Sa die de sa Sardigna

Ingresso in SS di GM Angioydi Tonino Dessì
Oggi 28 aprile 2016, si celebra “Sa Die de sa Sardigna”.
La ricorrenza fu scelta nel settembre del 1993 dal Consiglio regionale della Sardegna (finale dell’XI legislatura, Presidente della Regione on. Antonello Cabras, coalizione di governissimo, un centrosinistrone PDS-PSI-PSDI-PRI-DC -nato a seguito di un compromesso dopo uno scontro campale sulla legislazione urbanistica e sulla pianificazione paesaggistica- Presidente del Consiglio regionale on. Mario Floris, iniziativa legislativa unitaria, ma su impulso PSd’Az, all’opposizione), per istituire una giornata celebrativa della memoria identitaria del Popolo Sardo.
Una decisione che mise un punto fermo su un’annosa discussione, scartando altre ipotesi alternative, la principale delle quali era stata quella della Festa dello Statuto Speciale (legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3).
Sembrava che, retrocedendo la celebrazione identitaria a un momento storico abbastanza remoto del periodo contemporaneo e a un fatto simbolicamente insurrezionale contro una dominazione esterna, si potesse trovare un compromesso adeguato rispetto al ricordo di altri momenti considerati più divisivi.
Già ascoltando la discussione in Aula, intrisa di retorica patriottica, ma poco approfondita nel merito della vicenda, avvertivo un certo paradosso, che fu evidenziato forse dal solo on. Francesco Cocco, comunista del Gruppo consiliare PDS, l’unico che mi parve davvero consapevole.
La Sarda Rivoluzione infatti conteneva in nuce il principale dei nodi irrisolti della debole soggettività politica sarda. L’aspirazione a un’identità moderna e radicale, infatti, si infranse nel 1794 contro lo scoglio del conservatorismo politico e più ancora sociale e culminò nel tradimento e nella sconfitta epocale.
Non essersi resi conto delle implicazioni profonde di quella vicenda e non avervi mai fatto i conti consapevolmente, ha fatto sì che Sa Die, alla fin fine, sia rimasta una celebrazione senza autore e senza soggetto, assolutamente non sentita da parte della stragrande maggioranza dei sardi.
Anche quest’anno essa si svolge all’insegna delle buone intenzioni (il tema dell’emigrazione-immigrazione, il rapporto con l’Isola di Corsica), ma senza alcuna reale volontà di misurarsi, in particolare, con un contesto impegnativo qual è l’evoluzione-involuzione del sistema costituzionale in corso, dal quale dipenderà la sorte della soggettività istituzionale e politica dei Sardi.
Questo solo ho oggi da aggiungere a completamento di una riflessione che ho scritto due anni fa e che ripropongo qui di seguito.
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SA DIE DE SA SARDIGNA
Sobria sintesi e sintetiche considerazioni.
Il 28 aprile 1794 la popolazione cagliaritana si rivolta contro i Piemontesi. Il Vicerè Balbiano, tutti i funzionari reali continentali e le loro famiglie vengono costretti a rimpatriare in terraferma. La Sarda Rivoluzione si estenderà all’intera Isola e vedrà svilupparsi un complesso tentativo di ampliare i poteri di autogoverno delle istituzioni e delle classi dirigenti locali. Nel contempo, tuttavia, si manifesterà un profondo conflitto interno, tra rinnovatori e conservatori. Questi ultimi alla fine prevarranno, riconsegnando ai Piemontesi il pieno controllo della Sardegna. L’esponente più prestigioso dei rinnovatori, Giovanni Maria Angioy, per sfuggire all’arresto e alla prigione, riparerà in Francia, dove resterà fino alla morte, avvenuta a Parigi nel 1808.
La sintetica riflessione che mi viene da fare è questa.
La vicenda ha un prologo: nell’anno precedente, le milizie sarde, reclutate dalle città e dai possidenti locali anche in considerazione della scarsa consistenza dell’Armata reale stanziata nell’Isola, sventarono il tentativo della Francia rivoluzionaria di invadere la Sardegna. I Savoia non se ne mostrarono affatto riconoscenti, scatenando il giustificato malcontento popolare. Alla fine i sardi si erano opposti all’invasione francese per difendere degli altri invasori, per di più reazionari. E’ opinione prevalente, tra gli storici, che dovunque, anche sanguinosamente, come accadde in particolare nel periodo napoleonico, in Europa, le armate francesi siano passate, esse, insieme a tanta violenza, abbiano diffuso anche i segni indelebili di un grande avanzamento nelle idee, nei costumi, nel diritto, che la Restaurazione non riuscì a cancellare. La Sardegna, per rincontrare quelle idee e vederle incarnarsi in processi istituzionali democratici, ha dovuto attendere il 1948, anno di approvazione della Costituzione repubblicana e dello Statuto speciale.
Io sono favorevole a una evoluzione istituzionale che veda affermarsi pienamente la soggettività del popolo sardo, della sua inestinta specificità linguistica, culturale, storica. Considero da tempo l’autonomismo una fase superata. Non disdegnerei di essere indipendentista, ma preferisco ancora considerarmi un federalista. Tuttavia non saprei vedere, oggi, in Sardegna, chi potrebbe scrivere con altrettanta maestria e generosità dei costituenti repubblicani i principi fondamentali della Costituzione nata dall’antifascismo. E ancora vorrei una classe dirigente sarda che quei principi li sapesse interpretare con l’esempio. Allora, forse, mi fiderei.
(A. D. 27 aprile 2014.)
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* da fb
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Sa-dì-de-sacciappa-Piero-Marcialis-SDL
Il significato storico e simbolico di Sa Die de sa Sardigna
di Francesco Casula

