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La sanità da riscoprire. Le radici politiche del Servizio Sanitario Nazionale
Frutto delle lotte e dell’alleanza tra movimenti, gruppi sociali e professionali e forze politiche, il SSN sta subendo da tempo gli effetti nefasti di una riorganizzazione neoliberale. La sua storia insegna perché è fondamentale rilanciarlo: soprattutto oggi, di fronte all’epidemia coronavirus.
di Chiara Giorgi | 15 Mar 2020 | Intervento sul sito web del Centro per la Riforma dello Stato.

Mai come in questo momento che viviamo, in tutta la sua tragicità, stupore, paura e ostinata speranza, ma anche in tutte le sue possibili potenzialità per cambiare il verso delle cose, per rovesciare l’ordine delle priorità, torna utile ripercorrere una storia che ha contraddistinto questo paese nei “lontani” anni Settanta.
La catastrofe del coronavirus e della sua diffusione, non solo ci impone una spietata riflessione sui tagli alla sanità fatti negli ultimi trenta anni, su quelle politiche di privatizzazione e di mercificazione di sanità e welfare di cui si nutre il neoliberalismo da anni; ma ci riporta alle origini storiche e alle ragioni dello strumento che oggi è maggiormente investito dall’emergenza: il Servizio Sanitario Nazionale.
In effetti, quest’ultimo nei suoi caratteri di servizio pubblico, universalistico e fornito in prevalenza fuori dal mercato costituisce un essenziale mezzo a nostra disposizione.
Lo scriveva pochi giorni fa Marco Revelli su Il Manifesto: «Se i nostri rianimatori sono costretti ad affrontare “dilemmi mortali” – come recita l’inquietante documento del 6 marzo a loro firma – è perché altri, sopra di loro, o intorno a loro» hanno deciso della scarsità delle risorse disponibili. Lo scrivevano alla pagina a fianco Tamar Pitch e Grazia Zuffa: «l’epidemia di coronavirus sollecita a ripensare i sistemi sanitari e la loro organizzazione», recuperando, ad esempio, il ruolo della medicina territoriale.
È da qui allora che si vuole partire.
La spesa sanitaria pubblica in Italia rappresenta oggi il 6,5% del PIL, in linea con la media OCSE, ma in termini pro capite il SSN spende la metà della Germania. Calcolando la spesa in termini reali, al netto dell’inflazione, dopo un aumento in linea con gli altri paesi sino al 2009, le risorse pro capite per la sanità pubblica italiana nel 2018 sono cadute del 10%, mentre in Francia e in Germania sono aumentate del 20% (Ufficio parlamentare di bilancio, 2019). Questi dati fotografano l’entità della riduzione delle risorse pubbliche particolarmente grave in un paese ad alto invecchiamento della popolazione. È questo l’effetto delle politiche di austerità introdotte a partire dalla crisi del 2008, ma è anche il riflesso della più complessiva controrivoluzione neoliberista, segnata da spinte alla privatizzazione e alla trasformazione in merce di salute, istruzione, ricerca, cultura, ambiente, affermatasi a partire dagli Ottanta.
Da lì ebbe inizio l’attuale riorganizzazione capitalistica, oggi sempre più marcata da una intensificazione dei processi di espropriazione e di privatizzazione dei servizi collettivi del welfare. Ossia di quelle produzioni collettive dell’essere umano per l’essere umano che hanno rappresentato e rappresentano ancora una parte crescente della produzione e della domanda sociale, soddisfatta sinora in Europa per lo più al di fuori della logica del mercato (Vercellone et al, 2017).
Tuttavia, ripercorrendo ancora più all’indietro il “vero” inizio di questa stessa storia, ma da un punto di osservazione completamento diverso, quello che non è dalla parte della salute e della sanità del capitale – parafrasando uno dei più grandi interpreti del movimento di “Medicina democratica”, Giulio Maccacaro –, troveremo una grande sorpresa. È del 23 dicembre 1978 l’istituzione del Servizio sanitario nazionale (SSN).
Significativamente l’articolo 1 della legge n. 833 si richiamava all’articolo 32 della Costituzione e recitava: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività mediante il Servizio Sanitario nazionale». E subito dopo si indicava nel SSN il «complesso delle funzioni, delle strutture, dei servizi e delle attività destinate alla promozione, al mantenimento e al recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione senza distinzioni di condizioni individuali o sociali e secondo modalità che assicurino l’eguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio» (peraltro echeggiando la stessa definizione di salute fornita nel 1946 dall’OMS).
In modo emblematico in Italia una delle più importanti riforme in materia di welfare, forse la più rivoluzionaria, si realizzò quando altrove in Europa stava per iniziare la fase di riorganizzazione del capitalismo in chiave neoliberale. Ciò a conferma della peculiarità del laboratorio italiano degli anni Settanta. Ciò in ordine alla particolare sinergia realizzatasi – già a monte dell’approvazione della legge del 1978 – tra conquiste operaie e sindacali in fabbrica, pressioni e mobilitazioni portate avanti dalle varie realtà di movimento, in specie da quello femminista e studentesco –, provvedimenti di pianificazione regionale sanitaria (rafforzati dal decentramento territoriale dei servizi sociali e sanitari). Sinergia politica e culturale si realizzò insomma durante gli anni Sessanta e Settanta rispetto al progetto di riformulare in termini universalistici il sistema sanitario.
Di fatto l’elaborazione del SSN, frutto di un processo ventennale che accompagnò le trasformazioni fondamentali del paese, si combinò con l’emergere di nuove soggettività politiche, intercettando le domande di cambiamento e democratizzazione informanti gli intensi conflitti sociali di quegli anni. Le vicende che portarono alla legge del 1978, si intrecciarono così – anzi ne furono espressione – con una forte pressione dal basso, con le aspirazioni trasformative del tessuto sociale e degli assetti istituzionali, con pratiche politiche e partecipative inedite, con un fermento intellettuale di ampio respiro. Basta ripercorrere il dibattito che portò all’ideazione di quella che fu una vera e propria «istituzione inventata» (Rotelli, 1988) per notare la centralità del coinvolgimento di numerosi attori sociali e politici; ambiti collettivi di ricerca; nuovi saperi, legati in primis al settore medico-scientifico ma sempre più diffusi e condivisi, socializzati; originali forme di lotta e di sperimentazione istituzionale.
