Risultato della ricerca: GIOVANNI BATTISTA TUVERI

Oggi lunedì 21 giugno 2021

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——————-Opinioni, Commenti e Riflessioni—————————
Giovanni Battista Tuveri lo diceva gia’. Anzitutto bisogna combattere le caste
21 Giugno 2021. Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
La lettura degli intellettuali sardi del passato è ricca di sorprese. Si colgono in quelli democratici e indipendenti delle analisi di forte e indubbia attualità. Cambi i nomi, ed oplà, ti trovi davanti una critica spietata ai Solinas o ai Pigliaru o ai Cappellacci e ai Soru. Muti il contesto ed ecco un affresco […]
———————Da oggi
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Gianfranco Sabattini

Per ricordare Gianfranco Sabattini ripubblichiamo un suo articolo sulle prospettive e sulle scelte per lo sviluppo della Sardegna che scrisse in garbata polemica con un intervento di Paolo Fadda su l’Unione Sarda. Tanto basta per dare conto della passione politica di Gianfranco per la sua terra. E non importa se tutto o quasi sembra volgere al disastro, con il governo regionale di turno e l’intera classe dirigente inadeguati a impostare una diversa politic delle a, quella che richiede capacità innovative e nuovo protagonismo dei sardi e dei giovani in particolare. Sabattini sostiene che un’alternativa credibile ci possa essere. Ci sono in Sardegna energie sopite che occorre solo organizzare e motivare. Sono presenti soprattutto negli enti locali, che occorre coinvolgere, potenziandone competenze e poteri e trasferendo loro le necessarie risorse. A chi gli obbiettava le difficoltà del cambiamento, Sabattini opponeva un prudente ottimismo, rifacendosi a Gramsci. Gli piaceva anche ricorrere a un bell’aforisma di Barbara Wootton: “E’ dai campioni dell’impossibile piuttosto che dagli schiavi del possibile che l’evoluzione trae la sua forza creativa”. Lui, Sabattini, ci credeva, forse perché campione dell’impossibile in questa accezione lo era davvero.
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lampada aladin micromicroPaolo Fadda e Gianfranco Sabattini sono due “grandi vecchi” ancora capaci di mettere in campo forti energie intellettuali al servizio della Repubblica e della Nazione Sarda. Nel “quasi deserto culturale” della nostra Regione, animano con passione e competenza un necessario dibattito sulla situazione sarda. Questo li unifica ed è giusto riconoscere loro il merito, prima di segnalare le diverse posizioni rispetto al dibattito in questione, la “Questione Sarda”. Fadda richiede, anzi invoca, che la classe politica sarda abbia un sussulto di orgoglio e si adoperi per ottenere ingenti risorse pubbliche (statali ed europee) al fine di invertire la rotta della disastrosa situazione economica dell’Isola. Sabattini replica che si tratta di una vecchia ricetta, ché, se pur si riesca ad ottenerle in adeguata misura, queste nuove risorse provocano benefici relativi per la Sardegna, a fronte di quelli di gran lunga superiori per i fornitori della penisola o esteri. Occorre invece sostenere e ampliare le capacità dei produttori locali e degli Enti dell’autonomia regionale, gli unici in grado di produrre sviluppo endogeno. Che dire? Il dibattito è aperto. Non si tratta di schierarsi quanto di saperlo approfondire ed estendere. È quanto contribuiamo a fare con le tre testate online: il manifesto sardo, Democraziaoggi, Aladinpensiero. Questo è un invito al resto del mondo!
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La mancata soluzione della “Questione Sarda” secondo Paolo Fadda
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di Gianfranco Sabattini

Paolo Fadda in un suo intervento sull’”Unione Sarda” del 10 Ottobre, dal titolo “La Questione Sarda”, lamenta la scarsa propensione in Sardegna a voler mettere al centro di un possibile dibattito” l’attualità della “Questione”; ciò perché, a suo dire, essa non avrebbe subito sostanziali cambiamenti da quando Giovanni Battista Tuveri e Giovanni Maria Lei Spano l’hanno posta come problema nazionale, cui le discriminazioni dei governi nazionali hanno impedito di dare risposte risolutive; risposte che sarebbero mancate anche dopo la conquista “dell’autonomia regionale come strumento di autogoverno”.
A parere di Fadda non si discuterebbe, né ci si confronterebbe più sull’uso delle risorse autonomistiche, in quanto queste sarebbero state sempre più depotenziate dalle crescenti protervie centralistiche dei governanti romani, congiuntamente alle debolezze ed alle inerzie dirigenze regionali, sino a prefigurare il pericolo che l’Isola diventi vittima di un “dipendentismo” che la renderebbe sempre più subalterna a “interessi e decisioni altrui”. Per queste ragioni, il fallimento delle finalità del progetto autonomistico, quali erano nelle aspirazioni dei sardi all’indomani dell’avvento della Repubblica, ha ridato attualità – afferma Fadda – alla riproposizione della “Questione”, in quanto l’Isola, come i dati statistici consentono di rilevare, persiste ancora in “una penalizzante condizione di arretratezza e di insufficienze strutturali”, che varrebbero ad allontanarla dalle regioni del Nord-Est del Paese, sempre più favorite dai crescenti investimenti dello Stato.
La maggior disparità rispetto a tali regioni avrebbe concorso, a causa delle “caduta di capacità e di prestigio delle nostre dirigenze, a far sì che la Sardegna ritornasse ad essere esclusa al “gran ballo degli aiuti di Stato”, tanto da “rendere urgente” la riproposizione al Paese di una nuova “Questione Sarda” per porre rimedio ai “troppi torti subiti”.
L’analisi di Fadda di quanto accaduto (o sta accadendo) in Sardegna è fuorviante; essa è fondata sul presupposto che gli “aiuti pubblici” siano di per sé sufficienti a rimuovere il “dipendentismo”, promuovendo l’uscita dallo stato di arretratezza che da sempre affliggono l’Isola, mancando di considerare che tale rimozione non dipende solo dalla disponibilità di risorse, ma anche e soprattutto dalle modalità della loro utilizzazione. Infatti, malgrado le ingenti risorse ricevute a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, l’Isola non è riuscita a decollare, in quanto ha privilegiato l’attuazione di un “modello di industrializzazione senza sviluppo” (senza cioè produzione di ricchezza endogena, né un reale e duraturo miglioramento della qualità delle vita dei sardi).
Tale modello, che Fadda nella sua complessa attività di amministratore e di studioso dell’economia sarda non ha mancato di condividere, è stato alimentato e sorretto da un’ingente canalizzazione di risorse finanziarie per la localizzazione nell’Isola di industrie pubbliche e private; un flusso di risorse utilizzato però solo per promuovere l’aumento del reddito disponibile, ma non anche si quello prodotto all’interno dell’area regionale.
Nel lungo periodo, il modello di sviluppo attuato ha mostrato tutti i suoi limiti, con il risultato di non aver innescato alcun processo di crescita endogena, né di aver eliminato o affievolito il divario economico che continua ancora oggi a separare la Sardegna dalle aree più avanzate del resto del Paese. Quello attuato è stato un modello di crescita fortemente dipendente da condizioni favorevoli esterne che, con la crisi petrolifera degli anni Settanta è crollato, avviando l’economia dell’Isola verso un progressivo declino che è continuato senza sosta fino ai giorni nostri.
La principale conseguenza negativa del modello di crescita sperimentato in Sardegna nei primi decenni successivi agli anni Cinquanta del secolo scorso può essere così sintetizzata: un aumento del reddito disponibile per abitante e, quale conseguenza, un aumento della domanda di beni consumo; ma non essendo tali beni di consumo prodotti in Sardegna, l’aumento del solo reddito disponibile ha causato un consistente incremento delle importazioni.
L’aumento delle importazioni si è quindi tradotto in un vantaggio a favore delle regioni italiane (soprattutto settentrionali) e di altri Paesi produttori. Si è così determinata quella che è poi diventata una costante del sistema produttivo della Sardegna, ovvero un crescente squilibrio della bilancia commerciale per una quota rilevante di beni di consumo e di beni intermedi a favore di attività produttive extraregionali. Lo squilibrio ha riguardato, e riguarda tuttora, soprattutto la bilancia agro-alimentare dell’Isola, con la conseguente perdita dell’autosufficienza alimentare rispetto al fabbisogno interno.
Il miglioramento degli standard di vita dei sardi è stato il parametro in base al quale le élite politiche regionali hanno preteso di valutare il successo della politica di intervento realizzata. In ciò è da rinvenirsi il sintomo più evidente dei limiti della politica di crescita regionale perseguita; infatti, il processo di industrializzazione sperimentato ha portato, non alla crescita della Sardegna, ma alla riproposizione, in altre forme, della “Questione Sarda”, espressa dal fatto che l’Isola, pur avendo accumulato importanti localizzazioni produttive, non è riuscita a liberarsi dalle “secche” sulle quali una politica di intervento casuale ed erratica l’ha inevitabilmente condotta.
Quale prospettiva di crescita si offre oggi alla Sardegna? Per rispondere occorre liberare le energie intrinseche al sistema delle autonomie locali del quale a livello regionale si è sempre mancato di cogliere le implicazioni. Il sistema locale, come la letteratura sull’argomento suggerisce, è che un insieme di insediamenti residenziali e produttivi, le cui relazioni reciproche sono determinate dai comportamenti quotidiani degli operatori in essi presenti, i quali nel tempo hanno delimitato un’area entro cui si è consolidata la maggior parte dei rapporti economici tesi a svilupparsi nel tempo.
In questa prospettiva, con un contesto sociale ed economico, inteso come un continuum di spazi territoriali nei quali sono insediate specifiche comunità locali, la nuova politica di crescita dovrebbe tenere conto della necessità che nella elaborazione delle nuove decisioni concernenti le destinazioni delle risorse pubbliche che l’Isola continua a ricevere siano coinvolte anche le singole comunità; tale coinvolgimento richiede ovviamente la realizzazione delle condizioni operative idonee a consentire alle stesse comunità di partecipare attivamente alla costruzione degli scenari e delle politiche di crescita del loro territorio. Questo nuovo approccio alla crescita ed allo sviluppo dell’Isola si giustifica sulla base del fatto che fino ad oggi tutto ciò che è stato realizzato per il superamento dell’arretratezza dei singoli territori, è stato recepito, a livello locale, come “calato dall’alto”, con conseguente esclusione delle singole comunità territoriali dai relativi processi decisionali.
L’ipotesi che nella formulazione della nuova politica di crescita e di sviluppo regionale non si possa più prescindere dalle comunità locali e dalla loro partecipazione ai processi decisionali impone che la promozione, la progettazione e l’attuazione di una politica di crescita e di sviluppo siano fondate sull’individuazione di “percorsi” strategici supportati da un’“accettazione sociale” la più estesa possibile.
L’insuccesso della politica di sviluppo sinora attuata a livello regionale è stato infatti causato dal fatto che il “modello di industrializzazione forte” privilegiato non ha avuto alcune giustificazione sul piano produttivo, perché gli interventi realizzati sono stati suggeriti dall’idea che la crescita e lo sviluppo dovessero dipendere unicamente dalla disponibilità di capitali da investire in attività produttive che hanno avuto solo effetti diffusivi esogeni rispetto all’area regionale; in altri termini, l’insuccesso si è verificato in quanto è stata condivisa l’idea che la crescita e lo sviluppo dovessero dipendere dalla presenza di attività produttive prive di ogni rapporto con l’ambiente circostante e che le attività tradizionali dovessero essere considerare assieme alla cultura locale (motivazioni psicologiche e comportamnti prevalenti) alla stregua di un limite che occorreva non solo ignorare, ma anche rimuovere.
Quanto sinora detto evidenzia che, per attuare un nuovo modello di sviluppo dell’Isola è necessaria una svolta riformatrice della politica regionale improntata ai più recenti paradigmi dello sviluppo locale. Il successo del nuovo modello di crescita ispirato a tale paradigma consentirebbe di collegare tra loro, in modo sistematico, i tre pilastri (Regione, comunità locali e mercato) sui quali dovrebbe essere fondata l’attuazione del nuovo modello di sviluppo ed il governo partecipato dell’economia regionale.
Chi vive in una regione come la Sardegna, che sinora ha fruito di abbondanti trasferimenti per la promozione di un processo di crescita, non riesce a liberarsi dal convincimento che le politiche di sviluppo regionali sinora attuate siano diventate solo veri e propri canali di selezione della classe dirigente locale. Si viene eletti, non per le capacità amministrative o per la visione politica, ma perché si è in grado di fare affluire risorse sul territorio per distribuirle fra i più disparati “clienti”; risorse svincolate da qualsivoglia visione del futuro del territorio regionale, perché impiegate sulla base di decisioni centralistiche delle istituzioni regionali.
Perdurando questa situazione diventata quindi ragionevole la presunzione che gli obiettivi dell’ottenimento di nuovi trasferimenti pubblici non siano la crescita o l’occupazione, ma, al contrario, la conservazione dell’establishment dominante e della prosperità della pletora di professionisti interessati all’impiego dei nuovi “aiuti pubblici”, nonché la “carriera” delle burocrazie locali.
Se si considera che le politiche d’intervento sinora attuate hanno avuto solo uno scarso (e a volte negativo) impatto sul sistema economico della Sardegna si può concludere osservando che, contrariamente a quanto suggerito da Fadda, la “Nuova Questione Sarda” non possa essere risolta mediante l’ottenimento di nuovi trasferimenti pubblici da utilizzare come si è fatto nel passato; essa può essere risolta solo mediante un approccio alla crescita regionale fondata sulla valorizzazione delle comunità locali, sotto il vincolo che l’impiego dei nuovi trasferimenti conduca, prima o poi, alla “comparsa” di un benché minimo tasso di accumulazione endogena.
[segue]

