Il coraggio della verità. L’Italia civile di Giuseppe Fiori

Domani sabato 4 maggio al Mem, alle ore 17.30: Il coraggio della verità. L’Italia civile di Giuseppe Fiori, a cura di Jacopo Onnis, Cagliari, CUEC, 2013
Ecco un bellissimo ed emozionante ricordo di Peppino Fiori, scritto da Guido Melis, tratto dal libro e pubblicato oggi dallo stesso Melis sulla sua pagina fb:

Il congedo dalla vita: un ricordo di Peppino Fiori
da Guido Melis (Note) Venerdì 3 maggio 2013 alle ore 17.37

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Ricordo di Peppino Fiori scritto da Tore Cherchi per il blog di Vito Biolchini

da Il coraggio della verità. L’Italia civile di Giuseppe Fiori, a cura di Jacopo Onnis, Cagliari, CUEC, 2013.
Dev’essere stato nell’autunno del 1974, o giù di lì, che ho incontrato per la prima volta Peppino Fiori. Avevo 24 anni, stavo per laurearmi in Giurisprudenza e mi era presa, come a tanti ragazzi della mia generazione, la passione travolgente per Gramsci. E proprio su Gramsci, precisamente sui suoi scritti “sardi”, stavo preparando, a Roma, quello che poi sarebbe stato il mio primo libro. Peppino degli studi gramsciani e in particolare del “Gramsci sardo” era allora lo specialista indiscusso. Aveva pubblicato qualche anno prima la celebre Vita di Antonio Gramsci, un libro poi tradotto in molte lingue, nel quale – oltre a svelare il dissenso di Gramsci in carcere nei confronti della svolta stalinista dell’Internazionale (fondamentale l’intervista al fratello, Gennaro, che raccontò per la prima volta del suo famoso viaggio a Turi) – aveva ricostruito, in un’inchiesta degna del miglior giornalismo, le origini sarde, la storia della famiglia, l’infanzia e la prima adolescenza di quello che sarebbe poi divenuto il principale teorico del marxismo italiano. Naturale dunque che, forte dell’amicizia che lo legava a mio padre, mi rivolgessi anzitutto a lui.
Mi venne a prendere all’angolo tra Piazza del Popolo e via del Babuino (lavorava ancora alla Rai, la cui sede era lì nei pressi), brusco e diretto com’era sempre, ma al tempo stesso simpatico, alla mano, coinvolgente. Fu subito un interrogatorio: cosa facevo, cosa mi piaceva studiare, perché mi interessava tanto Gramsci, quali erano i miei progetti per il futuro. Mi fece montare in macchina (guidava, lo avrei capito frequentandolo, in un modo tutto suo). Un breve percorso nel traffico romano ci portò lungo i tornanti di Monte Mario, in via dei Giornalisti. E qui, in un appartamento microscopico straripante di vecchi libri, mi presentò un vecchino tutto ingolfato in una giacca da camera a scacchi rossi e neri, la testa coperta da un improbabile berettuccio di lana, gli occhialini dorati, la voce esile quasi impercettibile. Era, come appresi con emozione, Alfonso Leonetti.
Leonetti voleva dire un pezzo di storia del movimento operaio del primo Novecento. Amico personale e stretto collaboratore di Gramsci all’ “Ordine Nuovo”, dirigente socialista in Puglia prima, poi comunista fondatore del partito nel ’21, espulso nel 1930 per aver sostenuto insieme a Tresso e Ravazzoli le posizioni di Trotzky, conservava ricordi nitidissimi degli anni torinesi. Mi raccontò un suo Gramsci personale, in gran parte inedito, nel quale certi tratti caratteriali – diceva – , a cominciare dalla pronunzia marcata, gli erano sempre sembrati tipicamente sardi. Nella breve prefazione che accettò di scrivere per il mio libro avrebbe tra l’altro segnalato “un piccolo erroruccio ortografico” in una lettera di Nino del ’26: la parola “eccittatto”, scritta “proprio con due t, come se stesse conversando in sardo”.
Sa quella prima volta nacque tra me e Peppino un rapporto che si sarebbe presto trasformato in una lunga amicizia, per quanto – lo ammetto – molto singolare: intanto per l’asimmetria generazione (lui era del 1923, io del 1949: avrei potuto essere suo figlio); poi per la diversità delle esperienze e persino delle idee (socialista lui, in procinto di spostarsi a sinistra contro la conquista craxiana del vecchio Psi, extraparlamentare con ingenue passioni rivoluzionarie io); infine per l’ambito e la formazione così differenti (lui abituato al clamore del giornalismo da inviato, io ai silenzi degli archivi e delle biblioteche). Ma Peppino, non so perché, prese subito a volermi bene. Cominciò a seguire i miei progressi negli studi con indulgente attenzione, incoraggiandomi e commentandoli passo per passo con competenza, e anche non perdendo occasione di vantare le mie presunte doti di studioso in decollo ovunque gli capitasse di poterlo fare. Come quando, dovendo citare un passo di Gramsci sulla Sardegna in una puntata di Tv7, fece in modo, quasi succedesse per caso, di esibire per un attimo in favore di telecamera la copertina del mio libro “sardo”, allora freschissimo di stampa. Pubblicità occulta, insomma, per pura amicizia tra sardi.