Firmaimaisì! E arrazza de brigungia! Arrazza ‘e onori! Sardus, genti de onori! E it’ant a nai de nosus, de totus ! Chi nc’eus bogau s’istrangiu po amori ‘e libertadi ? Nossi, po amori de s’arroba! Lassai stai totu! Non toccheis nudda! Non ddi faeus nudda de sa merda de is istrangius! Chi ddi sa pappint a Torinu cun saludi! A nosus interessat a essi meris in domu nostra! Libertadi, traballu, autonomia!”. Nella divertente e brillante finzione letteraria e teatrale, in “Sa dì de s’acciappa” (Dramma storico in due tempi e sette quadri, edito da Condaghes), Piero Marcialis fa dire così a Francesco Leccis, – beccaio, protagonista della rivolta cagliaritana contro i Piemontesi – rivolgendosi ai popolani che, infuriati volevano assaltare i carri, zeppi di ogni ben di dio, per sottrarre ai dominatori in fuga “s’arroba” che volevano portarsi a Torino. Ed è questo – a mio parere – il significato profondo, storico e simbolico, della cacciata dei Piemontesi da Cagliari il 28 Aprile 1794: i Sardi, dopo secoli di rassegnazione, di abitudine a curvare la schiena, di acquiescenza e di obbedienza, hanno un moto di orgoglio e con un colpo di reni reagiscono e si ribellano in nome dell’autonomia, per “essi meris in domu nostra”. Per ricordare quell’evento storico la Regione sarda con la legge n.44 del 14 Settembre 1993 ha istituito Sa Die de sa Sardigna, la “Giornata del popolo sardo”, ma io preferisco chiamarla “Festa nazionale dei Sardi”. Ebbene Sa Die, quest’anno, è stata sostanzialmente dimenticata dalle Istituzioni. A ricordarla ci hanno invece pensato l’insieme di associazioni (sindacali, ecclesiali, del Volontariato) aderenti alla Carta di Zuri, organizzando per il 28 Aprile una Manifestazione a Cagliari con un corteo che partendo da Viale Sant’Ignazio – davanti alla mensa dei poveri – si recherà al Consiglio regionale. Nel presentare l’iniziativa, opportunamente il leader della CISL Mario Medde, ha sostenuto che “è inutile ricordare il fatto storico come sa Die se non lo proiettiamo sui problemi del presente”. Che sono guarda caso quelli stessi evocati da Marcialis in “Sa dì de s’acciappa”: il lavoro, l’autonomia, la libertà. Cui occorre aggiungere, il problema della povertà, oggi in aumento e vieppiù drammatico. Per contrastare la quale i Sindacati chiederanno alla Regione risposte concrete e più efficaci di quelle messe in campo fin’ora. (Francesco Casula, storico)
Per la Sardegna nostra patria
pablo e amiche
di Nicolò Migheli (1 maggio 2015, rete dei blog)