DIBATTITO sulla “QUESTIONE SARDA”. Fadda: Più risorse dallo Stato e dall’Europa per la Sardegna. Sabattini: Sì, ma bisogna saperle utilizzare per promuovere lo sviluppo endogeno.

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lampada aladin micromicroPaolo Fadda e Gianfranco Sabattini sono due “grandi vecchi” ancora capaci di mettere in campo forti energie intellettuali al servizio della Repubblica e della Nazione Sarda. Nel “quasi deserto culturale” della nostra Regione, animano con passione e competenza un necessario dibattito sulla situazione sarda. Questo li unifica ed è giusto riconoscere loro il merito, prima di segnalare le diverse posizioni rispetto al dibattito in questione, la “Questione Sarda”. Fadda richiede, anzi invoca, che la classe politica sarda abbia un sussulto di orgoglio e si adoperi per ottenere ingenti risorse pubbliche (statali ed europee) al fine di invertire la rotta della disastrosa situazione economica dell’Isola. Sabattini replica che si tratta di una vecchia ricetta, ché, se pur si riesca ad ottenerle in adeguata misura, queste nuove risorse provocano benefici relativi per la Sardegna, a fronte di quelli di gran lunga superiori per i fornitori della penisola o esteri. Occorre invece sostenere e ampliare le capacità dei produttori locali e degli Enti dell’autonomia regionale, gli unici in grado di produrre sviluppo endogeno. Che dire? Il dibattito è aperto. Non si tratta di schierarsi quanto di saperlo approfondire ed estendere. È quanto contribuiamo a fare con le tre testate online: il manifesto sardo, Democraziaoggi, Aladinpensiero. Questo è un invito al resto del mondo!
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La mancata soluzione della “Questione Sarda” secondo Paolo Fadda

