Nonostante tutto, l’Europa

Aladinbozo UE

Il 22 e 23 di novembre i capi di stato dei 27 paesi della Unione Europea si troveranno a Bruxelles per decidere sui bilanci comunitari dal 2014 al 2020 e chiudere quelli del 2012 e 2013. Il clima è decisamente agitato. E’ in atto uno scontro tra chi vorrebbe mantenere i livelli di spesa attuali, all’1,1% come la Commissione, mentre Francia Germania e Austria chiedono tagli che portino il bilancio all’1% del Pil europeo, anche se con una posizione possibilista. Gran Bretagna, Svezia e Olanda vogliono tagli per oltre 200 miliardi di euro portandolo sotto l’uno per cento. Il Parlamento europeo, i paesi dell’Est più Grecia, Spagna e Portogallo, sono sulle posizioni di Barroso. Van Rompuy, presidente del Consiglio Europeo propone tagli di una ottantina di miliardi per arrivare all’1,01. Secondo Rajoy se passasse quest’ultima posizione la Spagna nei prossimi sette anni, perderebbe circa 20 miliardi di euro.

Per le finanze di un paese in gravi difficoltà sarebbe un colpo difficilmente recuperabile. La presidenza cipriota propone la posizione mediana dell’1,04. I tagli avverrebbero soprattutto nei sussidi all’agricoltura e nei fondi strutturali per la coesione territoriale, suscitando le ire dei paesi dell’Est e di quelli mediterranei. In alternativa ci sarebbe il taglio dei fondi sulla ricerca, ma l’opposizione di Svezia, Danimarca, Finlandia è fortissima. E l’Italia? L’Italia al pari dei paesi nordici, di Germania, Benelux, Austria e Francia è donatrice netta. Riceve dalla Ue meno di quanto dia. Ora si spiega perché il ministro Barca rispondendo al presidente Cappellacci, che voleva un aumento di finanziamenti per le regioni in transizione come: la nostra, l’Abruzzo, il Molise e la Basilicata, rispose che l’integrazione l’avrebbe data lo stato.

Un aumento generalizzato in sede europea comporterebbe un aggravio contributivo per l’Italia. Barca è uomo d’onore, ma non è detto che sia lui il ministro nei prossimi anni. In Sardegna abbiamo imparato a conoscere quanto Roma onori gli impegni. La crisi dell’eurozona che ormai investe anche la Gran Bretagna che ha moneta propria, sta portando alla luce nazionalismi che credevamo consegnati al passato. Giorno dopo giorno una forza centrifuga si rafforza. Toccare i programmi di coesione strutturale è minare uno degli assi portanti della costruzione europea. Fin dal 1968 con la fondazione della Direzione delle Politiche Regionali, il superamento del divario tra aree è l’Europa. Così come lo sono i diritti civili, quelli del lavoro, la politica dell’ambiente e quella sull’istruzione. Gli stessi programmi di scambio tra università come Erasmus sono messi in dubbio per mancanza di fondi. Abbiamo sempre creduto che il processo di integrazione fosse irreversibile, invece non lo è. E’ mutata la geografia mentale dei cittadini europei. L’Europa diventa una percezione differente se sei spagnolo o svedese. Mondi che stanno diventando sempre più distanti. L’ideologia liberista con il suo sguardo occhiuto sui conti, non si cura che in Grecia Alba Dorata possa diventare il primo partito; che l’Ungheria sia governata da uno come Orbàn che apre campi di lavoro per i rom.

Sempre di più la democrazia viene vissuta come intralcio. D’altronde è dimostrato che i regimi autoritari non sono un ostacolo alla comunità degli affari. Tutt’altro! Se le classi dirigenti europee hanno una colpa, è quella di aver ucciso il sogno. Di aver fatto diventare l’unione continentale non una opportunità ma un limite, facendo immaginare un ritorno agli stati ottocenteschi. Ritorno difficile, dato il livello di integrazione economica esistente. Una notte della ragione che si veste di abiti razionali. Una corsa verso la disgregazione che nessuno sembra voler fermare. Eppure, per fortuna non è così. Il 14 novembre in ventiquattro paesi europei su ventisette, si è svolto uno sciopero contro le politiche di smantellamento del welfare e dei diritti del lavoro. Dopo anni di oblio, un vecchio e nuovo attore si mostra agli occhi delle opinioni pubbliche.

I ceti popolari e le classi medie impoverite non ci stanno a vedere messo in discussione il frutto che le generazioni passate erano riuscite ad ottenere. Non sono più disposte a sacrificare sull’ara insanguinata del Moloch neo liberista le loro esistenze. In quelle manifestazioni la parola ricorrente era “futuro.” Un futuro di dignità che viene negato a milioni di persone. Sono loro i veri eredi delle speranze europeiste cha animarono i padri fondatori. I veri protagonisti di quella giornata sono stati i giovani con il loro desiderio di riprendersi le loro vite. Un adagio spagnolo dice che “ No ay realidad sin utópia.” L’utopia e il sogno sono una componente del nostro essere, non possono essere negati; mentre le èlite europee oggi al potere, questo hanno fatto. La costruzione dell’Europa si è nutrita di sogno, è stata l’attrazione per i paesi che chiedevano d’entrarci. Allo stesso tempo il “Ce lo chiede l’Europa” aveva valenza positiva per i cittadini dei paesi membri e non giustificazione per le classi dirigenti nazionali per imporre qualsiasi nefandezza. Quegli scioperi e quelle manifestazioni represse brutalmente fanno sperare. Sono l’avviso di equilibri politici che cambieranno, annunciano che la stagione attuale non è per sempre. Nonostante tutto è ancora l’Europa il nostro orizzonte.

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 L’articolo è stato pubblicato anche su Sardegnademocratica

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