No a un nuovo centralismo
Pubblichiamo l’articolo dei proff.ri Umberto Allegretti e Enzo Balboni, segnalando come lo stesso risalga a oltre un mese fa, e pertanto parzialmente superato per alcune osservazioni sulle ordinanze dei presidenti di regione dai successivi provvedimenti governativi. Di fondamentale resta la difesa dell’autonomia regionale, argomentata nello stesso contributo, che consente opportune differenziazioni nei comportamenti richiesti ai cittadini delle diverse comunità regionali, pur nel quadro di un intervento unitario sulla salute pubblica e sulle sue emergenze di competenza delle autorità del governo nazionale. E tutto ciò è essenziale in tempi di risorgenti spinte accentratrici o all’opposto di pericolose spinte disgregatrici (fm).
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Autonomismo e centralismo nella lotta contro la pandemia coronavirus
Umberto Allegretti – Enzo Balboni**
(9 aprile 2020)
1. Sulla base essenzialmente dell’art. 118 Cost., la lotta contro la pandemia Coronavirus sta collaudando un modello di rapporti Stato-Regioni di stile diverso: meno appesantito da incomprensioni e conflittualità, che nell’insieme sembra stia funzionando bene.
Poiché nessuno sembra mettere in dubbio un intervento complessivamente efficace delle autorità centrali – inclusa la presa d’atto che un personale politico della cui adeguatezza si poteva prima dubitare (per la sua mancanza di esperienza rispetto alla classe dirigente del passato) è “cresciuto” nella capacità politica e amministrativa – ci poniamo questa domanda: come hanno affrontato le Regioni, che hanno la primazia tra le istituzioni non centrali, la battaglia di contenimento e contrasto dell’epidemia COVID-19 “Coronavirus” e, soprattutto, come ne sono uscite nei confronti dello Stato-organizzazione e dello Stato-comunità nazionale?
Fatti salvi alcuni, anche rilevanti, errori, omissioni o inutili sovraccarichi – avvertiti specialmente nella fase iniziale, quando ci si è trovati a dover camminare impreparati nelle tenebre di una tragedia che si rendeva ogni giorn o sempre più incombente – il giudizio che ci sentiamo di dare, almeno fino al momento presente, è positivo. Sì: l’istituto Regione (e con esso il sistema degli enti locali) ha retto di fronte al tremendo impatto, riuscendo ad organizzare un contrasto efficace, nel senso di essersi dimostrato capace di schierare, sui diversi campi di battaglia, batterie di uomini e mezzi che hanno voluto e saputo combattere un male ignoto e subdolo, veloce nei suoi attacchi e particolarmente aggressivo. I primi antemurali – Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna – e i ceti governanti ivi operanti hanno retto all’urto della pandemia e, a nostro avviso, si sono progressivamente legittimati agli occhi del vero giudice: i loro cittadini, in primis, e la comunità nazionale poi.
Certamente, e necessariamente, lo Stato ha fatto la sua parte (anche qui al netto di errori ed omissioni non tutte facilmente scusabili: soprattutto sul piano della preparazione remota, nell’approvvigionamento dei presìdi sanitari e della comunicazione) e, nei fatti, si è prodotta una adeguata collaborazione con le Regioni.
Queste ultime, dal canto loro, e senza che se ne rendessero pienamente conto, erano sottoposte ad un esame costante da parte dell’opinione pubblica, vale a dire dalla voce della democrazia pluralista. Dopo la cattiva prova – e talvolta i pessimi esempi di condotta individuale data dalle classi dirigenti regionali dagli anni ’90 in poi – dimostrarsi non all’altezza dei propri doveri e far cattivo uso dei poteri a disposizione per l’esercizio delle funzioni a loro attribuite avrebbe significato congiungere un eventuale insuccesso attuale con l’avvio di una progressiva ma accelerata decadenza dell’istituto regionale stesso.
Con parole più nette: se, nell’ora della prova e del pericolo non si fosse palesata, nei fatti e nei comportamenti, una “comunità regionale” presente e viva a fronte di una comunità nazionale sussistente di per sé e rappresentata dalla figura statale e dai suoi organi, la campana a morte per le nostre Regioni avrebbe cominciato a diffondere i suoi tristi rintocchi.