gianfranco-sabattini-conv-5-ott18di Gianfranco Sabattini

Paolo Fadda in un suo intervento sull’”Unione Sarda” del 10 Ottobre, dal titolo “La Questione Sarda”, lamenta la scarsa propensione in Sardegna a voler mettere al centro di un possibile dibattito” l’attualità della “Questione”; ciò perché, a suo dire, essa non avrebbe subito sostanziali cambiamenti da quando Giovanni Battista Tuveri e Giovanni Maria Lei Spano l’hanno posta come problema nazionale, cui le discriminazioni dei governi nazionali hanno impedito di dare risposte risolutive; risposte che sarebbero mancate anche dopo la conquista “dell’autonomia regionale come strumento di autogoverno”.
A parere di Fadda non si discuterebbe, né ci si confronterebbe più sull’uso delle risorse autonomistiche, in quanto queste sarebbero state sempre più depotenziate dalle crescenti protervie centralistiche dei governanti romani, congiuntamente alle debolezze ed alle inerzie delle dirigenze regionali, sino a prefigurare il pericolo che l’Isola diventi vittima di un “dipendentismo” che la renderebbe sempre più subalterna a “interessi e decisioni altrui”. Per queste ragioni, il fallimento delle finalità del progetto autonomistico, quali erano nelle aspirazioni dei sardi all’indomani dell’avvento della Repubblica, ha ridato attualità – afferma Fadda – alla riproposizione della “Questione”, in quanto l’Isola, come i dati statistici consentono di rilevare, persiste ancora in “una penalizzante condizione di arretratezza e di insufficienze strutturali”, che varrebbero ad allontanarla dalle regioni del Nord-Est del Paese, sempre più favorite dai crescenti investimenti dello Stato.
La maggior disparità rispetto a tali regioni avrebbe concorso, a causa delle “caduta di capacità e di prestigio delle nostre dirigenze, a far sì che la Sardegna ritornasse ad essere esclusa al “gran ballo degli aiuti di Stato”, tanto da “rendere urgente” la riproposizione al Paese di una nuova “Questione Sarda” per porre rimedio ai “troppi torti subiti”.
L’analisi di Fadda di quanto accaduto (o sta accadendo) in Sardegna è fuorviante; essa è fondata sul presupposto che gli “aiuti pubblici” siano di per sé sufficienti a rimuovere il “dipendentismo”, promuovendo l’uscita dallo stato di arretratezza che da sempre affliggono l’Isola, mancando di considerare che tale rimozione non dipende solo dalla disponibilità di risorse, ma anche e soprattutto dalle modalità della loro utilizzazione. Infatti, malgrado le ingenti risorse ricevute a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, l’Isola non è riuscita a decollare, in quanto ha privilegiato l’attuazione di un “modello di industrializzazione senza sviluppo” (senza cioè produzione di ricchezza endogena, né un reale e duraturo miglioramento della qualità delle vita dei sardi).
Tale modello, che Fadda nella sua complessa attività di amministratore e di studioso dell’economia sarda non ha mancato di condividere, è stato alimentato e sorretto da un’ingente canalizzazione di risorse finanziarie per la localizzazione nell’Isola di industrie pubbliche e private; un flusso di risorse utilizzato però solo per promuovere l’aumento del reddito disponibile, ma non anche si quello prodotto all’interno dell’area regionale.
Nel lungo periodo, il modello di sviluppo attuato ha mostrato tutti i suoi limiti, con il risultato di non aver innescato alcun processo di crescita endogena, né di aver eliminato o affievolito il divario economico che continua ancora oggi a separare la Sardegna dalle aree più avanzate del resto del Paese. Quello attuato è stato un modello di crescita fortemente dipendente da condizioni favorevoli esterne che, con la crisi petrolifera degli anni Settanta è crollato, avviando l’economia dell’Isola verso un progressivo declino che è continuato senza sosta fino ai giorni nostri.
La principale conseguenza negativa del modello di crescita sperimentato in Sardegna nei primi decenni successivi agli anni Cinquanta del secolo scorso può essere così sintetizzata: un aumento del reddito disponibile per abitante e, quale conseguenza, un aumento della domanda di beni consumo; ma non essendo tali beni di consumo prodotti in Sardegna, l’aumento del solo reddito disponibile ha causato un consistente incremento delle importazioni.
L’aumento delle importazioni si è quindi tradotto in un vantaggio a favore delle regioni italiane (soprattutto settentrionali) e di altri Paesi produttori. Si è così determinata quella che è poi diventata una costante del sistema produttivo della Sardegna, ovvero un crescente squilibrio della bilancia commerciale per una quota rilevante di beni di consumo e di beni intermedi a favore di attività produttive extraregionali. Lo squilibrio ha riguardato, e riguarda tuttora, soprattutto la bilancia agro-alimentare dell’Isola, con la conseguente perdita dell’autosufficienza alimentare rispetto al fabbisogno interno.
Il miglioramento degli standard di vita dei sardi è stato il parametro in base al quale le élite politiche regionali hanno preteso di valutare il successo della politica di intervento realizzata. In ciò è da rinvenirsi il sintomo più evidente dei limiti della politica di crescita regionale perseguita; infatti, il processo di industrializzazione sperimentato ha portato, non alla crescita della Sardegna, ma alla riproposizione, in altre forme, della “Questione Sarda”, espressa dal fatto che l’Isola, pur avendo accumulato importanti localizzazioni produttive, non è riuscita a liberarsi dalle “secche” sulle quali una politica di intervento casuale ed erratica l’ha inevitabilmente condotta.
Quale prospettiva di crescita si offre oggi alla Sardegna? Per rispondere occorre liberare le energie intrinseche al sistema delle autonomie locali del quale a livello regionale si è sempre mancato di cogliere le implicazioni. Il sistema locale, come la letteratura sull’argomento suggerisce, è che un insieme di insediamenti residenziali e produttivi, le cui relazioni reciproche sono determinate dai comportamenti quotidiani degli operatori in essi presenti, i quali nel tempo hanno delimitato un’area entro cui si è consolidata la maggior parte dei rapporti economici tesi a svilupparsi nel tempo.
In questa prospettiva, con un contesto sociale ed economico, inteso come un continuum di spazi territoriali nei quali sono insediate specifiche comunità locali, la nuova politica di crescita dovrebbe tenere conto della necessità che nella elaborazione delle nuove decisioni concernenti le destinazioni delle risorse pubbliche che l’Isola continua a ricevere siano coinvolte anche le singole comunità; tale coinvolgimento richiede ovviamente la realizzazione delle condizioni operative idonee a consentire alle stesse comunità di partecipare attivamente alla costruzione degli scenari e delle politiche di crescita del loro territorio. Questo nuovo approccio alla crescita ed allo sviluppo dell’Isola si giustifica sulla base del fatto che fino ad oggi tutto ciò che è stato realizzato per il superamento dell’arretratezza dei singoli territori, è stato recepito, a livello locale, come “calato dall’alto”, con conseguente esclusione delle singole comunità territoriali dai relativi processi decisionali.
L’ipotesi che nella formulazione della nuova politica di crescita e di sviluppo regionale non si possa più prescindere dalle comunità locali e dalla loro partecipazione ai processi decisionali impone che la promozione, la progettazione e l’attuazione di una politica di crescita e di sviluppo siano fondate sull’individuazione di “percorsi” strategici supportati da un’“accettazione sociale” la più estesa possibile.
L’insuccesso della politica di sviluppo sinora attuata a livello regionale è stato infatti causato dal fatto che il “modello di industrializzazione forte” privilegiato non ha avuto alcune giustificazione sul piano produttivo, perché gli interventi realizzati sono stati suggeriti dall’idea che la crescita e lo sviluppo dovessero dipendere unicamente dalla disponibilità di capitali da investire in attività produttive che hanno avuto solo effetti diffusivi esogeni rispetto all’area regionale; in altri termini, l’insuccesso si è verificato in quanto è stata condivisa l’idea che la crescita e lo sviluppo dovessero dipendere dalla presenza di attività produttive prive di ogni rapporto con l’ambiente circostante e che le attività tradizionali dovessero essere considerare assieme alla cultura locale (motivazioni psicologiche e comportamnti prevalenti) alla stregua di un limite che occorreva non solo ignorare, ma anche rimuovere.
Quanto sinora detto evidenzia che, per attuare un nuovo modello di sviluppo dell’Isola è necessaria una svolta riformatrice della politica regionale improntata ai più recenti paradigmi dello sviluppo locale. Il successo del nuovo modello di crescita ispirato a tale paradigma consentirebbe di collegare tra loro, in modo sistematico, i tre pilastri (Regione, comunità locali e mercato) sui quali dovrebbe essere fondata l’attuazione del nuovo modello di sviluppo ed il governo partecipato dell’economia regionale.
Chi vive in una regione come la Sardegna, che sinora ha fruito di abbondanti trasferimenti per la promozione di un processo di crescita, non riesce a liberarsi dal convincimento che le politiche di sviluppo regionali sinora attuate siano diventate solo veri e propri canali di selezione della classe dirigente locale. Si viene eletti, non per le capacità amministrative o per la visione politica, ma perché si è in grado di fare affluire risorse sul territorio per distribuirle fra i più disparati “clienti”; risorse svincolate da qualsivoglia visione del futuro del territorio regionale, perché impiegate sulla base di decisioni centralistiche delle istituzioni regionali.
Perdurando questa situazione diventata quindi ragionevole la presunzione che gli obiettivi dell’ottenimento di nuovi trasferimenti pubblici non siano la crescita o l’occupazione, ma, al contrario, la conservazione dell’establishment dominante e della prosperità della pletora di professionisti interessati all’impiego dei nuovi “aiuti pubblici”, nonché la “carriera” delle burocrazie locali.
Se si considera che le politiche d’intervento sinora attuate hanno avuto solo uno scarso (e a volte negativo) impatto sul sistema economico della Sardegna si può concludere osservando che, contrariamente a quanto suggerito da Fadda, la “Nuova Questione Sarda” non possa essere risolta mediante l’ottenimento di nuovi trasferimenti pubblici da utilizzare come si è fatto nel passato; essa può essere risolta solo mediante un approccio alla crescita regionale fondata sulla valorizzazione delle comunità locali, sotto il vincolo che l’impiego dei nuovi trasferimenti conduca, prima o poi, alla “comparsa” di un benché minimo tasso di accumulazione endogena.
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Paolo Fadda 10 Ottobre 2020, su L’Unione Sarda online.

La questione sarda
la-qs-giovanni-lei-spanoIn una Sardegna dove si discute e ci si confronta sempre meno e con evidente malavoglia, il voler mettere al centro di un possibile dibattito l’attualità di una “questione sarda” potrà apparire un po’ velleitario o passatista. Eppure, misurando quanto divida attualmente la nostra regione dal resto del Paese per benessere sociale e per sviluppo economico, il tema appare di chiara attualità. Perché non vi è molta differenza da quando, qualche secolo fa, il Tuveri ed il Lei Spano l’avrebbero posta come problema nazionale, denunciando l’avvilente arretratezza dell’Isola rispetto alle altre regioni di terraferma, per via delle colpevoli ingiustizie e delle discriminazioni subite dai governi nazionali.
Una “questione” che non avrebbe trovato soluzione definitiva neppure con la conquista dell’autonomia regionale, come strumento d’autogoverno, concessa dai Costituenti repubblicani nel 1948 grazie ad una combattiva pattuglia di deputati sardi guidata da Emilio Lussu.
Purtroppo non si discute più, né ci si confronta, sull’utilizzo delle risorse autonomistiche che vengono sempre più depotenziate dalle crescenti protervie centraliste dei governanti romani e, congiuntamente, dalle debolezze e dalle inerzie delle dirigenze regionali. Né pare venga posta molta attenzione al fatto che si vada sempre più aggravando la dipendenza isolana dalle economie continentali e dai loro centri di comando, andando così incontro al pericolo di divenire sempre più sudditi di interessi e di decisioni altrui.
Fatti già accaduti in passato – ricordiamolo – con la perdita della guida e del controllo dell’elettricità, del credito bancario, del trasporto aereo e così via. Tanto da dover ritenere che sia proprio quel “dipendentismo” strisciante il maleficio che è andato depotenziando di fatto il progetto autonomistico, ridando così attualità, e necessità, ad una questione sarda come denuncia di una penalizzante condizione di arretratezza e di insufficienze strutturali.
Sono i dati statistici a confermare la continua crescita della dipendenza. A partire dai beni più elementari come quelli legati all’alimentazione. Basti pensare che a parità di volumi di consumi, se trent’anni fa la percentuale delle importazioni alimentari era sotto al 30 per cento, attualmente sfiorerebbe il 50 per cento! Un aggravamento che trova poi la sua conferma nella bilancia commerciale isolana che vede prevalere sempre più i valori delle merci in entrata su quelle in uscita (con un gap che ora si avvicinerebbe ai due miliardi di euro). [...]

Questione sarda. Fadda: Più risorse dallo Stato e dall’Europa per la Sardegna. Sabattini: Sì, ma bisogna saperle utilizzare per promuovere lo sviluppo endogeno

lampada aladin micromicroPaolo Fadda e Gianfranco Sabattini sono due “grandi vecchi” ancora capaci di mettere in campo forti energie intellettuali al servizio della Repubblica e della Nazione Sarda.

Sardegna

sardegna-dibattito-si-fa-carico-181x300Dibattito——————-
Lo spopolamento, la crisi della politica e il futuro della Sardegna, di Pietro Soddu
Il sito web della Fondazione Sardinia pubblica un saggio dell’autorevole uomo politico sardo, contando di intervenire prossimamente sul tema e sul saggio medesimo.
——————————–
Quando è finita la prima autonomia della Sardegna? di Salvatore Cubeddu. Sul sito web della Fondazione Sardinia.
Nel 1978-1979. Ma nascono anche le idee per un nuovo futuro: la nuova autonomia, la lingua e l’identità etnica e storica della Nazione Sarda, il nuovo modello di sviluppo industriale, la riscrittura dello Statuto, il Senato delle Regioni, il diritto di rappresentanza dei Sardi a Bruxelles, l’Assemblea Costituente del Popolo sardo.
(Segue)

Faber 2017

Faber 2017

Vittorio Emanuele II: giù dal piedistallo!

vitt eman II fto tesseraVittorio Emanuele II: un altro Savoia da eliminare dalla toponomastica sarda. Ecco perché.
di Francesco Casula
Vittorio Emanuele II è stato l’ultimo re di Sardegna (dal 1849 al 1861) e il primo re d’Italia (dal 1861 al 1878).
Nonostante gli smisurati elogi da parte di tutta la pubblicistica patriottarda, – fu soprannominato il re galantuomo – tesa ad esaltare le magnifiche sorti e progressive del Risorgimento italiano, la sua opera nei confronti della nostra Isola sia come ultimo re di Sardegna sia come primo re d’Italia, fu nefasta.