Anche soltanto a rileggere i testi di coloro che in prima linea si spesero per la riforma sanitaria, emerge un preciso e condiviso impianto politico e valoriale. Ad accomunare diverse figure come Maccacaro, Giovanni Berlinguer, Franco Basaglia, Alessandro Seppilli, Laura Conti, Ivar Oddone (per citarne soltanto alcuni) furono una visione unitaria e integrata della salute – fisica e psichica, individuale e collettiva – legata alla comunità e al territorio. Furono una concezione politica dell’ambito medico-sanitario e con essa una riconduzione della salute a fatto sociale; una consapevolezza delle responsabilità del capitalismo avanzato e dei suoi dispositivi di controllo e assoggettamento. A ciò si sommò una nuova impostazione del rapporto tra medico e paziente, assai distante da quella gerarchica che era sempre prevalsa nella storia italiana. Nonché si sommò l’opzione per un’organizzazione sanitaria periferica e decentrata, per una sua gestione diretta e partecipata, per la centralità del momento preventivo (e qualitativo) su quello curativo (e quantitativo) dell’intervento sanitario.
Maturò insomma la convinzione che il diritto alla salute, per come sancito dall’articolo 32 della Costituzione, unico diritto sociale espressamente fondamentale, comportasse scelte politiche nelle quali tutta la popolazione dovesse essere attivamente coinvolta, scelte culturali e istituzionali volte tanto a modificare nel profondo gli assetti del paese, quanto a qualificare la natura stessa della democrazia, dei suoi strumenti e presidi. Di qui la critica all’impianto assicurativo tradizionale e prevalente, allora dominato dal sistema delle mutue categoriali, la critica a uno Stato assistenziale paternalistico, categoriale e frammentato, alle logiche contributive vigenti nel sistema sanitario (e previdenziale) di quegli anni, e a quelle del profitto, largamente vigenti nel settore farmaceutico. Di qui, al contempo, la necessità di una tutela della salute da realizzarsi in modo capillare tramite la predisposizione di un servizio sanitario pubblico e universale, finanziato tramite il sistema della fiscalità generale, garantito a tutta la collettività nell’accesso e nel suo uso. Furono l’azione dei partiti di sinistra e della CGIL, le lotte portate avanti dagli operai e dalle operaie dentro e fuori le fabbriche per le proprie condizioni di lavoro e salute, furono le alleanze createsi tra questi, movimento studentesco, movimento femminista, movimento di lotta per la salute e movimento di riforma dell’assistenza psichiatrica, a rendere possibile quanto si istituzionalizzò nel 1978. Fu, non meno, una comune consapevolezza circa il fatto che la medicina non fosse neutrale nei confitti sociali; che il rapporto medico-malato andasse riformulato e liberato da un circuito chiuso e asfittico, come anche la pratica medica disancorata da criteri competitivi e mercantili; che «un ambiente morbigeno» non potesse essere compensato da incentivi salariali, ma andasse modificato e reso più salubre (Berlinguer, 1969). Fu ancora, la raggiunta consapevolezza che tutti gli esseri umani erano sottoposti a ritmi di vita massacranti, a inquinamento generalizzato, a sfruttamento intenso delle proprie vite, di cui vero e ultimo responsabile era il capitale. In questa chiave il problema della salute riguardava tutti e tutte, e l’impegno per «porre fine alla demolizione psicofisica di coloro che creano le ricchezze del paese» chiamava in causa soggetti e istituzioni, poteri e saperi di ogni ambito e disciplina (ibidem).
Lo stesso ruolo e statuto della medicina lungi dall’essere isolato investiva l’intero spazio della comunità, coinvolgeva nuovi attori, era il portato di istanze complessive di democratizzazione capaci di investire la vita quotidiana e tutti i rapporti sociali di produzione e riproduzione.
Erano le comuni esperienze sempre più diffuse sul territorio nazionale a favorire una nuova riflessione sui nessi tra scienza e potere, su una dimensione collettiva della salute, su una sperimentazione istituzionale dei servizi socio-sanitari, su una ricerca estesa all’intero sistema ambientale.
Qui risiedeva l’originalità del “caso” italiano, nel profondo legame instauratosi tra le lotte operaie, studentesche, femministe e il nuovo movimento di rinnovamento della medicina. La rivendicazione della riforma sanitaria nasceva da questa alleanza, capace di costruire forme di partecipazione diretta e contropoteri nei luoghi di lavoro e nella realtà urbane.
Si potrebbe proseguire ancora per molte pagine, citando i tantissimi documenti, libri, inchieste che si susseguirono a riguardo tra gli anni Sessanta e Settanta. Ma ci si limita a una “lezione” poco circolata e dimenticata: quella di “Medicina democratica” (MD), la cui scelta si collocava da una precisa parte. Nei due fondamentali processi, di segno opposto, andati maturando in Italia e nel mondo da tempo, ossia – scriveva nel ’76 Maccacaro – «la medicalizzazione della politica e la politicizzazione della medicina», l’una «come scelta della classe del capitale», l’altra come «scelta della classe del lavoro», MD stava da quest’ultima parte. Le sue elaborazioni e pratiche politiche assumevano la salute in una dimensione collettiva quale condizione e sostanza di quella individuale. Le sue pratiche politiche erano quelle delle lotte (collettive) – per la salute (collettiva) – volte a investire il modo di produzione e l’intera società, facendo propri gli insegnamenti provenienti dai movimenti. Soprattutto da quello femminista, essenziale sia rispetto ai profondi processi di consapevolezza innescati nel campo della salute delle donne e della riproduzione; sia nel dar vita ad alcune significative esperienze auto-organizzative; ma anche da quello basagliano della psichiatria radicale.
