Monthly Archives: aprile 2016

Onori a Efis martiri gloriosu!

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Il Meridione e la Sardegna «le» risorse per arrestare e superare il declino del Paese Italia

29 apri 16  Faddalampada aladin micromicroLa Sardegna viene spesso omologata all’interno dell’insieme più vasto del Meridione d’Italia, perdendosi così la sua specificità, sia per quanto riguarda i peculiari aspetti positivi, ma anche per quanto riguarda quelli negativi. Entrambi la rendono “unica”. Tuttavia vi sono numerosi aspetti comuni tra tutte le regioni del Meridione d’Italia che autorizzano l’assunzione dello stesso come unico oggetto d’analisi, rendendo pertanto sostenibili studi e proposte di carattere generale, che non pregiudicano la necessità di interventi specifici e differenziati per la Sardegna rispetto alle altre regioni meridionali. Pietro Greco, nelle riflessioni che avanza sull’ultimo numero del quindicinale Rocca (09, 1 maggio 2016), si occupa del Sud nel suo complesso, condividendo la tesi del presidente dello Svimez, Adriano Giannola, secondo cui “… il Sud sia una «risorsa», anzi sia «la» risorsa per la ripresa dell’intero Paese”. Riaffermando, come fanno pochi “la amico di ... Paolo Faddacentralità” della «questione meridionale». Questo dibattito – certo presente in Sardegna e in Italia – è tuttavia allo stato del tutto inadeguato rispetto all’importanza delle questioni in ballo. Al riguardo, per pertinente collegamento: ben vengano per questa finalità di ampliamento e approfondimento le iniziative come quella tenutasi ieri 29 aprile a Cagliari in Confindustria in occasione della presentazione del libro di Paolo Fadda “L’amico di uomini potenti” (Carlo Delfino Editore), su cui contiamo di tornare, anche ospitando rielaborazioni degli interessanti interventi che hanno animato il dibattito e che sono stati sacrificati dal tempo tiranno e dal protagonismo del conduttore Giacomo Mameli (a dire il vero giustificato dalla sua competenza ed esperienze professionali in materia). Ci piacerebbe pertanto che su questa news apparissero gli interventi di Antonio Sassu, di Roberto Mirasola, di Gianni Loy, di Franco Farina, di Marco Santoru, di Lucetta Milani, di Francesco Marini, di Carlo Delfino e degli altri intervenuti dei quali c’è sfuggito il nome. Come un tempo quando i quotidiani riportavano nei giorni successivi i dibattiti tenutisi nelle relative diverse occasioni d’incontro, ampliandoli e rilanciandoli. Oggi ne avremo particolare necessità.

SUD D’ITALIA
Come costruire il futuro

di Pietro Greco, su ROCCA 1 maggio 2016

C’è chi dice che il Mezzogiorno deve dedicarsi solo e unicamente al turismo e diventare la Florida d’Italia. C’è, al contrario, chi sostiene che deve accettare di tutto, dalle trivelle in Basilicata e l’Ilva a Taranto, anche a costo di rischiare un po’ di più in termini di ambiente e di salute. Inutile dire che le due ricette, specularmente opposte, per rilanciare il Mezzogiorno non tengono. E non solo perché, da un lato, nessun Paese al mondo vive di solo turismo e, dall’altro, perché le vecchie industrie inquinanti sono, appunto, vecchie e, dunque, fuori mercato. Ma anche e soprattutto perché nessuna delle due ricette tiene conto che viviamo nell’era (certo un bel po’ disordinata) della conoscenza e che per essere competitivi non basta mettere due ombrelloni al sole e neppure produrre del buon acciaio. Per essere competitivi occorre produrre beni e (e, si badi bene, non o) servizi hi-tech, con un alto tasso di conoscenza e di sostenibilità ambientale incorporato.

un grido di allarme

Eppure un merito, queste grida poco fondate – fate turismo! accontentatevi di ospitare vecchie industrie! – ce l’hanno: contribuiscono a rompere il muro dell’attenzione che da troppi anni avvolge e quasi stritola il Mezzogiorno. Costringono a pensare il futuro del Sud.

Per la verità, il merito principale di questo ritorno di attenzione sul destino del Meridione è dovuto quasi per intero al «grido di dolore» che l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno (Svimez) ha lanciato con il suo ultimo rapporto: il Sud è alla deriva. Il distacco delle regioni meridionali dal resto d’Italia e d’Europa è ormai enorme. Tanto che qualcuno sostiene sia al limite della irreversibilità. Dovesse continuare questa condizione, scrive il Presidente di Svimez, Adriano Giannola, in un libro di cui parleremo tra poco: tra pochi anni, nel 2040, ci accorgeremo che il Mezzogiorno è svanito, «senza clamore, per eutanasia».

Ben vengano dunque le grida, quelle infondate ma soprattutto quelle fondate, perché rompere il trentennale silenzio sulla irrisolta «questione meridionale» è condizione necessaria per evitare la morte in un «flebile lamento» del Mezzogiorno d’Italia.

Condizione necessaria, ma purtroppo non sufficiente. Non basta essere consapevoli e persino gridare che il re è nudo. Occorre anche rivestirlo e restituirlo alle sue funzioni. Occorre, fuor di metafora, un piano che eviti al Mezzogiorno il suo triste destino. Occorre riproporre in termini nuovi l’antica «questione meridionale». Molti osservatori nei mesi scorsi – da Eugenio Scalfari su Repubblica a Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera – hanno suggerito, in maniera più o meno esplicita, questa seconda necessità. Ma pochi l’hanno declinata. Pochi hanno indicato la strada possibile per evitare che il Mezzogiorno prosegua nella sua deriva.

non un peso ma una risorsa

GIANNOLA_libro SudAdriano Giannola, invece, ha scritto un libro in cui non solo denuncia il colpevole silenzio sulla deriva del Mezzogiorno, ma indica anche la strada per riprendere la rotta verso un porto sicuro. Il libro si intitola, un po’ a sorpresa, Sud d’Italia. Una risorsa per la ripresa (Salerno Editrice, Roma 2015, pagg. 108, euro 8,90) e dopo un’efficace ricostruzione storica dell’origine e dell’evoluzione del dualismo tra Settentrione e Meridione d’Italia indica come «costruire il futuro».

Adriano Giannola guarda al Sud non solo come a un pezzo d’Italia alla deriva, ma anche come a una risorsa per la ripresa dell’intero Paese. È piuttosto significativo che questa visione non sia stata sottolineata neppure da Scalfari e da Galli della Loggia. Questa differenza segna il grado di consapevolezza, non esaltante, che anche gli intellettuali italiani più acuti hanno oggi del problema.

un Sud blocca Nord?