1. Vittorio Emanuele ultimo re di Sardegna.
Con Vittorio Emanuele II, dopo la Fusione Perfetta con gli stati del continente, la Sardegna perderà ogni forma residuale di sovranità e di autonomia statuale per confluire nei confini di uno stato più grande e il cui centro degli interessi risultava radicato interamente sul continente. L’Unione Perfetta non apportò alcun vantaggio all’Isola, né dal punto di vista economico, né da quelli politico, sociale e culturale. Tale esito fallimentare, fu ben chiaro sin dai primi anni con l’aggravamento fiscale e una maggiore repressione che sfociò nello stato d’assedio, – che divenne sistema di governo – sia con Alberto la Marmora (1849) che con il generale Durando (1852).
Gianbattista Tuveri scrisse che dopo la fusione perfetta del 1847, la Sardegna era diventata una fattoria del Piemonte, misera e affamata da un governo senza cuore e senza cervello.
Ad esemplificare l’estraneità della Sardegna al Piemonte basta un episodio paradigmatico: Giovanni Siotto Pintor, uno di quegli intellettuali sardi che nel novembre del 1847 più si era adoperato perché si raggiungesse l’obiettivo della fusione con il Piemonte, all’ingresso di Palazzo Carignano viene fermato dal portiere. Il suo abbigliamento (si era presentato con il costume caratteristico dei sardi, con sa berritta, orbace e cerchietto d’oro all’orecchio) contrastava con l’eleganza e severità dei suoi colleghi piemontesi o liguri o savoiardi della Camera di nomina regia. Per questo si dice che entrò nell’aula del Senato solo dopo aver vinto con la forza le resistenze del portiere che evidentemente aveva una qualche difficoltà a riconoscere in lui un Senatore.
Il secondo episodio venne denunciato con una lettera al Presidente della Camera dal deputato di Sassari Pasquale Tola, che, quando nel maggio del 1848 in occasione di una riunione con i colleghi delle altre province, rimarcò l’assenza dell’emblema della Sardegna nell’aula dove,invece, erano dipinti e diversamente raffigurati quelli delle altre province del Regno.

2. Vittorio Emanuele primo re d’Italia
Le cose per la nostra Isola con cambiano con l’Unità d’Italia. Se è possibile, anzi, si aggravano, ad iniziare dal campo fiscale.
- segue -

Sardegna

almanacco della sardegna 1924 pantaleo leddaPRESENTAZIONE A ORISTANO DEL LIBRO “SARDEGNA” di Pantaleo LEDDA
Il Centro Servizi Culturali Unla di Oristano e la casa editrice Edpo domani venerdì 8 gennaio alle 16.30, presso l’Unla di Via Carpaccio, 9 a Oristano, presentano il libro “Sardegna” di Pantaleo Ledda, copia anastatica dell’originale dell’Almanacco per ragazzi del 1924. 
Lo presentano Italo Ortu già consigliere e assessore regionale nonché leader storico sardista e Francesco Casula storico e scrittore, autore il primo dell’Introduzione storica e il secondo della Prefazione (riportata di seguito).

Prefazione a SARDEGNA, sussidiario di Pantaleo Ledda
di Francesco Casula
La Lingua sarda, dopo essere stata lingua curiale e cancelleresca nei secoli XI e XII, lingua dei Condaghi e della Carta De Logu, con la perdita dell’indipendenza giudicale, si tenta di ridurla al rango di dialetto paesano, frammentata ed emarginata, cui si sovrapporranno prima i linguaggi italiani di Pisa e Genova e poi il catalano e il castigliano e infine di nuovo l’italiano con i Savoia prima e l’Italia unita poi.
Nel 1720, quando i Savoia prendono possesso della Sardegna,la situazione linguistica isolana è caratterizzata da un bilinguismo imperfetto: la lingua ufficiale – della cultura, del Governo, dell’insegnamento nella scuola religiosa riservata ai ceti privilegiati – è il castigliano, mentre la lingua del popolo, in comunicazione subalterna con quella ufficiale è il Sardo.
Ai Piemontesi questa situazione appare inaccettabile e da modificare quanto prima, nonostante il Patto di cessione dell’Isola del 1718 imponga il rispetto delle leggi e delle consuetudini del vecchio Regnum Sardiniae. Per i Piemontesi occorre rendere ufficiale la lingua italiana. Come prima cosa pensano alla Scuola per poi passare agli atti pubblici. Ma evidentemente le loro preoccupazioni non sono di tipo glottologico. Attraverso l’imposizione della lingua italiana vogliono sradicare la Spagna dall’Isola, rafforzare il proprio dominio, combattere il “Partito spagnolo” sempre forte nell’aristocrazia ma non solo. Questo il vero motivo: non quello “ideologico” della civilizzazione, accampato da Carlo Baudi di Vesme che nell’ opera Considerazioni politiche ed economiche sulla Sardegna, scritta, su incarico del re Carlo Alberto tra l’ottobre e il novembre 1847 ma completata nel febbraio 1848, scrive che “Una innovazione in materia di incivilimento della Sardegna e d’istruzione pubblica, che sotto vari aspetti sarebbe importantissima, si è quella di proibire severamente in ogni atto pubblico civile non meno che nelle funzioni ecclesiastiche, tranne le prediche, l’uso dei dialetti sardi, prescrivendo l’esclusivo impiego della lingua italiana…E’ necessario inoltre scemare l’uso del dialetto sardo ed introdurre quello della lingua italiana anche per altri non men forti motivi; ossia per incivilire alquanto quella nazione, sì affinché vi siano più universalmente comprese le istruzioni e gli ordini del Governo…”. – segue –

con gli occhiali di Piero…

gbtuveriGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x15014131 Si ricorda il sardo Giovanni Battista Tuveri, repubblicano e federalista, contrario alla “fusione perfetta”, nato il 4 agosto 1815.- Su Aladinpensiero il 4 agosto.

A Gianfranco Ganau, presidente del Consiglio regionale della Sardegna, nella Pasqua 2015

logo-sa-die-F-Figari-300x173di Salvatore Cubeddu

Caro Presidente,
avantieri i Sardi hanno conosciuto dai media la tua disponibilità a incatenarti nel caso trovassero conferma le nostre paure sulla localizzazione delle scorie nucleari nella nostra terra. Monsignor Arrigo Miglio ha portato al presidio dei manifestanti la solidarietà della Chiesa sarda. Francesco Pigliaru minaccia le dimissioni.
Scrivo per ringraziarti, a mio nome e per conto di tantissimi Sardi. E’ la tua discesa in lotta in mezzo a noi a permettermi di darti del ‘tu’, come amico compagno fratello, tra fratelli amici compagni. Non posso non essere grato all’Arcivescovo di Cagliari, come lo sono stati i cagliaritani del 28 aprile 1794 a monsignor Melano, ma mi rendo conto, da cristiano, come il clero ad un certo punto possa e debba fermarsi e lasciare che siano i laici a svolgere fino in fondo la partita della libertà del loro popolo.
La necessità di ‘andare sino in fondo’ la vedrei certamente come un eclatante atto di prostesta verso lo Stato, e persino verso il capo del proprio partito, ma se, malauguratamente, venisse confermato dallo Stato italiano il nostro ruolo di ‘muntonarzos’, i nostri rappresentanti dovrebbero mantenere comunque il loro posto di guida del popolo in lotta continuando a privilegiare ed a difendere i nostri interessi nella certezza che non una sola ma molte battaglie dovranno combattere nel prossimo futuro.
La denuncia della violazione degli interessi dei Sardi è stata pratica costante dei più illuminati tra i nostri parlamentari presso lo Stato: da Giovanni Battista Tuveri a Francesco Cocco Ortu, confermandosi persino nel regime fascista e intensificandosi nel settantennio repubblicano. L’insieme dell’oppressione economica e fiscale, sociale e culturale, istituzionale e politica fu contrastata dal più grande movimento della nostra storia come parte dell’Italia: il movimento dei combattenti e la loro rappresentanza politica, il partito sardo. Sono coloro che vogliamo ricordare nel centenario della grande guerra.
Ma siamo ancora lì. Con l’istituzione autonomistica da loro proposta e da noi male accettata e organizzata (per responsabilità dello Stato) e gestita (anche per nostre colpe). Non siamo riusciti a tracciare e far accettare una chiara linea di demarcazione tra ciò che serviva ai Sardi e ciò di cui si appropriava lo Stato italiano per i propri interessi contrastanti con i nostri. Il bene conteso, in forme differenti ma costanti, si concentra in una sola parola, territorio, con ciò che di economia, cultura e scelte ad esso si legano.
Caro Presidente, non proseguo nella descrizione, tantomeno nell’analisi dell’alternarsi storico dello sfruttamento e/o dell’abbandono della nostra terra. Tutti vediamo e conosciamo. In tanti – quasi tutti i Sardi – vorremmo agire. Il minuto dopo che tu ti sarai incatenato con noi, devi tornare al tuo posto, nello scranno più alto al quale la democrazia sarda ti ha mandato. E con te, Francesco Pigliaru. Ci sarà da guidare la lotta e da compiere dolorose ed inevitabili scelte istituzionali. Bisognerà gestire con intelligenza la trattativa con lo Stato ed iniziare, o intensificare, i contatti internazionali con gli altri popoli senza stato e con l’Europa. Forse si sarà costretti a rivolgersi all’Onu per descrivere le nostre condizioni e chiedere il giudizio internazionale: se questo è il modo con cui (l’Italia) tratta un popolo (sardo) che da secolo è (troppo) fedele.
Il lavoro più utile e delicato al quale sei stato chiamato – e per tanti versi il più complicato – consisterà nel tenere uniti i Sardi. Contro la cultura della disunione che caratterizza i popoli oppressi, contro i piccoli rappresentanti locali degli interessi esterni, contro i tentativi di corruzione che sempre nel passato hanno consentito le nostre sconfitte.
Se l’Italia deciderà (‘salvando’ così i territori continentali) di portare in Sardegna le scorie nucleari (nella prospettiva persino di accoglierne anche dall’esterno, come già succede a Portovesme per gli scarti di acciaieria), e rifiuterà il nostro dissenso, lo scontro potrà risultare totale: istituzionale, culturale, e quindi probabilmente da parte loro repressivo. Fino a quando potremmo resistere incatenati? Te la senti di guidare fino alla fine lo scontro autolesionistico della non-violenza? Spero di sì. In molti ti seguiremo. Ma sarà durissima.
C’è anche la possibilità che vengano fatte altre scelte, liberandoci da questa servitù ed evitandoci ‘la madre di tutte le battaglie’. Probabilmente tutto ciò lo sapremo alla vigilia delle ferie, il tempo delle scelte a favore dei furbi e degli ignavi.
In quei giorni del 2014 in Consiglio regionale è stata deliberata la rinuncia all’approvazione – in consiglio, immaginiamoci in un’assemblea costituente… – di un nuovo statuto della Sardegna. Pensa se oggi fossimo attivi e combattivi – invece che in una molteplicità di manifestazioni su singole battaglie – per difendere e far riconoscere dallo Stato un nuovo statuto quale documento costituzionale che comprenda, insieme ai nostri doveri, anche tutti nostri nuovi diritti? Non pensi che quella sarebbe stata la sede per decidere sulle istituzioni locali della Sardegna, la cui prossima definizione rischia di provocare altri conflitti e lacerazioni? Per rendere esplicita l’idea ed il progetto della/sulla nostra Isola nei prossimi decenni?
Mi dispiace rivolgerti dei rilievi che ti vedono come ultimo anello di una catena di responsabilità, la principale della quale appare sempre più quella di una classe dirigente che non ha una proposta per un futuro di libertà e di prosperità per il suo popolo. Soffèrmati un attimo su una piccola/grande/immensa questione quale la ‘dimenticanza-cancellazione’ di sa die de sa Sardigna: segno e simbolo di insensibilità ed incoerenza? Da che basi si parte per contestare lo Stato se non dai valori identitari così frequentemente evocati nel Consiglio regionale e così poco attuati nella pratica? Comunque, con o senza istituzioni, sa die quest’anno verrà celebrata due volte: il 26 aprile contro i rifiuti nucleari, il 28 come memoria della nostra identità e giornata di festa.
Ma i Sardi hanno bisogno come dell’aria che si respira di credere nelle proprie istituzioni autonome. La massima autorità istituzionale è ora nelle mani di Uno che promette di incatenarsi. Si tratta di Te. Incatenarsi al suo Popolo per resistere a decisioni di qualcuno rivelatosi un nemico: è così?
Tante belle cose legano i Sardi all’Italia ed al Popolo italiano. Ma sono i rappresentanti dell’Italia e del Popolo italiano quelli che continuano a decidere di riempirci di servitù, di utilizzarci come ‘muntonarzos’, che ci obbligano ad obbedire agli interessi dei ricercatori di energie cosiddette alternative, ci bloccano il riconoscimento istituzionale per arrivare in Europa e la singolarità linguistico – culturale … I Sardi sono di nuovo e sempre ‘di fronte all’Italia’.
Non è poco quello che hai affermato. Grazie! Siamo qui per ‘truncare sas cadenas’!
Buona Pasqua a Te, ai Tuoi, al Consiglio regionale, ai Sardi che rappresenti.
Salvatore Cubeddu.
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no scorie
“Tutti a terra per un minuto a mezzogiorno in punto. E, alla stessa ora, anche le campane delle chiese e le sirene delle navi in porto che suonano. Sarà il momento cruciale del “No nuclear day”, in programma domenica 19 aprile in Sardegna”.
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Salviamoci Sardegna!
scorieSOS la SARDEGNA è IN PERICOLO !
SARDI TIRIAMO FUORI l’ORGOGLIO di APPARTENENZA a un POPOLO
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MOBILITAZIONE POPOLARE
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pietro_tinu tecnica_mista_e_collage_su_cartoncinoLa Sardegna si salva tutta o non si salva – Un futuro produttivo e l’estinzione già in corso
di Enrico Lobina *

