La salute prima di tutto. Per l’umanità e per il Pianeta. Che fare in Italia, in Europa e nel Mondo. Per il contrasto efficace alle pandemie indispensabili gli Organismi internazionali di garanzia (come l’OMS).
NUOVE POSSIBILI PANDEMIE
Che fare?
di Pietro Greco, su Rocca.
Due sono le cose da fare adesso che il lockdown è finito e qualcosa sembra tornare alla normalità (a una normalità, come sempre, variabile e dunque contingente). La prima è imparare a convivere con il virus. Anche con questo virus. La seconda è non farci trovare impreparati dalla prossima pandemia che, ci dicono gli scienziati, certamente ci sarà, anche se non sappiamo né quando né come si manifesterà
Ora non abbiamo più alibi, ammesso che li avessimo solo qualche mese fa. Ora sappiamo quanto male può fare una pandemia. Dobbiamo tenere sempre viva questa memoria. Ma non una memoria statica, in attesa degli eventi. Bensì una memoria attiva, che agisce con razionalità, rapidità e determinazione.
Non parliamo – non in questa sede, almeno – di tutto quanto dobbiamo attivamente fare per convivere nei prossimi mesi e forse anni con Covid-2019. Concentriamoci su come evitare o, almeno, contenere al massimo gli effetti della pandemia prossima ventura.
gli scienziati nuove Cassandre
Qualcuno ci darà della Cassandra. Ma quella donna preveggente non è una figura negativa della mitologia greca. Tutt’altro. Ricordiamone brevemente il profilo, perché può essere utile. Lei, Cassandra, era la figlia di Priamo, il re di Troia. Pare fosse capace di leggere il futuro. Così, quando nacque il fratellino Paride, la giovane principessa si lanciò in una previsione: il pargoletto appena venuto al mondo avrebbe causato la distruzione della città. Povera
Ebbene, da almeno cinquant’anni una nuova Cassandra – gli scienziati, che non hanno capacità profetiche, ma solidi dati scientifici – avverte noi concittadini dei pericoli che minacciano la moderna Troia. Ma da almeno cinquant’anni noi, cittadini della città minacciata (la Terra intera), non le diamo ascolto. E puntualmente spalanchiamo le porte al cavallo costruito dall’astuto e invisibile Ulisse di turno. Omero narra nell’Iliade che il cavallo nascondeva nella sua pancia un plotone di soldati. Oggi il cavallo porta ben evidente in groppa il Quarto cavaliere dell’Apocalisse: quello della peste, ovvero delle malattie infettive. Vestite, indegnamente, le vesti di Cassandra, torniamo dunque al futuro prossimo venturo e al nostro dovere di ascoltare gli scienziati e iniziare subito ad agire per gestire meglio il prossimo attacco di virus o batteri.
Che fare, dunque?
Ormai sappiamo che virus, batteri e altri agenti patogeni sono solo le cause prossime delle malattie infettive. Ci sono, poi, anche le cause remote: che coinvolgono tra le altre l’economia, il nostro rapporto con il resto della natura (eh, sì: perché noi siamo parte della natura), i nostri stili di vita. Ebbene, la risposta alla nostra domanda è abbastanza semplice: dobbiamo agire lungo direttrici che tengano conto sia delle cause prossime sia delle cause remote delle infezioni prossime venture.
prudenza ecologica
Queste direttrici sono abbastanza chiare. Iniziamo con quelle che devono tener conto delle cause remote. A determinare una transizione – una nuova transizione – nel rapporto dell’umanità coi microbi è una congerie di cause ecologiche: i cambiamenti del clima; l’erosione della biodiversità; l’invasione di nuovi ecosistemi selvaggi; l’ecologia degli allevamenti, l’urbanizzazione.
Cosicché la prevenzione non può che fondarsi su un radicale incremento della nostra prudenza ecologica. Rallentiamo il cambiamento del clima globale e l’erosione della biodiversità. Rendiamo più morbido e attento il nostro impatto con gli eco-sistemi regionali e locali. Rendiamo meno fitta la rete antropica che interconnette regioni ecologiche distinte e distanti. Cambiamo il nostro modello di sviluppo che genera pressioni insostenibili sull’ambiente. Cambiamo anche i nostri stili di vita, compresi quelli alimentari.
Non si può fare tutto in un giorno. È un’impresa titanica, ma ineludibile. La consapevolezza della portata della sfida, tuttavia, non può essere un alibi per non agire o ritardare l’azione. Quello cui abbiamo accennato non è solo retorica e non è mera astrazione. È quanto di più tangibile e pratico ci sia. Dobbiamo capire (agendo di conseguenza) che la lotta alle pandemie non può che avvenire nell’ambito di una visione globale e prudente – sostenibile, dicono alcuni – del nostro rapporto con il resto della natura.
nuovi farmaci
La prudenza ecologica, a sua volta, deve necessariamente far leva sulla conoscenza scientifica. Dobbiamo investire più ri- sorse economiche e umane nella conoscenza. Che è fondamentale anche per lo sviluppo della seconda direttrice, quella volta a minimizzare le cause prossime delle malattie infettive.
