STORIA e LETTERATURA SARDA

Giovanni Maria Angioy

Carlo-Feroce-con-preservativo-30-ott-12-150x150Un Comitato denominato “SPOSTIAMO LA STATUA DI CARLO FELICE” di Piazza Yenne a Cagliari, propone di sostituire la statua di Carlo Felice con altro monumento idoneo a ricordare invece qualche eroe della lotta per la liberazione del popolo sardo dalle vessazioni dei dominatori succedutisi nei secoli, quale per esempio, lo stesso Giovanni Maria Angioy.
Qui di seguito una breve scheda sull’eroe antifeudale, cui io propongo di dedicare una statua che sostituisca quella attuale di Carlo Feroce.
Giovanni Maria Angioy e la fine di un sogno
di Francesco Casula
Giovanni Maria Angioy Memoriale 2- Angioy coltivatore ed imprenditore, professore di diritto canonico, giudice della Reale Udienza.
La vita dell’Angioy non è solo una traccia, un frammento, nella storia sotterranea delle longues durées e dei processi di trasformazione che hanno attraversato la società sarda. La sua vicenda politica ed umana assume infatti un valore emblematico perché riflette la parabola di un’intera generazione di sardi, vissuta fra le realizzazioni del cosiddetto «riformismo» (senza riforme) sabaudo, un decennio di sconvolgimenti rivoluzionari e la spietata restaurazione e violenta repressione dei primi anni dell’Ottocento. In quel contesto si inserisce anche l’attività di Angioy, nato a Bono il 21 ottobre 1751, dopo aver studiato a Sassari nel Collegio Campoleno ed essersi addottorato in Legge, nel 1773 a Cagliari inizia la pratica forense.
Imprenditore agrario e manifatturiero oltre che professore di diritto canonico, è un alto funzionario dello Stato (fra l’altro giudice della Reale Udienza) colto ed efficiente oltre che intellettuale aperto agli stimoli e agli influssi dei “lumi” e delle riforme.
Come giudice della Reale Udienza fa parte della Giunta stamentaria costituita di due membri di ciascuno dei bracci parlamentari. Pur rimanendo nell’ombra negli anni delle sommosse cittadine e dei moti antipiemontesi, – anche se il Manno, cercando di metterlo in cattiva luce, insinua che egli tramasse dietro le quinte anche in quelle circostanze e dunque fosse coinvolto nella cacciata dei piemontesi – secondo molti storici sardi – ad iniziare dal Sulis – si affermerebbe come il capo più autorevole del Partito democratico e come l’esponente più importante di un gruppo di intellettuali largamente influenzato dall’illuminismo e dal Giacobinismo: fra i più importanti Gioachino Mundula, Gavino Fadda, Gaspare Sini, il rettore di Semestene Francesco Muroni con il fratello speziale Salvatore, il rettore di Florinas Gavino Sechi Bologna e altri.
- Angioy: “Alternos”
Mentre nel capo di sopra divampa l’incendio antifeudale, con le agitazioni che continuano e si diffondono in paesi e ville del Sassarese, gli Stamenti propongono al viceré Vivalda di nominare l’Angioy alternos con poteri civili, militari e giudiziari pari a quelli del viceré. Il canonico Sisternes si sarebbe poi vantato di aver proposto il nome dell’Angioy per allontanarlo da Cagliari e indebolire il suo partito. Certo è che il suo nome venne fatto perché persona saggia e perché solo lui, grazie al potere e al prestigio che disponeva nonché alla competenza in materia di diritto feudale ma anche perché originario della Sardegna settentrionale, avrebbe potuto ristabilire l’ordine nel Logudoro. L’intellettuale di Bono accettò, ritenendo che con quel ruolo avrebbe rafforzato le proprie posizioni ma anche quelle della sua parte politica incentrate sicuramente nella abolizione del feudalesimo in primis. Il viaggio a Sassari fu un vero e proprio trionfo: seguaci armati ed entusiasti si unirono con lui nel corso del viaggio, vedendolo come il liberatore dall’oppressione feudale. E giustamente. Anche perché riuscì a comporre conflitti e agitazioni, a riconciliare molti personaggi, a liberare detenuti che giacevano – scrive Vittorio Angius – “in sotterranee oscure fetentissime carceri”.
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- L’Angioy a Sassari
Accolto a Sassari dal popolo festante ed entusiasta – persino i monsignori lo ricevettero nel Duomo al canto del Te Deum di ringraziamento – in breve tempo riordinò l’amministrazione della giustizia e della cosa pubblica, creò un’efficiente polizia urbana e diede dunque più sicurezza alla città, predispose lavori di pubblica utilità creando lavoro per molti disoccupati, si fece mandare da Cagliari il grano che era stato inutilmente richiesto quando più vivo era il contrasto fra le due città: per questa sua opera ottenne una vastissima popolarità. Nel frattempo i vassalli, impazienti nel sospirare la liberazione dalla schiavitù feudale (ovvero “de si bogare sa cadena da-e su tuiu” come diceva il rettore Murroni, amico e sostenitore di Angioy) e di ottenere il riscatto dei feudi, proseguirono nella stipulazione dei patti dell’anno precedente: il 17 marzo 1796 ben 40 villaggi del capo settentrionale, confederandosi, giuravano solennemente di non riconoscere più né voler dipendere dai baroni.
Angioy non poteva non essere d’accordo con loro e li riconobbe: in una lettera spedita il 9 giugno 1796 al viceré da Oristano, nella sfortunata marcia su Cagliari che tra poco intraprenderà, giustificò l’azione degli abitanti delle ville e dei paesi riconoscendo la drammaticità dell’oppressione feudale che non era possibile più contenere e gestire e assurdo e controproducente cercare di reprimere. Non faceva però i conti con la controparte: i baroni. Che tutto voleva fuorché l’abolizione dei feudi: ad iniziare dal viceré. Tanto che i suoi nemici organizzarono durante la sua stessa permanenza a Sassari una congiura, scoperta ad aprile. Si decise perciò di “impressionare gli stamenti con una dimostrazione di forza, – scrive Natale Sanna – che facesse loro comprendere come il moto antifeudale era seguito da tutta la popolazione e che era ormai inarrestabile”. Lasciò dunque Sassari e si diresse a Cagliari.