In consiglio comunale, a Cagliari, capita, anche nelle parole del Sindaco, di sentire frasi come: “dobbiamo chiedere alla regione ciò che ci spetta, e cambiare le regole del Fondo Unico degli Enti Locali”, “in Italia hanno fatto una legge per Roma capitale e per noi niente”, “noi smaltiamo i rifiuti di tutta l’area vasta, e dobbiamo chiedere una compensazione”.
Anche se ci fosse del vero, ed in qualche caso c’è, mi stupisce la pochezza del ragionamento. I temi dell’inurbamento, dello spopolamento, della Sardegna come ciambella (popolata sulle coste, vuota all’interno) non si possono affrontare così.
La Sardegna si salva tutta o non si salva. O la classe dirigente, a partire da quella della capitale, si pone il problema del futuro dell’isola, oppure i prossimi cambiamenti istituzionali (abolizione delle province, accentramento a Cagliari in seguito ai tagli romani, riforma degli enti locali) produrranno solamente un po’ di risentimento, che non porterà, nel medio periodo, a nulla neanche a Cagliari.
Cagliari e la sua area metropolitana o ragionano di tutta la Sardegna o non si salvano, anche se metà dei sardi si trasferisse a vivere qua, nell’area urbana del sud.
Ma bisogna ancor di più allargare lo sguardo. O le città sarde (Cagliari, Sassari, Oristano, Nuoro ed Olbia) ragionano complessivamente e insieme su se stesse, con leale spirito di collaborazione, ed ognuna si ritaglia un ruolo, oppure qualcuna persisterà con più forza nel proprio declino, e le altre seguiranno qualche decennio dopo.
L’area metropolitana di Cagliari potrebbe essere, se nasce con un profilo alto, un bel contrappeso alla regione e contribuire alla rinascita economica, sociale e culturale di un progetto per la Sardegna.

Lo spopolamento dei paesi, drammatico ed inevitabile, può essere combattuto con fortissime politiche anticicliche. Attualmente non se ne vedono all’orizzonte.
Dalla fine del 2010 il comune di Sadali ha istituito tre misure di incentivazione:
- un bonus bebè di 200 € mensili per 24 mesi da erogare ai genitori (con almeno uno dei genitori con residenza a Sadali) di bambini iscritti al registro anagrafico del comune di Sadali;
- Un bonus famiglia di 200 € mensili per 24 mesi da erogare a chi trasferisce la residenza da un Comune con popolazione superiore a 3 mila abitanti a Sadali;
- Un bonus scuola di 200 € mensili per 24 mesi da erogare ai genitori dei bambini iscritti a scuola.
Il bonus consiste in un “ticket nominativo” attraverso il quale il beneficiario può acquistare, presso gli esercenti convenzionati, beni e servizi necessari per una vita dignitosa.
Dopo 20 anni di saldi negativi, negli anni 2011, 2012 e 2013 si registra un aumento complessivo della popolazione del 4% grazie all’aumento di residenti.
I nuovi residenti sono giovani, istruiti, propensi a riscoprire e svolgere, come lavoro, i mestieri tradizionali e in particolare quelli legati alla coltivazione e allevamento, quasi sempre con figli.
A Sadali non tutti sono felici di queste politiche, ma è un inizio.
In Emilia-Romagna, Calabria, ma anche Galles e Finlandia, e per la verità in altre realtà della Sardegna, si prova, quasi in maniera artigianale, a designare politiche contro lo spopolamento davvero efficaci e forti, concrete.
La politica regionale, al contrario, non va oltre la normale amministrazione di politiche già esistenti, che finora non hanno dato alcun risultato. Il gruppo consiliare regionale di Sardegna Vera, recentemente, ha proposto un emendamento alla proposta di legge sull’edilizia, attualmente in discussione in aula, che prevede che, nel caso un fabbricato di un’area rurale sia in stato di degrado, mediante il Comune si arrivi alla riqualificazione dello stesso da parte di un privato che lo acquista ad un prezzo simbolico.

Si tratta di mettere a sistema politiche che, ritagliate sulle esigenze di ogni singola comunità, vadano tutte nella stessa direzione: salvare dall’estinzione i sardi e ridare forza produttiva alla Sardegna.
Da questo punto di vista, segnalo come il Comune di Cagliar spenda, quasi fosse un bancomat, milioni di euro in sussidi sociali che non provocano nessun incentivo alla riqualificazione produttiva e all’emancipazione in chi li riceve. Al contrario, si abitua una piccola e povera casta all’assistenzialismo.
Se quelle stesse risorse, di concerto con altri comuni e con attività di accompagnamento pubbliche, fossero spese per garantire una emancipazione personale ed uno sviluppo produttivo guidato da quei nuclei familiari, non avremmo fatto un enorme passo in avanti?
Lavorare per una comunità produttiva, libera e felice significa anche rigettare l’assistenzialismo, senza mai lasciare indietro nessuno.
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Sardegna-bomeluzo22
* L’articolo di Enrico Lobina viene pubblicato anche sui siti di FondazioneSardinia, Vitobiolchini, Tramasdeamistade, Madrigopolis, Sportello Formaparis, Tottusinpari e sui blog EnricoLobina e RobertoSerra, SardegnaSoprattutto.
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Se il rifiuto nucleare diventa un affare
scorie2di Nicolò Migheli **
Smentendo gli annunci, il governo non rivelerà il 2 di aprile i siti possibili per il Deposito Unico delle scorie nucleari. Questa volta non si vuole correre il rischio del 2003 quando la scelta di Scanzano Jonico fatta dal governo Berlusconi, venne bloccata dalla rivolta degli abitanti e dal sindaco di quel comune. La Sogin vuole il coinvolgimento della comunità della località prescelta, in modo da evitare qualsiasi sindrome Nimby. Se le indiscrezioni riferite dall’ex presidente Cappellacci hanno un fondamento, la Sardegna e il Lazio sarebbero le regioni candidate. Il movimento antinucleare, forte del referendum con l’90% di no avutosi in Sardegna, già si organizza. Immagina una resistenza classica, con manifestazioni e blocchi ai porti dei container che trasportano i rifiuti. In realtà la mobilitazione potrebbe essere l’ultimo atto e con nessuna possibilità di successo. L’amministratore delegato della Sogin Riccardo Casale, in una intervista a Panorama del 29 settembre 2014, aveva raccontato come intendano muoversi. La dismissione delle centrali nucleari è l’affare del secolo. Lo smantellamento ha un costo previsto di 6,7 miliardi di euro che vengono già reperiti con le bollette elettriche. Intorno al deposito verrà costruito un parco tecnologico. Ipotizzati mille posti di lavoro tra diretti ed indiretti. Impieghi molto specializzati con una forte presenza di ricercatori. Secondo l’IEA, l’agenzia internazionale sull’energia, nel mondo ci sono 147 reattori in fase di fermata. Dei 434 reattori attivi a fine 2013, 200 dovranno essere smantellati entro il 2040. Un affare da 100 miliardi di dollari. Di sicuro molti di più perché nell’industria atomica come in quella militare, l’aumento dei costi è una costante. L’Italia primo paese ad aver rinunciato al nucleare, si trova in posizione di vantaggio. Il mercato che si apre potrebbe vedere l’industria italiana protagonista. Il deposito unico dovrà essere realizzato entro il 2025, vi è un obbligo europeo a cui a non ci si può sottrarre. La Sogin questa volta intende muoversi con molta cautela utilizzando tutte le strategie possibili di convincimento. Mutuando l’esperienza francese verrà utilizzato il débat public, un metodo di partecipazione e coinvolgimento delle popolazioni. In Francia lo si usa quando gli investimenti per le Grandi Opere superano i 300 milioni di Euro. Il débat è aperto a tutti e le sue conclusioni sono vincolanti. Qualsiasi risultato impegna il maître d’ouvrage, l’istituzione o l’azienda che propone l’opera; se sarà negativo non verrà realizzata. Però non è chiaro cosa la Sogin intenda per dibattito pubblico. Casale imputa il fallimento della scelta di Scanzano ad una cattiva comunicazione. È pensabile che questa volta i metodi partecipativi saranno utilizzati come strumenti per costruire il consenso. Ne sono così sicuri che si attendono candidature di località per ospitare il deposito. L’amministratore delegato della Sogin riferiva il caso di due città svedesi – senza farne il nome – che si sarebbero disputate la collocazione del deposito nucleare di quel paese. Per il momento non sono previste agevolazioni compensative per le popolazioni, come taglio delle bollette o altro. Decisione che spetta al governo e non è stata ancora presa; faranno di tutto per rendere l’opzione più che appetibile. Per la Sardegna si pongono non pochi problemi. In questi anni vi è stata una continua riduzione della partecipazione dello Stato al bilancio regionale. I tagli si sono fatti talmente pesanti da mettere in dubbio le prestazioni minime come quelle della sanità, per citare la più drammatica. Il tasso di disoccupazione è in continua crescita. Metti che il governo decida di oltrepassare la Regione che ha espresso pubblicamente la sua contrarietà, e dialoghi con un comune in cui vi sia una amministrazione compiacente. Che si evochi l’interesse nazionale, quello italiano naturalmente. Che si convincano gli abitanti che quella scelta sarà la soluzione di lavoro e occupazione che cercano invano. A quel punto come ci si potrà opporre? Anche per la petrolchimica erano stati usati argomenti simili: posti di lavoro e ricchezza. Stesse argomentazioni per il furto-voltaico, -termine non mio ma efficace-. Le vicende dei cardi e delle canne non fanno ben sperare. Bisognerà inventarsi efficaci contromisure, essere consapevoli che ci si sta impegnando con una ipoteca pesantissima per i prossimi secoli. Supponendo che il Deposito Unico sia sicuro come affermano i nuclearisti, è comunque una scelta che spazzerà ogni speranza di autodeterminazione, con una ulteriore militarizzazione dell’isola. È impensabile, che materiali così pericolosi vengano lasciati incustoditi in un Mediterraneo turbolento. Tutto può succedere però. In tal caso prepariamoci ad adottare per la nostra isola il significato di Sardigna che ancora compare nel dizionario Treccani. «Sardigna s. f. [da Sardigna, variante ant. di Sardegna, prob. per il clima insalubre e l’aria malsana attribuiti, sin dall’età classica, alla Sardegna] 1. a. In passato, luogo nelle vicinanze di una città dove si depositavano le carogne e i rifiuti della macellazione. b. Attualmente, la zona del reparto sanitario del macello o macello contumaciale destinato alla distribuzione o alla trasformazione delle carni infette che non possono essere usate per l’alimentazione.» Così è.
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** L’articolo di Nicolò Migheli viene pubblicato anche sui siti di FondazioneSardinia, Vitobiolchini, Tramasdeamistade, Madrigopolis, Sportello Formaparis, Tottusinpari e sui blog EnricoLobina e RobertoSerra, SardegnaSoprattutto.