I sistemi d’arma per combattere da vicino i microbi patogeni e cercare di evitare la pandemia prossima futura sono tre: nuovi farmaci, nuove campagne di vaccinazione, nuovi sistemi di sorveglianza e di intervento.
Allestire e dispiegare l’arma difensiva dei farmaci contro una pandemia a lenta diffusione non è affatto semplice. Lo abbiamo visto col nuovo coronavirus: non abbiamo farmaci specifici (non al momento in cui scriviamo, almeno). La messa a punto di nuovi farmaci costa e il sistema sociale mondiale è attrezzato ormai per la diffusione dei farmaci di mercato, offerti a popolazioni di pazienti/consumatori. La storia dell’Aids come quella delle malattie diarroiche dimostra che il sistema non è attrezzato per una diffusione di farmaci presso popolazioni di pazienti che non sono consumatori. Detta in altri termini, l’accesso ai farmaci (quando ci sono) non è democratica.
Ancor più difficile è dispiegare l’arma dei farmaci contro una pandemia a rapida diffusione. Prendiamo il caso degli antivirali. Questi farmaci sono efficaci se somministrati appena dopo l’infezione. Ma alle industrie servono diversi mesi, anche un paio di anni, per produrre quantità adeguate di antivirali specifici. In caso di pandemie da virus che si diffondono con la rapidità della Spagnola e del coronavirus Sars-CoV-2 l’arma dei farmaci è, almeno all’inizio, spuntata, persino per i pazienti/consumatori, figuriamoci per le popolazioni più povere. A meno che… A meno che non intervengano i governi e agiscano in tre modi: allestendo, in largo anticipo, scorte adeguate di farmaci potenzialmente utili; finanziando la ricerca di questi farmaci; socializzando i costi.
vaccinazioni universali
I vaccini, con la stimolazione di difese immunitarie, sono un’ottima arma preventiva contro i microbi patogeni e le pandemie. Campagne di vaccinazioni universali contro i microbi noti sono, forse, il sistema migliore per cercare di evitare il ritorno del Quarto cavaliere. Ma anche queste campagne di vaccinazioni, per poter essere universali, devono essere gratuite. E, quindi, occorre che i governi intervengano ancora una volta, con norme e fondi, per campagne di vaccinazioni universali e gratuite. Di più, occorre che i governi intervengano anche per finanziare la ricerca di vaccini contro quelle malattie infettive che, come la malaria, colpiscono ormai solo i poveri e sono quasi del tutto dimenticate nei paesi ricchi. Oggi la gran parte della ricerca mondiale su farmaci e vaccini è realizzata da industrie private in un’ottica di mercato. Questo rende «orfane» di attenzione e di ricerca le malattie che aggrediscono persone povere, che non possono partecipare alla dialettica del mercato perché non hanno ricchezze da offrire. Ebbene, occorre che anche la ricerca dei rimedi contro le «malattie orfane» sia socializzata. Ovvero, sia realizzata da centri, pubblici o privati, finanziata con fondi pubblici.
sorveglianza globale e intervento efficace
C’è, infine, l’ultimo sistema d’arma, quello della sorveglianza pronta e dell’intervento efficace. La pandemia è, per definizione, un problema globale che ha un’origine locale. Per prevenire, in modo efficace, una pandemia occorrono sia una rete di sorveglianza globale, con fitte ramificazioni locali, che un centro di decisione mondiale con il diritto all’intervento locale.
La vicenda del Sars-CoV-2 esattamente come della Sars del 2003, con le reticenze iniziali della Cina e le difficoltà a stabilire un’azione comune persino nell’Unione Europea, hanno dimostrato a tutti che occorre la rete di sorveglianza e di intervento che ha molti, pericolosi buchi, strappata com’è dalle legislazioni e dalle gelosie nazionali. All’inizio del secolo il pronto intuito del medico italiano Carlo Urbani impedì che la Sars divenisse una grande pandemia.
Dobbiamo organizzare in una rete mondiale capillare ed estesa e trasparente che renda sistematico il pronto allarme. Non sempre c’è un Carlo Urbani a salvarci, immolando se stesso.
Contro un nemico globale oggi abbiamo schierati solo i medici e gli esperti dell’Organizzazione mondiale di sanità. Questa agenzia delle Nazioni Unite ha molti meriti, ma ahimè anche molti limiti e soprattutto pochi poteri (e pochi soldi). Non c’è da illudersi, se vogliamo evitare il ritorno del Quarto cavaliere e almeno minimizzare gli effetti della prossima pandemia, abbiamo bisogno di qualcosa che si avvicini molto a un governo mondiale della sanità. Purtroppo in questo periodo la pratica delle intese multilaterali non è molto frequentata. E la vecchia idea di un centro mondiale per il governo dei problemi globali, proposta già due secoli fa da Immanuel Kant, non incontra davvero molte simpatie.