C’è, tra questi intellettuali avvertiti, chi pensa che il Sud sia il vagone piombato di un treno-Paese che impedisce alla locomotiva, il Nord, di correre a briglia sciolta. Adriano Giannola ne cita uno autorevole, come Massimo Cacciari, che pone la «questione settentrionale» in questi termini: «il peso che il Nord deve sostenere per i conti generali del Paese è un dato oggettivo [...] perché lì ‘al Sud’, una grande fetta dell’economia è in mano alla criminalità [...]. O si ricomincia dalla locomotiva o non c’è ripresa. Mica i vagoni possono portare avanti il Paese [...] e allora cerchiamo di non strozzare la gallina». In altri termini, risolviamo la «questione settentrionale» e poi, vedrete, anche il Sud sarà trascinato verso lo sviluppo.

C’è chi pensa che le due questioni, quella settentrionale e quella meridionale, siano collegate e che siano aspetti di una più generale «questione Italia». Anche se poi stentano a definire cosa sia questa «questione italiana».

Ma pochi sostengono – come fa Giannola nel suo libro – ©. E, dunque, pochi affermano la centralità della «questione meridionale».

Nel suo libro, come abbiamo detto, Adriano Giannola ripercorre la storia del dualismo Nord/Sud, con rapide ma efficacissime pennellate. Torneremo in un altro momento su questa ricostruzione, illuminante. Prendiamo in considerazione, ora, la parte di analisi che riguarda il presente e la parte progettuale: come costruire il futuro. Il futuro dell’Italia, beninteso, non solo della sua parte meridionale alla deriva.
L’analisi lega alcuni fatti.
1. La «questione italiana» non è contingente e non nasce con la crisi finanziaria mondiale del 2007. L’Italia è in una fase di declino relativo, che secondo Giannola dura da vent’anni e secondo noi da almeno trenta. Sono due, anzi tre, decenni pieni che l’Italia corre meno degli altri Paesi europei, per non parlare di quella dozzina di Paesi cosiddetti a economia emergente dell’Asia sud-orientale (Cina in testa) e di altri paesi sparsi in America Latina e persino in Africa e nel Medio Oriente dilaniato da infinite guerre.
2. La crisi italiana è strutturale. E ha origine nella specializzazione produttiva del sistema Paese. La nostra specializzazione produttiva è nei beni a media e bassa tecnologia e nei servizi a medio e basso tasso di conoscenza aggiunto. Con la cosiddetta «nuova globalizzazione» e l’entrata sulla scena dell’industria e del commercio mondiale di Paesi con un basso costo del lavoro, il modello di produzione italiano, da alcuni definito «senza ricerca», è entrato inevitabilmente in crisi.
3. La risposta del sistema Italia alla «nuova globalizzazione» è stata ed è tuttora miope. Si è pensato di conservare il vecchio modello produttivo e di accettare la sfida dei Paesi meno avanzati cercando di agire sul costo del lavoro (stipendi minori, maggiore flessibilità, erosione dei diritti) invece di cercare di cambiare specializzazione produttiva e accettare la sfida dei Paesi più avanzati nei settori a maggior tasso di conoscenza aggiunto. Gli effetti di questa scelta, messi in luce da Giannola, sono stati devastanti: sul piano economico hanno prodotto la desertificazione industriale del Mezzogiorno e la diminuzione del mercato interno, determinando un avvitamento della crisi; sul piano sociale e politico hanno prodotto una «narrazione artefatta e consolate»: l’idea che il rallentamento del treno Italia fosse prodotto dal Sud incapace e in mano alla criminalità. Di qui una serie di politiche tese a «sganciare» il vagone piombato, abbandonandolo al suo destino, e a «liberare» la locomotiva del Nord.

4. Queste politiche hanno prodotto un avvitamento della crisi. Il Sud è diventato un deserto industriale, il reddito è stato attaccato, la povertà è aumentata, l’ambiente si è degradato, i giovani (i pochi giovani) laureati o comunque qualificati sono emigrati. Nel medesimo tempo le aziende del Nord hanno non solo tenuto a fatica il passo con quelle dei Paesi di nuova industrializzazione, ma hanno assistito alla caduta del mercato interno.

come interrompere la crisi

Come si interrompe questa crisi che si è avvitata su se stessa? Adriano Giannola propone una ricetta – un piano industriale – che solo agli occhi di chi non ne ha compreso la natura appaiano spiazzanti. a) Capire finalmente che siamo entrati nella società della conoscenza. E che solo la capacità di competere nei settori ad alto tasso di conoscenza (scientifica ma anche non) può rilanciare la nostra economia. b) Considerare il Sud non come il vagone piombato del treno Italia, come un pozzo senza fondo che assorbe le ricchezze prodotte al Nord (analisi che, peraltro, non ha fondamento alcuno), ma come «la» risorsa per la ripresa.

c) Giannola individua anche tre settori in cuiilrilanciodegliinvestimentialSudpuò tradursi in un fattore importante di ripresa per l’intero Paese: il settore energetico; la logistica a valore; il territorio.

Cop 21, la recente Conferenza delle Parti che hanno sottoscritto la Convenzione delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici tenuta a Parigi, ha ormai dichiarato irreversibile la transizione dai combustibili fossili alle fonti di energia rinnovabili e carbon free. Ne deriva che non le trivelle della Basilicata, ma il solare, l’eolico, la geotermia sono le fonti del futuro. E il Sud d’Italia è nella condizione di produrre energia da queste fonti, regalando all’intero Paese una maggiore autonomia energetica.

Il Mezzogiorno d’Italia è un grande porto al centro del Mediterraneo, ovvero del mare a più alta intensità di traffico commerciale del mondo. Con l’ampliamento del Canale di Suez il traffico navale nel Mediterraneo è destinato ad aumentare. In particolare sono destinati a aumentare i traffici con Cina e India. Il Mezzogiorno, lavorando con un’ottica sistemica, può (anzi, deve) proporsi come snodo principale di questi traffici.

primo: rigenerazione

Giannola ritiene, infine, che la rigenerazione urbana ed ambientale sia la terza opportunità per il Mezzogiorno. Rigenerazione significa rilancio di un’edilizia di qualità e non di quantità; ma anche nuova industrializzazione (industrie della conoscenza); difesa del territorio (dal dissesto idrogeologico; dal rischio sismico e vulcanico); valorizzazione non dei giacimenti (conservazione passiva) ma delle fucine culturali: facciamo sì che la tutela integrale dei beni archeologici, per esempio, diventi occasione di nuovi lavori ad alto tasso di creatività.

Le città meridionali nel primo decennio del XXI secolo hanno perso il 3,3% della popolazione, mentre quelle del Nord hanno fatto registrare un incremento del 4,8%. Un’ulteriore sintomo del malessere e del depauperamento economico e culturale del Mezzogiorno. Siano le città del Sud il centro di una nuova industria, di un nuovo «piano del lavoro» che comprenda e integri l’intero territorio.

Se tutto questo avvenisse, il Sud potrebbe portare anche il Nord fuori da quella condizione di declino che interessa l’Italia intera, sia pure con modalità diverse, da trent’anni.