Invece, dopo quarant’anni da momento in cui l’aforisma “Regioni senza regionalismo” venne coniato (con intimo dolore, nel 1980) da Giorgio Pastori, si può oggi dare ragione a quell’altra sua massima: “se le Regioni non esistessero, bisognerebbe inventarle”.
Ci rendiamo conto che le nostre sono affermazioni impegnative. Esse, da un lato, non vogliono essere assolutorie degli svariati errori che pur continuano a presentarsi in taluni atti e comportamenti delle Regioni, ma neppure vogliamo supinamente accettare molte, non sempre indispensabili né accettabili, misure di accentramento presso lo Stato di decisioni che potevano essere ritenute di competenza regionale e che sono presenti anche nell’ultimo decreto legge n. 19/2020. In tali circostanze restiamo tuttora in un terreno di “non regionalismo” ex parte statuale.
Vogliamo invece dire, andando al di là del mero riparto di competenze quale è fissato nel nuovo Titolo V Cost., che adesso abbiamo (e potremmo meglio avere in futuro) una “misura” di reciproco riconoscimento di ambiti, spazi, competenze, materie, oggetti (chiamiamoli come vogliamo) e dunque di mutuo rispetto e di “leale collaborazione” tra ciò che spetta ad una comunità regionale e ai soggetti che la rappresentano e ciò che spetta alla comunità statale e ai suoi organi.
Cominciamo l’indagine – necessariamente sommaria – dai luoghi dove all’inizio si è abbattuta, con particolare violenza, l’epidemia. Se è vero, come è vero, che le calamità uniscono, la “comunità regionale lombarda” (così autoproclamatasi nel suo Statuto di autonomia, art. 1 e 2) si è riconosciuta e palesata tale forse per la prima volta dopo mezzo secolo
Fin da subito, una volta che il morbo ha aggredito la prima zona intorno a Codogno, la combinazione di provvedimenti statali e regionali – entrambi indispensabili dal momento che erano in gioco le competenze concorrenti di “tutela della salute” e “protezione civile” – ha prodotto un certo tipo di misure: restrittive, dure ma efficaci.
Fin da subito, partendo dall’ambito locale coinvolto in prima istanza (i Comuni con i loro Sindaci, le Autorità sanitarie locali, gli Ospedali, gli operatori sanitari, le imprese, il volontariato ecc.), si è avvertita una mobilitazione dell’intera società insediata sul territorio regionale, anche con iniziative autonome, originali e spontanee: raccolte di fondi; interventi mirati delle industrie del settore sanitario (notevole, fra tante, quella di un’impresa di Lecco che si è convertita in pochissimi giorni alla produzione di disinfettanti valendosi dellacollaborazioneimmediatadel Sindaco,dell’Ufficiodoganeedelle autorità regionali di settore); avvio di start up, che in breve stanno producendo prototipi di presidi ospedalieri (ad es. valvole di ventilazione realizzate in loco con stampanti 3D e respiratori), che potranno essere messi poi a disposizione della comunità nazionale. Insomma: si è dato incremento a svariate iniziative locali, ma coordinate in ambito regionale che, a sua volta, dava vita a quella differenziazione virtuosa che sembrava così ostica da capire per chi ragionava, sulla falsariga di un assioma sbagliato, in base al quale la differenziazione tra Regioni produrrebbe di per sé diseguaglianza. Una diseguaglianza ostile e sfavorente le comunità regionali dotate di minori mezzi e risorse. Questa era la pesante accusa rivolta, di recente, ai tentativi di attuazione dell’art. 116 terzo comma.
Poter archiviare a lato positivo che la differenziazione è un principio di modulazione di attività, riferite alle caratteristiche particolari dei territori, e tale da favorire, sussistendo specifiche condizioni, una uguaglianza di miglior qualità e che si colloca ad un livello di pubblica utilità più alto, con lo scopo di metterlo a disposizione di tutti, ci sembra già un risultato utile.
Ancor più, il confronto tra scelte di contrasto all’epidemia diverse tra le Regioni (casualmente con una identica coalizione di governo, come accade tra Lombardia e Veneto), per il fatto che il Veneto, sulla base di una propria concreta esperienza epidemiologica, quella di Vo’ Euganeo, e con il supporto scientifico della sua maggiore Università, quella di Padova, abbia deciso per un’indagine su larga scala utilizzando i tamponi esperiti su migliaia di suoi cittadini, evidenzia ulteriormente che il principio di differenziazione (se coniugato insieme a quelli di appropriatezza e proporzionalità) può essere utile a trovare, nel tempo più breve possibile, un’efficace risposta di contenimento, contrasto e cura.