Italia: che fare
Ma veniamo all’Italia e a quello che dovremmo dare nel nostro paese. Potremmo avere a disposizione molti miliardi per agire. Per esempio i 37 miliardi di euro del MES. Non sono pochi. Ma neppure tantissimi. Per il nostro sistema sanitario spendiamo, ogni anno, 110 miliardi di euro. Si tratta più o meno di un terzo da aggiungere una tantum al nostro budget. Occupiamoci, in primo luogo, delle terapie intensive. La Germania, prima della pandemia, poteva contare su 350 terapie intensive ogni milione di abitanti. L’Italia solo 83. Nel pieno dell’epidemia le nostre sono raddoppiate, a 160 per milione di abitanti. Dobbiamo raddoppiarle ancora, portandole al livello tedesco.
Queste attrezzature (e altre ancora) devono essere distribuite omogeneamente sul territorio nazionale. Se la Lombardia dovrà avere 3.500 terapie intensive in virtù della sua popolazione di 10 milioni di abitanti, la Campania con i suoi 5,8 milioni di abitanti ne dovrà avere 2.030 e la Basilicata, che di abitanti ne conta 562.000, ne dovrà avere 196.
Ma le terapie intensive sono solo una parte del problema. Ci vuole molto di più. Per renderci in grado di rispondere al meglio a questa e alle prossime pandemie occorre migliorare le strutture ospedaliere. Aumentando il numero di ospedali specializzati, come lo Spallanzani di Roma, il Cutugno di Napoli o il Sacco di Milano. Ma anche attrezzando tutti gli altri ospedali – e, se del caso, costruendone di nuovi – per- ché siano in grado senza sforzo e in tempi rapidissimi di fronteggiare un’emergenza. Il che significa, anche e forse soprattutto, formare tutti gli operatori sanitari alla ge- stione di una pandemia.
Ma questa pandemia ci ha insegnato che affrontare il problema solo dal punto di vista ospedaliero è una strategia perdente. Quello che è ancor più decisivo sono i servizi territoriali, in grado di prevenire e comunque di minimizzare il ricorso all’ospedale. Occorre, dunque, un’imponente azione di tessitura di un capillare ordito sul territorio, che prevede anche la formazione e la responsabilizzazione dei medici di base.
Ma la risposta adatta a un’emergenza sanitaria non può essere un fiore, sia pure vistoso, nel deserto. Una quota parte importante, se non la principale, di quei 37 miliardi vanno impiegati per rafforzare il sistema sanitario nazionale fondato sul pubblico, mediante un’azione organica.
Che comprenda: la creazione di ospedali flessibili, in grado di adeguarsi alle diverse emergenze che eventualmente si presentano e la rete territoriale cui abbiamo già accennato. Ma che preveda anche un aumento degli organici nel pubblico: più medici, in particolare specializzati, e più personale sanitario. In entrambi i casi occorre che le università smettano la politica del numero chiuso per l’accesso alle specializzazioni o, quanto meno, la rivedano profondamente. Nello stesso tempo le università devono aumentare i corsi di formazione per infermieri e altro personale sanitario. Tutto questo potrebbe essere ottenuto anche con una politica di accesso gratuito e semi-gratuito alle università. Politica che potrebbe minimizzare l’attesa caduta delle iscrizioni ai nostri atenei. Non dimentichiamoci che l’Italia è ultima in Europa e penultima tra i paesi Ocse per numero di giovani laureati. E di questo paghiamo già salatissime conseguenze. Ma c’è di più. L’Italia vanta uno dei più efficienti sistemi sanitari al mondo. Ma questa nostra prerogativa è stata attaccata negli ultimi lustri sia dalla diminuzione costante degli investimenti nella sanità pubblica sia dalla scelta, perseguita da alcune regioni in particolare, di «privatizzazione» della sanità. La ricca Lombardia con una classe medica di valore assoluto ha pagato nelle scorse settimane un prezzo salatissimo, alla corsa al privato. La salute è un diritto universale dell’uomo che può essere efficacemente soddisfatto soprattutto dal pubblico.
Tra i punti deboli del nostro sistema sanitario c’è la profonda disuguaglianza dell’offerta tra il Nord, il Centro e il Sud. Questa crescente asimmetria non fa bene a nessuno. Utilizziamo, quindi, i 37 miliardi per diminuire le differenze. Per rendere tutti i cittadini italiani uguali difronte alla salute. Perché lei, la salute, non dimentichiamolo mai è un diritto universale dell’uomo.
Pietro Greco
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ROCCA n.11, 1 GIUGNO 2020
NUOVE POSSIBILI PANDEMIE. Che fare? Pietro Greco.
[…] POSSIBILI PANDEMIE Che fare?. Pietro Greco, su Rocca. Ripubblicato come Editoriale da Aladinpensiero online. […]