E ancora, si potrebbe continuare, ricordando tutte quelle iniziative, incontri diffusi in tante realtà del paese, in cui si misero in comune riflessioni aventi per oggetto di indagine e obiettivo di battaglia politica la salute considerata in termini più complessivi terreno di lotta unificante contro il sistema capitalistico (come si affermava durante un convegno fiorentino del ’73 nato dalle ricerche promosse dal Consiglio di fabbrica della Montedison di Castellanza-Varese).
Ma quel che più preme sottolineare è che si trattò di iniziative discendenti dalle mobilitazioni presenti a livello territoriale e coinvolgenti soggetti diversi: dagli organismi di base, ai consigli di fabbrica e di quartiere, ai comitati attivi nelle istituzioni, ai collettivi di infermieri e operatori sanitari, ai movimenti. Iniziative intente a confrontare saperi diversi, a sfidare le resistenze alle modifiche dell’assetto sanitario-assistenziale, a rilanciare l’avvio di una rottura del sistema sanitario allora vigente.
In sintesi, l’istituzione del SSN si ebbe a conclusione di un processo complesso, partecipato e plurale rispetto al quale fu fondamentale quanto realizzato soprattutto negli anni Settanta. Quanto cioè contribuì a riarticolare le pratiche e le “istituzioni” della partecipazione e dell’autorganizzazione della società per far fronte a bisogni e diritti misconosciuti sino a quel momento dallo Stato e dalla famiglia (sino ad allora rimasta, ma purtroppo tornata a essere, uno dei maggiori pilastri del welfare). Fu in altre parole una certa “qualità” del conflitto ad avere avuto allora un ruolo determinante; conflitto che investì la vita quotidiana e le sue strutture, ebbe come oggetto il sistema di welfare, il territorio e l’ambiente, la condizione femminile, la famiglia, le relazioni tra gli esseri umani, i rapporti tra Stato e cittadini, quelli tra ambito locale e ambito nazionale. L’assetto del SSN rispose a criteri di decentramento – in seno alle Regioni, ai Comuni, alle USL, troppo presto divenute ASL –; a criteri partecipativi, universalistici, opposti a una gestione tecnico-aziendalistica del servizio; alla saldatura tra servizi socio-sanitari di base. Rispose a un’impostazione della salute come fatto sociale e politico (sociale nella genesi e politico nella risoluzione), a una visione integrata dell’intervento sanitario e di quello sociale, alla centralità del momento preventivo e del dato qualitativo, a una organizzazione periferica, decentrata e territoriale, a un impegno diffuso capace di investire questioni legate alla tutela dell’ambiente.
Come per altre (minori) riforme in materia di welfare, la vicenda del SSN confermano la forza propulsiva e produttiva proveniente dal basso, dalle iniziative dirette e partecipate degli interessati, da quelle soggettività collettive e nuove interessate all’«introduzione di modelli profondamente innovatori» (Rodotà, 1995).
Ha scritto di recente uno degli studiosi del SSN che la metafora più adeguata per rappresentare quest’ultimo dopo 40 anni di sua esistenza (e resistenza) è quella del calabrone, al quale le leggi della fisica negano la possibilità di volare, ma che testardamente continua a farlo (Taroni, 2019).
Ecco forse, in questo momento segnato dall’epidemia di coronavirus, il calabrone potrebbe tornare a essere farfalla dal volo certo. Ma questo, come ci insegna la sua storia di ideazione, può dipendere soltanto dalle scelte politiche che a livello soprattutto europeo e internazionale si compiranno, nonché dalla rimessa in campo di un progetto comune che miri al nucleo sostanziale della democrazia, che punti a re-immaginare i nessi tra libertà ed eguaglianza in ogni spazio quotidiano. Può dipendere al contempo dalla responsabilità di ciascuna/o e di tutte/i, dalla «responsabilità della cura» (Gruppo femminista del mercoledì, 2020), dall’agire di soggetti e movimenti in grado di puntare a una trasformazione complessiva all’altezza di «una vita – come recitava l’appello transnazionale per lo sciopero femminista dell’8-9 marzo – che si possa vivere».
G. Berlinguer (a cura di), La salute nelle fabbriche, Bari, De Donato, 1969;
C. Giorgi-I. Pavan, Le lotte per la salute in Italia e le premesse della riforma sanitaria. Partiti, sindacati, movimenti, percorsi biografici (1958-1978), “Studi storici”, n. 2, 2019, pp. 417-455;
Gruppo femminista del mercoledì, Andare e tornare dall’io al noi e dal noi all’io, febbraio 2020;
G.A. Maccacaro, Medicina democratica, movimento di lotta per la salute, relazione introduttiva al convegno costitutivo di Medicina democratica, Bologna, 15-16 maggio 1976, ora in Id., Per una medicina da rinnovare. Scritti 1966-1976, Milano, Feltrinelli, 1979;
S. Rodotà, Le libertà e i diritti, in R. Romanelli (a cura di), Storia dello stato italiano dall’Unità ad oggi, Roma, Donzelli 1995;
F. Rotelli, L’istituzione inventata, in «Per la salute mentale/For mental health», 1988, n. 1; Id., L’istituzione inventata. Almanacco Trieste 1971-2010, Merano, Edizioni Alphabeta, 2015;
F. Taroni, Il volo del calabrone. 40 anni di Servizio sanitario nazionale, Roma, Il Pensiero scientifico, 2019;
Ufficio parlamentare di bilancio, Lo stato della sanità in Italia, Focus tematico, n. 6, 2 dicembre 2019;
C. Vercellone, F. Brancaccio, A. Giuliani, P. Vattimo, Il Comune come modo di produzione. Per una critica dell’economia politica dei beni comuni, Verona, Ombre corte, 2017.
Qui il PDF
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Cronaca di una pandemia annunciata
di Nicoletta Dentico
[segue]
Su Sbilanciamoci, 15 Marzo 2020 | Sezione: Apertura, Europa
In diversi paesi si continua a vivere come nulla fosse. La tensione tra diritto alla salute ed economia è all’origine dei due diversi approcci nella gestione della crisi. Solo l’onda d’urto del Covid-19 ha fatto capire il valore del Ssn, bene comune che il mondo ci invidia.