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scorie In argomento. Riceviamo e volentieri pubblichiamo.
Comunicato della Delegazione regionale dei direttori degli Uffici diocesani di pastorale sociale e del lavoro in vista della pubblicazione dell’elenco dei siti in cui si intenderebbe realizzare il deposito unico nazionale per i rifiuti nucleari.
CONFERENZA EPISCOPALE SARDA UFFICIO REGIONALE PER LA PASTORALE SOCIALE E DEL LAVORO
c/o Curia arcivescovile – Via mons. G. Cogoni, 9, 09121 Cagliari

COMUNICATO

Cagliari, 25 marzo 2015

La Delegazione regionale dei direttori degli Uffici diocesani di pastorale sociale e del lavoro, riunitasi a Oristano il 23 marzo scorso, ha dedicato la propria attenzione ai problemi ambientali che caratterizzano la nostra Regione, con particolare riferimento alla prossima pubblicazione dell’elenco dei siti in cui si intenderebbe realizzare il deposito unico nazionale per i rifiuti nucleari.
Si ribadisce, innanzitutto, un no deciso all’ipotesi che la Sardegna sia sottoposta a quella che i Vescovi sardi, poco meno di un mese fa, hanno definito «una servitù insopportabile» che rischia di infliggere all’Isola «un colpo mortale alla sua naturale e indispensabile economia agro-pastorale e turistica». Si eleverebbe, infatti, un’ulteriore barriera alla creazione di quel futuro più dignitoso e sicuro che la società sarda attende ormai da tempi troppo lunghi.
Preoccupa, inoltre, la costatazione di alcuni inspiegabili silenzi su questo delicatissimo tema. Ci si attende che una presa di posizione chiara e decisa non sia riconducibile solo ad alcune componenti partitiche, sindacali e associative, ma goda della partecipazione consapevole e attiva di ogni compagine impegnata nell’animazione culturale, politica e sociale. I problemi relativi all’ambiente sono di tutti e non solo di alcuni.
Le stesse comunità cristiane sono sollecitate, soprattutto in questi giorni che precedono la Santa Pasqua, a favorire la riflessione, l’azione e la preghiera affinché in ciascuno si sviluppi il senso di responsabilità nella custodia del creato e nel realizzare i presupposti per un’esistenza salubre e serena da assicurare alle future generazioni.

+ mons. Giovanni Paolo Zedda
VESCOVO DELEGATO

Don Giulio Madeddu
DIRETTORE UFFICIO REGIONALE
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miglio al comitato
La visita dell’arcivescovo di Cagliari Arrigo Miglio al Comitato No Scorie, Palazzo del Consiglio regionale mercoledì 1 aprile 2015
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Pigliaru No scorie in Sardegna
Pigliaru promette: niente scorie in Sardegna (Palazzo del Consiglio regionale mercoledì 2 aprile 2015)
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Ganau e Pigliaru: no scorie!
Ganau e Pigliaru noscorie

Sardegna oggi, ieri… e domani?

L’Isola che non c’è. Tra la curva del Grande Gatsby e il principio di Peter
Il Bel Paese, 1994- Maurizio Cattelan
di Fabrizio Palazzari

Una due giorni tra Milano e Roma è sufficiente per percepire quanto il “Belpaese” sia davvero finito al vertice di quella che Alan Krueger, capo degli esperti economici di Obama, ha definito “la curva del Grande Gatsby”: un tracciato del rapporto tra disuguaglianza e mobilità sociale intergenerazionale in diversi Paesi del mondo.
Ormai l’Italia si trova, infatti, tra i Paesi che hanno maggiori diseguaglianze nei redditi. E, contemporaneamente, fra quelli dove c’è la minore mobilità sociale tra una generazione e l’altra. All’estremo opposto si trovano i paesi scandinavi.

grafico palazzari 27 nov 14
Nel grafico, elaborato utilizzando i dati dell’economista canadese Miles Corak, l’asse orizzontale indica la diseguaglianza tra i redditi, quello verticale la mobilità di reddito tra generazioni: in sostanza, il rapporto che c’è tra gli stipendi dei padri e quelli dei figli. Andando dal basso verso l’alto, aumenta l’immobilità. Andando da sinistra a destra, cresce la diseguaglianza.

Il nome della curva di riferimento fa riferimento, un po’ ironicamente, a Jay Gatsby, il personaggio di F. Scott Fitzgerald del romanzo “Il grande Gatsby”. Jay mostra un alto grado di mobilità, passando da essere un contrabbandiere sino a diventare un imprenditore di successo. Una realtà ben lontana da quella odierna di paesi come Usa, Gran Bretagna e, per l’appunto, l’Italia dove almeno metà dei propri vantaggi economici deriva dal fattore famiglia.

In questo quadro il buonsenso richiederebbe di correre ai ripari, investendo in quelle politiche e strategie di indirizzo della spesa pubblica che aiutino a riequilibrare il peso tra i figli, per esempio investendo in istruzione, promozione della conoscenza e sviluppo del capitale umano. Tuttavia non sembra essere questa, al momento, una priorità, né in Italia, né in Sardegna.

Proprio nell’isola, dopo quasi un decennio caratterizzato da ingenti investimenti in politiche sul capitale umano, si è passati, in pochissimo tempo, a una quasi totale assenza di finanziamenti su questo tipo di politiche. In questo scenario il caso del Master&Back, il programma di punta dell’alta formazione “Made in RAS”, è paradigmatico.

Tra il 2008 e il 2014 la Regione Autonoma della Sardegna ha investito quasi 120 milioni di euro distribuiti in oltre quattromila progetti rivolti ad altrettanti studenti sardi per garantire un’alta formazione e, in molti casi, un futuro migliore di quello che avrebbe potuto offrire il panorama sardo. Oggi quella stagione sembra essersi definitivamente conclusa dato che, leggendo l’allegato tecnico al bilancio di previsione 2014-2016, si osserva come, per gli anni 2015 e 2016, le risorse finanziarie programmate per il Master&Back siano pari a zero.

Sebbene la parte “Back”, quella dei cosiddetti “percorsi di rientro”, fosse solo una delle due parti del programma, è comunque vero che buona parte delle migliaia di beneficiari, spesso in possesso di qualifiche di alto livello, non sono poi rientrati, lasciando così latente e inespresso tutto il loro potenziale, in termini di capitale umano, che oggi potrebbe essere invece attivato se si cercassero delle modalità per mettere in contatto queste competenze con le realtà economiche e imprenditoriali sarde.

Tuttavia, il non rientro dei borsisti Master&Back è solo la punta dell’iceberg di quello che da almeno dieci anni è un vero e proprio stillicidio che sta privando l’Isola delle sue energie più dinamiche. Nel corso del solo 2013, secondo i dati dell’ultimo rapporto sull’emigrazione delle Acli Sardegna, ben 6.500 sardi sono emigrati, di questi 2.254 si sono trasferiti all’estero. Sono andate via, in media, diciotto persone al giorno per un intero anno.

