L’America e Israele un capitolo da rivedere
di Marino de Medici
Nessuna elezione in Paesi stranieri riceve la spasmodica attenzione che i media americani attribuiscono alle turbolenti vicende politiche di Israele che dalla data della sua fondazione ad oggi gli americani considerano caposaldo di democrazia nel bellicoso Medio Oriente. Ai nostri giorni, di fatto, è pressochè impossibile esagerare il danno che il premier israeliano Netanyahu ha arrecato alla democrazia di Israele, alle sue istituzioni civiche ed allo stato di diritto toccando l’estremo di danneggiare a fondo il rapporto tra la maggior parte degli ebrei americani e lo stato ebraico. Questo è l’esito di una politica etno-nazionalista che ha alimentato un progetto ideologico estremista ed una cultura politica fondata sui principi dell’apartheid. Netanyahu ha installato e moltiplicato una tale “cultura” attraverso la costante espansione di insediamenti proibiti dagli accordi internazionali, sabotando ogni sviluppo tale da condurre alla creazione di uno stato palestinese e delegittimando ogni tentativo di compromesso israelo-palestinese.
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Tutto ormai può essere attribuito ad Israele meno che la qualifica di democrazia. Lo stato di permanente occupazione del West Bank e il disumano trattamento di una minoranza palestinese stipata nelle fettuccia di Gaza nelle condizioni più penose sono le perduranti manifestazioni dell’estremismo razzista di Netanyahu e della sua ostinata politica di annessione dei territori occupati. Adesso però sembra che l’esiziale supremazia di Netanyahu sia prossima a chiudersi grazie ad una coalizione che – incredibile dictu – include Ra’am, un partito principalmente islamista che raggruppa cittadini israeliani di etnia palestinese. La nuova coalizione – bisogna ammetterlo – è una alleanza raffazzonata di partiti della sinistra, di centro e dell’estrema destra che si spera osservi una linea di condotta più moderata e ragionevole. Ma forse è eccessivo sperare che il nuovo schieramento anti-Netanyahu alteri a fondo lo status quo dell’occupazione senza fine e della violenza coordinata dalle autorità di governo, inclusa quella che mira ad esautorare la minoranza palestinese demolendo le sue abitazioni nelle zone ambite dai “coloni” ebraici.
La spinta alle demolizioni nella zona orientale di Gerusalemme e l’aggressiva soppressione delle proteste palestinesi sono state la miccia che ha scatenato l’ultimo conflitto israelo-palestinese in cui gli israeliani si sono vantati di “difendere” il loro territorio dai rudimentali razzi lanciati da Gaza. Ma qualcosa di nuovo ha alterato la tragica scena palestinese. Per la prima volta, una massa di americani, dai leader della nuova amministrazione democratica ad una crescente massa di americani (ebrei inclusi) sta forzando un cambio di direzione in materia del conflitto e dell’appoggio, favorito dall’ex presidente Trump, all’ideologia di estrema destra imposta dal governo Netanyahu.
L’America non può più ignorare l’ignobile trattamento dei palestinesi da parte dello stato ebraico. La stretta alleanza con Netanyahu ha reso impossibile l’adempimento di obblighi negoziali sollecitati da una maggioranza di Paesi democratici ma in modo particolare la dimostrazione di empatia verso il popolo palestinese. Se qualcosa ora è cambiato, lo si deve ad una equiparazione morale della causa palestinese con il movimento di Black Lives Matter esploso negli Stati Uniti. Il diritto alla “auto difesa” non può essere invocato come fine ultimo ed imprescindibile in un situazione complessa che dovrebbe riconoscere i diritti alla pace, alla libertà e ad una misura di autogoverno anche da parte di coloro che non detengono alcun potere in quella che era la loro terra. In Israele, come altrove, è giunto il momento di portare avanti la causa della pace, della giustizia e dell’eguaglianza. Agli Stati Uniti spetta in particolare il compito di stabilizzare la situazione conflittuale che Netanyahu ha spregiudicatamente esasperato.