È dalle risposte che la classe dirigente nazionale (politica, ma non solo politica) ma anche europea saprà dare alle domande poste dalla «questione meridionale» sapremo, conclude Giannola, «come sarà, se ci sarà, questa nuova Italia». Perché oggi più che mai è valido l’ammonimento di Giustino Fortunato: «il Mezzogiorno, sappiatelo pure, sarà la fortuna o la sciagura d’Italia!».

Pietro Greco

rocca 09 1 mag 16

Rocca – Cittadella 06081 Assisi
e-mail rocca.abb@cittadella.org

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Sabato 30 aprile 2016

Emanuele 30 4 2016
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Dal Cile a Sant'Efisio 30 4 16

Ripensare al passato per capire che fare oggi

fadda 29 4 16Oggi in Confindustria a Cagliari. Vizi e virtù degli uomini di potere in Sardegna degli ultimi 50 anni, narrati da un protagonista, Paolo Fadda.

Sa die una festa da difendere con ostinazione contro la sua sterilizzazione voluta dagli attuali decisori politici regionali. Riflessioni e proposte

pablo-e-amiche-sa dieSa Die della rimozione
di Nicolò Migheli*

Il 28 aprile e la Sarda Rivoluzione vanno oscurati. La Giunta che ci governa l’anno scorso in estremis dedicò la Giornata dei Sardi alla sovranità alimentare e al cibo; quest’anno ai migranti. Temi di indubbio rispetto. Il primo ci poneva davanti alla nostra dipendenza dalle importazioni di alimenti. Non vi è libertà senza la proprietà del cibo. Il secondo vorrebbe ricordarci quello che già viviamo, migliaia di sardi che ogni anno lasciano l’isola perché qui non trovano lavoro e gli spostamenti biblici di popolazioni in fuga da guerre e povertà, da siccità e desertificazione.
Come non essere d’accordo? Soprattutto in tempi di chiusura di frontiere, di respingimenti da parte delle polizie europee. Evidentemente il calendario deve essere così pieno di impegni che non si trova altro giorno che non sia Sa Die de sa Sardigna. Questa insistenza sugli spostamenti di significato del 28 aprile più di casualità sanno di strategia ben precisa: far dimenticare ai sardi il senso di quella giornata, rimuoverlo dal ricordo e spingerlo nell’inconscio.
La Sarda Rivoluzione non ha mai goduto, se non da parte di poche minoranze, di “buona stampa”, è passata come rivolta del notabilato locale per avere qualche impiego in più a Corte. Di conseguenza è meglio che non se ne parli. Già la scuola non lo fa, quando avviene è frutto dell’impegno dei singoli docenti. È bene che neanche le istituzioni lo facciano. Ricordare una Sardegna illuministica, in linea con la migliore Europa del Settecento non conviene. Sono avvenimenti storici che possono indurre riflessioni sulla nostra attuale dipendenza culturale prima che economica.
Memorie che pongono domande come: quale è la nostra Patria? Siamo nazione viva oppure abortita? Temi disturbanti in una Europa che si rinazionalizza, che riscopre gli Stati ottocenteschi facendo naufragare il progetto europeo. Sa Die de sa Sardigna contraddice i disegni neocentralisti renziani e non si può dispiacere al governo amico. Spegnere ogni diversità e originalità, non solo qualsiasi richiesta di autodeterminazione, ma anche di autonomia dai desiderati romani. La definizione italiani di Sardegna va più che bene.
Da rimpiangere i democristiani sardi di un tempo che si facevano forti della specialità per contrattare duramente con Roma. Oggi invece domina la rimozione; lo è nella lingua sarda, considerata un orpello inutile per la modernità; lo è la festa dei sardi per identici motivi. Rimozione nelle tradizioni sarde ridotte a folklore, rito del cargo di cui si sono persi i fondamentali, buone per vendere vini e formaggi perché fanno strano e tipico; deprivate di modernità, utili ai disegni egemonici di chi ci vorrebbe eternamente eunuchi. Però come ci insegnano cento anni di psicanalisi la rimozione tende a rendere inconsci le idee, gli impulsi i ricordi che sarebbero fonte di angoscia o di senso di colpa, perché per loro, evidentemente, è così.
Un meccanismo di difesa contro il loro emergere. Una operazione che crea un deposito di contenuti ritenuti inaccettabili. Solo che l’operazione metapsichica è fonte di disagio continuo. Dalla negazione del sé, alla vergogna come fatto costitutivo della propria esistenza; per gli individui e per le comunità. I sardi si negano, perché il negarsi credono sia l’unica possibile per essere in sintonia con il resto del mondo. Su questi temi la psichiatra Nereide Rudas ha scritto pagine importanti analizzando il disagio e l’infelicità dei sardi, il loro sentirsi sempre fuori posto, cani nella chiesa della contemporaneità. Una vergogna che spinge persino a mutare il proprio accento vissuto come rozzo e penalizzante.
Una fonte di ansia sociale, un dipendere dal giudizio straniero considerato determinante nel autodefinirsi. Sei giusto e corretto se diluisci quel che sei in un indistinto. Qualche anno fa in Cagliari ebbero grande successo i corsi di dizione per non professionisti. Cancellare la propria appartenenza come obiettivo di realizzazione personale. Ancor di più in quelli che sono disponibili ad ogni rivendicazione nazionale degli altri, ma non della propria, vissuta come inutile se non contradditoria con il bisogno dell’esistere. Una continua cessione dell’essere, un accrescere il proprio disagio interiore.
Minorati e senza strumenti per vivere e competere nel proprio tempo. Tutto questo ha del paradossale per un governo regionale che si proclama propulsore dello sviluppo dell’isola. Quale sviluppo se si agisce per alimentare la sfiducia in se stessi? Quali possibilità di competizione nel mondo vasto e terribile se si rifiutano le precondizioni per costruire capitale sociale condiviso? La rimozione continua porta con sé il riemergere dei bisogni sotto forma di pulsioni inaccettabili. Oscurare il 28 di aprile contribuirà a regalare migliaia di sardi al neofascismo risorgente. Se italiani si deve essere alcuni lo saranno anche nella patologia.
Ed infatti già oggi quotidiani come il Giornale scrivono di identità tradita. Per fortuna però il comportamento dell’istituzione regionale non viene seguito ovunque. In centinaia di scuole e località si ricorderanno Giovanni Maria Angioy e la Sarda Rivoluzione. L’anno scorso nella messa nella cattedrale di Cagliari organizzata dalla Fondazione Sardinia, l’arcivescovo Miglio pregò per “La Sardegna, patria nostra”. Un seme di speranza. Per il resto, come tutte le società dipendenti, ondeggiamo tra esaltazioni e depressioni schizofreniche. Abbiamo bisogno di sedute di psicoanalisi di massa. Tutti.
Miglio 28 4 16
*By sardegnasoprattutto/ 28 aprile 2016/ Culture/
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Sa Die…è morta. Che fare per resuscitarla?