Il tema però non viene preso seriamente dalla nostra classe dirigente. Mentre la disoccupazione giovanile e dei meno giovani si fa sempre più forte, e spinge verso l’emigrazione fasce sempre più ampie della popolazione e sempre più in possesso di alti livelli di istruzione e qualifiche, in Sardegna o non se ne parla o, tutt’al più, ci si limita a parlarne in termini molto edulcorati.

Ormai si è quasi riluttanti ad usare termini come emigrazione, si ammorbidisce il discorso e si parla di “spostamenti”, forse perché la prima è una definizione troppo diretta e preoccupante. Si preferisce vedere positivamente i tanti trolley che hanno preso il posto di quelle che una volta erano le valigie di cartone. Del resto, per quelli che restano una sistemazione si troverà, mentre, per quelli che partono, ci saranno comunque una mare di opportunità da cogliere. Ma non qui, oltre il mare.

In questo modo gli effetti di questo processo non tardano a manifestarsi. Spopolamento, emigrazione, invecchiamento della popolazione e bassa natalità sono sotto gli occhi di tutti e concorrono ad alimentare il perdurare di una situazione di stasi e di stallo che ormai riguarda ogni aspetto della società, incluso quello della dimensione politica.

Nel momento in cui le opportunità sono sempre meno, rischia di diventare impossibile mitigare gli effetti, sulla selezione della classe dirigente, del cosiddetto principio di Peter. Si tratta di una tesi, apparentemente paradossale, nota anche come principio di incompetenza e formulata nel 1969 dallo psicologo canadese Laurence J. Peter e che può essere concisamente formulata come segue: « in una gerarchia, ogni soggetto tende a salire di grado fino al proprio livello di incompetenza ».

Il principio di Peter va inteso nel senso che, in una gerarchia, i membri che dimostrano doti e capacità nella posizione in cui sono collocati vengono promossi ad altre posizioni. Questa dinamica li porta a raggiungere, di volta in volta, nuove posizioni, in un processo che si arresta solo quando accedono a una posizione poco congeniale, per la quale non dimostrano di possedere le necessarie capacità: tale posizione è ciò che l’ autore intende per «livello di incompetenza», raggiunto il quale la carriera del soggetto si ferma definitivamente, dal momento che viene a mancare ogni ulteriore spinta per una nuova promozione.

Sebbene il principio di Peter, formulato nell’ambito degli studi della psicologia delle organizzazioni, si applichi soprattutto alle dinamiche delle strutture organizzative di tipo gerarchico, è anche vero che queste stesse dinamiche possono finire con il caratterizzare un’intera regione. Soprattutto quando, come nel caso della Sardegna, l’intero sistema economico e sociale è privato dell’energia e delle competenze delle fasce più dinamiche della sua popolazione.

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Sardegna-bomeluzo22
* L’articolo di Fabrizio Palazzari viene pubblicato anche sui siti di FondazioneSardinia, Vitobiolchini, Tramasdeamistade, Madrigopolis, Sportello Formaparis, Tottusinpari e sui blog EnricoLobina e RobertoSerra, SardegnaSoprattutto.
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Nell’illustrazione: Maurizio Cattelan, Il Bel Paese, 1994.

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29 novembre 1847, perfetta fusione della Sardegna con il Piemonte: una data infausta per la Sardegna
carlo aberto 29 nov 1847
di Francesco Casula *
Il 29 novembre ricorre l’anniversario di una data infausta per la Sardegna: la Fusione perfetta con gli stati sabaudi di terraferma. Con essa l’Isola veniva deprivata del suo Parlamento e finiva così il Regnum Sardiniae.

Se si è scritto che siano stati i Sardi stessi a rinunciarvi. Si tratta di una grossa balla: non è assolutamente vero. A chiedere la Fusione, che verrà decretata da Carlo Alberto, furono alcuni membri degli Stamenti di Cagliari e di Sassari, senza alcuna delega né rappresentatività né stamentaria né, tanto meno, popolare. Il Parlamento neppure si riunì. Tanto che Sergio Salvi, lo scrittore e storico fiorentino gran conoscitore di cose sarde ha parlato di “rapina giuridica”.

Mi si potrà obiettare: e le manifestazioni pubbliche che si svolsero a Cagliari (dal 19 al 24 novembre) e a Sassari nel 1847 non servono come titolo di rappresentatività popolare? Non sono esse segno e testimonianza che la popolazione sarda voleva e richiedeva la Fusione?

Per intanto occorre chiarire che quelle pubbliche manifestazioni, erano poco rappresentative della popolazione sarde in quanto i partecipanti appartenevano sostanzialmente ai ceti urbani. Ma soprattutto esse rispondevano esclusivamente agli interessi della nobiltà ex feudale, illecitamente arricchitasi, con la cessione dei feudi in cambio di esorbitanti compensi, che riteneva più garantite le proprie rendite dalle finanze piemontesi piuttosto che da quelle sarde. Nella fusione inoltre vedevano una possibile fonte di arricchimento la borghesia impiegatizia e i ceti mercantili. Dentro la cortina fumogena del riformismo liberale europeo, avanzavano inoltre anche in Sardegna, spinte ideologiche e patriottarde – rappresentate soprattutto dalla borghesia intellettuale (avvocati, letterati, professionisti in cerca di lustrini) e dagli studenti universitari – che vedevano nella Fusione la possibilità che venissero estese anche alla Sardegna riforme liberali quali l’attenuazione della censura sulla stampa, la limitazione degli abusi polizieschi, qualche libertà commerciale e persino un primo passo verso l’unificazione degli Stati italiani.

“Per la ex nobiltà feudale – scrive Girolamo Sotgiu – la conservazione delle vecchie istituzioni non aveva alcun interesse. La possibilità di conservare un peso politico era ormai data soltanto dalle posizioni da conquistare nelle istituzioni militari e civili del regno sabaudo e dalla conservazione di una forza economica fondata non più tanto sul possesso della terra, quanto delle cartelle del debito pubblico, e « le cedole di Sardegna – come afferma il Baudi di Vesme – colla riunione delle due finanze [avrebbero acquistato] il dieci e più per cento di valore commerciale, ed il capitale che dava cinque lire di entrata, e [che si vendeva ] a lire 108 sarebbe immediatamente salito alle 120 e più». (1)

Comunque, se le stesse Manifestazioni contengono una serie di ambiguità, specie rispetto agli obiettivi che si proponevano, in ogni caso ben altre e diverse erano le aspirazioni delle masse popolari, urbane come quelle dei pastori e contadini e difforme l’atteggiamento verso il Piemonte.

Scrive ancora Girolamo Sotgiu: ”Che gli orientamenti più largamente diffusi fossero diversi è dimostrato da molti fatti. L’ostilità contro i piemontesi era forte come non mai, e le riforme erano viste anche come strumento per alleggerire il peso di un regime di sopraffazione politica che era tanto più odioso in quanto esercitato dai cittadini di un’altra nazione; per ottenere cioè non una fusione ma quanto più possibile di separazione”. (2)

Tanto che lo storico piemontese Carlo Baudi di Vesme scrive che “correvano libelli sediziosi forieri della tempesta e quasi ad alta voce si minacciava un rinnovamento del novantaquattro”. (3)

Ovvero una nuova cacciata dei piemontesi, considerati i responsabili principali della drammatica situazione economica aggravata dalla crisi delle campagne (fallimento dei raccolti) e dall’esosità del fisco. Lo stesso Vesme ricorda ancora che “un sarto, per nome Manneddu, sollevò il grido di Morte ai Piemontesi in teatro, nel colmo delle manifestazioni di esultanza per la concessione delle riforme”. (4)

E sulla Torre dell’Elefante, a Cagliari, il giorno della partenza per Torino di alcuni membri degli Stamenti, il 24 novembre, per chiedere la sciagurata fusione, apparve un manifesto con la scritta:Viva la lega italiana/e le nuove riforme/Morte ai Gesuiti e ai piemontesi/Concittadini:ecco il momento disiato/della sarda rigenerazione.

Giovanni Siotto Pintor inoltre scrive che nei giorni delle dimostrazioni “Moltissimi contadini di Teulada traevano a Cagliari credendo a una rivolta” per sostenerla e rafforzarla e che “cinquecento armati del vicino paese di Selargius stavano pronti a venire al primo avviso” e che “v’erano uomini di Aritzo, d’Orgosolo, di Fonni mandati per sapere se [c’era] mestieri d’aiuto nel qual caso [sarebbero venuti] otto centinaia di uomini armati”. (5)

Con la Fusione Perfetta con gli stati del continente, la Sardegna perderà ogni forma residuale di sovranità e di autonomia statuale per confluire nei confini di uno stato più grande e il cui centro degli interessi risultava naturalmente radicato sul continente. L’Unione Perfetta non apportò alcun vantaggio all’Isola, né dal punto di vista economico, né da quelli politico, sociale e culturale. Tale esito fallimentare fu ben chiaro sin dai primi anni con l’aggravamento fiscale e una maggiore repressione che sfociò nello stato d’assedio, – che divenne sistema di governo – sia con Alberto la Marmora (1849) che con il generale Durando (1852)

Gli stessi sostenitori della Fusione, ad iniziare da Giovanni Siotto-Pintor, parlarono di follia collettiva, riconoscendo l’errore. Errammo tutti, ebbe a scrivere Pintor.

Gianbattista Tuveri sostenne che dopo la Fusione “La Sardegna era diventata una fattoria del Piemonte, misera e affamata di un governo senza cuore e senza cervello”.

Note Bibliografiche

1. Girolamo Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda, Edizioni Laterza, Roma.Bari, 1984, pag. 306.

2. Ibidem, pagg. 307-308

3. Carlo Baudi di Vesme, Considerazioni politiche ed economiche sulla Sardegna, Stamperia reale, Torino 1848 pag.181.

4. Ibidem, pag. 189.

5. Giovanni Siotto Pintor, Storia civile dei popoli sardi dal 1798 al 1848, Casanova, Torino, 1877, pag. 518.

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* anche su FondazioneSardinia

29 novembre 1847, perfetta fusione della Sardegna con il Piemonte: una data infausta per la Sardegna

carlo aberto 29 nov 1847
di Francesco Casula *
Oggi 29 novembre ricorre il 167° Anniversario di una data infausta per la Sardegna: la Fusione perfetta con gli stati sabaudi di terraferma. Con essa l’Isola veniva deprivata del suo Parlamento e finiva così il Regnum Sardiniae.

