La Chiesa italiana in attesa di rinnovamento

lavanda di primavera 17
imboccare vie nuove
di Brunetto Salvarani su Rocca
Dal 13 marzo 2013 qualcosa di profondo è cambiato, nella chiesa cattolica. Con l’avvento al soglio pontificio di un papa venuto «quasi dalla fine del mondo», è l’idea stessa di cambiamento a essere stata sdoganata, dopo una lunga stagione in cui la diffidenza verso di essa era trasparente.

Soprattutto in ambito italiano, in cui la transizione dall’uno all’altro millennio era stata assicurata alla presidenza della Cei dalla guida certo autorevole, e talora autoritaria, del cardinale Camillo Ruini. Uno dei prezzi da pagare, peraltro, come da diversi anni ci stanno mostrando le ricerche specializzate al riguardo, è stato il relativo appeal di quanti – a partire dai vescovi diocesani – garantiscono la presenza ecclesiale nella società. Per fare un esempio, in un’indagine ampia e approfondita guidata da uno specialista come il sociologo Franco Garelli nel 2011 e poi sfociata nel volume Religione all’italiana del Mulino, il grado di fiducia minore, dopo parrocchie, papa, clero e suore, spettava ai vescovi, avvertiti come vicini da non più del 31,1% della popolazione. Secondo l’autore, il sentimento di lontananza che la grande maggioranza dei nostri connazionali prova nei confronti dei vescovi – considerati nel loro insieme, come categoria – sembrerebbe suggerire l’idea a che il loro impegno e il loro pensiero nel Paese non siano in grado di suscitare passione e identificazione, a dispetto della grande risonanza pubblica di cui (almeno alcuni fra loro) godono. Non pochi li avvertono piuttosto distanti dalle proprie condizioni di vita. In quello stesso quadro, spicca invece l’attenzione che la gente comune, verrebbe proprio da dire: nonostante tutto, nonostante decenni di martellamento mediatico sulla centralità dei movimenti ecclesiali, riserva alla parrocchia, ancor oggi considerata da una quota consistente di popolazione come una struttura utile, un punto di riferimento sul territorio, al di là dei preti che la abitano, la gestiscono e si avvicendano. Nel frattempo, le ultime rilevazioni nazionali tendono ad allargare la forbice del livello di fiducia popolare nei confronti del papa (Francesco, dopo Benedetto XVI), in genere altissimo, e quello complessivo sulla chiesa cattolica (tendenzialmente assai basso).

il ricambio dei vescovi
Molte, dunque, sono state da subito le attese suscitate dal pontefice argentino. Attese, comunque, di un cambio di passo: evidenti, quelle relative allo stile di papato, al suo vissuto e alla sua predicazione (meno teologica e più pastorale, per dirla in estrema sintesi); meno appagate, almeno sinora, quelle riferibili alle trasformazioni strutturali della curia e degli altri organismi di governo vaticano. Un atteggiamento quanto mai distante rispetto al passato più o meno recente è senz’altro quello che Bergoglio ha scelto di adottare nelle scelte dei vescovi locali, non meno che nei concistori, dedicati a formare i cardinali che prenderebbero parte a un eventuale futuro conclave (per intenderci, a oggi i vescovi nominati da Francesco a capo delle 226 diocesi italiane sono poco meno di 100, e presto il ricambio toccherà diocesi fondamentali quali Roma e Milano). Pur senza prestarsi al gioco sin troppo facile delle contrapposizioni frontali, così care alla vulgata giornalistica, appare indubbio che – ad esempio – le successioni avvenute all’interno della Conferenza episcopale emiliano-romagnola siano di per se stesse eloquenti: dopo il cardinal Caffarra (uno dei quattro che hanno firmato la richiesta di chiarimenti al papa sull’Amoris laetitia resa nota lo scorso novembre), a Bologna è sbarcato don Matteo, come si fa chiamare di regola Zuppi, proveniente da un’esperienza consolidata presso i poveri nella Comunità di Sant’Egidio; dopo l’arcivescovo Luigi Negri, cresciuto nelle fila di Comunione e Liberazione e noto alle cronache nazionali per le posizioni conservatrici, a Ferrara-Comacchio, il cremonese Gian Carlo Perego, reduce dalla direzione della Fondazione Migrantes; mentre a Modena-Nonantola è giunto don Erio Castellucci, prete forlivese, parroco, teologo aperto e molto vicino al mondo giovanile, che da Forlì ha portato con sé nella residenza episcopale una famiglia albanese che già abitava con lui in parrocchia. Quest’ultima particolarità, la provenienza da esperienze pastorali significative, caratterizza altre nomine episcopali degli ultimi tempi: il nuovo vescovo di Padova, Carlo Cipolla, era parroco e vicario per la pastorale; don Gero Marino, prima di diventare vescovo a Savona, era da parecchi anni parroco a Chiavari; don Daniele Gianotti, della diocesi di Reggio Emilia, era a guida della parrocchia di Bagnolo in Piano prima di essere eletto, poche settimane fa, vescovo di Crema. Ma anche al sud alcune scelte sono apparse controcorrente rispetto al passato, basti pensare all’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice, anch’egli parroco e studioso. L’elenco potrebbe proseguire, senza peral- tro cambiare la sostanza di ciò che risulta evidente. Nonché perfettamente in linea con quanto lo stesso Francesco sosteneva, il 27 febbraio 2014, in occasione di un’udienza straordinaria alla Congregazione per i vescovi, in merito alle caratteristiche che questi ultimi dovrebbero possedere per essere dei buoni vescovi. Non tanto «apologeti delle proprie cause né crociati delle proprie battaglie», né scelti in base a «eventuali scuderie, consorterie o egemonie», facendo leva piuttosto sulla sovranità di Dio in base a due atteggiamenti fondamentali: il tribunale della propria coscienza davanti a Dio e la collegialità. Dovrebbero rimanere in diocesi senza recarsi troppo in giro per «incontri e convegni», e mostrarsi capaci di agire non «per sé» ma «per la Chiesa, per il gregge, per gli altri, soprattutto per quelli che secondo il mondo sono da scartare». Abbiano «relazioni sane», «solidità cristiana», «comportamento retto», «capacità di governare con paterna fermezza» e «distacco nell’amministrare i beni della comunità». E siano costantemente «vicini alla gente», in linea con l’ormai celebre esortazione suggerita ai presbiteri durante la sua prima messa crismale, il 28 marzo 2013, «siate pastori con l’odore delle pecore, non gestori o intermediari».

