Che succede?

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Non chiamatela politica.
di Carla Maria Casula*

Tutto sembra ruotare intorno a un ritmo binario, oscuro, contrastante, che oppone l’alfa e l’omega, la carnalità e l’effimerità, il rumore assordante e il silenzio più inquietante, il dinamismo e l’inerzia, la bontà suprema e la malvagità espressa all’ennesima potenza. Ognuno crede fermamente di essere assiso sul trono della giustizia, additando l’avversario storico come il prototipo del vizio. Conservatori contro sovversivi, censuratori contro permissivisti, punitivi contro buonisti. Due fazioni antitetiche nell’ideologia, ma convergenti nella bieca pretesa di incarnare la verità assoluta. Due squadre rivali, agguerrite, chiuse dentro il proprio ottundimento che vieta un lucido ragionamento, che nega un civile confronto, che ammanetta la logica del buonsenso e del rispetto. Le parole d’ordine sono “Manipolare”, “Strumentalizzare”, “Distorcere”, “Piegare la realtà dei fatti ai propri torbidi interessi”. Questo è il panorama biasimevole della politica attuale. Un’amministrazione della “cosa pubblica” che, se da una parte ha perduto il senso più genuino del prodigarsi per il bene della collettività e che mira, invece, al conseguimento dell’utile personale, dall’altra ha immolato la sacrosanta individualità dell’essere umano sull’altare della categorizzazione di partito, che uniforma e soffoca i moti di pensiero del singolo. Un’arte del governare che, oramai, si è trasformata in condotta che si nutre di desiderio di prevaricazione, avidità, negligenza e sfrutta gli eventi dolorosi per alimentare il proprio consenso. La politica è sfociata in consorteria della specie più abietta. Il diktat di partito viene imposto ai membri interni, senza possibilità di replica (pena l’ostracismo), ai simpatizzanti, agli elettori, sui quali si estendono gli inquietanti tentacoli del dispotismo. Insulti reciproci, linguaggio da bettole puzzolenti di microcriminalità, posizioni ideologiche estreme, che ledono gravemente la dignità umana, sia delle vittime, sia dei presunti colpevoli (è d’obbligo ricordare che prima di “vittime” e “colpevoli” si è esseri umani) sono il pane quotidiano. Si oscilla in un pernicioso moto che alterna intimidazioni persecutorie e rassicurazioni lassiste, invocazioni della pena capitale e assoluzioni paterne, minacce di drastiche repressioni e clemenza distribuita a profusione. Ci si sfida su Facebook a colpi di post, pregni di notizie palesemente manipolate e di osservazioni imperniate su inesattezze storiche, geografiche ed economiche, espresse con forme grammaticali devianti rispetto alle norme codificate, che farebbero inorridire linguisti e filologi di tutti i tempi.
La casta politica sembra impegnata in una spasmodica campagna al fine di catalizzare l’attenzione dell’opinione pubblica attraverso espressioni da “fiera della banalità” o da “trionfo della contraddizione” e l’onere dà i sui frutti: un numero di accoliti a sei zeri, irretiti dal carisma che proviene dalla totale incompetenza nel governare e, evidentemente, inabili nel comprendere la gravità di espressioni che violano la “pietas” verso i defunti.
Ma dov’è finita quella politica – nell’accezione più nobile del termine – al servizio dei cittadini, del bene pubblico, attenta alle complesse esigenze dell’individuo, pervasa da un forte senso di giustizia, sensibile alle difficoltà delle fasce più deboli? Dov’è finita quella politica che non condanna a priori, ma analizza la realtà con apertura mentale, che non si esprime con sentenze manichee, che non cede al turpiloquio e all’insulsaggine delle “frasi fatte”, volte a far leva sulla dabbenaggine degli elettori? Dov’è finita quella politica che fa della rettitudine morale la propria bandiera, che alle dichiarazioni di onestà accompagna una condotta consona, che non interferisce inopportunamente nello svolgimento del compito degli altri organi dello Stato? Dov’è finita quella politica della quale ogni cittadino, di qualsiasi orientamento, dovrebbe sentirsi orgoglioso? Forse non è mai esistita o, forse, è relegata in un passato (non certo privo di zone scure che, fin dalla gloriosa nascita delle πόλεις (póleis), hanno sempre e comunque caratterizzato ogni periodo storico), nascosto sotto la polvere dei decenni che si accumulano, in cui i nobili rappresentanti si sentivano servitori e non dominatori e non millantavano competenze specifiche mediocri o inesistenti, con l’alterigia del più tronfio tacchino dell’allevamento.
Della politica resta solo il nome, “imago sine re”, oltraggiato nella sua etimologia dal cieco individualismo e dalla vergognosa bramosia di potere.
Non chiamatela politica.
bimbo con teschio
*giornalista pubblicista.

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