Internazionale e non solo

39bbdcae-c64f-42ad-866b-9a570327b12bDemocrazia, autoritarismo, neoliberismo: Bolsonaro e non solo
16-01-2023 – di Alessandra Algostino su Volerelaluna.
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L’attacco ai luoghi delle istituzioni democratiche avvenuto a Brasilia l’8 gennaio (e il suo inevitabile parallelismo con l’assalto al Congresso degli Stati Uniti il 6 gennaio 2021, per tacere del nostrano attacco alla sede della CGIL del 9 ottobre 2021), mostra il volto violento della lacerazione del Paese uscita dalle urne. Il modello Bolsonaro è tutt’altro che perdente, in Brasile, ma come non pensare anche all’Ungheria, alla Polonia, alla Svezia, all’Italia, a Israele, al trumpismo? È una macchia nera che sta dilagando. Nuovi fascismi? Non lo so, ma in ogni caso si registra un’unione avvelenata di autoritarismo e neoliberismo, ammantata da evocazioni nazionaliste e conservatrici (la triade “Dio, patria e famiglia”), utili a compattare e neutralizzare anche solo l’idea del conflitto sociale.

Il “modello Bolsonaro” suggerisce quattro brevi spunti.

Primo. Si diffonde il ricorso alla necropolitica (Mbembe, Necropolitica, Ombre corte, 2016), come politica che ha il sapore della lotta di classe al contrario. La necropolitica in Brasile si concretizza nelle politiche nei confronti dei popoli indigeni così come nella gestione del Covid-19; in Italia e in Europa riguarda in prima battuta le politiche migratorie, il genocidio dei migranti (nel Mediterraneo, nella rotta balcanica, nell’esternalizzazione delle frontiere e delocalizzazione della tortura). La necropolitica si declina anche come aparofobia, paura e odio verso i poveri: in Brasile in particolare nei confronti della popolazione nera e degli abitanti delle favelas; in Italia, per limitarsi ad un esempio, verso i percettori del reddito di cittadinanza. è necropolitica, in senso ampio, l’indifferenza alla sorte delle “vite di scarto” (Bauman), per cui – mi limito ad un esempio – si definanzia la sanità, favorendo la privatizzazione e la diseguaglianza sanitaria; ovvero, si abbandona ogni progetto di emancipazione sociale, pur prescritta, in Italia, dall’art. 3, comma 2, Costituzione. La regressione nella garanzia dei diritti sociali è, appunto, lotta di classe al contrario. Infine è necropolitica (e il Brasile di Bolsonaro ne è emblema, anche se non il solo) la devastazione ambientale, la corsa suicida al riscaldamento climatico, la distruzione della biodiversità. La necropolitica è una lotta di classe, a partire dalla considerazione che «l’oppressione etnica e razziale non è accidentalmente correlata al capitalismo, è strutturalmente integrata a esso» (Fraser), così come ogni forma di estrattivismo.

Secondo. Alla necropolitica si accompagna la colpevolizzazione dei poveri, come dei migranti, dei popoli indigeni; al più si tollera un capitalismo neoliberale compassionevole, quando non tout court un filantrocapitalismo che lucra sulla povertà (Dentico, Ricchi e buoni? Le trame oscure del filantrocapitalismo, EMI, 2020). Si allontanano così le responsabilità delle diseguaglianze e il “rischio” che esse generino rivolte, si espellono (Sassen) le classi subalterne, ovvero si negano le contraddizioni e il lato oscuro del modello neoliberista e si reprime il dissenso, arroccando la democrazia in una cittadella vieppiù autoritaria.

Terzo. In questo contesto, il nazionalismo e la triade “Dio, Patria e famiglia” (brasiliana e nostrana: si pensi all’insistenza sul termine nazione nel discorso sulla fiducia di Meloni del 25 ottobre 2022) e non solo, forniscono una copertura identitaria che riempie il vuoto, riscalda il freddo del neoliberismo con la sua competitività sfrenata e la solitudine dell’imprenditore di se stesso, fornisce una identità artificiale contro la materialità degli interessi comuni del conflitto sociale, distraendo dalle diseguaglianze e dalle loro origini.