democraziaoggiAndrea Pubusa su Democraziaoggi

Certo Sa die de sa Sardigna è nata da una discussione fiacca in Consiglio regionale. Ci fu più eccitazione e partecipazione, ad esempio, quando votammo la legge che faceva Comune Lodine, la piccola frazione di Gavoi. Anche a quel tempo i consiglieri erano attenti alle presenze nelle tribune dell’Aula e per Lodine c’era una folla di lodinesi, mentre per Sa die, gli Angioy e i tanti altri martiri della sarda Rivoluzione non erano lì, neppure nel ricordo dei vivi.. D’altronde il fatto storico, la cacciata dei funzionari piemontesi, è importante, ma molto temporaneo, preceduto e seguito, com’è, da una dominazione ottusa e sanguinaria come fu quella dei Savoia. Dopo quel 28 aprile c’è stata la grande macelleria che ha visto il supplizio di Francesco Cillocco a Sassari, la forca per Sorgia, Putzolu e Cadeddu a Cagliari, la reclusione a vita di Vincenzo Sulis, che stoltamente difese i Savoia dai francesi, ma divenne troppo popolare, da far ombra e destare sospetto negli ambienti di una Corte di ingrati e sanguinari. Poi, giù giù fino all’eccidio di Bugerru, di Iglesias, l’insensato massacro della Grande Guerra e il fascismo. Una storia di sopraffazioni, di patimenti e di sangue.
Ha ragione Tonino Dessì, anche per questa ragione Sa die è rimasta una ricorrenza irrisolta, e non a caso, nelle occasioni migliori, fin dalla prima ricorrenza post legem fu relegata al rango di una specie di mascherata generale in costumi dell’epoca, senza impatto sull’oggi e sul domani.
Questa irresolutezza ha consentito quest’anno alla Giunta Pigluaru di parlar d’altro e inventarsi un diversivo, la giornata dei migrantes, importante certo, ma di cui si può ben parlare nei restanti 360 giorni dell’anno. Si capisce che per Pigliaru, coi sui magri risultati, parlar di Sardegna è proibitivo.
A questo punto, se non vogliamo trasformare le ricorrenza in occasione di conflitto permanente e rinverdire l’antica definizione (pocos, locos e malunidos), occorre dare un senso a Sa die. Certo, è difficile resuscitare i morti. Ci vorrebbe un miracolo. Ma forse la politica è l’unico terreno in cui i prodigi non sono impossibili, anche se son rarissimi, quasi come le guarigioni di Fatima o di Lourdes. Che fare, dunque, per resuscitare la giornata dei sardi? Sul piano simbolico, si potrebbe attualizzare la ricorrenza, facendone l’occasione per la cancellazione simboli della dominazione reazionaria. Per esempio, trasformando in Largo dei Martiri di Palabanda il Largo Carlo Felice e erigendo lì, in faccia a Carlo Felice, un grande monumento a Cadeddu, Sorgia e Putzolu, a ricordo perenne dei fatti del 1812. Se non vogliamo eliminare le opere della dominazione, possiamo ribaltarne il significato e il messaggio. Ad esempio, lasciando la statua di Carlo Felice, ma spiegando nella lapide a caratteri ben visibili che quel re, dal nome così accattivante, fu soprannominato Carlo il Feroce per la sua vocazione reazionaria e sanguinaria. E così, a ondate successive, ogni anno, accompagnando gli eventi con dibattiti di massa, non solo a Cagliari, ma in tutte le contrade della Sardegna, dove i nomi dei protagonisti della lotta dei sardi per la democrazia non sono evocati a dar nome a Piazze e e viali.
Ma certo questo è un fatto di memoria, anche se è importante per l‘acquisizione di una consapevolezza storica. E l’attualità? Si può recuperare, facendo de Sa die il giorno del discorso del presidente della regione sullo “stato della Sardegna”, un po’ come si fa negli States, dove il presidente si rivolge al popolo tracciando consuntivi e delineando preventivi, ossia la prospettiva, gli obiettivi di breve e lungo termine. In tale discorso il presidente della Regione potrebbe descrivere sia le condizioni generali dell’Isola sotto il profilo sociale, economico e politico, sia l’agenda della giunta, sia, ancora, i progetti per il futuro e le priorità. Oltreoceano il discorso è tenuto sulla base dell’articolo II, terza sezione, della Costituzione degli Stati Uniti d’America, che richiede al presidente di riferire al congresso lo “stato dell’unione” e le misure che crede sia necessario prendere, in Sardegna potrebbe essere previsto integrando la legge istitutiva de Sa Die.
In una terra in cui non si fanno mai consuntivi seri e mai previsioni credibili e non propagandistiche, il “discorso sullo stato della Sardegna” potrebbe essere un momento, se fatto con serietà e rigore, per una discussione generale e di massa sulla condizione dei sardi e la politica isolana. Un modo puntiglioso di fare i conti con noi stessi e con gli altri. Un momento di verità e di mobilitazione del popolo sardo. Il contrario del fatto di folkore degli uni e della rimozione degli altri.

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Quale classe dirigente per la Sardegna che vorremo

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Giovanni Maria Angioy Memoriale 2«Malgrado la cattiva amministrazione, l’insufficienza della popolazione e tutti gli intralci che ostacolano l’agricoltura, il commercio e l’industria, la Sardegna abbonda di tutto ciò che è necessario per il nutrimento e la sussistenza dei suoi abitanti. Se la Sardegna in uno stato di languore, senza governo, senza industria, dopo diversi secoli di disastri, possiede così grandi risorse, bisogna concludere che ben amministrata sarebbe uno degli stati più ricchi d’Europa, e che gli antichi non hanno avuto torto a rappresentarcela come un paese celebre per la sua grandezza, per la sua popolazione e per l’abbondanza della sua produzione.»
In un recente convegno sulle tematiche dello sviluppo della Sardegna, un relatore, al termine del suo intervento, ha proiettato una slide con la frase sopra riportata, chiedendo al pubblico (oltre duecento persone, età media intorno ai 40/50 anni, appartenente al modo delle professioni e dell’economia urbana) chi ne fosse l’autore, svelandone solo la qualificazione: “Si tratta di un personaggio politico”. Silenzio dei presenti, rotto solo da una voce: “Mario Melis?”. No, risponde il relatore. Ulteriore silenzio. Poi un’altra voce, forse della sola persona tra i presenti in grado di rispondere con esattezza: “Giovanni Maria Angioy”. Ebbene sì, proprio lui, il patriota sardo vissuto tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento, (morto esule e in miseria a Parigi, precisamente il 22 febbraio 1808), nella fase della sua vita in cui inutilmente chiese alla Francia di occupare militarmente la Sardegna, che, secondo i suoi auspici, avrebbe dovuto godere dell’indipendenza, sia pur sotto il protettorato francese (1).
Mario Melis 1E’ significativo che l’unico uomo politico contemporaneo individuato come possibile autore di una così bella frase, decisamente critica nei confronti della classe dirigente dell’Isola (e quindi autocritica) e tuttavia colma di sviluppi positivi nella misura in cui si potesse superare tale pesante criticità, sia stato Mario Melis,, leader politico sardista di lungo corso, il quale fu anche presidente della Regione a capo di una compagine di centro-sinistra nel 1982 e di nuovo dal 1984 al 1989. Evidentemente la sua figura di statista resiste positivamente nel ricordo di molti sardi. E questo è bene perché Mario Melis tuttora rappresenta un buon esempio per le caratteristiche che deve possedere un personaggio politico nei posti guida della nostra Regione: onestà, competenza (più politica che tecnica), senso delle Istituzioni, passione e impegno per i diritti del popolo sardo. Caratteristiche che deve possedere non solo il vertice politico, ma ciascuno dei rappresentanti del popolo nelle Istituzioni. Aggiungerei che tali caratteristiche dovrebbero essere comuni a tutti gli esponenti della classe dirigente nella sua accezione più ampia, che insieme con la classe politica comprende quella del mondo del lavoro e dell’impresa, così come della società civile e religiosa.
Oggi al riguardo non siamo messi proprio bene. Dobbiamo provvedere. Come? Procedendo al rinnovo dell’attuale classe dirigente in tutti i settori della vita sociale, dando spazio appunto all’onestà, alla capacità tecnica e politica, al senso delle organizzazioni che si rappresentano, alla passione e all’impegno rispetto alle missioni da compiere.
Compito arduo ma imprescindibile.