- L’Angioy e la marcia verso Cagliari, la sua fine e la fine di un sogno…

Il 2 Giugno 1796 l’Alternos si dirige verso Cagliari, accompagnato da gran seguito di dragoni, amici e miliziani: nel Logudoro si ripetono le scene di consenso entusiastico dell’anno precedente. A Semestene però ebbe una comunicazione da Bosa circa i preparativi che erano in atto per fronteggiare ogni sua mossa e a San Leonardo, “fatta sequestrare la posta diretta a Sassari, ebbe conferma delle misure che venivano prese contro di lui”, scrivono Lorenzo e Vittoria Del Piano. Difatti a Macomer popolani armati, sobillati pare da ricchi proprietari, cercarono di impedirgli il passaggio, sicché egli dovette entrare con la forza. Poiché anche Bortigali gli si mostrava ostile, si diresse verso Santu Lussurgiu e l’8 giugno giunse in vista di Oristano. Nella capitale la notizia che un esercito si avvicinava spaventò il viceré che radunò gli Stamenti. Tutti furono contro l’Angioy: anche quelli che erano stati suoi partigiani come il Pintor, il Cabras, il Sulis. Ahimè ritornati subito, da veri e propri ascari, sotto le grandi ali del potere in cambio di prebende e uffici.
Giovanni Maria Angioy MemorialeCosì il generoso tentativo dell’Angioy si scontra con gli interessi di pochi: fu rimosso dalla carica di Alternos, si posero 1.500 lire di taglia sulla sua testa e da leader prestigioso e carismatico, impegnato nella lotta antifeudale, per i diritti dei popoli e, in prospettiva nella costruzione in uno stato sardo repubblicano, divenne un volgare “ricercato”. Occorre infatti dire e sostenere con chiarezza che l’Angioy aveva in testa – come risulta dal suo Memoriale – non solo la pura e semplice abolizione del feudalesimo ma una nuova prospettiva istituzionale: la trasformazione dell’antico Parlamento in Assemblea Costituente e uno stato sardo indipendente che “doveva comporsi di quattro dipartimenti (Sassari, Oristano, Cagliari e Orani) suddivisi a loro volta in cantoni ricalcanti le micro-regioni storiche dell’Isola”.

Premio Letterario Montanaru

Premio MontanaruLa Montagna Produce Desulo
Premio Letterario Montanaru: un evento che ci accompagna da 24 anni e che premia le migliori poesie e racconti in lingua sarda. Un modo per incentivare e stimolare all’uso della nostra bellissima lingua, che niente e nessuno ci potrà mai togliere! Vi aspettiamo domani domenica 1 novembre a partire dalle h. 10 (Lucia Cossu)
Francesco Casula ftomicro- Su Montanaru e la lingua sarda un articolo di Francesco Casula su Aladinews.