Le feste nazionali vorrebbero essere un momento di unità del popolo ma quasi mai lo sono. Il 14 Luglio è rifiutato ancora oggi da una minoranza consistente di francesi che si rifanno alla Vandea e alla controrivoluzione. La commissione incaricata di scegliere una data simbolo da far diventare sa Die de sa Sardigna discusse molto. C’era chi proponeva il 30 giugno in ricordo della battaglia di Sanluri del 1409, data in cui la Sardegna perse la propria indipendenza.

Altri il 14 aprile quando ad Uras nel 1470 i sardi sconfissero per l’ultima volta gli aragonesi. Alla fine venne scelto il 28 aprile pur consapevoli che quel giorno portava con sé molte ambiguità. La Sarda Rivoluzione non ha mai avuto una buona pubblicistica. La cacciata del viceré Balbiano e della sua corte, venne letta da sempre come un fatto episodico; una ribellione dei nobili e dei borghesi per poter accedere alle cariche alte dell’amministrazione regia. Fin dagli inizi lo storico savoiardo Manno pose l’accento su chi aveva chiesto il perdono al re.

Ancora oggi, per alcuni, il tema è il tradimento di cui fu oggetto Giovanni Maria Angioy. Quell’episodio diventa il racconto della subalternità accettata. Un destino voluto che dovrebbe precludere qualsiasi autodeterminazione. Non viene ricordato che fu quella rivoluzione a determinare l’ingresso della Sardegna nella modernità; che fu l’unica rivoluzione europea, benché ispirata dall’illuminismo, a non essere stata promossa dai francesi al contrario del ‘99 napoletano. L’ostilità a quella data è ancor più forte in certa sinistra sarda che dovrebbe rivendicarla come sua. La rifiuta perché quel giorno è della Sardegna, ed ogni riferimento alla nazione dei sardi viene visto come pericoloso. Nazione come sciovinismo, come leghismo.

Si cita Antonio Gramsci ma si è segnati dal leninismo centralista riletto da Togliatti. Salvo poi impegnarsi per le cause di patrie altrui purché siano terzomondiste e antimperialiste. Un’ostilità che rasenta il pretestuoso. Un retroterra culturale che in maniera non esplicita anima la riforma della Costituzione voluta da Renzi. Il 25 aprile su Rai 1 Fabio Fazio ha ricordato la Liberazione. In quella trasmissione nessun cenno alle 4 Giornate di Napoli liberata dai suoi abitanti e non dagli alleati. Nessun riferimento alle repubbliche partigiane del nord d’Italia.

Un’attenzione a nascondere ogni possibilità di autogoverno realizzato che contrasti con le spinte all’abolizione delle autonomie. Un racconto che diventa fondante per il Partito della Nazione, quella italiana però. Quest’anno sa Die de sa Sardigna correva il rischio di vedere la Regione latitante. Solo l’insistenza dell’assessorato competente con un finanziamento esiguo e all’ultimo momento, ha evitato alla massima istituzione dei sardi la vergogna dell’assenza. Sa Die la giunta l’ha voluta dedicare al cibo, il Consiglio Regionale nella seduta solenne ha trattato di scorie nucleari.

Temi importanti per carità, ma che avrebbero trovato giusta collocazione in tante altre occasioni. Uno spostamento che nasconde il timore di affrontare le vere domande che pone il 28 aprile: siamo nazione? Chi è la nostra patria, l’Italia o la Sardegna? Visto che fino al 1847 abbiamo avuto storie differenti, quando gli interessi tra Italia e Sardegna divergono, quali debbono prevalere? La sera del 29 ottobre 1922 chiuso il congresso di Nuoro del Psd’A, si tenne una riunione drammatica. Quella sera un gruppo ristretto di dirigenti del partito si trovò a decidere se si dovesse resistere con le armi alla Marcia su Roma dei fascisti.

