Il dibattito sulla manovra economica: è bene azzardare?

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Una manovra a rischio recessione
di Roberta Carlini, su Rocca
«Se la ricetta funziona qui, diventeremo un modello per l’Europa». Il modello italiano. Questo ha detto il vicepresidente del consiglio Luigi Di Maio in un’intervista al Financial Times, nei giorni caldi dello scontro tra Roma e Bruxelles. L’autorevole quotidiano finanziario britannico ha commentato, in un editoriale del giorno dopo: quel «se» è davvero un grosso «se». Qual è la ricetta, il segreto che l’Italia è pronta a rivelare ai suoi amici e competitori perché ne facciano tesoro? È un ritorno del passato, il deficit spending, ossia la spesa in deficit: in realtà un passato mai veramente tramontato, visto che anche i recenti governi hanno usufruito di un bel margine di flessibilità dall’Europa e si sono tenuti lontani dal pareggio di bilancio; ma stavolta il deficit è sbandierato, perseguito, esaltato, non concordato con Bruxelles, anzi portato sopra l’asticella segnata dai censori europei. Non di tanto – non abbiamo detto che sforeremo il 3% del Pil – ma abbastanza da causare la reazione irata, lo scontro, la procedura di infrazione. Così il dibattito pubblico è stato occupato e galvanizzato dalla contrapposizione tra l’Italia sovrana e gli invadenti europei. E abbiamo accantonato quel verbo, incautamente pronunciato da Di Maio nell’intervista al Financial Times: funziona?

funziona se…
L’uso della politica di bilancio in senso espansivo non è certo un’invenzione dei neonati populisti, che non si rifanno all’esempio storico principale – l’America di Roosevelt dopo la Grande Depressione – ma agli epigoni conservatori, in particolare l’ultimo, che siede attualmente alla Casa Bianca. E contrapporre un pragmatico uso della spesa pubblica e/o della riduzione delle tasse per dare fiato all’economia, contro il paradosso della «austerità espansiva» che è stato il credo dell’Unione Europea negli ultimi anni non è certo sbagliato. Per funzionare, però, deve trattarsi di una manovra effettivamente «espansiva»: cioè che faccia crescere l’economia.
Da quel poco che si sa – ancora non ci sono i dettagli – la manovra per il 2019 sarà concentrata su due pilastri: la maggior parte del nuovo debito va a finanziare la quota 100 per le pensioni e il reddito di cittadinanza. Provvedimenti che possono essere più o meno accettati dal punto di vista redistributivo, ma che di per sé non creano occupazione, produzione, investimenti. Fin qui la spesa: quanto alle tasse, per stessa ammissione del governo non si prevede un calo della pressione fiscale complessiva, mentre ci sarà una redistribuzione del carico, e un provvedimento dubbio come il condono che, se porta consenso tra coloro che per necessità o furbizia o dolo non hanno pagato le tasse in passato (impossibile distinguere tra le tre motivazioni, checché ne dicano i Cinque Stelle), non solleva di un grammo il peso su cittadini e imprese che le tasse le pagano dal primo all’ultimo euro.

Istat: per ora crescita zero
A peggiorare la situazione, è arrivata la certificazione dell’Istat – istituto che, sia detto per inciso, è senza testa poiché il governo non provvede ancora alla nomina del nuovo presidente, essendo scaduto quello precedente – sull’andamento del Pil nel terzo trimestre 2018, il primo dell’era «populista». Il risultato è catastrofico: crescita zero, come non succedeva dal 2014. Vuol dire che le imprese sono ferme, anzi vanno all’indietro nell’industria, il cui calo è compensato dai servizi, settore a più bassa produttività. La crescita tendenziale per il 2018, che prima era all’1,2%, è adesso allo 0,8%. È molto difficile, in questo contesto, che il 2019 possa portare quella crescita che il governo ha messo nero su bianco nei suoi documenti, ossia un aumento dell’1,5%. I dati Istat certificano anche un calo della fiducia delle imprese, e l’indice dei responsabili degli acquisti delle imprese stesse è ai livelli più bassi dal 2013.
Su queste tendenze può aver pesato il clima internazionale, gravato dai venti protezionisti provenienti dagli Stati Uniti; ma di certo influisce anche l’incertezza sulle sorti della politica economica italiana. È difficile pianificare qualcosa se non si sa quali provvedimenti saranno scritti in manovra, quale delle due anime del governo – sempre più divise – prevarrà, e se ogni giorno la classe politica dà mostra di improvvisazione e leggerezza. Intanto, vanno all’indietro anche gli indicatori del lavoro, con gli occupati che a settembre sono scesi di 34.000 unità e il tasso di disoccupazione in ripresa, al 10,1%.

non tutti i deficit sono utili
Numeri che rinforzano una previsione fatta da due economisti, Oliver Blanchard e Jeronim Zettelmeyer. Il primo è stato direttore del Fondo monetario internazionale e, soprattutto in anni recenti, non ha lesinato critiche alla miopia di una politica fiscale troppo restrittiva in Europa, affermando che in tempi di crisi bisogna consentire l’uso del bilancio pubblico, anche in deficit. Ma attenzione: quella del governo italiano, hanno scritto i due, è una manovra espansiva che avrà effetti recessivi. Sortirà cioè l’effetto contrario alle intenzioni. E questo perché non tutti i deficit sono utili, dal punto di vista del sostegno alla domanda e alla ripresa; e soprattutto perché l’Italia è un Paese altamente indebitato, dunque se la sua manovra richiede nuovo deficit e se questo va a far aumentare la spesa per interessi e i tassi da pagare sul servizio del debito, questa dinamica si ripercuoterà sul costo a cui le imprese prendono in prestito il denaro. Possiamo anche già trasformare il tempo del verbo, dal futuro al passato prossimo: le banche hanno già stretto il credito, per effetto dello spread, dunque è più difficile per le imprese prendere a prestito, finanziare i loro investimenti. Né soccorrono gli investimenti pubblici, che sono scesi senza interruzioni per anni e anni e che anche con la manovra Lega-Cinque Stelle non riceveranno un impulso degno di nota.

quando l’economia reale presenterà il conto
Per funzionare, una politica di deficit spending – di spesa finanziata con il ricorso al debito – deve avere una serie di caratteristiche. La prima è la credibilità di chi la compie. Seguono le altre, non meno impegnative: spese che vadano a stimolare la domanda nei settori con più forte moltiplicatore, parolina che sta a significare che i soldi non restano fermi ma vanno a spingere produzione e lavoro; investimenti più che trasferimenti a pioggia; e attenzione alla dinamica dello spread, che non solo può far fuggire i capitali e salire il costo del denaro ma può indebolire le banche, il cui portafoglio è pieno di titoli di Stato. Nessuna di queste condizioni, nella «manovra del popolo», si è finora verificata. Il che pone l’Italia, prima ancora che a rischio di procedura di infrazione (che partirà, con i tempi e i modi delle formalità della Commissione europea), a rischio recessione. Resta solo da capire se il conto sarà presentato, dall’economia reale, prima o dopo le elezioni europee. La scommessa dei governanti attuali è di tirare avanti, con il vento in poppa, fino a quella data per fare il pieno dei voti. Ma il rischio è che il loro successo si celebri del vuoto dell’economia e del lavoro. E in quel caso il «modello italiano», celebrato da Di Maio, diventerà un caso di scuola delle politiche da non fare.
Roberta Carlini
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lampadadialadmicromicroNel riquadro un accostamento del dipinto di Cézanne all’articolo di Carlini, responsabile la Direzione di Aladinews

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