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(1) Sappiamo come andò a finire la storia: i francesi si guardarono bene dall’intervenire, perlomeno in Sardegna – contrariamente a quanto fecero in Piemonte – per la quale tennero fede all’Armistizio di Cherasco (28 aprile 1796) e al successivo Trattato di Parigi (15 maggio 1796) che, sia pure con termini pesantissimi per i sabaudi, consentì loro di mantenere costantemente e definitivamente il potere sull’Isola.

Venerdì 29 aprile 2016

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Resistenza

resistenza e ragazzi
- Alla MEM. La pagina fb dell’evento.

Vizi e virtù degli uomini di potere in Sardegna degli ultimi 50 anni, narrati da un protagonista, Paolo Fadda

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- Intervista a Paolo Fadda su Sardinia Post.

Sa die una festa da difendere con ostinazione contro la sua sterilizzazione voluta dagli attuali decisori politici regionali

lampadadialadmicromicro13Manifesto-Sa-Die-2016222Scrive Francesco Casula nel suo blog “Truncare sas cadenas” un editoriale, che abbiamo ripreso oggi su Aladinews: “Per ricordare l’evento storico e simbolico, della cacciata dei Piemontesi da Cagliari il 28 Aprile 1794, che aveva visto i Sardi, dopo secoli di rassegnazione, di abitudine a curvare la schiena, di acquiescenza e di obbedienza, esprimere invece un moto di orgoglio e con un colpo di reni reagire e ribellarsi in nome dell’autonomia, per “essi meris in domu nostra”, la Regione sarda con la legge n.44 del 14 Settembre 1993 ha istituito Sa Die de sa Sardigna, la “Giornata del popolo sardo”, ma io preferisco chiamarla “Festa nazionale dei Sardi”. Ebbene Sa Die, quest’anno, è stata sostanzialmente dimenticata dalle Istituzioni”. Purtroppo la “sostanziale dimenticanza delle Istituzioni” è vera, anche se l’Assessore regionale alla Cultura Claudia Firino è corsa ai ripari facendo organizzare alla Regione alcuni momenti celebrativi, con letture, interventi musicali e dibattiti, incentrando il tutto nella tematica di “Sardegna, isola terra di migrantes – Istorias de migrantes e istorias de migrazione”. Scelta fatta in solitario dalla Giunta regionale, nonostante le pronte critiche di molti settori della società sarda. Incomprensibile e davvero deprecabile la scelta della Regione di non coinvolgere gran parte dell’associazionismo culturale sardo. La stessa iniziativa del Consiglio regionale riunito in seduta congiunta con i rappresentanti dell’Assemblea di Corsica nella mattinata odierna è apparsa del tutto scollata rispetto al programma dell’Assessore, mettendo in rilievo la difficoltà della Giunta Miglio e Pablo 28 4 16regionale di coordinarsi al proprio interno e con il Consiglio regionale. Poi, peggio che andar di notte per quanto riguarda il rapporto con l’esterno. Al riguardo è sicuramente deprecabile la mancanza di considerazione dell’Assessore e dell’intera Giunta rispetto alle proposte avanzate dal Comitato Po sa die, presieduto da Nereide Rudas, tra cui la manifestazione Firino a sa dieculturale “Sardos testimonzos” (tenutasi in prima mattinata a Palazzo regio e alla quale, a sorpresa, ha partecipato la stessa Assessora Firino) e la solenne Messa in Duomo con la celebrazione presieduta dal Vescovo di Cagliari Arrigo Miglio (regolarmente tenutasi come da programma). Che dire allora, se non confermare le amare considerazioni enunciate alcuni giorni fa su Aladinews e che qui riportiamo: Guardate come [gli amministratori politici regionali] stanno trattando la festa dei sardi, Sa die de Sardigna. Sarebbero contenti che non fosse mai stata istituita. E siccome non la possono ignorare perchè è legge della Regione, ne hanno fatto un adempimento senza anima e privo di qualsiasi capacità mobilitatrice di entusiasmo e amor patrio (per la nostra patria Sardegna). Leggete il programma (istituzionale) di quest’anno: lo hanno dedicato agli immigrati. Una questione che ci riguarda, ma perchè utilizzarla per togliere spazio alla festa dei sardi? La verità è che a questa festa, loro, gli amministratori regionali, vogliono togliere qualsiasi potenziale eversivo, paventando che mostri agli occhi di tutti la loro carenza di sardità, a cui peraltro essi poco tengono e che solleciti pericolose spinte indipendentiste o financo autonomiste, visto che anche l’autonomia vogliono distruggere.
messa 28 4 2016 sa die

Cantigu de is Cantigos

Cantigu 29 4 16chagall-cantico-dei-cantici-4 Cantico dei Cantici.