Se si è scritto che siano stati i Sardi stessi a rinunciarvi. Si tratta di una grossa balla: non è assolutamente vero. A chiedere la Fusione, che verrà decretata da Carlo Alberto, furono alcuni membri degli Stamenti di Cagliari e di Sassari, senza alcuna delega né rappresentatività né stamentaria né, tanto meno, popolare. Il Parlamento neppure si riunì. Tanto che Sergio Salvi, lo scrittore e storico fiorentino gran conoscitore di cose sarde ha parlato di “rapina giuridica”.

Mi si potrà obiettare: e le manifestazioni pubbliche che si svolsero a Cagliari (dal 19 al 24 novembre) e a Sassari nel 1847 non servono come titolo di rappresentatività popolare? Non sono esse segno e testimonianza che la popolazione sarda voleva e richiedeva la Fusione?

Per intanto occorre chiarire che quelle pubbliche manifestazioni, erano poco rappresentative della popolazione sarde in quanto i partecipanti appartenevano sostanzialmente ai ceti urbani. Ma soprattutto esse rispondevano esclusivamente agli interessi della nobiltà ex feudale, illecitamente arricchitasi, con la cessione dei feudi in cambio di esorbitanti compensi, che riteneva più garantite le proprie rendite dalle finanze piemontesi piuttosto che da quelle sarde. Nella fusione inoltre vedevano una possibile fonte di arricchimento la borghesia impiegatizia e i ceti mercantili. Dentro la cortina fumogena del riformismo liberale europeo, avanzavano inoltre anche in Sardegna, spinte ideologiche e patriottarde – rappresentate soprattutto dalla borghesia intellettuale (avvocati, letterati, professionisti in cerca di lustrini) e dagli studenti universitari – che vedevano nella Fusione la possibilità che venissero estese anche alla Sardegna riforme liberali quali l’attenuazione della censura sulla stampa, la limitazione degli abusi polizieschi, qualche libertà commerciale e persino un primo passo verso l’unificazione degli Stati italiani.

“Per la ex nobiltà feudale – scrive Girolamo Sotgiu – la conservazione delle vecchie istituzioni non aveva alcun interesse. La possibilità di conservare un peso politico era ormai data soltanto dalle posizioni da conquistare nelle istituzioni militari e civili del regno sabaudo e dalla conservazione di una forza economica fondata non più tanto sul possesso della terra, quanto delle cartelle del debito pubblico, e « le cedole di Sardegna – come afferma il Baudi di Vesme – colla riunione delle due finanze [avrebbero acquistato] il dieci e più per cento di valore commerciale, ed il capitale che dava cinque lire di entrata, e [che si vendeva ] a lire 108 sarebbe immediatamente salito alle 120 e più». (1)

Comunque, se le stesse Manifestazioni contengono una serie di ambiguità, specie rispetto agli obiettivi che si proponevano, in ogni caso ben altre e diverse erano le aspirazioni delle masse popolari, urbane come quelle dei pastori e contadini e difforme l’atteggiamento verso il Piemonte.

Scrive ancora Girolamo Sotgiu: ”Che gli orientamenti più largamente diffusi fossero diversi è dimostrato da molti fatti. L’ostilità contro i piemontesi era forte come non mai, e le riforme erano viste anche come strumento per alleggerire il peso di un regime di sopraffazione politica che era tanto più odioso in quanto esercitato dai cittadini di un’altra nazione; per ottenere cioè non una fusione ma quanto più possibile di separazione”. (2)

Tanto che lo storico piemontese Carlo Baudi di Vesme scrive che “correvano libelli sediziosi forieri della tempesta e quasi ad alta voce si minacciava un rinnovamento del novantaquattro”. (3)

Ovvero una nuova cacciata dei piemontesi, considerati i responsabili principali della drammatica situazione economica aggravata dalla crisi delle campagne (fallimento dei raccolti) e dall’esosità del fisco. Lo stesso Vesme ricorda ancora che “un sarto, per nome Manneddu, sollevò il grido di Morte ai Piemontesi in teatro, nel colmo delle manifestazioni di esultanza per la concessione delle riforme”. (4)

E sulla Torre dell’Elefante, a Cagliari, il giorno della partenza per Torino di alcuni membri degli Stamenti, il 24 novembre, per chiedere la sciagurata fusione, apparve un manifesto con la scritta:Viva la lega italiana/e le nuove riforme/Morte ai Gesuiti e ai piemontesi/Concittadini:ecco il momento disiato/della sarda rigenerazione.

Giovanni Siotto Pintor inoltre scrive che nei giorni delle dimostrazioni “Moltissimi contadini di Teulada traevano a Cagliari credendo a una rivolta” per sostenerla e rafforzarla e che “cinquecento armati del vicino paese di Selargius stavano pronti a venire al primo avviso” e che “v’erano uomini di Aritzo, d’Orgosolo, di Fonni mandati per sapere se [c’era] mestieri d’aiuto nel qual caso [sarebbero venuti] otto centinaia di uomini armati”. (5)

Con la Fusione Perfetta con gli stati del continente, la Sardegna perderà ogni forma residuale di sovranità e di autonomia statuale per confluire nei confini di uno stato più grande e il cui centro degli interessi risultava naturalmente radicato sul continente. L’Unione Perfetta non apportò alcun vantaggio all’Isola, né dal punto di vista economico, né da quelli politico, sociale e culturale. Tale esito fallimentare fu ben chiaro sin dai primi anni con l’aggravamento fiscale e una maggiore repressione che sfociò nello stato d’assedio, – che divenne sistema di governo – sia con Alberto la Marmora (1849) che con il generale Durando (1852)

Gli stessi sostenitori della Fusione, ad iniziare da Giovanni Siotto-Pintor, parlarono di follia collettiva, riconoscendo l’errore. Errammo tutti, ebbe a scrivere Pintor.

Gianbattista Tuveri sostenne che dopo la Fusione “La Sardegna era diventata una fattoria del Piemonte, misera e affamata di un governo senza cuore e senza cervello”.

Note Bibliografiche

1. Girolamo Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda, Edizioni Laterza, Roma.Bari, 1984, pag. 306.

2. Ibidem, pagg. 307-308

3. Carlo Baudi di Vesme, Considerazioni politiche ed economiche sulla Sardegna, Stamperia reale, Torino 1848 pag.181.

4. Ibidem, pag. 189.

5. Giovanni Siotto Pintor, Storia civile dei popoli sardi dal 1798 al 1848, Casanova, Torino, 1877, pag. 518.

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* anche su FondazioneSardinia

con gli occhiali di Piero…

GLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413ANNIVERSARI. Buggerru. Su Aladinpensiero, un anno fa. A oggi sono 100 anni, un secolo di buoni rapport con l’Italia…
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GIOVANNI BATTISTA TUVERI. Su Aladinpensiero un anno fa.

gli occhiali di Piero…

GLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x15014131ANNIVERSARI. Giovanni Battista Tuveri, un anno fa su Aladinpensiero (vedi anche il 29 novembre 2013 su la”fusione perfetta” del 1847).
GIOVANNI BATTISTA TUVERI. Il 4 agosto 1815 a Forru (Collinas) nasce Giovanni Battista Tuveri. Maestro di retorica e filosofia, laureato in giurisprudenza, Cattolico, repubblicano e federalista, si oppose nel parlamento Subalpino alla fusione della Sardegna col Piemonte. Nel 1850 fondò la Gazzetta…
WWW.ALADINPENSIERO.IT: http://www.aladinpensiero.it/?p=13549

con gli occhiali di Piero…

CITAZIONE DELLA SERA Amo la poesia perchè mi fa amare / e mi dona la vita./E di tutti i fuochi che muoiono in me /ce n’è uno che brucia come il sole. (Gregory Corso)
GLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413immacolata portico principe amedeo cagliariIMMACOLATA CONCEZIONE
Oggi si celebra la Madre di Gesù di Nazareth.
Per i credenti essa fu concepita Immacolata, cioè senza la macchia del peccato originale. E’ il dogma dell’Immacolata Concezione, proclamato da Pio IX in questo giorno del 1853, da non confondere col dogma della verginità della Madonna (Concilio di Costantinopoli, anno 553).
“Que soy era Immaculada Councepciou”, disse a Bernadette Soubirous l’apparizione della bianca signora di Lourdes, così che Bernadette, che parlava e capiva soltanto il guascone, cominciò a essere creduta poichè nel 1858 non era certo al corrente del dogma proclamato qualche anno prima.
FESTA NAZIONALE CORSA
Oggi in Corsica è Festa Nazionale, sotto la protezione dell’Immacolata.
La “Festa di a Nazione”, che data dal 1735, è ancora oggi molto sentita: si festeggia in particolare a Morosaglia, dove nacque Pasquale Paoli; a Borgo, luogo della battaglia dove i corsi batterono i francesi invasori nel 1768; a Ponte Nuovo, luogo della battaglia contro le truppe francesi di Luigi XV, che vide la sconfitta della Repubblica (1769); a Corte, capitale della Repubblica Corsa, sede del governo, della zecca e dell’Università al tempo di Pasquale Paoli. Tanti auguri, amici corsi dell’isola sorella.

GIOVANNI BATTISTA TUVERI
Muore l’8 dicembre 1887 a Collinas, dov’era nato, Giovanni Battista Tuveri.
Ne abbiamo parlato il 4 agosto, anniversario della nascita, e il 29 novembre per la sua opposizione alla “fusione perfetta” (vedi Aladin Pensiero).

JOHN LENNON. L’8 dicembre 1980 un giovane malato di mente spara 5 colpi di pistola contro John Lennon, davanti all’ingresso di casa a New York. Quattro colpi vanno a segno, Lennon arriva già morto all’ospedale. Il mondo stupì: uccidere un cantante, proprio senza senso… eppure Robert Altman, profeticamente, cinque anni prima nel film Nashville aveva messo in scena l’uccisione di una cantante, idolo delle folle: la eccessiva esposizione sul palco del mondo di questi nuovi idoli li proponeva come bersagli all’attenzione di deboli menti.All’evento demenziale segue un altrettanto demenziale risposta: nel film lo spettacolo deve continuare e il pubblico, dopo qualche minuto di choc, canta in coro “It dont worry me” (Non me ne importa); nella realtà il pubblico corre ad acquistare i dischi del defunto artista che, da morto meglio che da vivo, raggiunge e mantiene la vetta delle classifiche.

RAPPORTI ISRAELE-PALESTINA. L’INTIFADA. 8 dicembre 1987, (segue)