Po “sa die de sa Sardigna” 2015

logo-sa-die-F-Figari-300x173Sa die RAS.
Il significato. La storia. Il programma: Sa die in Casteddu, sa die in totu sa Sardigna.
- Sul sito della Fondazione Sardinia
http://www.fondazionesardinia.eu/ita/?p=10319#more-10319
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La guerra dei nostri nonni. La Brigata Sassari in musica

BRIGATA SS VANNI 2Sassari – L’orchestra della Scuola Media n° 5 celebra il centenario della Prima Guerra Mondiale.
“La guerra dei nostri nonni – la Brigata Sassari in musica”
sedia di Vannitoladi Vanni Tola
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Tra storia e mito, il romanzo come opportunità

stendardo di LepantoLa Relazione è stata elaborata per l’iniziativa “Alla ricerca della storia perduta”. La storia vera di Diego Henares de Astorga di Nicolò Migheli Hombres Y Dinero di Pietro Maurandi Le Carte del re di Pietro Picciau sono i tre romanzi che hanno animato il II° secondo appuntamento organizzato dalla Delegazione e dal FAI Giovani di Cagliari con la Presidenza regionale FAI lunedì 2 marzo 2015 alla Fondazione Banco di Sardegna via S. Salvatore da Horta, Cagliari.

di Nicolò Migheli

Nell’incontro precedente “Alla ricerca della storia perduta”, Vindice Lecis sosteneva che spesso il romanzo storico si nutre di dettagli, di particolari che a volte vengono trascurati dagli storici di professione. Nel caso del mio romanzo cinquecentesco è stato così, però solo in parte. Proprio in questi giorni si celebra il centenario della costituzione della brigata Sassari, un reparto militare composto interamente da sardi che si sacrificò sui fronti della Prima Guerra Mondiale.

L’epica della Brigata ha avuto due ragioni, la prima trasformare lo stigma lombrosiano sui sardi da “etnia delinquente” in “etnia combattente”; la seconda come catalizzatore del nostro riconoscimento in nazione, diventando una delle ragioni principali delle rivendicazioni autonomistiche. Grande storia e storia locale che si intrecciano creando mito in cui riconoscersi. Prima della Brigata, un altro reparto ha segnato l’immaginario dei sardi, il tercio de Cerdeña. Secondo la tradizione unità militare composta interamente da sardi, con quattrocento archibugieri imbarcati nell’ammiraglia Real di don Juan de Austria, avrebbe guadagnato la vittoria contro Alì- Paschà a Lepanto nel 1571 determinando l’esito dello scontro. Battaglia a cui partecipò anche Cervantes riportandone un braccio dilaniato da una proiettile turco.

L’aver contribuito ad un evento epico per le sorti della cristianità nel Mediterraneo, l’aver bloccato il pericolo ottomano, fu motivo di orgoglio per le èlite sarde; quel fatto d’arme sconfessava ai loro occhi la loro marginalità percepita, e quella della Sardegna. I fatti sono riportati da Salvador Vidal nel 1636 in Annales Sardinae, riprendendo la cronica dello spagnolo Jeronimo de Costial, il quale riferì che nell’ottobre del 1571 la flotta spagnola di rientro da Lepanto fece tappa a Cagliari , e che un corteo di soldati sardi e di popolo, portò in trionfo nella chiesa di San Domenico la bandiera del tercio, deponendola nella cappella di Nostra Signora del Rosario. Stendardo oggi conservato nella sagrestia di quella chiesa.

Peccato che non sia una bandiera con le insegne di Filippo II, croce borgognona rossa in campo giallo, bensì uno stendardo con le barre catalane. – Visto che siamo ospiti di una fondazione bancaria, faccio appello affinché il Banco di Sardegna stanzi un finanziamento per il restauro di quelle insegne, oggi sono in condizioni pietose, esposte alla luce stanno per scomparire i colori ed il tessuto si sta stramando -

Il mito del primo tercio, percorse la storia sarda, ne parlarono lo stesso Lussu ed altri. Qualche anno fa Gian Paolo Tore dopo lunghe ricerche negli archivi di Madrid e Barcellona, pubblicò con il Cnr uno studio accurato sulle vicende di quel reparto che ebbe vita brevissima: dal 1565 al 1568. La ricerca rivelò che il tercio de Cerdeña, composto esclusivamente da soldati nativi di Spagna, aveva combattuto in Corsica, Malta e Fiandre e che poi era stato sciolto per ignominia dopo il saccheggio ed incendio di Jemmingen nei Paesi Bassi, villaggio forse protestante, ma facente parte dei domini di Filippo II.