Uguale discorso può farsi per la terza tra le Regioni settentrionali accennata nel nostro ragionamento, l’Emilia Romagna (per la quale non è adesso importante ricercare specifiche esemplificazioni) che ha ritenuto di avvalersi di un Commissario ad acta, il dott. Venturi, che fu già assessore alla sanità e gode di grande autorevolezza conquistata sul campo. Ovviamente, per avviare ri-organizzazioni amministrative non era indispensabile l’arrivo di un virus devastante, ma se tale misura straordinaria sarà valsa, alla fine, a conquistare il risultato atteso, ne trarrà beneficio anche l’istituzione regionale che ha così operato.
All’estremo opposto del Paese, la Sardegna, non rivendicando la sua specialità ma accettando il modello Stato-Regioni generalizzato all’intero ordinamento, ha d’altra parte giocato saggiamente la sua insularità coi suoi vantaggi e svantaggi. Cioè non cedendo (…al contrario di grandi Paesi vicini e lontani dal centro della pandemia collocato, dopo la partenza cinese, in Europa) all’illusione che la sua situazione geografica la proteggesse, e pur con una classe di governo abbastanza anomala rispetto alla precedente storia della sua vicenda autonomistica, ha esercitato un continuo controllo dell’andamento del morbo nei termini in cui la lotta contro di esso potesse esercitarsi. E non ha mancato di richiedere essa stessa – come risulta da altrettante ordinanze del Ministro delle infrastrutture di concerto con quello della salute – la sospensione del trasporto passeggeri da e verso la Sardegna e la limitazione dell’operatività aerea a poche linee facenti capo al solo aeroporto di Cagliari.
2. Il più recente decreto-legge 25 marzo 2020 n. 19, per ora, mentre scriviamo [9 aprile 2020], fondamentale intervento normativo primario nella lotta all’epidemia del Covid-19, presentato dal Presidente del Consiglio come una messa in ordine – già essa di per sé giustificata – della normativa precedente, ha apportato alla normativa sulla lotta al Coronavirus alcune grosse novità anche di sistema, non tutte notate dalla stampa né realizzate dalla pratica.
Procedendo, senza ripetersi, con lo schema da noi seguito nell’intervento apparso il 25 marzo sul “Forum di Quaderni Costituzionali” (U. Allegretti, Il trattamento dell’epidemia di “coronavirus come problema costituzionale e amministrativo”), esse possono essere rapidamente analizzate secondo la partizione: pandemia incisione sulle libertà e i comportamenti dei cittadini organizzazione del sistema di lotta all’epidemia, con riferimento in particolare (ma non solo) alla partizione-condivisione dei compiti fra Stato e autorità regionali e locali. Va poi aggiunta la sistemazione temporale delle fonti normative preesistenti ed il loro assetto futuro. Lo faremo rapidamente, consci della precarietà di una lettura a prima vista e delle sorprese, positive o negative, che l’evoluzione dell’epidemia potrà presentare.
Con il nuovo decreto diventano possibili, oltre che misure più restrittive di quelle stabilite dal precedente decreto 23 febbraio 2020, n. 6, altre “in diminuzione”; ciò evidentemente in proporzione all’attenuazione o almeno all’allentamento dell’epidemia (sperato, anche se per ora incerto e soggetto ad alternanze) e comunque in relazione a quello che è “l’andamento epidemiologico del predetto virus” (art. 1.1). È previsto dunque l’elemento tempo come qualificante le misure da prendere.
Inoltre, sempre “secondo principi di adeguatezza e proporzionalità al rischio effettivamente presente” – in questo caso con riferimento all’elemento spazio del fenomeno epidemico – le misure possono riguardare in maniera differenziata “specifiche parti del territorio nazionale”, oltre che la “totalità di esso” (art. 1.2, primo periodo); modalità che era già intervenuta all’inizio ma che era stata poi sostituita da un intervento territorialmente generalizzato, e che può essere dunque di dimensione regionale o locale.