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L’Editore
La Direzione

Sa die de sa Sardigna

Ingresso in SS di GM Angioydi Tonino Dessì
Oggi 28 aprile 2016, si celebra “Sa Die de sa Sardigna”.
La ricorrenza fu scelta nel settembre del 1993 dal Consiglio regionale della Sardegna (finale dell’XI legislatura, Presidente della Regione on. Antonello Cabras, coalizione di governissimo, un centrosinistrone PDS-PSI-PSDI-PRI-DC -nato a seguito di un compromesso dopo uno scontro campale sulla legislazione urbanistica e sulla pianificazione paesaggistica- Presidente del Consiglio regionale on. Mario Floris, iniziativa legislativa unitaria, ma su impulso PSd’Az, all’opposizione), per istituire una giornata celebrativa della memoria identitaria del Popolo Sardo.
Una decisione che mise un punto fermo su un’annosa discussione, scartando altre ipotesi alternative, la principale delle quali era stata quella della Festa dello Statuto Speciale (legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3).
Sembrava che, retrocedendo la celebrazione identitaria a un momento storico abbastanza remoto del periodo contemporaneo e a un fatto simbolicamente insurrezionale contro una dominazione esterna, si potesse trovare un compromesso adeguato rispetto al ricordo di altri momenti considerati più divisivi.
Già ascoltando la discussione in Aula, intrisa di retorica patriottica, ma poco approfondita nel merito della vicenda, avvertivo un certo paradosso, che fu evidenziato forse dal solo on. Francesco Cocco, comunista del Gruppo consiliare PDS, l’unico che mi parve davvero consapevole.
La Sarda Rivoluzione infatti conteneva in nuce il principale dei nodi irrisolti della debole soggettività politica sarda. L’aspirazione a un’identità moderna e radicale, infatti, si infranse nel 1794 contro lo scoglio del conservatorismo politico e più ancora sociale e culminò nel tradimento e nella sconfitta epocale.
Non essersi resi conto delle implicazioni profonde di quella vicenda e non avervi mai fatto i conti consapevolmente, ha fatto sì che Sa Die, alla fin fine, sia rimasta una celebrazione senza autore e senza soggetto, assolutamente non sentita da parte della stragrande maggioranza dei sardi.
Anche quest’anno essa si svolge all’insegna delle buone intenzioni (il tema dell’emigrazione-immigrazione, il rapporto con l’Isola di Corsica), ma senza alcuna reale volontà di misurarsi, in particolare, con un contesto impegnativo qual è l’evoluzione-involuzione del sistema costituzionale in corso, dal quale dipenderà la sorte della soggettività istituzionale e politica dei Sardi.
Questo solo ho oggi da aggiungere a completamento di una riflessione che ho scritto due anni fa e che ripropongo qui di seguito.
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SA DIE DE SA SARDIGNA
Sobria sintesi e sintetiche considerazioni.
Il 28 aprile 1794 la popolazione cagliaritana si rivolta contro i Piemontesi. Il Vicerè Balbiano, tutti i funzionari reali continentali e le loro famiglie vengono costretti a rimpatriare in terraferma. La Sarda Rivoluzione si estenderà all’intera Isola e vedrà svilupparsi un complesso tentativo di ampliare i poteri di autogoverno delle istituzioni e delle classi dirigenti locali. Nel contempo, tuttavia, si manifesterà un profondo conflitto interno, tra rinnovatori e conservatori. Questi ultimi alla fine prevarranno, riconsegnando ai Piemontesi il pieno controllo della Sardegna. L’esponente più prestigioso dei rinnovatori, Giovanni Maria Angioy, per sfuggire all’arresto e alla prigione, riparerà in Francia, dove resterà fino alla morte, avvenuta a Parigi nel 1808.
La sintetica riflessione che mi viene da fare è questa.
La vicenda ha un prologo: nell’anno precedente, le milizie sarde, reclutate dalle città e dai possidenti locali anche in considerazione della scarsa consistenza dell’Armata reale stanziata nell’Isola, sventarono il tentativo della Francia rivoluzionaria di invadere la Sardegna. I Savoia non se ne mostrarono affatto riconoscenti, scatenando il giustificato malcontento popolare. Alla fine i sardi si erano opposti all’invasione francese per difendere degli altri invasori, per di più reazionari. E’ opinione prevalente, tra gli storici, che dovunque, anche sanguinosamente, come accadde in particolare nel periodo napoleonico, in Europa, le armate francesi siano passate, esse, insieme a tanta violenza, abbiano diffuso anche i segni indelebili di un grande avanzamento nelle idee, nei costumi, nel diritto, che la Restaurazione non riuscì a cancellare. La Sardegna, per rincontrare quelle idee e vederle incarnarsi in processi istituzionali democratici, ha dovuto attendere il 1948, anno di approvazione della Costituzione repubblicana e dello Statuto speciale.
Io sono favorevole a una evoluzione istituzionale che veda affermarsi pienamente la soggettività del popolo sardo, della sua inestinta specificità linguistica, culturale, storica. Considero da tempo l’autonomismo una fase superata. Non disdegnerei di essere indipendentista, ma preferisco ancora considerarmi un federalista. Tuttavia non saprei vedere, oggi, in Sardegna, chi potrebbe scrivere con altrettanta maestria e generosità dei costituenti repubblicani i principi fondamentali della Costituzione nata dall’antifascismo. E ancora vorrei una classe dirigente sarda che quei principi li sapesse interpretare con l’esempio. Allora, forse, mi fiderei.
(A. D. 27 aprile 2014.)
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* da fb
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Sa-dì-de-sacciappa-Piero-Marcialis-SDL
Il significato storico e simbolico di Sa Die de sa Sardigna
di Francesco Casula

Firmaimaisì! E arrazza de brigungia! Arrazza ‘e onori! Sardus, genti de onori! E it’ant a nai de nosus, de totus ! Chi nc’eus bogau s’istrangiu po amori ‘e libertadi ? Nossi, po amori de s’arroba! Lassai stai totu! Non toccheis nudda! Non ddi faeus nudda de sa merda de is istrangius! Chi ddi sa pappint a Torinu cun saludi! A nosus interessat a essi meris in domu nostra! Libertadi, traballu, autonomia!”. Nella divertente e brillante finzione letteraria e teatrale, in “Sa dì de s’acciappa” (Dramma storico in due tempi e sette quadri, edito da Condaghes), Piero Marcialis fa dire così a Francesco Leccis, – beccaio, protagonista della rivolta cagliaritana contro i Piemontesi – rivolgendosi ai popolani che, infuriati volevano assaltare i carri, zeppi di ogni ben di dio, per sottrarre ai dominatori in fuga “s’arroba” che volevano portarsi a Torino. Ed è questo – a mio parere – il significato profondo, storico e simbolico, della cacciata dei Piemontesi da Cagliari il 28 Aprile 1794: i Sardi, dopo secoli di rassegnazione, di abitudine a curvare la schiena, di acquiescenza e di obbedienza, hanno un moto di orgoglio e con un colpo di reni reagiscono e si ribellano in nome dell’autonomia, per “essi meris in domu nostra”. Per ricordare quell’evento storico la Regione sarda con la legge n.44 del 14 Settembre 1993 ha istituito Sa Die de sa Sardigna, la “Giornata del popolo sardo”, ma io preferisco chiamarla “Festa nazionale dei Sardi”. Ebbene Sa Die, quest’anno, è stata sostanzialmente dimenticata dalle Istituzioni. A ricordarla ci hanno invece pensato l’insieme di associazioni (sindacali, ecclesiali, del Volontariato) aderenti alla Carta di Zuri, organizzando per il 28 Aprile una Manifestazione a Cagliari con un corteo che partendo da Viale Sant’Ignazio – davanti alla mensa dei poveri – si recherà al Consiglio regionale. Nel presentare l’iniziativa, opportunamente il leader della CISL Mario Medde, ha sostenuto che “è inutile ricordare il fatto storico come sa Die se non lo proiettiamo sui problemi del presente”. Che sono guarda caso quelli stessi evocati da Marcialis in “Sa dì de s’acciappa”: il lavoro, l’autonomia, la libertà. Cui occorre aggiungere, il problema della povertà, oggi in aumento e vieppiù drammatico. Per contrastare la quale i Sindacati chiederanno alla Regione risposte concrete e più efficaci di quelle messe in campo fin’ora. (Francesco Casula, storico)
Per la Sardegna nostra patria
pablo e amiche
di Nicolò Migheli (1 maggio 2015, rete dei blog)

Le feste nazionali vorrebbero essere un momento di unità del popolo ma quasi mai lo sono. Il 14 Luglio è rifiutato ancora oggi da una minoranza consistente di francesi che si rifanno alla Vandea e alla controrivoluzione. La commissione incaricata di scegliere una data simbolo da far diventare sa Die de sa Sardigna discusse molto. C’era chi proponeva il 30 giugno in ricordo della battaglia di Sanluri del 1409, data in cui la Sardegna perse la propria indipendenza.