Il duca d’Alba, comandante dell’esercito imperiale, si vide costretto a punire il reparto e chi si era macchiato del delitto. Se sardi hanno combattuto a Lepanto, non potevano essere certo inquadrati in quel tercio. Vi fu un secondo tercio de Cerdeña, reclutato negli anni Trenta del Seicento dal marchese di Sedilo che operò in Fiandre, quello sì totalmente composto da sardi. L’unico contatto, oltre alla denominazione, tra il primo tercio e la nostra isola, è il suo acquartieramento nel’inverno del 1565 in Stampace. La permanenza non fu facile. I soldati spagnoli si rifiutarono di onorare i contratti di affitto delle case, pretesero sconti nell’acquisto dei viveri, spesso non pagandoli. Si ebbero scontri continui con gli stampacini che non faticarono molto a tenere alta la loro fama di essere “cucurus cotus”, teste calde incline alla rissa.

Il Cinquecento sardo non ha prodotto solo il mito del tercio, è anche fonte di uno stigma negativo diventato presto autostigma. È il noto “pocos locos y mal unidos”. Attribuito a Carlo V, in realtà forse scritto in una lettera ad un amico spagnolo dal vescovo di Cagliari Parraguez de Castellejo. Il prelato per ragioni politiche venne denunciato all’Inquisizione come protestante. Accusa da cui venne scagionato. Parraguez de Castellejo se mai scrisse quelle parole, si riferiva ai nobili di Cagliari, tutti di origine spagnola, non certo ai sardi naturals che ai suoi occhi, come a quelli di qualsiasi aristocratico del tempo, non contavano nulla. Potenza però delle parole, se ancora oggi in molti le vogliono come tratto caratteristico dell’essere sardi. In realtà noi non siamo né locos, né mal unidos, più di altri. Tutti i fenomeni di solidarietà reciproca e le iniziative comunitarie del nostro tempo lo dimostrano.

Scrivere romanzi storici è imbattersi nel mito, è far dialogare personaggi reali con quelli di finzione, con il risultato che anche chi è vissuto allora diventa personaggio da romanzo, e quello creato dallo scrittore personaggio “storico”. Entrambi protagonisti di vicende coeve. Nel caso del Cinquecento poi, la ricchezza di documentazione, gli studi fatti da storici di professione, permettono di calarsi anche nel loro pensiero; capirne la quotidianità, le relazioni, il loro porsi davanti al mondo. In fin dei conti erano moderni, non molto lontani da come siamo noi. Il romanzo permette di sfatare il luogo comune della marginalità della Sardegna allora facente parte dell’impero più grande del mondo, dove non tramontava mai il sole. Il racconto permette di capire che si era centrali, terra di confine nella faglia tra cristianesimo ed islam. Tema tragicamente d’attualità se, proprio oggi, Domenico Quirico sulla Stampa scrive dell’Isis intitolando l’articolo sul ritorno della Storia nel Mediterraneo.

La Sardegna di quegli anni era dentro il pensiero europeo, anche nella nostra terra vi era un piccolo movimento protestante, filiazione degli Alumbrados valenziani, bruciato dall’Inquisizione di Diego Calvo. Allo stesso tempo la tragica vicenda di Sigismondo Arquer rivela il suo legame con i circoli luterani di Basilea. Il filo rosso delle vicende di Diego Henares de Astorga è racconto di allora che serve all’oggi. Serve a capire ad esempio la multiculturalità, lo scontro tra classi, le forme del potere e del clientelismo. Temi del Cinquecento e temi di oggi. Se le vicende sono inserite in un romanzo d’avventura, un feuilleton scritto oggi, vi è anche la presunzione dell’autore che ricerche di carattere specialistico diventino accessibili anche al grande pubblico. In fin dei conti un tentativo di costruire un’epica per una terra che se n’è privata, una piccola pietra nell’edificio di un immaginario collettivo.

