Umanità della geopolitica

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L’Italia ai margini della sfera d’interessi altrui

di Gianfranco Sabattini

Nel mondo globalizzato di oggi, secondo Lucio Caracciolio (direttore della rivista “Limes”) la geopolitica è una forma di analisi dei conflitti di potere intrinseci alle relazioni internazionali. Essa non è scienza, non possiede leggi, non dispone di facoltà predittive; è solo lo studio, sulla base dell’ausilio di discipline diverse (che vanno dalla storia alla geografia, dall’antropologia all’economia, ed altre ancora) degli elementi umani qualitativi e degli aggregati quantitativi, disposti in “chiara gerarchia” (nel senso che la valutazione dei primi precede rigidamente quella dei secondi), che uno Stato deve effettuare per soddisfare al meglio le aspirazioni della propria comunità.
Uno Stato che persegua questo obiettivo deve, perciò, investire sulla formazione dei propri cittadini, per evitare di perdere, in parte o per intero, la propria sovranità, cadendo, come è successo all’Italia dopo la seconda guerra mondiale, nella sfera d’influenza altrui. E’ questo il tema al quale è quasi interamente dedicato il numero 8/2019 della rivista, nel cui Editoriale si afferma che, per praticare con successo la geopolitica, devono essere valutate prioritariamente dallo Stato le capacità intellettuali della comunità e, solo successivamente, deve essere effettuata la valutazione della “disponibilità di strumenti tecnologici, economici e militari”, necessari per “fare geopolitica”.
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Proprio per la prioritaria considerazione della dimensione qualitativa dei componenti la comunità e per la natura fortemente soggettiva che assume il discorso sulla geopolitica, quest’ultima, secondo l’Editoriale, può essere ritenuta una forma di umanesimo, inteso come insieme di segmenti del sapere per lo studio delle contese internazionali su specifici progetti legittimi; segmenti ancorati a cinque “precetti d’indagine”, cui i singoli Stati devono attenersi.
Innanzitutto, la propensione a guardare il mondo dal punto di vista degli interessi della propria comunità; in secondo luogo, la pratica dell’”analisi contrastiva”, ossia dello studio dei progetti di tutti gli attori presenti sulla scena internazionale, per capire e valutare nel modo più obiettivo possibile le poste in gioco; in terzo luogo, l’opportunità di evitare, per quanto possibile, il “pregiudizio di valore”, con l’ascolto, nella valutazione delle poste in gioco, dei ragionamenti degli analisti al di là delle ideologie e degli orientamenti di parte; inoltre, l’orientamento della propria azione all’empatia, per capire e valutare quanto è presente “nelle menti e nei sentimenti altrui, provando a comprenderne e illustrarne i punti di vista”, tanto più approfonditamente, quanto più questi punti di vista, in sede di elaborazione della propria geopolitica, sono percepiti radicalmente alieni dallo Stato; infine, la determinazione di approfondire continuamente la formazione pedagogica della nazione, per contribuire a una sempre più accurata formazione collettiva dei propri cittadini.
Per “fare geopolitica” ispirata ai “precetti d’indagine” appena descritti, occorre che ogni Stato definisca anche la propria strategia; un passo, questo, cruciale e ineludibile. La strategia rappresenta ciò che lo Stato deve necessariamente realizzare di momento in momento per soddisfare le attese della propria comunità. In ogni caso, si deve avere sempre precisa contezza degli obiettivi da perseguire, delle risorse qualitative e quantitative su cui si può contare, in relazione alle quali stabilire le priorità cui subordinare la conduzione della propria azione, tenendo conto della relazione mezzi/obiettivi finali; tutto ciò per evitare che l’azione nel corso del suo svolgimento possa essere esposta al rischio di collassare sotto il peso delle incongruenze e sotto le spinte del confronto con gli altri Stati.
La strategia non si inventa, in quanto è gia presente nel “DNA” di ogni Stato, nel senso che essa “è legata alle caratteristiche fisiche, storiche, culturali, antropologiche, demografiche ed economiche di una comunità”. Quindi, la strategia esiste di per sé, per cui uno Stato che intenda “fare geopolitica” deve solo riconoscerla, non stabilirla arbitrariamente; se lo Stato tentasse di pensarla in modo slegato dalle caratteristiche oggettive delle propria comunità correrebbe il rischio di fallire nella conduzione delle propria azione, finendo per essere ridotto ai margini della scena internazionale. La strategia è diversa – sottolinea Dario Fabbri – dalla tattica; quest’ultima è l’espressione dell’azione dello Stato caratterizzata da una maggiore arbitrarietà, imposta dalle particolari condizioni contingenti che di momento in momento caratterizzano l’azione geostrategica
Secondo Gorge Friedman (fondatore e presidente di “Geopolitical Futures”, una pubblicazione on line che analizza gli eventi globali per scopi revisionali), il fatto che la strategia sia legata alle caratteristiche oggettive di ogni comunità fa sì che lo Stato e il sistema politico che lo esprime siano prigionieri “di quelle caratteristiche oggettive”, che “plasmano” le decisioni dei leader politici, sino ad indurre il convincimento che essi non “contino nulla”. Ciò però non significa la loro irrilevanza; al contrario, a parere di Friedman, i leader politici sono “indispensabili alle loro nazioni”, a patto che essi comprendano i limiti entro i quali possono operare, il cui mancato rispetto comporterebbe il rischio di “tradire” le attese delle loro comunità. Ciò implica che per diventare dei geostrateghi di uno Stato, occorre che i leader, oltre a godere della fiducia della comunità che li esprime, “passino attraverso un processo di addestramento” che li porti, non solo alla conoscenza della struttura del sistema politico del quale sono parte, ma anche alla conoscenza della realtà della propria comunità.