Non possiamo farci illusioni. Covid19 è più vicino a noi di quanto si possa immaginare. Lo raccontano le molte storie di persone contagiate, ricoverate in ospedale, decedute in poche settimane. Lo raccontano le storie dei potenziali positivi che non saranno mai diagnosticati, perché il sistema sanitario non ce la fa a sostenere la strategia del tampone per tutte le persone più a rischio.

Questa vicenda prima o poi finirà, ma intanto ci costringe a ripensare tutto. Dopo l’attacco terroristico alle Torri Gemelle del 2001 e la crisi finanziaria del 2008, la guerra contro questo virus invisibile e così contagioso – un minuscolo pacchetto di RNA avvolto da una capsula di proteine – è il terzo evento, dall’inizio del millennio, a ribaltare la storia, a scompigliare ogni certezza, a tramortire le nostre vite. Certo le epidemie, ci ricorda Walter Scheidel nella sua ampia disamina sulla disuguaglianza [1], sono tra gli eventi con maggiore potenza di trasformazione della storia umana.

Niente di nuovo sotto il cielo, quindi. Ma noi non abbiamo ancora fatto tesoro delle lezioni del passato, neppure quello recente. Dall’inizio del millennio non è la prima volta che un virus animale della classe dei coronavirus fa il cosiddetto salto di specie. Era avvenuto con la SARS in Cina tra 2002 e 2003, con la MERS in Arabia Saudita e Giordania nel 2012. Altri salti di specie hanno messo alle strette la comunità internazionale con l’influenza suina nel 2009 (H1N1), l’influenza aviaria nel 2013 e nel 2017 (H7N9), altri micidiali patogeni come Zika ed Ebola (quest’ultimo ancora operoso in Africa).

Gli esperti dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) lo andavano dicendo da tempo che una pandemia tipo la grande influenza del 1918 (la Spagnola, per intendersi) non era un’ipotesi di scuola, ma solo una questione di tempo. Adesso nella crisi ci siamo dentro, e Covid19 ha tutta l’aria di essere il patogeno che la comunità scientifica stava aspettando. Primo, perché uccide gli adulti in salute e le persone anziane con problemi pregressi. I dati dicono che la mortalità globale del Covid19 (al 10 marzo) sta intorno al 3,4%, dunque maggiore del 2% della Spagnola. Inoltre il virus ha un tasso esponenziale di trasmissione: una persona infetta in media contagia 2-3 altre persone. L’efficienza del contagio riguarda ancha persone asintomatiche, pre-sintomatiche, o paucisintomatiche (con pochi sintomi) [2]. Questo significa che Covid19 è molto più arduo da contenere della SARS, che veniva trasmessa più lentamente e solo da pazienti sintomatici. Covid19 ha già causato 10 volte più casi della SARS in un quarto del tempo [3].

Quando la marea dell’emergenza si sarà ritirata, non sapremo più riconoscere il paesaggio. Ma nelle riflessioni che accompagnano il diffondersi di Covid19 possiamo verificare diverse ipotesi della politica, che dalla globalizzazione arrivano agli effetti di casa nostra. Provo a proporne alcune:

La triste geopolitica dell’emergenza

Potremmo partire facendo il paragone su come il mondo si prepara alla guerra e a combattere i virus. La NATO, ad esempio, ha una Forza di intervento rapido che fa continuamente esercitazioni per verificare tutti gli aspetti di un’eventuale operazione – logistica, approvvigionamento di viveri e benzina, lingua operativa, le frequenze radio, etc [4].

Non esiste niente di tutto questo nella lotta alle pandemie. L’ultima seria simulazione di una pandemia negli Stati Uniti, il Dark Winter Exercise, si è tenuta nel 2001. Finalmente, tra mille accortezze geopolitiche, l’Oms ha dichiarato lo stato di pandemia. Le condizioni di diffusione geografica su scala mondiale e di diffusione da contagi secondari, necessarie a riconoscere la pandemia (non basta un focolaio primario), esistevano da tempo. Era assolutamente necessario che l’agenzia lanciasse un segnale di allarme. Soprattutto per quei governi, perlopiù occidentali, che in nome dei mercati o per opportunismo politico continuano a sottovalutare la forza di diffusione di Covid19, dichiarano in ritardo l’emergenza, oppure la nascondono.

