Nella Sardegna del XXI secolo si può ancora uccidere per futili motivi?
Nella Sardegna del XXI secolo si può ancora uccidere probabilmente per futili motivi? A Orune sì. Cambiano i luoghi – non un ovile ma una fermata dell’autobus -, ma non cambiano le dinamiche e neppure i profili sociali degli autori del delitto: criminali (e balordi) dal volto coperto e armati di fucile. E così Gianluca Monni, un ragazzo di appena diciannove anni con in tasca mille sogni che non potrà più realizzare, viene ammazzato, chissà, magari perché si era opposto per l’appunto a qualche atto di prepotenza.
Come abbiamo avuto modo di rilevare come Osservatorio sulla criminalità, il ricorso all’omicidio in Sardegna continua ad essere elevato; nonostante l’Isola sia stata attraversata da un insieme di mutamenti sociali ed economici, così come è accaduto nel resto d’Italia e in Europa, che hanno influito sulla diminuzione della violenza come risposta alle controversie e ai conflitti. Ma l’omicidio si inserisce troppo spesso in un contesto culturale di violenza che persiste, e questo contesto è da considerare, oltre che “fatto criminale”, “fatto sociologico”. Fatto che si accompagna ad un altro fenomeno sociale: la diffusione delle armi da fuoco che, non mi stancherò di ripetere, in alcune parti della Sardegna è ancora troppo poco considerata un disvalore.
Ogni omicidio è una storia a sé, ma nell’area che noi abbiamo definito “a rischio” e che comprende il comune di Orune, gli omicidi non prescindono dai luoghi in cui avvengono e dalla loro storia, per cui l’annientamento fisico di una persona rientra tra quei modi primordiali (ma residuali) di soluzione dei conflitti, in assenza di altri meccanismi di conciliazione e di mediazione.
La persistenza del ricorso alla violenza estrema qual è un omicidio, qualunque sia il motivo addotto, rinvierebbe perciò ad una continuità rispetto al passato (la cosiddetta vendetta barbaricina), ma la maggior parte degli omicidi avviene o per ragioni futili oppure per interesse economico. In tutti i casi, ciò riguarda una minoranza di persone che non è in grado o non ritiene di poter ricorrere a strumenti di conciliazione che si basano sulla ragione e sul dialogo.
Questa violenza va sconfitta, anche perché costituisce il presupposto di molti altri crimini che sono stati “aggiornati” negli strumenti e nelle finalità. Che cosa fare dunque? Anzitutto si dovrebbe sostenere la famiglia della vittima, ma anche la comunità che comunque ha subito l’omicidio. In secondo luogo, la comunità si dovrebbe fare parte attiva per individuare i colpevoli. Ovvero nessuno spazio all’omertà. Solo così si possono creare quegli anticorpi alla violenza. Gli strumenti della conoscenza e della trasparenza possono isolare e neutralizzare la violenza di cui qualcuno pensa di essere il portatore.
Le indagini sono in corso e non è mio compito fare ipotesi, ma anche Orune è un comune di piccole dimensioni, dove si possono facilmente individuare singoli e gruppi (per lo più giovani maschi), la cui unica (in)attività sembra essere quella di sostare davanti a qualche locale, magari infastidendo qualche passante con atti e parole (che se rivolte a una donna possono essere triviali). Al di là del paese ora coinvolto, in questi piccoli insediamenti vi sono intere generazioni di giovani che vivono ai margini della società per motivazioni individuali e non per ragioni economiche; essi quasi sempre vivono in famiglia, non lavorano e non studiano.
Di queste generazioni dobbiamo farci carico e, perciò, è necessario elaborare un piano straordinario di politiche volte a costruire progetti di lungo periodo e vite sociali che abbiano un senso e un’utilità collettiva oltre che individuale. Per far ciò, non si possono lasciare “sole” le amministrazioni comunali e non le si può privare dei presidi dello Stato: dalla scuola alla caserma.
La Sardegna ha bisogno che nessun giovane sprechi la sua e altrui vita e quindi oggi più di ieri serve che una molteplicità di attori (pubblici e privati) entri in gioco, insieme a ricerche mirate che consentano di comprendere le subculture materiali di cui sono impregnati questi giovani; servono inoltre sportelli di orientamento e sostegno con figure professionali, quali quelli di coaching, distribuiti nel territorio.
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Nella Sardegna del XXI secolo si può ancora uccidere per futili motivi?
By sardegnasoprattutto /11 maggio 2015/ Società & Politica/
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- Informazioni e approfondimenti su La Nuova Sardegna.
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- Su Aladinews: Dolore e lutto.