Era in ballo se si dovesse “fare come in Irlanda” e battersi per la Sardegna, o cominciare una lotta antifascista per liberare l’Italia. Vinse la seconda posizione, quella sostenuta dai dirigenti in gran parte ex ufficiali dell’esercito educati nella scuola italiana, rispetto al sentimento prevalente nel partito più vicino all’indipendentismo. La notizia dell’incarico di formare il governo dato dal re a Mussolini, fece cadere l’opzione militare. Questo dopo un congresso che aveva visto la più grande manifestazione antifascista dell’epoca in Sardegna.

Allora come oggi, quale è la patria dei sardi? I festeggiamenti di quest’anno hanno visto una messa solenne celebrata nella cattedrale di Cagliari davanti a una moltitudine di cittadini presenti. L’arcivescovo Arrigo Miglio nella compieta ha letto una preghiera dove si diceva “Preghiamo […] per la Sardegna nostra patria”. Era dal 1847 che in quella chiesa non veniva pronunciata quella parola rivolta alla Sardegna. Un segno forte che rimarrà negli anni a venire. La Chiesa, come spesso accade, fa affermazioni che la politica pavida teme. Quelle brevi parole tentano di inserire l’episcopato sardo sulle orme di quello irlandese, basco e catalano. Non è poco. Questo 28 aprile è stato riempito di segni di speranza.

La notizia del disimpegno della Regione ha mosso i cittadini e le associazioni. Molte iniziative, convegni, incontri nelle scuole ed infine le Barchette e sa Die in Tundu. Migliaia di sardi si sono trovati nell’isola e nel mondo a fare cerchi e a ballare. Migliaia di sardi hanno fatto barchette di carta da donarsi reciprocamente. In quelle barchette metaforicamente ci si metteva tutto quello che non va: furto di terre, scandali, inquinamenti, disoccupazione, abbandoni ed imposizioni varie. Sono stati atti in cui l’appartenenza ha superato l’identità. Sardi di nascita e sardi per scelta che condividono una presa di coscienza sul destino di un popolo e della sua terra.

Una dimostrazione che sa Die è entrata nel cuore. La politica dei partiti italiani come sempre non ha capito o non ha voluto capire, una parte della società sì. Non è un problema. Parafrasando Mitterand, la politique suivra.
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Sa die: approfondimenti su Aladinews.
Sardegna universitaria F Figari
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28 aprile giornata mondiale per la sicurezza e la salute sul lavoro
STRESS SICUREZZA LAVORO 28 4 16Valeria Casula fto microLa giornata mondiale per la sicurezza sul lavoro
di Valeria Casula**