Quattro. Il modello Bolsonaro, come accennato, unisce autoritarismo e neoliberismo. In altri termini, riprendendo Polanyi e Gramsci, ricorda l’assonanza tra il fascismo e la plutocrazia, ovvero, restando in America Latina, richiama come emblematico il golpe neoliberista di Pinochet, la sperimentazione dei Chicago Boys contro Allende. È un modello che porta al grande interrogativo della compatibilità tra capitalismo e democrazia. Il capitalismo può convivere con la democrazia, ma vive meglio in una autocrazia? o in una democrazia vuota, che mantiene il passaggio elettorale come un rito sterile? La rivoluzione passiva ci sta conducendo a un neoliberismo autoritario? Mentre la democrazia contiene in sé l’uguaglianza, il neoliberismo produce strutturalmente diseguaglianza, si fonda su sopraffazione e dominio e, creando diseguaglianze, depredando e devastando l’ambiente, ha bisogno di altra sopraffazione e dominio per garantire la propria autoconservazione. La via per invertire la rotta è sempre la stessa: radicare una alternativa, dal basso. Senza una trasformazione effettiva, profonda, consapevole, anche le vittorie sono fragili ed effimere. Affidarsi all’uomo del destino, chiunque sia, non è la soluzione: non a caso l’unione fra neoliberismo e autoritarismo è benedetta da un populismo facile preda di false suggestioni, cieco (neanche una necropolitica grossolana come quella di Bolsonaro è bastata per aprire gli occhi), Ricordiamolo, quando (cioè, ora), riforme presidenzialiste aleggiano su una democrazia già sufficientemente martoriata da una pratica quotidiana che la neutralizza.

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IN PRIMO PIANO
I paradossi della democrazia: da Teheran a Brasilia
13-01-2023 – di Domenico Gallo su Volerelaluna.

«Un giorno che tornavamo dal lavoro vedemmo tre forche drizzate sul piazzale dell’appello […]. Tre condannati incatenati, e fra loro il piccolo Pipel, l’angelo dagli occhi tristi. Le S.S. sembravano più preoccupate. Più inquiete del solito. Impiccare un ragazzo davanti a migliaia di spettatori non era un affare da poco. [...] Tutti gli occhi erano fissati sul bambino. Era livido, quasi calmo, e si mordeva le labbra. L’ombra della forca lo copriva. I tre condannati salirono insieme sulle loro seggiole. I tre colli vennero introdotti contemporaneamente nei nodi scorsoi. «Viva la libertà!» gridarono i due adulti. Il piccolo, lui, taceva. [...] A un cenno del capo del campo le tre seggiole vennero tolte. […] Poi cominciò la sfilata. I due adulti non vivevano più. La lingua pendula, ingrossata, bluastra. Ma la terza corda non era immobile: anche se lievemente il bambino viveva ancora. […] Più di una mezz’ora restò così, a lottare fra la vita e la morte, agonizzando sotto i nostri occhi. E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando gli passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti».

Le notizie delle impiccagioni che si susseguono in Iran, che derubano della vita i giovanissimi manifestanti, come il 22enne Mohammad Karami e il 20enne Mohammad Hosseini, accusati di “inimicizia contro Dio”, mi hanno fatto tornare alla mente l’episodio terribile riportato da Elie Wiesel nel libro La notte in cui rende testimonianza della sua esperienza di deportato ad Auschwitz. Mi sono chiesto quanto è durata la resistenza alla morte di questi giovani, se anch’essi sono restati a lottare fra la vita e la morte sotto gli occhi impassibili del loro boia. La crudeltà del regime iraniano, non ha niente a che invidiare rispetto a quella praticata dalle S.S. Anche nella prigione di Teheran deve essere risuonata la domanda di Auschwitz: «Dio dov’è?». La risposta è la stessa che avvertì il giovane Wiesel: «Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca».

Malgrado la brutalità della repressione operata dal regime nazi-islamico degli Ayatollah, la resistenza del popolo iraniano, che non accetta più di essere soggiogato dalla struttura autoritaria e disumana del potere teocratico, non è stata spezzata. In questa parte del mondo si lotta e si affrontano sofferenze inaudite per smantellare quelle strutture autoritarie del potere che soffocano i diritti umani e oltraggiano la dignità della persona. In altre parole è in atto una lotta, analoga alla Resistenza, per conquistare la libertà e insediare delle istituzioni democratiche.

Invece, in altre parti del mondo, dove la libertà è stata insediata e garantita da Costituzioni democratiche, in vario modo realizzate nella Storia, la democrazia viene erosa da un male oscuro, vilipesa, infamata; esplodono delle vere e proprie ribellioni popolari che aggrediscono le istituzioni e i simboli stessi della democrazia costituzionale. L’episodio più eclatante è stato l’assalto squadristico compiuto domenica scorsa dai seguaci di Bolsonaro, che hanno assaltato il Parlamento, la Corte costituzionale e il palazzo del Governo per cercare di rovesciare un governo democraticamente eletto, guidato da persone di provata fede democratica. Si è trattato di una replica della “marcia su Roma”, che non ha ottenuto l’effetto sperato perché in Brasile mancava un Re, che potesse dare una mano ai golpisti. Quello che è avvenuto in Brasile, però non è un fatto isolato, basti pensare all’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021.