Non meno rilevante è il fatto che, sempre sulla base degli stessi principi che guidano l’adeguamento alla dimensione spaziale dell’andamento epidemico, è stabilito ora che alle persone possono essere imposte “limitazioni alla possibilità di allontanarsi dalla propria residenza, domicilio o dimora”. Divieto prima generale; ora, dovrebbe al riguardo esser possibile ciò che noi indicavamo, nello studio citato in precedenza, come eccessivo nella sua generalità, riferendoci alle situazioni limite delle case isolate e dei piccoli Comuni da un lato, e della conformazione delle Città metropolitane dall’altro lato.
Ci fermiamo un momento per segnalare, in positivo, la novità di tali possibilità di differenziazione. Ciò è anche riflesso nel modulo di autodichiarazione diramato dal Ministero dell’Interno, da rendersi alle forze di polizia da coloro che venissero fermati nei loro spostamenti. Questo consente lo spostamento anche “per trasferimenti in Comune diverso”, e non solo per i motivi già indicati sotto il precedente D.P.C.M. 8 marzo, ora abrogato – lavoro, salute, situazioni di necessità, mentre il rientro presso la propria abitazione, originariamente previsto, era già stato soppresso dal D.P.C.M. del 22 marzo – ma anche per “urgente assistenza a congiunti o a persone con disabilità, o esecuzione di interventi assistenziali in favore d persone in grave stato di necessità”. Ciò probabilmente sulla base di una interpretazione della formula della necessità già contenuta nella normativa, e consentita dal quell’elemento solidaristico che informa tutta la Costituzione e già ispiratore, per riferirsi alle nostre democrazie, della legislazione portoghese appunto in materia di deroghe agli spostamenti, con l’uso della deroga che li ammette per “assistenza a terzi”. La norma attuale introduce tuttavia una nuova esplicita delimitazione del divieto: gli spostamenti devono essere “individuali” e “limitati nel tempo”.
Sempre in materia di libertà di circolazione, la chiusura dei parchi, delle ville e dei giardini pubblici, attuata in molti casi in precedenza ad opera di vari Comuni e generalizzata dal decreto del Ministro della salute del 20 marzo, è resa possibile in via generale (art. 1.2 let. b): ma anch’essa dovrebbe essere meglio delimitata secondo le situazioni locali.
Un altro tema delicato è la limitabilità delle professioni, (“anche ove comportanti l’esercizio di pubbliche funzioni”: notai e altri?) e del lavoro autonomo (art. 1.2 lett. z); oltre che delle imprese, anche quest’ultima generalizzata, in aggiunta a quelle già vietate e alcune ribadite dalle lett. u e v. dello stesso articolo 1.2.
Ma in materia ciò che non è stato subito notato dai mezzi di comunicazione pubblici è l’ipotesi in qualche modo inversa, forse perché straordinaria per la mentalità comune, ma consentita dagli art. 41 e 23 Cost. L’ipotesi cioè, certamente da corredarsi con misure di tutela di chi vi è sottoposto, che possa essere imposto, con provvedimento del Prefetto, che dovrà sentire le parti interessate, lo svolgimento di attività non oggetto di sospensione (modello portoghese: v. il nostro intervento cit.). Si pensi, per non ritenere il caso marginale, alla necessità di lasciar attive le imprese che sono necessarie per lo svolgimento di attività produttive consentite, per esempio quelle serventi alla pratica corrente delle attività agricole e per l’alimentazione (art. 1.3).
3. Sul piano organizzativo, fonte principale del trattamento dell’epidemia è innanzi tutto il decreto-legge (al di là di quello esaminato e i suoi immediati precedenti, in particolare il dl 23 febbraio 2020, n. 6, e gli altri che qui, nonostante la loro importanza pratica allorché riguardano le misure di sollievo economico e quelle sull’organizzazione del Servizio sanitario nazionale, non intendiamo esaminare), e poi lo sono i Decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, emanati su proposta del Ministro della salute e sentiti altri ministri (art 2.1). Ma, nonostante tutto, essendo i diritti dei cittadini in gran misura garantiti da una riserva di legge solo relativa, e avendo i decreti-legge finora emanati (quest’ultimo compreso) indicato con sufficiente chiarezza le misure, il sistema non sembra incostituzionale.
Per altro verso, la pratica degli ultimi giorni ha mostrato il Presidente del Consiglio dei ministri che riferisce al Parlamento, seppure ex post, ma è difficile pensare che si possa fare molto di più; comunque, la conversione dei decreti in legge resta assicurata e l’una e l’altra cosa dovrebbero esser sufficienti a garantire se non il coinvolgimento quantomeno la presenza del Parlamento nelle decisioni, sia nelle Commissioni che in aula.