Altri il 14 aprile quando ad Uras nel 1470 i sardi sconfissero per l’ultima volta gli aragonesi. Alla fine venne scelto il 28 aprile pur consapevoli che quel giorno portava con sé molte ambiguità. La Sarda Rivoluzione non ha mai avuto una buona pubblicistica. La cacciata del viceré Balbiano e della sua corte, venne letta da sempre come un fatto episodico; una ribellione dei nobili e dei borghesi per poter accedere alle cariche alte dell’amministrazione regia. Fin dagli inizi lo storico savoiardo Manno pose l’accento su chi aveva chiesto il perdono al re.

Ancora oggi, per alcuni, il tema è il tradimento di cui fu oggetto Giovanni Maria Angioy. Quell’episodio diventa il racconto della subalternità accettata. Un destino voluto che dovrebbe precludere qualsiasi autodeterminazione. Non viene ricordato che fu quella rivoluzione a determinare l’ingresso della Sardegna nella modernità; che fu l’unica rivoluzione europea, benché ispirata dall’illuminismo, a non essere stata promossa dai francesi al contrario del ‘99 napoletano. L’ostilità a quella data è ancor più forte in certa sinistra sarda che dovrebbe rivendicarla come sua. La rifiuta perché quel giorno è della Sardegna, ed ogni riferimento alla nazione dei sardi viene visto come pericoloso. Nazione come sciovinismo, come leghismo.

Si cita Antonio Gramsci ma si è segnati dal leninismo centralista riletto da Togliatti. Salvo poi impegnarsi per le cause di patrie altrui purché siano terzomondiste e antimperialiste. Un’ostilità che rasenta il pretestuoso. Un retroterra culturale che in maniera non esplicita anima la riforma della Costituzione voluta da Renzi. Il 25 aprile su Rai 1 Fabio Fazio ha ricordato la Liberazione. In quella trasmissione nessun cenno alle 4 Giornate di Napoli liberata dai suoi abitanti e non dagli alleati. Nessun riferimento alle repubbliche partigiane del nord d’Italia.

Un’attenzione a nascondere ogni possibilità di autogoverno realizzato che contrasti con le spinte all’abolizione delle autonomie. Un racconto che diventa fondante per il Partito della Nazione, quella italiana però. Quest’anno sa Die de sa Sardigna correva il rischio di vedere la Regione latitante. Solo l’insistenza dell’assessorato competente con un finanziamento esiguo e all’ultimo momento, ha evitato alla massima istituzione dei sardi la vergogna dell’assenza. Sa Die la giunta l’ha voluta dedicare al cibo, il Consiglio Regionale nella seduta solenne ha trattato di scorie nucleari.

Temi importanti per carità, ma che avrebbero trovato giusta collocazione in tante altre occasioni. Uno spostamento che nasconde il timore di affrontare le vere domande che pone il 28 aprile: siamo nazione? Chi è la nostra patria, l’Italia o la Sardegna? Visto che fino al 1847 abbiamo avuto storie differenti, quando gli interessi tra Italia e Sardegna divergono, quali debbono prevalere? La sera del 29 ottobre 1922 chiuso il congresso di Nuoro del Psd’A, si tenne una riunione drammatica. Quella sera un gruppo ristretto di dirigenti del partito si trovò a decidere se si dovesse resistere con le armi alla Marcia su Roma dei fascisti.

Era in ballo se si dovesse “fare come in Irlanda” e battersi per la Sardegna, o cominciare una lotta antifascista per liberare l’Italia. Vinse la seconda posizione, quella sostenuta dai dirigenti in gran parte ex ufficiali dell’esercito educati nella scuola italiana, rispetto al sentimento prevalente nel partito più vicino all’indipendentismo. La notizia dell’incarico di formare il governo dato dal re a Mussolini, fece cadere l’opzione militare. Questo dopo un congresso che aveva visto la più grande manifestazione antifascista dell’epoca in Sardegna.

Allora come oggi, quale è la patria dei sardi? I festeggiamenti di quest’anno hanno visto una messa solenne celebrata nella cattedrale di Cagliari davanti a una moltitudine di cittadini presenti. L’arcivescovo Arrigo Miglio nella compieta ha letto una preghiera dove si diceva “Preghiamo […] per la Sardegna nostra patria”. Era dal 1847 che in quella chiesa non veniva pronunciata quella parola rivolta alla Sardegna. Un segno forte che rimarrà negli anni a venire. La Chiesa, come spesso accade, fa affermazioni che la politica pavida teme. Quelle brevi parole tentano di inserire l’episcopato sardo sulle orme di quello irlandese, basco e catalano. Non è poco. Questo 28 aprile è stato riempito di segni di speranza.

La notizia del disimpegno della Regione ha mosso i cittadini e le associazioni. Molte iniziative, convegni, incontri nelle scuole ed infine le Barchette e sa Die in Tundu. Migliaia di sardi si sono trovati nell’isola e nel mondo a fare cerchi e a ballare. Migliaia di sardi hanno fatto barchette di carta da donarsi reciprocamente. In quelle barchette metaforicamente ci si metteva tutto quello che non va: furto di terre, scandali, inquinamenti, disoccupazione, abbandoni ed imposizioni varie. Sono stati atti in cui l’appartenenza ha superato l’identità. Sardi di nascita e sardi per scelta che condividono una presa di coscienza sul destino di un popolo e della sua terra.

