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Cari Amici,
la guerra non solo provoca catastrofi immediate, ma travolge e sconvolge anche valori e processi di lungo periodo. Tra le cose più preziose che vengono messe in crisi dalla tragedia di Gaza c’è anche il dialogo ebraico-cristiano intrapreso dopo il Concilio, volto a ritrovare e condividere tutto ciò che unisce le due religioni. Ora non può esserci niente di più lontano e inaccettabile per i cristiani di ciò che sta avvenendo a Gaza ad opera delle Forze Armate e dello Stato di Israele, mentre ogni protesta o critica a tale azione, che venga dalle piazze o dagli studenti delle Università o dall’ONU e perfino dagli Stati Uniti viene respinta e tacciata di antisemitismo, e perciò da condannare come continuazione sotto altra forma della Shoà. Questa accusa viene reiterata anche per ribadire che l’operazione a Gaza non può cessare, pur contro le sollecitazioni internazionali, finché non “sia finito il lavoro”, come viene chiamata la strage della popolazione palestinese, rinominata come Hamas. Tutto ciò si fonda su una identificazione dello Stato di Israele con l’intero popolo ebraico, compreso quello della diaspora, a partire da quella che è considerata una filiazione diretta dello Stato di Israele dalla Scrittura, invocata anche come suggello dell’esclusiva sovranità israeliana sull’intera Terra promessa “dal mare al Giordano”, con Gerusalemme indivisa “capitale eterna di Israele”; è questo l’assioma sostenuto soprattutto dai partiti religiosi ma assunto di fatto come legittimazione anche delle politiche del governo laico.

Questa concezione di un messianismo realizzato, che non si credette di poter formalizzare in una Costituzione scritta al momento della fondazione dello Stato, è stata infine suffragata dalla Legge fondamentale approvata dalla Knesset il 19 luglio 2018, sotto la spinta di Netanyahu ma con la contrarietà del presidente Reuven Rivlin che ne temeva le conseguenze negative per tutti gli Ebrei e per lo stesso Stato di Israele. Tale Costituzione definisce Israele come “lo Stato nazione del popolo ebraico”, la Terra come sua patria storica e “il diritto di esercitare l’autodeterminazione nazionale” (cioé i diritti politici e di cittadinanza) come riservato “esclusivamente al popolo ebraico”. Si tratta di una statuizione che non ammette alcuna altra etnia, emette la parola fine a qualsiasi forma di “due popoli e due Stati”, e in ultima analisi esclude l’esistenza stessa di una entità palestinese entro il territorio dello Stato, ciò che è appunto il “lavoro” da finire a Gaza, ma portato avanti anche in Cisgiordania.

È di fronte a tutto ciò che l’ebreo Bernie Sanders, leader democratico americano, ha scritto a Netanyahu che “non è antisemita sottolineare che in poco più di sei mesi il suo governo estremista ha ucciso 34mila palestinesi e ne ha feriti 77mila, il 70 per cento dei quali donne e bambini, e che i bombardamenti hanno lasciato senza casa un milione di persone, quasi la metà della popolazione di Gaza”; né è antisemita la Corte dell’Aja che adotta misure cautelari per arginare il genocidio, né lo è Francesca Albanese relatrice dell’ONU per i diritti umani.

E allora la condizione imprescindibile perché il dialogo cristiano-ebraico possa continuare e arricchirsi è che si distingua tra il popolo ebraico e lo Stato di Israele, come voleva Primo Levi, e tra la fede biblica e la sua attuale traduzione politica a Tel Aviv, la quale risponde a una lettura fondamentalista della Scrittura che, come dice la Pontificia Commissione Biblica, è “un suicidio del pensiero” ma può diventare anche il suicidio di uno Stato, e può dar ragione al lamento di Michea al vedere i “governanti della casa d’Israele costruire Sion col sangue e Gerusalemme con il sopruso”. Perciò lo stesso Stato di Israele dovrebbe avviare un processo di cambiamento

Noi cristiani possiamo fare senza abuso questo discernimento nel nostro rapporto con gli Ebrei, perché noi non siamo estranei ad Israele, gli Ebrei non sono solo “i nostri fratelli maggiori”, essi sono noi e noi siamo loro. Questo è il vero dialogo ebraico-cristiano: fino a Gesù eravamo una cosa sola, lui era ebreo e nel contempo era Cristo, c’è una corrispondenza tra Sinagoga e Chiesa, Tempio e Cenacolo, l’Arca e la Croce, il Rabbi e il Crocefisso, che è poi quanto san Paolo ha scritto a noi romani, parlando degli Israeliti come “fratelli e consanguinei secondo la carne, che possiedono l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi e da cui proviene Cristo secondo la carne”.

In forza di questa unità, a differenza di quanto sostiene ogni altra voce oggi corrente, noi possiamo dire che la vera soluzione politica della questione palestinese, e la vera alternativa al genocidio dell’uno o dell’altro popolo, è la riconciliazione tra Ebrei e Palestinesi nella convivenza in un’unica Terra; e possiamo fare la proposta all’Europa, e a tutta la comunità internazionale, di assecondare questo processo adottando il popolo ebreo e quello palestinese come “patrimoni dell’umanità”: è questa la figura giuridica istituita dalla Convenzione dell’UNESCO per la protezione del patrimonio culturale e naturale da trasmettere alle generazioni future, proprio in quanto rappresenta “il legame tra il nostro passato, ciò che siamo ora, e ciò che passeremo alle future generazioni”: e quali altri popoli sono portatori di tradizioni e valori universali e perenni d trasmettere al mondo futuro come l’ebreo e il palestinese?

L’obiezione è che i patrimoni di cui si parla sono i siti, i complessi architettonici e altre strutture materiali da preservare per il futuro: ma non sono gli uomini e i popoli il patrimonio più grande da salvare? La perdita di un popolo, che sia l’herero, il primo sterminato nell’altro secolo, o l’armeno, l’ebreo, il tutsi, il palestinese, non è più grave della perdita della diga di Assuan?

Sarebbe questo il modo anche per rispondere alla più penetrante forma di alienazione e di dominio che oggi espropria la dignità delle persone e devasta la Terra, che consiste nella sottomissione dell’uomo al dominio della cosa; il sistema di guerra che struttura oggi l’intera politica mondiale è infatti interamente fondato sul dominio della cosa, a cominciare dalle armi, dalla produzione e dal profitto: un’inversione di tendenza, che parta proprio da quella terra di Palestina, sarebbe un segnale di ritrovata speranza.

Nel sito pubblichiamo il testo “Dove va il mondo?” di Raniero La Valle, che è un tentativo di rispondere a tale domanda posta a tema del convegno di “Missione oggi” svoltosi a Brescia l’11 maggio scorso. Pubblichiamo anche un articolo di Domenico Gallo dal titolo “Anche noi contro i Palestinesi?” (oltre che contro i naufraghi).

Con i più cordiali saluti,

Chiesa di Tutti Chiesa dei Poveri

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