Certo, il decreto legge sembra a prima vista calcare la mano, forse più decisamente delle norme precedenti, accentrando poteri sullo Stato, anzi sul Governo (come già detto, decreti del Presidente del Consiglio dei ministri e i provvedimenti del Ministro della salute – art 2.2). Ma, se è vero che la materia è condivisa come concorrente tra Stato e Regioni e che il principio di sussidiarietà vale anche verso l’alto (art. 117.2 e 118 Cost. nella nota interpretazione della Corte costituzionale), il ruolo dello Stato è oggettivamente prevalente per casi a vocazione “unitaria” di questo genere. Ciò che non è possibile, tuttavia, richiamando la statuizione base dell’art. 118 Cost., e avendo riguardo alla dimensione discendente della sussidiarietà (come già indicato dal nostro scritto precedente) è tagliar fuori dalla catena decisionale il sistema regionale e locale.
In effetti, l’art 2.1 ribadisce la pratica della necessità di sentire il parere delle Regioni (qualcuno sostiene: sarebbe meglio dover sentire la Conferenza unificata, ma l’urgenza ha giustificato, come fin qui, l’audizione del solo il Presidente della Conferenza delle Regioni). È stata poi aggiunta dalla stessa norma la previsione della pratica, già esistente, della proposta regionale per l’emanazione di nuovi D.P.C.M. Il tutto riconosce indirettamente che i decreti del Presidente dovranno nei loro contenuti tenere conto delle Regioni. [segue]
E d’altronde le Regioni sono abilitate dall’art. 3.1 del decreto ad adottare le misure restrittive in caso di aggravamento del rischio, nelle more dell’adozione dei provvedimenti del Presidente del Consiglio dei ministri. Ed anche questo è un carattere sanamente differenziante.
Parimenti l’articolo 3.2 riconosce il potere di ordinanza dei Sindaci, qu an do fissa ad esso solo alcuni limiti: non contrastare le misure statali e non eccedere i limiti di oggetto dell’art. 1.
L’accentramento più visibile è quello di aver concentrato nello Stato le misure diminutive, e forse è criticabile nello spirito dell’adeguamento all’evoluzione della fenomenologia e della proporzionalità necessaria – tenuto conto che le Regioni possono avere conoscenza delle circostanze più dettagliata rispetto allo Stato e che il fenomeno può molto diversificarsi da una zona del Paese all’altra. Per il decreto in esame, come già prima, le Regioni possono stabilire solo misure più restrittive, salvo che siano i D.P.C.M. ad autorizzarle ad adottare misure in diminuzione. Nessuna possibilità per i Sindaci, salvo che i D.P.C.M. li autorizzino a ciò.
Per quanto riguarda il sistema nell’evoluzione temporale, finché non intervengano i nuovi decreti del Presidente del Con siglio dei ministri, continuano ad applicarsi quelli dei giorni 8, 9, 11 e 22 marzo (art. 2.3). Questo limita l’abrogazione, pur disposta dal decreto n. 19, del decreto legge n. 6 e relativa legge di conversione e ci pone in attesa, per una valutazione men o precaria, dei nuovi preannunciati D.P.C.M.
Ai Presidenti delle Regioni interessate e al Presidente della Conferenza Regioni e Province autonome l’articolo 2 del decreto n.19 conferisce uno specifico potere di proposta speciale con riguardo alla panoplia delle misure di cui all’articolo 1 caricando altresì il Governo dello Stato dell’obbligo di sentire i medesimi Presidenti. “Sentire” – lo si anticipava – non vuol dire semplicemente una telefonata a giochi fatti.
I decreti che scaturiranno da entrambe le procedure potranno, dunque, essere considerati collegiali anche rispetto alla divisione verticale dei poteri, che include l’intero ambito dell’amministrazione non centrale, posto che l’assetto che si sta delineando comincia timidamente ad essere quello in cui la Regione si assume, finalmente, il “coordinamento” dell’intera amministrazione regionale- locale. Nel senso che tocca a lei caricarsi il peso delle decisioni strategiche e di lungo periodo (un tempo chiamate “di programmazione”) che si ripercuotono sulla filiera dell’amministrazione fino a quella di tutti i Comuni pertinenti a quel territorio. Ovvia conseguenza una rivisitazione della distribuzione delle competenze, insieme ad un auspicabile riassetto degli ordinamenti territoriali, compresi gli ambiti dell’amministrazione decentrata dello Stato e fatto salvo il valore indistruttibile dell’autonomia comunale per gli spazi che le sono propri (“funzioni fondamentali”) in relazione ad adeguatezza e proporzionalità.