Un po’ dappertutto ci sono rigurgiti di fascismo che assediano democrazie consolidate e mettono in discussione i valori fondamentali portati dalle Costituzioni e dalle carte dei diritti. Il sentimento di dispregio della democrazia è penetrato anche nel ridotto dell’Unione Europea, dove stiamo sperimentando, in Ungheria e in Polonia, un nuovo modello di “democrazia illiberale”, che rischia di essere imitato dai nuovi governi di Svezia e Italia. Il paradosso è che, mentre in alcune parti del mondo si lotta per abbassare le forche, in altre parti del mondo, dove la civiltà giuridica le ha abbassate, si lotta per ripristinarle. Dobbiamo chiederci da dove viene questo male oscuro, quali sono le sue cause profonde? Quando è cominciato questo percorso di indebolimento della democrazia e cosa lo ha generato? Forse quando abbiamo accettato l’unione incestuosa fra la democrazia e la guerra!

L’articolo è pubblicato anche su Il Fatto quotidiano del 13 gennaio con il titolo : “Le democrazie: il male oscuro”.

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La Chiesa spaccata
La Repubblica – 16 Gennaio 2023 – Blog di Enzo Bianchi.
di Enzo Bianchi
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Questi sono giorni in cui emergono in modo molto più evidente i contrasti, le conflittualità e le “guerre” all’interno della chiesa cattolica. La morte di Benedetto XVI, l’incauta rivelazione postuma di alcune delle sue parole e dei suoi sentimenti da parte del segretario particolare e lo svelamento dell’identità dell’autore del memoriale attribuito al Cardinal Pell – vero grido di allarme sulla situazione della chiesa –, sono fatti che hanno scosso e scuotono i credenti quotidiani, che non sempre comprendono la materia diventata tanto conflittuale, ma soffrono di questa situazione così nuova per “la gente cattolica”, in balìa del chiacchiericcio delle sacrestie e delle denunce fatte dai media.

L’esito – va detto – non sarà il tanto temuto e paventato “scisma” di una porzione di cattolici, perché questo non è più tempo di fondazioni, ma sarà un silenzioso abbandono della chiesa da parte di molti che si sentono frustrati, stanchi e sovente amareggiati da tante liti fraterne che si consumano con schizofrenia ipocrita: da un lato una corsa al dialogo con i non cattolici, con i credenti delle altre religioni, e si realizzano cooperazioni tra chiese mai viste nella storia del cristianesimo; dall’altro lato c’è intolleranza, non sopportazione di chi, pur cattolico, condivide la stessa fede con uno stile diverso nella liturgia o nel modo di collocarsi nel mondo. Qui la lotta, l’antagonismo sono feroci con delegittimazione reciproca e impossibilità di riconoscere la fraternità che pure ha fondamento nell’unico battesimo.

In una vita ecclesiale così attraversata da polarizzazioni c’è però una novità: gli attacchi, il rigetto, l’insulto verso il papa, attualmente Francesco. La critica al papa era già presente nella chiesa degli ultimi tempi, critica aperta almeno dal pontificato di Paolo VI e poi dei suoi successori, ma le accuse o erano morali (e a tanto si giunse con l’integro papa Montini!), o erano critiche per il governo. Con Papa Francesco invece gli attacchi sono diretti alla sua fede, viene attaccato proprio quello che è il suo carisma: confermare nella fede i fratelli, e si arriva fino alla delegittimazione e all’insulto.

Perché ci si spinge fino ad affermazioni che lo dicono papa eretico, idolatra della dea pagana Pachamama, un papa che distrugge la chiesa? C’è una sola risposta: perché papa Francesco ha osato e osa essere solo un servo del Signore, un cristiano obbediente unicamente all’Evangelo, un esperto di umanità, un uomo che non ha paura dei potenti di questo mondo! Quanto più Francesco fa apparire il Vangelo nella sua nudità tanto più scatenerà le potenze avverse contro di lui e contro la chiesa della quale è al servizio della quale è pastore e servo della comunione.

Nessuna adulazione! Anche papa Francesco, come ogni uomo, ha i suoi difetti, il suo carattere che può non piacere, il suo modo di parlare che può essere più o meno attraente, il suo modo di governare la chiesa che può essere criticato, ma per i cattolici è il successore di Pietro, è colui per il quale Gesù ha assicurato di pregare, è l’uomo fragile e limitato che va giudicato solo per come annuncia il Vangelo e presiede alla comunione plurale della chiesa. Lo sappiamo dai Vangeli: colui che è la “Pietra”, cioè il fondamento della fede, può diventare un fuscello, ma sappiamo anche che ci sarà un gallo che canterà e lo richiamerà.
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