L’iniziale preoccupazione del direttore generale dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyeus sulla poca cooperazione tra stati è solo confermata, a quasi due mesi dall’inizio della mobilitazione sul virus. Contravvenendo ai vincoli previsti dal Regolamento Sanitario Internazionale del 2005 (adottato dall’Oms dopo la SARS con lo scopo di migliorare la capacità del mondo nel prevenire e contenere le malattie), la cooperazione internazionale tra governi ha lasciato il campo al sovranismo sanitario, quando non all’inazione, a fronte delle incognite del Covid19.

A partire dall’Europa, maggior focolaio di contagio. In diversi paesi europei si continua a vivere come se nulla fosse. In Germania le scuole sono chiuse dal 16 marzo, l’identificazione dei casi avviene solo dalla fine di febbraio, mentre gli unici segnali d’allarme vengono dal lancio di prestiti illimitati fino a 550 miliardi di euro e dal decreto che introduce il divieto di export dei dispositivi di protezione: guanti, mascherine, occhiali, tute. Provvedimento che è costato alla Germania una procedura di infrazione da parte della Commissione europea. La Francia dal canto suo ha deciso di confiscare tutto il materiale di protezione, impedendo ai produttori la libera vendita: una misura che potrebbe causare un vero e proprio bando all’export. La Danimarca e i paesi del gruppo di Visegrad hanno blindato le frontiere al resto del mondo mentre l’Inghilterra, con la scusa dell’immunità di gregge, si affida a una strana forma di selezione naturale della specie e permette al Covid19 di scorrazzare liberamente.

Dopo giorni di ostinato diniego, gli USA hanno dichiarato lo stato di emergenza, ma Trump vieta agli stati di ricorrere al programma federale Medicaid per rispondere alla crisi, attacca il Centre for Disease Control and Prevention (CDC) per aver evidenziato l’inefficiente approccio di prevenzione. Intanto, il panico derivante dalla difficoltà di accesso ai test, e dalla loro inaffidabilità, dimostra la profonda inadeguatezza del sistema sanitario privatistico che si vuole imporre al mondo. Di fatto nessun paese, ad eccezione dell’India, si è preparato con anticipo all’emergenza in arrivo.

Insomma, noi umani siamo una sconfinata prateria di conquista da parte del virus, ma siamo soprattutto un esercito scomposto, arrogante, impreparato, diviso. Si tratta di un fallimento globale con esiti disastrosi. Intanto, al contrario della Nato, tutte le strutture dell’Oms create per promuovere un sistema di allerta e risposta immediata sono prive di fondi e dotate di pochissimo personale.

La tensione fra salute ed economia

Uno dei motivi per cui il diritto alla salute subisce così tante violazioni deriva dal fatto di essere un diritto che non vive in isolamento. Si trascina molti altri diritti sociali, in costante attrito con i profitti della finanza e le leggi dell’economia. Bene: gli esperti hanno calcolato che il rischio di una pandemia ha un costo di 500 miliardi di dollari all’anno [5] – nel 2013, la Banca Mondiale aveva valutato una perdita di 3000 miliardi di dollari per una singola pandemia influenzale [6] – ovvero una caduta di PIL tra lo 0,2 e il 2%. In Italia, abbiamo sperimentato più volte il dilemma fra salute ed economia (e lavoro) e il caso di Covid19 non fa eccezione. A questa tensione sono da attribuire clamorosi passi falsi del governo Conte nella gestione dell’emergenza, i messaggi contraddittori tipo “Milano non si ferma” di fine febbraio che hanno legittimato comportamenti del tutto organici alla diffusione del virus.

La stessa tensione tra diritto alla salute ed economia sta all’origine dei due diversi approcci strategici nella gestione della crisi Covid19: 1. Il deciso contrasto del contagio con misure di distanziamento sociale e provvedimenti straordinari di isolamento coatto della popolazione (modello cinese, coreano, italiano); 2. Il non contrasto del contagio, con una attenzione esclusiva alla cura dei malati (modello britannico, tedesco, olandese, svedese, in parte francese). Condivido l’analisi di Roberto Buffagni quando evidenzia che la scelta di contenimento del virus comporta costi economici rilevanti ma affonda le proprie radici su valori culturali e di civiltà antichi, cui i paesi in questione continuano ad ispirarsi come cifra del loro stile etico-politico – magari per istinto, non per lungimiranza.

La politica del laissez faire poggia invece su una constatazione pragmatica. La quota della popolazione la cui morte è messa in conto e accettata è fatta in larga misura da persone anziane e/o già malate. La loro scomparsa non inficia la funzionalità del sistema economico, anzi esercita potenzialmente una leva palingenetica, poiché allevia i costi del sistema pensionistico e dell’assistenza socio-economica di medio periodo, “innescando un processo economicamente espansivo grazie alle eredità che, come già avvenuto nelle grandi epidemie del passato, accresceranno liquidità e patrimonio di giovani con più alta propensione al consumo e all’investimento rispetto ai loro maggiori” [7]. In potenza, questo modello accresce la agibilità economico-politica dei paesi che lo adottano rispetto ai paesi che scelgono la strategia del blocco del contagio, che dovranno scontare i pesanti danni economici correlati.

Come italiani, ne sappiamo qualcosa. Dovremo (s)contare parecchie morti economiche oltre a quelle causate dal virus, morti che rimandano all’esasperante pratica di precarizzazione del lavoro anche nei comparti di traino dell’economia del paese – penso in particolare al turismo. Insomma, il Covid19 sta facendo emergere tutte le falle del sistema che covavano da tempo nel nostro paese. Ma se è vero che il virus segna uno spartiacque nella storia del paese, vogliamo poter immaginare anche da qui una ipotesi di palingenesi sistemica, con il dopovirus.