Una dimostrazione che sa Die è entrata nel cuore. La politica dei partiti italiani come sempre non ha capito o non ha voluto capire, una parte della società sì. Non è un problema. Parafrasando Mitterand, la politique suivra.
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Sa die: approfondimenti su Aladinews.
Sardegna universitaria F Figari
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28 aprile giornata mondiale per la sicurezza e la salute sul lavoro
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di Valeria Casula**

Il 28 aprile ricorre la giornata mondiale per la sicurezza e la salute sul lavoro, istituita dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro per promuovere la prevenzione degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali a livello globale.
Spesso le dimensioni del fenomeno infortunistico in Italia sono note solo agli addetti ai lavori, vale a dire a chi come me si occupa nelle organizzazioni di Ambiente, Salute e Sicurezza, eppure il fenomeno è assolutamente rilevante e investe tutte le aziende.
Dal 1951 al 2015 le vittime sul lavoro in Italia sono state superiori alle vittime civili italiane della seconda guerra mondiale (oltre 160.000 a fronte di 153.147 vittime civili del secondo conflitto mondiale) e gli infortuni oltre 70 milioni.
Ora, è pur vero che la seconda guerra mondiale è durata 6 anni a non 64, tuttavia il rapporto di 1 a 10 risulta comunque abnorme.
L’andamento infortunistico mostra una forte contrazione passando da oltre 4000 incidenti mortali l’anno negli anni ’60 a circa 1000 attuali (compresi quelli in itinere), grazie non solo all’evoluzione delle misure tecniche (macchinari e attrezzature intrinsecamente più sicuri), ma anche alle misure gestionali (modalità operative e processi, formazione, informazione e addestramento su corretto utilizzo di materiali e attrezzature e processi, sorveglianza sanitaria, …).
Occorre tuttavia uno sforzo continuo e maggiore per abbattere lo zoccolo duro degli infortuni, perché non è accettabile che si continui a morire, ammalarsi o farsi male di lavoro.
Tralascio il lavoro nero, ignominia di un paese civile, la cui incidenza infortuni e malattie professionali, benché sfugga in parte alle statistiche, è estremamente elevata, non solo perché coinvolge i settori a più elevato rischio “intrinseco” (es. edilizia, agricoltura) ma soprattutto perché tale rischio non è mitigato attraverso le misure tecniche e gestionali sopra citate.
Mi riferisco ad aziende degne di questo nome, aziende che utilizzano attrezzature a norma, che formano, informano, addestrano e sottopongono a sorveglianza sanitaria i propri lavoratori, insomma aziende che ottemperano alla normativa vigente in materia antinfortunistica; ebbene, anche tali aziende hanno difficoltà a contrarre ulteriormente il fenomeno infortunistico.
Tali difficoltà sono dovute ad un orientamento culturale sia manageriale che diffuso a vari livelli delle organizzazioni che vede la sicurezza confliggere con gli obiettivi economici e operativi d’impresa e individuali, unita ad un certo “fatalismo” secondo cui l’infortunio è inevitabile.
Da un lato infatti ci sono le aziende (per fortuna non tutte!) che considerano la sicurezza come un mero costo, che non hanno ancora capito nel 21esimo secolo che non è solo un dovere etico e morale salvaguardare la salute e la sicurezza dei lavoratori, ma è anche un dovere economico verso l’azienda stessa e verso la collettività, visto che l’INAIL stima che il costo complessivo di infortuni e malattie professionali nel nostro paese ammonta a quasi 50 miliardi di euro (oltre il 2% del PIL, a carico sia delle aziende che della collettività) e che le spese in sicurezza hanno un ritorno economico per le aziende pari al doppio del capitale investito.
Dall’altro c’è la cultura diffusa che “se tanto ti deve capitare ti capita e non puoi farci niente”, che “si sa che nel nostro lavoro ogni tanto ci si fa male”, che “sì, lo so che dovrei agganciare l’imbragatura ma sono di fretta, tanto scendo subito e sto attento”, che “noi dobbiamo pensare a far andare avanti il business, e non abbiamo tempo da perdere con queste cose”, che “lascia stare, non stare a segnalare che quel dispositivo fa uno strano rumore, tanto non sarà niente di ché”.
Inutile dire che davanti a comportamenti e affermazioni di questo tipo tutti noi, a prescindere dal ruolo che ricopriamo in un’organizzazione, abbiamo non solo il diritto, ma anche e soprattutto il dovere di intervenire e/o segnalare.
Questa cultura è il principale nemico da sconfiggere per abbattere gli infortuni, non solo sul lavoro ma in tutti gli ambiti della nostra esistenza. Basti pensare a tutti i comportamenti insicuri frutto di questa cultura che spesso o talvolta adottiamo in auto, quando per fretta o per “assuefazione” al pericolo superiamo i limiti di velocità, usiamo il telefonino alla guida o pur di non sentire le lamentele del pargolo diciamo “e va bene puoi slacciarti la cintura, tanto siamo quasi arrivati!”, ma anche quando non indossiamo il casco sulle piste di sci, in bicicletta o addirittura in moto.
Qualsiasi infortunio produce effetti non solo sulla persona che lo subisce ma su tantissime persone che lo circondano, la compagna/il compagno, i figli, i genitori, gli amici, i colleghi. Se poi si tratta di un infortunio grave l’effetto è devastante e compromette l’esistenza stessa oltreché dell’infortunato anche dei propri cari che dovranno prestare assistenza e comunque modificare abitudini e consuetudini.
In questa giornata vorrei ribadire con rinnovata determinazione che LA SFORTUNA NON ESISTE, che tutte le aziende che si sono impegnate seriamente su questo fronte hanno drasticamente ridotto il fenomeno infortunistico finanche a dimezzarlo in pochi anni, a dimostrazione che attraverso una cultura della sicurezza che sui traduce in comportamenti e ambienti sicuri GLI INCIDENTI SUL LAVORO POSSONO ESSERE EVITATI!
**Ingegnere ambientale
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Giovedì 28 aprile 2016 Sa die de sa Sardigna

Manifesto-Sa-Die-2016
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Scienza e fantascienza tra conoscenza inquietudine e meraviglia

Il manifesto dei cosmonisti LIBROI linguaggi e la “formazione” della parola come elemento simbolico nel cervello umano e le ipotesi di comunicazioni con civiltà extraterrestri.

Giovedì 28 aprile alle ore 18 nono appuntamento della rassegna culturale “Scienza e fantascienza tra conoscenza inquietudine e meraviglia” promossa dalla Biblioteca Provinciale nell’ambito dei programmi di promozione della lettura. L’incontro-dibattito si terrà nella sala conferenze della Biblioteca Provinciale, in cima al parco di Monte Claro, ingresso da via Mattei in auto e a piedi.
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Convegno diocesano Caritas-Volontariato “Nella terra è l’uomo”, sui temi dell’Enciclica Laudato si’ di Papa Francesco

Convegno caritas 29-30 4 16GIUBILEO DIOCESANO DEL VOLONTARIATO
Convegno diocesano Caritas-Volontariato
“Nella terra è l’uomo”
29 -30 APRILE 2016
SEMINARIO ARCIVESCOVILE DI CAGLIARI
(via Mons. Cogoni 9)

(COMUNICATO STAMPA) La Caritas diocesana di Cagliari in collaborazione con il CSV Sardegna Solidale promuove il Giubileo diocesano del volontariato: nell’occasione, il 29 e il 30 aprile 2016, si svolgerà il Convegno diocesano Caritas-Volontariato “Nella terra è l’uomo”, sui temi dell’Enciclica Laudato si’ e del Magistero di Papa Francesco, nell’aula magna del Seminario arcivescovile di Cagliari (Via Mons. Cogoni, 9).
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