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AGGIORNAMENTI
- Articolo di Vito Biolchini su vitobiolchiniblog (12/5/2015)
- Articolo di Giacomo Mameli su La Nuova Sardegna. - segue -
Il coraggioso esempio di alcuni giovani ha messo in moto un sofferto processo di cambiamento che può cancellare il passato
Che “qualcosa a Orune stia cambiando” lo ha sottolineato, su queste pagine [La Nuova Sardegna], Piero Mannironi. Riflessione che si innesta sulle “nuove vite sociali” auspicate, nelle prime ore dopo il bestiale assassinio di Gianluca Monni, dalla sociologa Antonietta Mazzette. Una sofferta metamorfosi moderna che ha avuto la sua più significativa espressione undici anni fa: una ragazza, dolcissima e fragile, Pina Paola Monni, aveva avuto il coraggio di denunciare – con nome e cognome – gli assassini del suo fidanzato e di un amico, passati per le armi in un bar la sera della domenica delle Palme del 2004. Quel gesto segnò la svolta. Aprì alla speranza. Aveva mandato in frantumi falsi miti radicati in una società refrattaria al dialogo e dove non mancavano – e non mancano – figuri che elevano l’omertà a valore da coltivare. A Orune sono state scritte molte pagine di cronaca nera: nei bar, ma anche nelle campagne, davanti a tanti testimoni. Che si sono ostinati a tenere la bocca cucita, a coltivare – nella Barbagia del malessere – quel disvalore che è stato ed è il silenzio. Il gesto di quella ragazzina, raccontata a un cronista de La Nuova Sardegna fra i gerani e le rose rosse gialle di “Su Pradu”, era stata salutata come un fatto rivoluzionario perché Pina Paola – pagandone conseguenze personali – aveva esercitato il suo diritto-dovere di collaborare con lo Stato e – allo stesso tempo – di rendere onore al suo Pasquale. Se ne era accorto il Consiglio regionale che aveva inviato in quella casa fra i lecci una delegazione di donne consigliere, felici di additare una bambina-coraggio ad esempio sotto i paesi del Gennargentu. Quanta gente è stata uccisa sotto il Supramonte davanti a decine, spesso a centinaia di persone? Tutti muti, però. Il silenzio ha seminato di croci soprattutto le case di Orune, rione per rione, da Cuccuru ‘e Teti a Cadòne. Vittime sacrificali della barbarie, del primitivismo, sono stati un immacolato pastorello in pantaloncini corti ucciso in un prato di primule, sindacalisti leader di giustizia massacrati sull’uscio di casa, madri che volevano sottrarre i figli alla schiavitù del bar e della “ridotta”, artigiani fulminati da scariche di piombo mentre giocavano al flipper. Il che – per tornare all’analisi della Mazzette – sottolinea ancora la presenza spropositata di armi, da Far West imperituro. Caccia alle armi certo, ma i testimoni oculari devono parlare. Creando un coro di testimonianze-denuncia dell’assassino. Non per innescare vendette, ma per fermarle. I mutamenti sociali più efficaci maturano dentro le comunità, nei gruppi sociali, nelle famiglie. L’esempio civico di Pina Paola può cambiare una società che – nel suo intimo – continua ad apparire statica e primitiva. Il gene posivito di Orune si è moltiplicato nell’istruzione con alti tassi di lauree e diplomi. È stato celebrato nella letteratura con le pagine di Bachisio Zizi che capiva i tormenti del suo paese natale e ne invocava il riscatto; nell’analisi sociale profonda di Antonio Pigliaru; nel teatro con Pina Campana e Teresa Davoli che – in un decennio tormentato da sangue e croci – hanno utilizzato la drammaturgia per esorcizzare la vendetta; nella scuola che ha portato attori e attrici per “cambiare i globuli rossi” e motivare alunni desiderosi di esempi positivi; nella biblioteca che sostituiva la bettola. Chiunque sia l’assassino, da qualunque villaggio provenga, usi o meno Facebook o Twitter, la svolta deve avvenire fra le mura di casa. Orune (sull’esempio di Mamoiada) si riscatta con gli orunesi. Che al mito selvaggio della pistola devono contrapporre quello civile della parola. “Essendo gli orunesi intelligenti” (definizione del penalista nuorese Gonario Pinna) capiranno che il paese non lo si ama tacendo. Solo chi parla riuscirà a cancellare il passato. Orune deve essere associato a nomi positivi come quelli di Bachisio Zizi, Antonio Pigliaru, Pina Campana. E di Pina Paola Monni. Che, con la sua dolcissima modestia, ha iniziato a costruire le “nuove vite sociali” che Orune merita.
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