Un sistema sanitario nazionale pubblico e gratuito. La lezione di Covid19

Ci voleva l’onda d’urto di Covid19 per far comprendere alla società italiana il valore del nostro sistema sanitario nazionale come bene comune che il mondo ci invidia [8], protezione individuale rispetto alle vicende della vita (altro che leggi sull’autodifesa!). Ritengo questa nuova tardiva consapevolezza la più insperata virtù del Coronavirus, il punto politico di non ritorno di questa sconvolgente epidemia.

In nome dell’economia in Italia si è affossato il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) del 1978, uno dei dispositivi istituzionali più rivoluzionari ed efficaci in Europa nel settore del welfare, e la conquista politica e civile che ha contribuito più di ogni altra allo sviluppo economico e sociale della nostra società. In nome del contenimento del deficit, la sanità italiana ha subito liberalizzazioni e privatizzazioni dei servizi pubblici.

Con la scusa della riduzione del debito, o della spending review, i governi hanno chiuso i rubinetti degli investimenti nella sanità pubblica – dal 2001 al 2008 la spesa sanitaria era cresciuta del 14,8%, dal 2009 al 2017 solo dello 0,6%, ciò che ha provocato la riduzione per la spesa del personale sanitario del 6% dal 2010 al 2016, il blocco del turnover, l’abbattimento di 70000 posti letto, la chiusura di 175 unità ospedaliere, e l’accorpamento compulsivo delle ASL da 642 negli anni ’80 a 101 nel 2017. I tagli hanno raggiunto 25 miliardi di euro solo tra il 2010 e il 2012. Una scelta avallata dalla vulgata del costo eccessivo del nostro sistema, che ha prodotto ricadute pesanti sui cittadini, tra cui l’esplosione della spesa privata calcolata dal Censis-Rbm in 40 miliardi di euro nel 2017 [9], quando 8 milioni di italiani hanno dovuto ricorrere a prestiti per poter accedere alle prestazioni sanitarie.

Solo il 41% dei nostri cittadini ha un reddito per sopperire alle spese, gli altri vanno a debito e, come illustra il rapporto Censis-Rbm del 2019, lo spalancarsi del business della sanità privata ha raggiunto un livello inquietante [10]. Certo, stando a quanto raccontano i mass media, la transizione dalla sanità pubblica a quella privata appare una scelta inevitabile e sensata. La linea editoriale della malasanità italiana ha venduto all’opinione pubblica e alla classe politica di tutte le appartenenze l’idea che ogni intervento pubblico fosse inutilmente costoso, inefficiente, corrotto. Salvo la smentita di questi giorni. Al netto delle inefficienze e degli sprechi da combattere con determinazione, le spese in sanità sono investimenti, con effetti benefici per l’economia nel medio lungo termine.

Nell’immediato, abbattere il contagio attraverso le misure di contenimento straordinarie varate con i decreti del governo Conte è la sola strategia d’urgenza per evitare il collasso del sistema sanitario, con tutte le conseguenze che produrrebbe. Ma non possiamo aspettare troppo tempo per pianificare la necessaria inversione di rotta, che contemperi la coerenza fra percorso universitario e sistema salute, l’assunzione di personale sanitario, una maggiore formazione alla prevenzione delle malattie, la riapertura di strutture e presidi sanitari chiuse in questi anni, un forte investimento nella ricerca scientifica.

Ci vorrà anche il coraggio di rivedere in profondità alcune politiche strutturali del paese. Servizio Sanitario Nazionale vuol dire nazionale, appunto: cioè centralizzato. Non spezzettato in strategie regionali, più o meno orientate a settore privato. La devolution sanitaria è stata fonte di gravi disuguaglianze – nel suo piccolo, il nord e sud Italia riproducono il divario sanitario fra nord e sud del mondo. Ha determinato varietà di approcci e spesso inefficienze, ha moltiplicato le possibilità di corruzione (a conferma dell’evidenza empirica globale). La regionalizzazione della salute non è adatta a gestire le complessità sanitarie del nostro tempo, come abbiamo visto nelle prime fasi dell’epidemia.

L’Italia dovrà farsene una ragione, mi riferisco anche alla autonomia differenziata ovviamente, se vuole prepararsi seriamente alle condizioni di emergenza che incombono sul nostro paese più che altrove in Europa. Non solo perché abbiamo la popolazione più vecchia del mondo – il motivo dell’alta casistica di morti da Covid19. Non solo perché sarà il paese più seriamente colpito dal cambiamento climatico in atto tra quelli europei (per posizione geografica e conformazione orografica). Ma soprattutto perché l’Italia già si porta in pancia condizioni di emergenza sanitaria da affrontare, nell’immediato, con politiche serie, univoche, immediate. Una per tutti? La resistenza agli antibiotici. Siamo il paese europeo con più ceppi batterici che resistono agli antibiotici, la loro popolazione in dieci anni si è decuplicata, e stando agli ultimi dati dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), dei 33mila decessi provocati da antibiotico-resistenza in tutta Europa, 10mila sono avvenuti nel nostro paese [11]. Qualche giorno fa, la virologa Ilaria Capua ipotizzava che questa circostanza fosse una concausa della forte mortalità da Coronavirus nel nostro paese.

Il post Covid19 sarà come un dopoguerra, con le sue macerie, la necessità di ricostruzione. Abbiamo molti strumenti per ridisegnare un sistema paese più forte, più giusto. Nella sua tragica manifestazione, il silenzioso e invadente Coronavirus è la nostra migliore chance.