Per fare ciò occorre anche demitizzare, dando ai fatti lettura positiva senza indulgere nella vanagloria, evitando comunque di accarezzare quei sentimenti di impotenza e di risentimento che sono da sempre così popolari tra di noi. Se il romanzo può essere utile, ben venga. È chiaro che sono di parte, ma è quel che penso indipendentemente dall’essere anche l’autore di La storia vera di Diego Henares de Astorga.

D’altronde il tempo degli intellettuali organici non è ancora tramontato sul Mar di Sardegna. Per fortuna.
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* L’articolo di Nicolò Migheli viene pubblicato anche sui siti di FondazioneSardinia, Vitobiolchini, Tramasdeamistade, Madrigopolis, Sportello Formaparis, Tottusinpari e sui blog EnricoLobina e RobertoSerra, SardegnaSoprattutto.
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Il BILINGUISMO di GRAZIA DELEDDA

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di Francesco Casula
Specie in occasione della presentazione della mia Letteratura e civiltà della Sardegna (2 volumi, Edizioni Grafica del Parteolla, 2011-2013) spesso mi si chiede :”come mai Deledda per i suoi racconti e romanzi non ha usato la lingua sarda, che pur conosceva bene”?
Per comprendere bene la lingua che utilizza la Deledda nei suoi scritti occorre partire da questa premessa: la lingua sarda non è un dialetto italiano – come purtroppo ancora molti affermano e pensano, in genere per ignoranza – ma una vera e propria lingua. Noi sardi dunque, siamo bilingui perché parliamo contemporaneamente il Sardo e l’Italiano. Anche la Deledda era bilingue. Era una parlante sarda e i suoi testi in Italiano rispecchiano, quale più quale meno le strutture linguistiche del sardo, non tanto o non solo in senso tecnico quanto nei contenuti valoriali, nei giudizi, nei significati esistenziali, nelle struttura di senso magari inespresse ma presenti nel corso della narrazione. Voglio sostenere che la Deledda struttura il suo vissuto personale, la fenomenologia delle sue sensazioni e del profondo in lingua sarda ma lo riversa nella lingua italiana che risulta così semplice lingua strumentale. In tal modo opera un transfert del suo universo interiore nuorese, dell’inconscio, della fantasmatica.
Poteva non operare tale transfert e scrivere in Sardo? Certamente. Se non lo ha fatto è stato perché non vi era in quel momento storico (siamo a fine Ottocento-inizio Novecento) la cultura, la sensibilità, l’abitudine da parte degli scrittori, specie di romanzi, di utilizzare il sardo. Prima con i Savoia e poi con lo Stato unitario e ancor più con il fascismo, la lingua sarda viene infatti proibita negata criminalizzata.
Dopo il passaggio della Sardegna dalla Spagna al Piemonte (per un baratto di guerra) i Savoia (che parlano il francese!) introducono (e impongono) formalmente l’italiano al posto dello spagnolo, proibendo il sardo. Scriverà Carlo Baudi di Vesme, uno spocchioso storico di Cuneo, amico di Carlo Alberto (in Considerazioni politiche ed economiche sulla Sardegna, Torino 1848) che “In materia d’incivilimento della Sardegna e d’instruzione pubblica, innovazione importantissima si è quella di proibire severamente in ogni atto pubblico civile l’uso dei dialetti sardi, prescrivendo l’esclusivo impiego della lingua italiana”. E ancora ripete e insiste: ”E’ necessario inoltre scemare l’uso del dialetto sardo e introdurre quello della lingua italiana per incivilire alquanto quella nazione…”.
Insieme alla lingua verrà proibita e negata la storia sarda, perché – risposero le autorità governative piemontesi a Pietro Martini che voleva introdurre fra gli studenti dell’Isola l’insegnamento della Storia – “nelle scuole dello Stato debbasi insegnare la storia antica e moderna, non di una provincia ma di tutta la nazione e specialmente d’Italia”.
Tale concezione, da ricondurre a un progetto di omogeneizzazione culturale, – che per l’Isola significherà dessardizzazione – la ritroviamo pari pari nelle Leggi sull’istruzione elementare obbligatoria nell’Italia pre e post unitaria con i programmi scolastici, impostati secondo una logica rigidamente statalista e italocentrica, finalizzati a creare una coscienza “unitaria“, uno spirito “nazionale“, capace di superare i limiti – così si pensava – di una realtà politico-sociale estremamente composita sul piano storico, linguistico e culturale. Questo paradigma fu enfatizzato nel periodo fascista, con l’operazione della “nazionalizzazione-italianizzazione” dell’intera storia italiana. Non c’è quindi da meravigliarsi che, una volta negata e proibita, gli scrittori – anche per avere una maggiore visibilità e diffusione delle loro opere – scrivano in italiano: la Deledda come tanti altri. Ma – dicevo – Deledda rimane bilingue: pensa in sardo e traduce, spesso meccanicamente in italiano, soprattutto “nel parlare dialogico” – lo sostiene il linguista Massimo Pittau e io sono d’accordo – come in: ”Venuto sei? – che traduce il sardo: Bennidu ses?; o “Trovato fatto l’hai? – Accatadu fattu l’as?; o ancora “A Luigi visto l’hai? – A Luisu bidu l’as?; o “Quando è così, andiamo – Cando est gai, andamus.
Vi sono poi innumerevoli vocaboli tipicamente sardi e solamente sardi che Deledda inserisce nelle sue opere quando attengono all’ambiente sardo: pensiamo a tanca (terreno di campagna chiuso da un recinto fatto in genere di sassi), socronza, usatissima in Elias Portolu (consuocera), corbula (cesta), bertula (bisaccia), tasca (tascapane), leppa (coltello a serramanico), cumbessias o muristenes (stanzette tipiche delle chiese di campagna un tempo utilizzate per chi dormiva là per le novene della Madonna o di Santi), domos de janas (tombe rupestri e letteralmente “case delle fate”).
O addirittura intere frasi in sardo come: frate meu (fratello mio), Santu Franziscu bellu (San Francesco bello), su bellu mannu (il bellissimo, letteralmente il bello grande), su cusinu mizadu (il borghese con calze), a ti paret? (ti sembra?), corfu ‘e mazza a conca (colpo di mazza in testa), ancu non ch’essas prus (che tu non ne esca più: è un’imprecazione).
Qualche volta Deledda ricorre a frasi italiane storpiate in sardo o frasi sarde storpiate in italiano: Come ho ammaccato questo cristiano così ammaccherò te (…) o Avete compriso?”.
Occorre però chiarire che i sardismi linguistici della Deledda, non solo lessicali ma anche sintattici, non derivano dalla sua incapacità di utilizzare correttamente la lingua italiana. Scrive a questo proposito la critica sarda Paola Pittalis: ”L’uso dei sardismi linguistici da parte della Deledda anche nelle opere della maturità – è il caso di Elias Portolu – è consapevole e voluto. Rappresenta anzi una chiara e decisa scelta di linguaggio letterario, di canone stilistico e fa parte del suo essere bilingue”. E aggiunge: ”La sintassi prevalentemente paratattica, non equivale alla mancanza di stile: deriva dal trasferimento nella scrittura di modalità anche linguistiche di costruzione del racconto orale… ed è il contributo modernizzante di Deledda allo snellimento della lingua letteraria italiana costruita sul modello della frase manzoniana”.

