è un buon esempio di quel che voglio dire) ed escludere i troppo deboli, che al mercato del lavoro non riescono ad accedere. Così mentre trovare un lavoro mal pagato e precario non ha prodotto l’uscita dalla povertà dei poveri, ma ha consentito soltanto il perpetuarsi dello sfruttamento di tutti, d’altra parte in molti sono stati coloro che si sono trovati senza rete sociale e come si dice “disconnessi”, ossia senza più arte né parte.
Qual è oggi il progetto di Donald Trump, che pure proprio dall’impoverimento dei lavoratori americani ha tratto il suo successo elettorale? Al di là delle parole è un disegno contrario alla loro ripresa economica.
In nome del lavoro americano Trump, da un lato, invoca e mette in atto un protezionismo egoista e pericoloso, invece di immaginare una globalizzazione generativa e non estrattiva, come quella finora messa in atto dal WTO e dai tratti bilaterali che ne hanno costituito il prosieguo. Dall’altra, però, in un momento di bassissima disoccupazione e di conseguente leggero aumento dei salari, a fronte di una recente riforma fiscale a vantaggio dei ricchi, il presidente degli Stati Uniti immagina una politica volta ad accentuare il passaggio del welfare verso il workfare, con il dichiarato obiettivo di ridurre la spesa sociale. Unitamente al recente rialzo del tasso di sconto deciso dalla Federal Reserve (e alla maggior disoccupazione derivante dai conseguenti minori investimenti del capitale), l’entrata sul mercato di un maggior numero di lavoratori scarsamente qualificati, che quella politica mira a produrre, spinge così nella direzione di mantenere basso il salario dei lavoratori, cui egli non aumenta neppure il minimum wage, ormai ridotto davvero all’osso.
Gli istituti sui quali Donald Trump punta, dopo che Bill Clinton a suo tempo distrusse l’aiuto alle mamme con bimbi dipendenti, obbligandole a lavorare (col risultato che nel giro di poco tempo il 60 per cento di loro trovò un lavoro che le fece rimanere povere o poverissime e un buon 20 per cento rimase “disconnesso” e che a distanza di 15 anni il numero di mamme con bimbi che vivevano con meno di due dollari a persona al giorno era raddoppiato, cfr. Edin e Shaefer, $ 2.00 a Day. Living on Almost Nothing in America, 2015), riguardano oggi il Medicaid, i food stamps e i sussidi per la casa.
Compiendo un passo senza precedenti, su indicazione del presidente e poco dopo la sua nomina da parte di quest’ultimo, Seema Verma, capo del Centers for Medicare & Medicaid Services, ha infatti fornito le linee guida, peraltro piuttosto vaghe, agli Stati dell’Unione affinché per la prima volta nella sua storia il Medicaid, ossia l’assistenza sanitaria gratuita ai più deboli, sia condizionata alla dimostrazione di avere un lavoro, se così gli Stati decidono. A gennaio di quest’anno ben dieci stati avevano già raccolto l’indicazione di Seema Verma e presentato al presidente le loro proposte volte a negare l’assistenza sanitaria a chi non rispetti le prescrizioni lavorative ivi previste. Ad agosto Donald Trump aveva già autorizzato le modifiche in quel senso richieste da Arkansas, Indiana, Kentucky e New Hampshire. Condizionare l’assistenza sanitaria allo svolgimento di un lavoro per un certo numero di ore la settimana significa però escludere proprio i più deboli dalla possibilità di essere curati. I percettori dell’assistenza sanitaria gratuita, infatti, già oggi nella stragrande maggioranza lavorano, pur rimanendo poveri, e coloro che un lavoro non lo hanno o non lo cercano è perché hanno seri impedimenti di salute o familiari. D’altronde anche coloro che potrebbero eventualmente essere esonerati dalla prescrizione lavorativa per ragioni mediche dovrebbero provare le condizioni di handicap che hanno, ciò che comporta costi e difficoltà, soprattutto se si è poveri e per questo quotidianamente alle prese con ostacoli di ogni genere. Pari difficoltà amministrative e burocratiche dovrebbero poi affrontare i lavoratori poveri per dimostrare il rispetto di quelle prescrizioni, col risultato che, pur teoricamente idonei ad avere l’assistenza sanitaria, non riuscirebbero a riceverla. Chi lotta tutti giorni per trovare un luogo dove dormire, magari avendo i figli al seguito, o passa spasmodicamente da un lavoro precario a un altro o ha appena subito uno sfratto ed è psicologicamente devastato, fa fatica a recarsi presso gli uffici dove richiedere il Medicaid dimostrando di averne diritto. D’altronde la richiesta di un certo numero di ore di lavoro al mese, come quella contenuta nelle nuove normative del Kentucky o dell’Arkansas, che ne prevedono 80, potrebbe per un certo mese non essere soddisfatta perché il datore di lavoro spesso riduce nel suo interesse unilateralmente le ore lavorative. Il lavoratore perderebbe allora la possibilità di curarsi, pagando con la propria salute la colpa di essere povero e precario. La modifica del Medicaid che Trump ha voluto inaugurare è certamente una risposta di tipo amministrativo alla sconfitta che la cancellazione dell’Obama care ha subito sul piano legislativo, ma è una risposta che insieme ai più disagiati colpisce anche i lavoratori, ossia proprio coloro che Trump ha sempre dichiarato di voler tutelare.