***

[1] Walter Scheidel, La grande livellatrice: violenza e disuguaglianza dalla preistoria a oggi, il Mulino, 2019, pp. 391-424.

[2] Hoehl S., Rabenau H., Berger A., et al., Evidence of SARS-CoV-2 infection in returning travelers from Wuhan, China. N Engl J Med. DOI: 10.1056/NEJMc2001899.

[3] https://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMp2003762

[4] https://www.nato.int/cps/en/natolive/topics_49755.htm

[5] https://www.who.int/bulletin/volumes/96/2/17-199588.pdf

[6] https://www.worldbank.org/content/dam/Worldbank/document/HDN/Health/WDR14_bp_Pandemic_Risk_Jonas.pdf

[7] http://italiaeilmondo.com/2020/03/14/epidemia-coronavirus-due-approcci-strategici-a-confronto-di-roberto-buffagni/

[8] https://www.bloomberg.com/news/articles/2019-02-24/spain-tops-italy-as-world-s-healthiest-nation-while-u-s-slips

[9] https://www.censis.it/welfare-e-salute/cresce-il-rancore-la-sanità-prova-d’esame-il-governo-del-cambiamento

[10] https://www.censis.it/welfare-e-salute/sanità-196-milioni-di-italiani-costretti-pagare-di-tasca-propria-ottenere

[11] https://www.epicentro.iss.it/antibiotico-resistenza/aggiornamenti

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Coronavirus. Sei cose da fare per l’economia italiana
Campagna Sbilanciamoci!
[segue]
11 Marzo 2020 | Sezione: Apertura, Economia e finanza
L’emergenza coronavirus rischia di mandare definitivamente al tappeto il nostro sistema sociale, economico e produttivo. La Campagna Sbilanciamoci! chiede con urgenza che il Governo intervenga in Italia e in Europa su sei fronti per uscire dalla crisi in fretta e con un nuovo modello di sviluppo.

Il perdurare dell’emergenza coronavirus sta producendo un impatto enorme sul tessuto economico e sociale italiano. Si prospetta una grave recessione con effetti pesantissimi sull’occupazione, i consumi, la crescita della povertà, la capacità produttiva del Paese. Lo spread ha superato quota 200 (con evidenti ricadute sul debito pubblico) e la borsa italiana, perdendo oltre il 25% del suo valore in pochi giorni, ha annullato la crescita dell’ultimo anno.

Vi sono problemi serissimi sia sul fronte dell’offerta sia su quello della domanda.

Molte imprese nel Nord hanno rallentato la produzione, a causa della strozzatura nell’importazione di componentistica dalla Cina (con il conseguente drastico calo ed esaurimento delle scorte di magazzino) e delle difficoltà generali – negli spostamenti e nella logistica – determinate dai necessari provvedimenti presi dal Governo per arginare l’epidemia. Altrettanto seri sono i problemi sul lato della domanda: l’inevitabile drastico calo dei consumi interni produce conseguenze gravi sulla produzione nazionale.

Ancora non ci sono stime ufficiali, ma l’Ufficio Parlamentare di Bilancio (Upb) nella memoria presentata alle Camere il 10 marzo 2020, prevede che “gli impatti potrebbero essere rilevanti soprattutto nel mese in corso”, affermando poi che “è del tutto probabile che nel complesso dell’anno 2020 il Pil si ridurrà”.

Sbilanciamoci! ha stimato qualche giorno fa una riduzione del Pil per il 2020 dello 0,9%, ma si tratta di una stima prudenziale: è probabile che sia molto più alta a causa del perdurare dell’emergenza e del rischio che, a fronte del probabile coinvolgimento degli altri Paesi, si inneschi una crisi economica globale. C’è il rischio di un peggioramento delle condizioni internazionali e si rischia una disintegrazione delle sedi di governance globale a favore di una deregulation sovranista delle politiche nazionali. In quel caso la riduzione del Pil potrebbe anche arrivare fino al 5%.

Ci sono alcuni settori particolarmente colpiti: il settore manifatturiero e in particolare quello dell’auto; il turismo; i trasporti e la logistica. In questi settori può esserci un crollo delle attività tra il 25 e il 50%: è – quest’ultimo – il caso del turismo e della ristorazione, che produce all’incirca il 6% del totale del valore aggiunto e dell’occupazione. Il rischio – come abbiamo detto alcuni giorni fa – è la perdita di oltre 250mila posti di lavoro.

Per l’Italia la situazione è particolarmente seria, considerate le condizioni di partenza già preoccupanti: nell’ultimo trimestre del 2019 il Pil era calato dello 0,3% e le previsioni per il 2020 erano di un timido +0,2%. Con l’ultima Legge di Bilancio si è evitato l’aumento dell’Iva, ma ben poco si è fatto in termini di sostegno agli investimenti e all’economia reale: i provvedimenti legati al Green New Deal – sul quale il Governo ha messo molta enfasi – sono molto modesti nella Legge di Bilancio, e quelli più importanti sono rinviati ai prossimi anni.

In Veneto, il 25% delle imprese (soprattutto medio-piccole e nel settore del tessile) ha dovuto sospendere la produzione (fonte: Unioncamere), in Italia il 28% ha subito conseguenze per il rallentamento della domanda, mentre per circa il 10% delle imprese i danni sono molto rilevanti (fonte: Confindustria).

Il Governo ha fronteggiato questa situazione di emergenza con una serie di misure necessarie, ma ancora insufficienti. Il decreto del 3 marzo scorso contiene alcune misure importanti – per un totale di 3,6 miliardi di euro, fino ad arrivare a un impegno di 7,5 miliardi in deficit – sul rinvio del pagamento di utenze, oneri fiscali e sociali, mutui; sulla cassa integrazione in deroga; su alcuni interventi sociali.