La forza politica dei leader dipende perciò dal grado con cui essi introiettano, sia la conoscenza del proprio sistema politico, che quella delle caratteristiche oggettive della propria comunità. Un leader diventa tale – afferma Friedman – solo perché “conosce a fondo la sua nazione e rimane tale solo se persegue gli interessi della nazione”; se si comporta in modo ossessivamente autoreferenziale, il sistema che lo ha espresso (sia esso democratico o autoritaria) lo rimuove “mediante le forze che egli stesso ha scatenato”.
Spesso prevale l’idea, sbagliata, che la formazione dei leader sia la risultante del determinismo geografico, ovvero che la sua preparazione politica dipenda dall’influenza determinante dell’ambiente fisico. Questa linea di pensiero, secondo Caroline Rose (analista presso “Geopolitical Futures”, presieduta da Friedman), sostiene “che la geografia sia l’incubatrice delle cultura, della consapevolezza storica” di uno Stato e che “il luogo, l’ambiente e il clima destinano una collettività ad un a determinata traiettoria”. Per Rose non vi è dubbio che la consapevolezza dello spazio possa contribuire al comportamento di uno Stato nella cura degli interessi della propria comunità, ma il determinismo geografico non può plasmare da solo i comportamenti geopolitici. Quando si delineano le forme di questi ultimi, è importante pensare e analizzare le caratteristiche oggettive delle comunità al di là della sola geografia, distanziandosi dal determinismo geografico, per porre invece “altrettanta enfasi sugli elementi storici, culturali, antropologico-demografici che giocano un ruolo identico nel plasmare il modo in cui gli Stati si comportano”.
Determinismo e volontarismo, quindi, concorrono entrambi a prefigurare la geopolitica più conveniente che uno Stato può praticare nell’interesse della propria comunità. A tal fine, l’elemento geografico conta, ma conta anche l’elemento umano; il primo può prevalere solo quando, secondo Germano Dottori, uno Stato manca di leader “in grado di interpretarlo e una cultura che lo incorpori e lo trasformi in precetti operativi e in una linea di condotta”. Ciò è quanto avviene oggi in Italia, la cui debolezza sul piano geostrategico la espone alla marginalità sul piano internazionale, mettendola nella condizione di soddisfare in maniera sub-ottimale gli interessi nazionali. Per il superamento di questo handicap, occorre comprendere e interiorizzare – afferma Dottori – “la logica conflittuale che domina nelle relazioni internazionali”; logica che è il cuore degli studi strategici, che in Italia restano negletti.
Quest’ultimo fatto è assai sorprendente, se si considera, come sottolinea l’Editoriale di “Limes”, che a noi italiani “dovrebbe venir spontaneo insistere sulla profondità del tempo. Le nostre antiche leve, bimillenarie specialità della casa che fu Roma, paradigma d’impero. Non ci riesce. Forse perché quando abbiamo provato, ci siamo resi ridicoli al mondo e tragici a noi stessi. Risultato: abbiamo a lungo atrofizzato il pensiero geopolitico, condannato a morte nel dopoguerra da un molto strategico tribunale internazionale e interiore, senza quasi ce ne rendessimo conto”. Un parziale recupero di quel pensiero atrofizzato potrebbe essere realizzato, se in Italia fosse possibile avviare un’analisi obiettiva dell’attuale stato in cui versa la comunità nazionale sul piano della coesione, quindi inaugurare una politica della scuola, e della cultura in generale, in grado di esprimere un più alto livello della qualità dei suoi componenti.
Se ciò accadesse, potrebbe diventare realistico pensare che la comunità nazionale italiana, resa più coesa sul piano della propria identità attraverso il miglioramento culturale di tutti coloro che la compongono, possa anche esprimere sul piano politico dei leader in grado di cogliere in termini più compiuti i veri interessi nazionali.
Allo stato attuale, ciò che sembra stia maggiormente a cuore agli italiani è la loro propensione a sottrarsi ad ogni impegno per l’approfondimento della loro identità in un corpo sociale coeso, rinunciando in tal modo a cercare la via attraverso la quale esprimere dei leader politici in grado, attraverso la predisposizione di una geopolitica condivisa, di interpretare realisticamente le loro aspirazioni e la tutela dei loro interessi sul piano internazionale.
Non è casuale che l’eccessiva conflittualità esistente nel Paese, aggravata da un personale politico che non riesce ad esprimere autentici leader capaci di attenuarla, se non di rimuoverla, condanni l’Italia a risultare del tutto ininfluente sul piano internazionale, esponendola, come ora sta accadendo, al rischio di peggiorare la perdita, subita dopo la seconda guerra mondiale, della propria sovranità, e di continuare ad essere relegata ai margini della sfera d’influenza altrui.
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Le immagini sono tratte da Limes 8/19

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