Il secondo istituto che Donald Trump mira a modificare, rendendo più pesanti gli obblighi di lavoro già a suo tempo introdotti da Clinton per ottenere il relativo beneficio, sono i food stamps (oggi SNAP). Si tratta dei buoni pasto per i più poveri, grazie ai quali ben quasi 48 milioni di americani hanno potuto sopravvivere nel 2013 alla Great Recession, per via dell’allentamento temporaneo delle prescrizioni lavorative voluto da Obama. Rendere più pesanti gli obblighi lavorativi per i percettori dei buoni pasto, estendendo fra l’altro l’obbligo anche alle mamme di bambini al di sopra dei 6 anni (o condizionarne l’ottenimento al non fare uso di droga o ancora limitare il numero di persone all’interno di una famiglia che li può ricevere), significa però affamare tante madri insieme ai loro bimbi, ma non migliorarne le condizioni sul luogo di lavoro. Ciononostante la House of Representatives ha già approvato lo scorso giugno il disegno di modifica, che attende l’approvazione del Senato il 30 settembre prossimo corrente per diventare legge.
Infine, sebbene tre famiglie su quattro fra quelle che hanno diritto al sussidio per una casa non lo percepiscano (dati in Desmond, Evicted, 2016), Trump ha espresso l’intenzione di condizionare perfino questo istituto del welfare americano alla dimostrazione di svolgere un’attività lavorativa, trasformando anche in questa ipotesi il welfare in workfare.
I progetti di Trump, se realizzati, non risulterebbero solo contrari agli interessi dei lavoratori americani, che come si è detto vedrebbero messo in discussione il misero aumento del salario di cui oggi stanno godendo, ma avrebbero come conseguenza anche l’ovvio aumento del numero dei debolissimi, dei senza tetto e dei disperati. Accrescerebbero cioè la forbice già così ampia fra chi non ha nulla e chi ha oltremisura, consentirebbero un furto sempre più consistente dei ricchi ai danni dei poveri e renderebbero perfino più insopportabile la visibile diseguaglianza delle strade di San Francisco.
Cosa può fermare tutto ciò? Le prossime elezioni? Forse…
Già oggi però è in atto una guerra interna contro la politica di Trump. Una guerra che proviene dal giudiziario: quel terzo potere, accanto al legislativo e all’esecutivo, che mostra i muscoli e che li mostrerà almeno fintanto che Trump non riuscirà a nominare, con l’aiuto della Federal Society, abbastanza giudici da cancellarne la resistenza. Non soltanto, infatti, il nono circuito federale ‒ composto da due giudici nominati da Obama e da un terzo di nomina clintoniana ‒ il 4 settembre scorso ha, per la prima volta, dichiarato contrario all’ottavo emendamento, in quanto “cruel and unusual punishment”, il consueto uso della sanzione penale nei confronti di chi dorme per strada, per lo meno quando manchino i posti nei dormitori pubblici. Ribaltando la consolidata linea giurisprudenziale che in quei casi riteneva non applicabile neppure lo stato di necessità (perché l’essere poveri e senza casa sarebbe stato “una condizione evitabile”), quei giudici federali hanno finalmente preso posizione a favore dei più deboli. Sempre a favore dei più deboli e contro la politica di Trump si è anche pronunciato lo scorso agosto il giudice del distretto federale di Washington James Boasberg, dichiarando illegittima l’approvazione, da parte dell’amministrazione federale, del progetto del Kentucky di condizionare alla dimostrazione di svolgere un’attività lavorativa per un certo numero di ore la prestazione sanitaria gratuita del Medicaid.
Il gioco dei checks and balances sembra dunque in corso. Il potere esecutivo potrebbe essere stoppato da un nuovo legislativo di mid-term e il giudiziario potrebbe a sua volta costituire o meno un ostacolo per Trump, a seconda che egli riesca a vincere il prossimo Senato e che riesca a nominare quindi giudici amici a cominciare dal controverso Kavanaugh. L’attesa delle elezioni del 6 novembre è perciò davvero quanto mai spasmodica!

Elisabetta Grandi
(dal sito “Volere la luna”)

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>