4. Se si vuole arrivare ad una sintesi, che potrà forse apparire troppo anticipata ed eccessivamente ottimistica, il quadro adesso sommariamente delineato consente di portare questi episodi – anzi questi fatti – più convintamente dentro al modello di realizzazione di una democrazia pluralista, a partire dal dato essenziale del pluralismo istituzionale, non soltanto predicato ma vissuto.
Lo Stato, in questa circostanza, sì è posto correttamente in posizione dialettica con le Regioni, non in quella di occhiuto censore uniformizzante, fissando così un certo numero delle tessere che vanno a comporre una “Repubblica delle autonomie”: quella che esce così nitidamente da una lettura non preconcetta del fondamentale articolo 5, nonché dell’interno nuovo (an che in ciò) Titolo V Cost.
Nella sua ultima opera, al tempo stesso autobiografica e riepilogativa di un pensiero davvero lungo e profondo, Il nuovo cittadino (1994), il nostro Maestro Feliciano Benvenuti rivendicava di aver concepito l’“ordinamento repubblicano” come somma di Stato e Comunità (p. 11). La sua ricostruzione stava, e sta, in piedi se si fossero trovati veri gruppi sociali volenterosi e capaci di autogovernarsi (e così ragionavano anche Giorgio Berti e Umberto Pototschnig).
Pur in mezzo a tante ombre, e nella bufera di una vicenda quanto mai allarmante (ma a volte è il peggio che genera il meglio), ci sembra che una “comunità regionale” cominci a profilarsi all’orizzonte. Almeno si possono costruire le occasioni e le modalità perché si vada decisamente in quella direzione. Se, come tanti pronosticano, niente sarà più come prima, allora il nuovo scenario promette di essere più favorevole alle autonomie, perché più attento a libertà e democrazia.
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Nota bibliografica:
Scopo della presente Nota era quello di scandagliare un tratto del vasto pelago dei fatti normativi e degli atti e comportamenti istituzionali di Stato e Regioni per repertarli e volgerli verso un’interpretazione non meramente congiunturale.
A ciò si aggiunge l’imponente mole dei commenti dei giuristi che, davvero con moto inesausto, si rendono presenti sui nostri pc, tablet, iphone ecc. Di alcuni di essi, quelli che ci sono parsi più pertinenti (ovviamente tra quelli che abbiamo avuto la ventura di vedere) diamo conto si pur sinteticamente più sotto.
L’intento più profondo – per così dire – dell’indagine era però un altro, più ambizioso. Quello di verificare se sulla scala barometrica centralismo/autonomismo si fossero evidenziati non solo, intuibili, oscillazioni contingenti ma piuttosto l’inizio di un cambio di paradigma che mettesse a frutto e possibilmente a regime la “leale collaborazione” tra Regioni e Stato, congiunta ad una razionale differenziazione di competenze e soprattutto di ruoli – anche delle Regioni tra loro – così da avvicinare l’avverarsi di quelle aspettative che la scuola “ottimalista” di Feliciano Benvenuti aveva espresso con tutti i suoi componenti.
Limitandoci alla segnalazione di un’unica opera per ciascuno di loro citeremo: di Feliciano Benvenuti, Ordinamento repubblicano, Libreria Universitaria editrice, Venezia (ult ed.1975); di Giorgio Berti, Art. 5, in Commentario alla Costituzione, a cura di G. Branca, vol. I, Bologna-Roma (1975); di Umberto Pototschnig, Legge generale sull’amministrazione locale, CEDAM, Padova (1977); di Umberto Allegretti, Storia costituzionale italiana, Il Mulino, Bologna (2014) e di Enzo Balboni l’Introduzione e la Postfazione in Diritto regionale di M. Carli, Giappichelli, Torino (2018).