Un capitolo esplosivo continua ad essere rappresentato dall’Iran, che Israele vede come una minaccia alla sua esistenza al punto che Netanyahu ha tentato strenuamente di impedire la ripresa delle trattative per la neutralizzazione del potenziale nucleare iraniano. Tutto lascia supporre che l’intesa nucleare del 2015 smantellata da Trump verrà presto ripristinata. L’amministrazione Biden dovrà pagare un prezzo per riportare sotto controllo la minaccia israeliana di un potenziale attacco contro l’Iran. La leadership di Gerusalemme ha già chiesto aiuti di “emergenza” all’America per un altro miliardo di dollari, in particolare equipaggiamenti per il suo scudo antimissile (anche questo un dono americano) e munizioni di precisione come quelle usate con grande abbondanza contro Hamas, con il corollario di centinaia di vittime tra la popolazione di Gaza. C’e’ da sperare che Biden riesca a temperare le resistenze di Gerusalemme ad un ruolo
stabilizzante degli Stati Uniti associato al riconoscimento dei diritti politici ed umani dei palestinesi. L’interrogativo fondamentale ha molto a che vedere con il corso politico negli Stati Uniti e con il comportamento della sua formidabile componente ebraica, che ha nell’AIPAC il più potente strumento di pressione sul Congresso. Ma anche su questo terreno il dibattito negli Stati Uniti sta evolvendosi perchè sono molti gli esponenti ebraici – presenti nel raggruppamento liberale di J Street – che premono per una disamina sul futuro del rapporto di Israele con l’America. Ci si chiede in particolare se Israele farà una svolta democratica, conferendo diritti e il crisma dell’eguaglianza ai palestinesi, oppure si rafforzerà come una teocrazia indifferente alle spinte politiche e sociali al suo interno. Realisticamente, è illusorio pensare all’accettazione israeliana di uno stato indipendente per i palestinesi ma ci è chi vagheggia una confederazione che conferisca alcuni diritti ad essi ma soprattutto la cessazione del trattamento violento e vessatorio che affligge la minoranza palestinese.
L’amministrazione Biden ha frattanto riaperto un ufficio di collegamento diplomatico con il governo del West Bank ed ha stanziato 40 milioni di dollari di assistenza. Ben poca cosa in confronto al miliardo di “aiuti di emergenza” che il governo di Gerusalemme intende estorcere da Washington ma perlomeno il segretario di stato Blinken ha parlato di “ricostruire il rapporto” con l’Autorità Palestinese e di riaprire il consolato americano nel settore orientale di Gerusalemme. Ed ancora, Biden ha promesso di destinare aiuti per 360 milioni di dollari ai palestinesi. Occorre ricordare che la presidenza filo-Netanyahu di Trump aveva cancellato ogni traccia di relazioni con i palestinesi e qualsiasi fonte di aiuti. Qualcosa dunque si sta muovendo, se non altro perchè la nuova amministrazione americana si sforza di tenere in vita il progetto di uno stato palestinese. Il segretario di stato Blinken lo ha definito Il “corso migliore” nella speranza di rilanciare una trattativa diplomatica.
In ultima analisi, comunque, tutto ruota attorno alla prospettiva di una mutazione del rapporto che lega l’America allo stato ebraico. Ci si chiede se gli Stati Uniti, che per lunghi decenni hanno agito da protettore, fornitore di armamenti e finanziatore di Israele siano pronti, su spinta dell’opinione pubblica interna, ad elevare finalmente il proprio “engagement” verso l’obiettivo della soluzione dei due stati. Molti esperti, come Martin Indyck, dubitano fortemente che le parti in causa nel conflitto attorno a Gaza siano interessate a superare lo statu quo. Netanyahu, osserva Indyck, accettava il predominio di Hamas a Gaza, a condizione che non disturbasse il predominio isreliano sulla Cisgiordania e soprattutto il possesso dell’intera Gerusalemme. In pratica, secondo gli esperti filo-ebraici, nessuno sembra interessato che gli Stati Uniti tornino ad agire da “broker” di un accordo che preveda due stati.
A conti fatti, tutto quello che si può sperare come risultato dello “engagement” americano è che i palestinesi, dentro e fuori delle loro “enclaves” in Israele, riescano quanto meno a godere della promessa americana di “eguali misure di libertà, sicurezza, prosperità e democrazia”.
Di più non possono sperare.
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