Io, a mia volta, cominciai a scrivergli lunghe lettere-relazione nelle quali gli parlavo molto di storia e un po’ anche di politica. Dopo un po’, ma specialmente negli ultimi anni, divenne abituale la telefonata domenicale per un breve saluto, spesso trasformata in una chiacchierata sull’universo mondo. E prendemmo l’abitudine, facendosi più frequenti i miei viaggi romani per lavorare negli archivi, di cenare ogni tanto insieme, sempre, immancabilmente da “Fortunato al Pantheon” (“lo abbiamo scoperto noi di sinistra quando era una trattoria – si lamentava sempre – , ed ora ci vengono i signori della destra”), dove naturalmente era impossibile sottrargli almeno per una volta il conto.
Frattanto, dopo essere stato uno dei giornalisti televisivi migliori della sua generazione (una leva straordinaria, per altro, dove spiccavano il magistero di Giorgio Vecchietti e la personalità emergente di Sergio Zavoli), era passato alla politica. Eletto senatore in Sardegna, un ruolo che avrebbe ricoperto con grande serietà ed efficacia (noi storici dobbiamo essergli grati in particolare per aver sottratto le carte del Tribunale speciale fascista alla gestione dei militari ed averle fatte versare all’Archivio centrale dello Stato)m proseguiva con metodo le sue ricerche (era, con Pietro Scoppola, uno dei rari, assidui senatori che capitava di trovare al lavoro nella splendida biblioteca del Senato). Ne sarebbero venuti libri importanti come le “vite” di Michele Schirru, di Enrico Berlinguer, di Ernesto Rossi, soprattutto di Emilio Lussu, il personaggio che forse, tra tutti, era quello che gli somigliava caratterialmente di più. Intransigente come Lussu, del resto, Peppino lo era di suo, senza bisogno di modelli; e ho sempre pensato che quella scelta etica fosse un po’ scritta nella sua stessa fisiognomica: corpulento, massiccio, il viso tipicamente sardo scolpito con pochi tratti essenziali, l’espressione apparentemente sempre aggrottata, l’atteggiamento severo. Non faceva sconti, né blandiva i toni a seconda delle circostanze e degli interlocutori. Davanti alla ressa un po’ invereconda di tanti personaggi di spicco, anche di sinistra, nelle Tv commerciali di Berlusconi (Il venditore, secondo il fulminante e precoce ritratto che ne avrebbe tracciato nel ’95), amava dire scherzando agli amici: “Quando muoio scrivete sulla mia tomba: ‘Qui giace Giuseppe Fiori. Non andò mai alle Maldive, né alle Mauritius, né al ‘Maurizio Costanzo show’”.
Parlava e scriveva per frasi brevi, essenziali, soggetto-predicato-verbo, senza parentesi o eccessive specificazioni, quasi una scrittura “orale”, trasmettendo così a chi lo ascoltava o leggeva la sensazione della precisione del concetto, e in definitiva anche della sua implicita autenticità. Ma poteva poi, se voleva, anche aprirsi a momenti di indimenticabili tenerezze, a un senso pudico e trattenuto di umanità, spesso malinconica, perché la vita gli aveva riservato qualche dolore (la scomparsa precoce della moglie Nandina) e qualche malanno di troppo, affrontato però con stoica capacità di sopportazione.
Capitava qualche volta, se la serata era propizia, anche durante le nostre cene che si lasciasse andare ai ricordi e persino che scoprisse un po’ di sé stesso. E, sebbene raramente, poteva accadere anche in pubblico. Appena uscito il suo libro su Rossi, gli chiesi di venire a parlarne a Napoli, ad un convegno storico sull’etica pubblica. Fu una lezione magistrale, in un silenzio assoluto, conclusa da un applauso interminabile. Alla fine, al pubblico affascinato, raccontò di quando un Ernesto ormai prossimo alla morte, stanco e forse anche sconfitto, va al cinema a vedere Il posto delle fragole di Bergman. E silenziosamente, nel buio della sala, piange.
Ci commosse tutti. E tutti avemmo la sensazione, da certe impercettibili vibrazioni della sua bella voce, calda e pastosa, che anche lui, il narratore magistrale di tante storie altrui, il cronista oggettivo di tante drammatiche vicende, quella volta, nel raccontare il congedo del vecchio Rossi dalla vita, si sentisse personalmente partecipe Guido Melis

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