Non sappiamo se abbiamo scritto quanto avete appena letto sotto l’influenza di un wishful thinking, ma ci è parso di scorgere il profilarsi di una migliore relazione tra “comunità regionali” e “comunità nazionale” come epifania di un progresso sulla strada della democrazia pluralista. Ovviamente, tra i super classici, che hanno preparato la cultura degli eventi odierni, in questa stessa direzione, andrebbero citati, almeno: C. Esposito, Autonomie locali e decentramento amministrativo nell’art. 5 della Costituzione in Costituzione italiana. Saggi, CEDAM, Padova (1954); E. Tosato, Persona, società intermedie e Stato, Giuffrè, Milano (1989); C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, CEDAM, Padova (ult.ed.1975-1976). Il giovane lettore avrà la bontà di notare che sono tutti autori deceduti (non morti) ad esclusione dei due scriptores della presente nota.
Per un tuffo nell’attualità potrà valere il seguente sommario elenco: S. Staiano, Art. 5, Carocci, Roma (2017) e M. Bertolissi, Autonomia, Marsilio, Padova (2019), (i due autori esprimono spesso idee sanamente conflittuali tra loro) e L. Ronchetti, L’autonomia e le sue esigenze Giuffrè, Milano (2018). Sull’emergenza COVID-19 tra i numerosi costituzionalisti che si sono espressi sui quotidiani on line citiamo: M. Olivetti, Così le norme contro il virus possono rievocare il “dictator”, in Avvenire, 11 marzo 2020; V. Onida, Perché le clausole di supremazia non servono, in Il Sole 24 ore, 26 marzo 2020 e E. Catelani, La tecnologia può aiutare a far funzionare il Parlamento e i prefetti ascoltino le Regioni, in Il Dubbio, 26 marzo 2020. Tra i primi commenti e studi si citano: G. Boggero, Le “more” dell’adozione dei dpcm sono “ghiotte” per le Regioni. Prime osservazioni sull’intreccio di poteri normativi tra Stato e Regioni in tema di Covid-19, in Diritti regionali, 1/2020; B. Caravita, L’Italia ai tempi del coronavirus: rileggendo la Costituzione italiana, in federalismi.it, n. 6/2020; L. Cuocolo (a cura di), I diritti costituzionali di fronte all’emergenza Covid-10. Una prospettiva comparata, in federalismi.it, n. 6/2020; A. Ruggeri, Il coronavirus contagia anche le categorie costituzionali e ne mette a dura prova la capacità di tenuta, in Diritti regionali, n. 1/2020. Molto utile il resumè dei fatti steso da M. Massa e D. Tega, Fighting COVID 19 – Legal Powers and Risks: Italy, in Verfassungsblog, 23 marzo 2020.
Con posizioni favorevoli sul regionalismo differenziato E. Balboni, L’attuazione del regionalismo differenziato: la differenziazione non implica di per sé diseguaglianza, in Quaderni costituzionali, n. 2/2019 e M. Carli, Il regionalismo differenziato come sostituto del principio di sussidiarietà, in federalismi.it, n. 22/2019. Con posizione neutra e dialettica M. Cammelli, Flessibilità, autonomia, decentramento amministrativo: il regionalismo oltre l’art.116.3 Cost., in Astrid Rassegna, maggio 2019; R. Bin, Le Regioni tra politica e burocrazia, in Le Regioni, n. 4/2018 e ID., Le materie nel dettato dell’articolo 116 Cost., in Forum di Quaderni costituzionali, 26 giugno 2019.
Con posizioni critiche sul regionalismo differenziato C. Buzzacchi, Coronavirus e territori: il regionalismo differenziato coincide con la zona “gialla”, in laCostituzione.info, 2 marzo 2020; G.F. Viesti, Verso la secessione dei ricchi?, Laterza, Bari, 2019; F. Pallante, Nel merito del regionalismo differenziato: quali “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” per Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna? e Ancora nel merito del regionalismo differenziato: le nuove bozze di intesa tra Stato e Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, in federalismi.it rispettivamente il 20 marzo 2019 e il 20 ottobre 2019. (E.B.)
** Umberto Allegretti è professore emerito di Istituzioni di diritto pubblico nell’Università degli studi di Firenze; Enzo Balboni è professore emerito di Istituzioni di diritto pubblico nell’Università cattolica del Sacro Cuore, Milano.
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L’illustrazione a corredo dell’articolo è una concessione “poco pertinente” a ricerche artistiche di cui è esclusivo responsabile il direttore.
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