Il 28 aprile ricorre la giornata mondiale per la sicurezza e la salute sul lavoro, istituita dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro per promuovere la prevenzione degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali a livello globale.
Spesso le dimensioni del fenomeno infortunistico in Italia sono note solo agli addetti ai lavori, vale a dire a chi come me si occupa nelle organizzazioni di Ambiente, Salute e Sicurezza, eppure il fenomeno è assolutamente rilevante e investe tutte le aziende.
Dal 1951 al 2015 le vittime sul lavoro in Italia sono state superiori alle vittime civili italiane della seconda guerra mondiale (oltre 160.000 a fronte di 153.147 vittime civili del secondo conflitto mondiale) e gli infortuni oltre 70 milioni.
Ora, è pur vero che la seconda guerra mondiale è durata 6 anni a non 64, tuttavia il rapporto di 1 a 10 risulta comunque abnorme.
L’andamento infortunistico mostra una forte contrazione passando da oltre 4000 incidenti mortali l’anno negli anni ’60 a circa 1000 attuali (compresi quelli in itinere), grazie non solo all’evoluzione delle misure tecniche (macchinari e attrezzature intrinsecamente più sicuri), ma anche alle misure gestionali (modalità operative e processi, formazione, informazione e addestramento su corretto utilizzo di materiali e attrezzature e processi, sorveglianza sanitaria, …).
Occorre tuttavia uno sforzo continuo e maggiore per abbattere lo zoccolo duro degli infortuni, perché non è accettabile che si continui a morire, ammalarsi o farsi male di lavoro.
Tralascio il lavoro nero, ignominia di un paese civile, la cui incidenza infortuni e malattie professionali, benché sfugga in parte alle statistiche, è estremamente elevata, non solo perché coinvolge i settori a più elevato rischio “intrinseco” (es. edilizia, agricoltura) ma soprattutto perché tale rischio non è mitigato attraverso le misure tecniche e gestionali sopra citate.
Mi riferisco ad aziende degne di questo nome, aziende che utilizzano attrezzature a norma, che formano, informano, addestrano e sottopongono a sorveglianza sanitaria i propri lavoratori, insomma aziende che ottemperano alla normativa vigente in materia antinfortunistica; ebbene, anche tali aziende hanno difficoltà a contrarre ulteriormente il fenomeno infortunistico.
Tali difficoltà sono dovute ad un orientamento culturale sia manageriale che diffuso a vari livelli delle organizzazioni che vede la sicurezza confliggere con gli obiettivi economici e operativi d’impresa e individuali, unita ad un certo “fatalismo” secondo cui l’infortunio è inevitabile.
Da un lato infatti ci sono le aziende (per fortuna non tutte!) che considerano la sicurezza come un mero costo, che non hanno ancora capito nel 21esimo secolo che non è solo un dovere etico e morale salvaguardare la salute e la sicurezza dei lavoratori, ma è anche un dovere economico verso l’azienda stessa e verso la collettività, visto che l’INAIL stima che il costo complessivo di infortuni e malattie professionali nel nostro paese ammonta a quasi 50 miliardi di euro (oltre il 2% del PIL, a carico sia delle aziende che della collettività) e che le spese in sicurezza hanno un ritorno economico per le aziende pari al doppio del capitale investito.
Dall’altro c’è la cultura diffusa che “se tanto ti deve capitare ti capita e non puoi farci niente”, che “si sa che nel nostro lavoro ogni tanto ci si fa male”, che “sì, lo so che dovrei agganciare l’imbragatura ma sono di fretta, tanto scendo subito e sto attento”, che “noi dobbiamo pensare a far andare avanti il business, e non abbiamo tempo da perdere con queste cose”, che “lascia stare, non stare a segnalare che quel dispositivo fa uno strano rumore, tanto non sarà niente di ché”.
Inutile dire che davanti a comportamenti e affermazioni di questo tipo tutti noi, a prescindere dal ruolo che ricopriamo in un’organizzazione, abbiamo non solo il diritto, ma anche e soprattutto il dovere di intervenire e/o segnalare.
Questa cultura è il principale nemico da sconfiggere per abbattere gli infortuni, non solo sul lavoro ma in tutti gli ambiti della nostra esistenza. Basti pensare a tutti i comportamenti insicuri frutto di questa cultura che spesso o talvolta adottiamo in auto, quando per fretta o per “assuefazione” al pericolo superiamo i limiti di velocità, usiamo il telefonino alla guida o pur di non sentire le lamentele del pargolo diciamo “e va bene puoi slacciarti la cintura, tanto siamo quasi arrivati!”, ma anche quando non indossiamo il casco sulle piste di sci, in bicicletta o addirittura in moto.
Qualsiasi infortunio produce effetti non solo sulla persona che lo subisce ma su tantissime persone che lo circondano, la compagna/il compagno, i figli, i genitori, gli amici, i colleghi. Se poi si tratta di un infortunio grave l’effetto è devastante e compromette l’esistenza stessa oltreché dell’infortunato anche dei propri cari che dovranno prestare assistenza e comunque modificare abitudini e consuetudini.
In questa giornata vorrei ribadire con rinnovata determinazione che LA SFORTUNA NON ESISTE, che tutte le aziende che si sono impegnate seriamente su questo fronte hanno drasticamente ridotto il fenomeno infortunistico finanche a dimezzarlo in pochi anni, a dimostrazione che attraverso una cultura della sicurezza che sui traduce in comportamenti e ambienti sicuri GLI INCIDENTI SUL LAVORO POSSONO ESSERE EVITATI!
**Ingegnere ambientale
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2 Responses to Sa die de sa Sardigna

  1. […] Francesco Casula nel suo blog “Truncare sas cadenas” un editoriale, che abbiamo ripreso oggi su Aladinews: “Per ricordare l’evento storico e simbolico, della cacciata dei Piemontesi da Cagliari il […]

  2. […] ——————————————- – Sa Die […]

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