Ora, il Governo annuncia un complesso di 25 miliardi di euro di stanziamenti e assunzioni di 20mila infermieri e medici.

Salutiamo positivamente queste misure, che avevamo sollecitato una settimana fa esattamente negli stessi termini.

Come Campagna Sbilanciamoci! chiediamo e ribadiamo che è doveroso raccogliere (nell’ambito delle misure previste per un importo complessivo di 25 miliardi di euro) quanto esposto dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio nella memoria sopra citata: bisogna “affiancare all’azione dei singoli Paesi modalità di intervento definite a livello dell’intera euro zona, inclusa la possibilità di emettere debito con garanzia europea”. Gli interventi devono essere concentrati in queste direzioni:

interventi nel settore della sanità pubblica, con: (a) l’assunzione – già annunciata dal Governo e proposta da Sbilanciamoci! nel documento del 4 marzo scorso – di 20mila infermieri e medici; (b) la riapertura di strutture sanitarie (piccoli ospedali, presidi, eccetera) chiuse in questi anni in base a un’inopinata politica di tagli alla sanità. L’emergenza ci impone in futuro un investimento più forte nel Servizio Sanitario Nazionale: basta tagli. Questa è l’occasione per rilanciare la sanità pubblica e un modello di coesione sociale fondato su un welfare universalistico e inclusivo. Non si tratta di un costo, ma di un investimento per il nostro futuro.
Il rafforzamento di tutti gli interventi volti alla costituzione di un fondo di politica industriale finalizzato a evitare la chiusura delle imprese e a rilanciare le attività produttive in base alle nuove esigenze. Occorre poi istituire una “cassa sociale straordinaria”, ovvero una sorta di “garanzia lavoro” volta ad assicurare la cassa integrazione a tutti i lavoratori che ne avranno bisogno e un’indennità economica a tutti le persone con contratti co.co.co e a tempo determinato che ne necessiteranno. Nessuno deve perdere il lavoro per questa emergenza, nessuno deve subire riduzioni di reddito. Bisogna salvaguardare tutti i lavoratori ed enfatizzare la difesa dei lavoratori precari e a tempo determinato con tutti i mezzi. Inoltre bisogna potenziare tutti quegli strumenti – come il reddito di cittadinanza – volti a erogare sussidi economici alle fasce più disagiate e meno protette della società.
Il varo di interventi straordinari e immediati: la sopra richiamata riapertura di ospedali e presidi sanitari chiusi in questi anni, così come la messa in sicurezza di scuole e di edifici pubblici, anche dal punto di vista delle norme sanitarie. Si possono aprire subito centinaia di piccoli cantieri, che darebbero lavoro a migliaia di lavoratori e possibilità di ripresa per le imprese. Si tratta poi di investire nelle dotazioni informatiche e tecniche delle scuole per permettere di attivare l’insegnamento a distanza.
L’assunzione di 10mila operatori socio-sanitari nel settore pubblico per potenziare l’intervento di assistenza e di tutela dei diritti per le centinaia di migliaia di persone non autosufficienti (anziani, persone con disabilità…), attraverso il rafforzamento della rete dei servizi pubblici: assistenza a domicilio, accompagnamento, la tutela dei minori con i genitori ammalati, eccetera.
Due miliardi di euro di finanziamento alla ricerca scientifica: si tratta di un investimento determinante in un comparto sotto-finanziato. Occorre attrezzare il nostro Paese di fronte alle sfide dei prossimi anni, non solo nel campo della ricerca medica e chimica, ma nel settore decisivo dell’innovazione tecnologica e scientifica, in modo da poter rendere protagonista la nostra economia e il nostro apparato produttivo nella competizione globale. Bisogna riportare gli stanziamenti per la ricerca ai livelli precedenti al 2008, prevedere un programma di assunzioni per 5.000 ricercatori e favorire il rientro dei ricercatori italiani all’estero.
Il ruolo dell’Europa diventa in questo contesto fondamentale. La rigidità dei vincoli del Patto di Stabilità non ha oggi alcuna ragione di essere seguita. Serve una garanzia europea sul debito pubblico contratto per fronteggiare l’emergenza coronavirus. Ed è necessario che la Banca Centrale Europea (Bce) favorisca con l’emissione di moneta l’acquisto di eurobond, e sostenga il finanziamento della Banca Europea per gli Investimenti (Bei) per effettuare investimenti a favore del Green New Deal e del rafforzamento dei servizi sanitari pubblici. È necessario in questo contesto rivedere – rafforzandolo politicamente ed economicamente – il processo di integrazione dell’Unione Europea: fin qui le politiche restrittive e di austerità non hanno funzionato. Bisogna darsi politiche economiche e fiscali economiche comuni con caratteristiche espansive che privilegino il lavoro, il welfare, l’economia della conoscenza, la sostenibilità ambientale e sociale.
Dobbiamo affrontare e uscire da questa crisi cogliendo l’occasione per ripensare il nostro modello di sviluppo, rendendolo sostenibile ed equo, regolando la finanza, rafforzando il ruolo dello Stato e delle politiche pubbliche, investendo nell’economia verde, facendo del welfare e della sanità pubblica gli architravi del nostro modello sociale.

Chiediamo, infine, di anticipare il più possibile la stesura della bozza del Documento di Economia e Finanza del 2021 e – prima della sua trasmissione al Parlamento – di condividerne con le parti sociali e la società civile le linee e le proposte individuate.

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