La storia sarda? Interrata. Abrasa.

LOGO FIM SARDA Liseidi Francesco Casula
Gaspare Barbiellini Amidei, già brillante editorialista del Corriere della Sera, nel 1971 scrive un suggestivo saggio: Il minusvalore. In esso sostiene la tesi secondo la quale gli uomini ricchi rubano da sempre agli altri uomini la loro fatica, pagandola con il salario che è soltanto una parte del valore dei loro prodotti. Il resto (plus valore e dunque profitto) va ad accumulare altra ricchezza. Marx smascherò questo furto e le magiche parole della religione, della morale, della cultura e del prestigio che avevano coperto per millenni il plus valore. Ma gli uomini ricchi non rubano solo fatica agli altri uomini ma anche memoria, storia, lingua, cultura: minusvalore, appunto, di qui il titolo dell’opera. Che è l’altra faccia dello sfruttamento denunciato da Marx con il plus valore. Il che non significa – precisa l’autore – andare contro Marx, ma aggiungere a Marx qualcosa in più. Ebbene, mi piace applicare tale tesi agli Stati ufficiali, che fin dalla loro nascita rubano alle piccole patrie, alle nazionalità oppresse o comunque non riconosciute, ai popoli marginali, non solo fatica, lavoro e salario – attraverso il colonialismo interno – ma anche memoria, cultura, identità e storia. Questa tesi ben si attaglia ai Sardi: depredati e deprivati nella loro storia non solo a livello materiale (risorse, materie prime) ma anche a livello immateriale (cultura, lingua e storia soprattutto). - segue –