Che succede?

PALUDE ITALIA
14 Febbraio 2020 by Forcesi | su C3dem.
Paolo Pombeni, “La crisi di governo strisciante frutto di politici dell’assurdo” (Il Quotidiano). Marco Follini, “Palude Italia” (Il Dubbio). Claudio Tito, “Prove tecniche di crisi” (Repubblica). Stefano Ceccanti, “Scenario in tre punti” (blog). Franco Monaco, “IV non è riformismo, è genio guastatori” (Il Fatto). Mario Chiavario, “Per giustizia non per calcoli” (Avvenire). Ezio Mauro, “Il vittimismo dell’uomo forte nel paese senza coscienza”. Giancarlo Giorgetti, “La Lega è affidabile: mai via dall’Euro e dall’Europa” (intervista al Corriere della sera). Guido Neppi Modona, “Spazzacorrotti, una sentenza importante della Consulta che ribalta la cassazione” (Il Dubbio). OLTRE LA PALUDE: Giovanni De Luna, “Beato il mite, perché sua è la democrazia” (La Stampa). Fabio Martini, “C’è qualcosa di nuovo a sinistra” (La Stampa), e cioè: Elly Schlein, “Tocca a noi lo sforzo di colmare la distanza tra città e campagna” (intervista a La Stampa) e Matteo Santori, “Sbagliata la piazza 5s. Molti di noi contrari al taglio degli eletti” (intervista a La Stampa). Domenico De Masi, “Sud, l’idea geniale delle sardine” (Il Fatto). Eugenio Mazzarella, “Se le sardine possono essere utili al Sud” (Mattino). Alfonso Berardinelli, “Quello che la sinistra ha trascurato” (Foglio).

Beato il mite, perché sua è la democrazia
di Giovanni De Luna
in “La Stampa” del 13 febbraio 2020
La politica italiana ha bisogno di mitezza. Troppi i rancori alimentati dal web, troppe le polemiche innescate dalle rabbie televisive, troppi gli eccessi dei toni di una campagna elettorale ininterrotta. La «mitezza» è stata recentemente invocata sia in piazza dalle sardine sia, sull’onda dell’insegnamento di papa Francesco, nel dibattito culturale da prestigiosi intellettuali cattolici (Stefano Zamagni). Ma di mitezza parlò a suo tempo soprattutto Norberto Bobbio. Elogio della mitezza è il titolo di una conferenza (poi diventata libro) che tenne a Milano nel 1983. C’era allora un’intera generazione che stava congedandosi dalla violenza, ma anche dalla passione politica; dalla militanza, ma anche dalla speranza. Il suo intervento aiutò molti ad archiviare la protervia di chi si sentiva depositario di grandi certezze, accettando la lezione della tolleranza e della necessità del confronto con l’altro.
Non fu facile per Bobbio farsi capire da quei giovani. La mitezza rinviava all’umiltà, alla mansuetudine, all’innocenza delle vittime, sembrava una di quelle virtù incompatibili con il pensiero laico dell’azione e dell’impegno, un argomento da sermone della domenica, più un appello retorico che una posizione etico-politica. Non era così. Anzi proprio la laicità che ne caratterizzava l’approccio fu quel che alla fine fece breccia anche in chi era stato indurito dalla ferrea concretezza delle ideologie novecentesche.
Nel pensiero di Bobbio, infatti, la mitezza era essenzialmente una virtù sociale e come tale per rifulgere aveva bisogno dell’altro, doveva essere inserita nelle profondità dei legami sociali che tengono avvinta una comunità. Era inoltre una virtù attiva perché suscita in chi la esercita il proposito di incidere sulla realtà, di costruire uno spazio pubblico in cui essa abbia la possibilità di operare proficuamente e dare frutti. Uno spazio non dato in natura, ma da creare e difendere contro ogni pulsione ispirata da una presunta «ferinità» dell’uomo.
Proprio per questo impegno assiduo, il mite, per Bobbio, era esattamente il contrario della vittima, dell’agnello sacrificale che con la sua innocenza aiuta la comunità a espiare le proprie colpe. Oggi la «democrazia del dolore», proposta tanto dai media quanto dal sistema politico, è organizzata intorno alle sofferenze delle vittime e alla loro memoria, creando uno spazio pubblico attraversato da un «eccesso di personalizzazione» delle istituzioni pubbliche, da un linguaggio carico di pathos, da luoghi e rituali di memoria in cui ogni gruppo esibisce le proprie ferite e le proprie offese per sollecitare atti riparatori fondati sulla retorica del perdono e delle scuse. Il travaso di sentimenti così carichi di passioni esistenziali (rancore, dolore, lutto, perdono, vendetta) dalla sfera privata a quella pubblica e la sua ricaduta sulle istituzioni indica i contorni di una «religione civile» molto precaria perché fondata sul dolore per un lutto, sulla richiesta di risarcimento di un torto subito, su un modo agonistico e competitivo di confrontarsi con gli altri, rivendicando una condizione di credito permanente nei confronti del mondo. Il vittimismo divide, la mitezza, invece, unisce.
Per Bobbio, il suo fondamento consiste nel «lasciare l’altro essere quello che è», così da pretendere dall’altro di essere lasciati essere quello che siamo. La mitezza nega radicalmente una contrapposizione tra «noi» e «gli altri» che assume il conflitto come cardine di una nozione binaria di bene e male e si fonda su un meccanismo di esclusione più che di inclusione. In questo senso, il terreno più propizio per l’affermazione della dimensione sociale della mitezza è la democrazia. Bobbio ne sottolinea la dimensione inclusiva («una democrazia non può essere esclusiva senza rinunciare alla propria essenza di società aperta»), la tensione continua «a far entrare nella propria area gli altri che stanno fuori per allargare anche a loro i propri benefici, dei quali il primo è il rispetto delle fedi».
Fuori dai recinti della «democrazia inclusiva» c’è spazio solo per l’arroganza del potere. E proprio in contrapposizione radicale con questo potere, la mitezza di Bobbio si propone anche nell’Italia di oggi come la più impolitica delle virtù, cioè la più radicalmente lontana da chi usa la politica solo
per affermare sé stesso, da chi insegue il successo cavalcando il narcisismo e il compiacimento. L’impoliticità della mitezza è quindi così forte da diventare perciò stesso «politica», costringendo il potere a mostrarsi nella sua nudità, senza gli orpelli che tradizionalmente lo circondano nello spazio pubblico, costringendolo a confessare la propria miseria, a svelare la fragilità della deriva plebiscitaria che spesso lo sostiene.
Può essere la mitezza di Bobbio, in questi aspetti più decisamente politici, il fondamento di una religione civile costruita su un patto di memoria immune dalle contese risarcitorie tra vittime e eredi delle vittime? Bobbio ci ha evidentemente pensato, quando ammetteva di amare le persone miti, «perché sono quelle che rendono più abitabile questa aiuola». C’è quindi bisogno di esempi, di persone in carne e ossa che possano costruire un nuovo, esemplare, pantheon repubblicano. La mitezza di Bobbio ci sollecita a privilegiare il registro della consapevolezza rispetto a quello delle emozioni, il confronto con la realtà rispetto al confronto con la rappresentazione della realtà e sembra indicare come eroi di un nuovo possibile pantheon repubblicano, pensate un po’, i 12 professori universitari (su 1200) che, a suo tempo, non giurarono fedeltà al fascismo dicendo semplicemente «preferirei di no…».

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