da troppo tempo puri spettatori
Sia chiaro. Credo sia un errore esagerare nelle attese e nelle responsabilizzazioni affidate in esclusiva alla figura del vescovo di Roma, chiunque ricopra questo compito; e pericoloso farsi contagiare dall’ansia da prestazione che caratterizza il nostro tempo affollato di passioni tristi, nel quadro di quel bisogno di gratificazione istantanea di cui ha parlato, fra i primi, Zygmunt Bauman. Personalmente, anzi, ritengo, inoltre, che non poche corresponsabilità della profonda crisi istituzionale in cui si sta dibattendo da tempo la chiesa cattolica siano da condividersi all’interno della chiesa stessa, a partire da noi cristiani feriali e da noi teologi, spesso autoridotti a essere pura eco del magistero di turno… Da troppo tempo ci siamo assopiti, per dir così, siamo rimasti troppo spesso puri spettatori silenziosi del naufragio in corso, coltivando semmai le arti perverse della maldicenza e del mugugno; e non abbiamo avuto coraggio di parlare con parresìa (spesso, abbiamo agito di conseguenza e ci siamo occupati dei problemi meno spinosi, senza affrontare, ad esempio, la questione cruciale dell’odierno pluralismo religioso, letteralmente silenziata nel di- battito pubblico infraecclesiale). Con eccezioni, benemerite, ma isolate e non di rado eroiche, evidentemente. Ciò detto, è sicuramente lecito, anzi, doveroso, sperare che, grazie soprattutto alla caratura evangelica e alla buona volontà dell’attua- le papa, si stia mettendo in moto qualcosa di nuovo, e che stia in effetti crescendo la consapevolezza dell’enormità della posta in gioco: ma ci sarà bisogno di tempo, di pazienza, di educarci al dialogo all’interno e all’esterno, e di una gran dose di coraggio da parte di tutti gli attori coinvolti. Certo, è impossibile sottovalutare gli effetti purtroppo consolidati della drammatica mondanizzazione degli stili ecclesiastici: con esiti disastrosi in termini di mancata testimonianza evangelica, fra l’altro, soprattutto verso quella che don Armando Matteo ha definito la prima generazione incredula… i giovani attuali, i primi a crescere dopo l’esaurimento del regime di cristianità e nel contesto di un irreversibile pluralismo culturale e religioso, che sono giustamente i più sensibili alla coerenza fra il dire e il fare!

una testimonianza gioiosa
Da parte sua, Jorge Mario Bergoglio ha da poco compiuto quattro volte vent’anni, ma riesce a vivificare la sua età avanzata con una fede, un entusiasmo e una capacità di sognare a occhi aperti che lo rendono più giovane e fresco di tanti che lo sono anagraficamente. Egli si trova a governare, lo sappiamo, una chiesa attraversata da una gravissima crisi di credibilità, ma anche da un vistoso deficit di motivazioni, soprattutto nei paesi di antica cristianità, in cui la stanchezza troppo spesso diventa tri- stezza e dunque sconfessione dell’allegria evangelica, di quella testimonianza gioiosa che dovrebbe sgorgare dall’adesione al Signore. È necessario dunque, prima ancora di ascoltare i suoi discorsi o valutare le sue riforme strutturali, guardare al suo esempio: a come vive, si muove, abbraccia le persone, parla, presso chi si ferma durante le udienze pubbliche, e a come esce, per riprendere un verbo a lui caro. Così, mi pare che Francesco stia proponendo l’unica strada credibile per la sua Chiesa, chiedendole di imboccare la via dell’autenticità, della semplicità e dell’es- senzialità, senza soffermarsi sulla moltiplicazione delle strutture e delle opere. Que- sta è la sua prima riforma, mi auguro pienamente riuscita. Riforma, infatti, è ablatio, togliere via, non aumentare né complicare, ma semplificare: un’operazione analoga a quella dello scultore che deve togliere dalla pietra nuda per far emergere la nobilis forma che vi è contenuta. Il profumo del vangelo (Evangelii gaudium 34) si diffonde esclusivamente grazie all’essenzialità, alla sobrietà, alla povertà. E unico criterio di semplicità e di essenzialità è il vangelo, nulla di più. Se si opera una scissione con l’essenziale del vangelo, «l’edificio morale della chiesa corre il rischio di diventare un castello di carte, e questo è il nostro maggiore pericolo. Perché allora non sarà propriamente il vangelo che si annuncia, ma alcuni accenti dottrinali o morali che procedono da determinate opzioni ideologiche» (Eg 39). Difficile sbilanciarsi, in ogni caso, su se e quanto la scomposizione di ogni ipotesi di restaurazione cattolica avviata da Bergoglio influirà sulla situazione ecclesiale italiana: ecco perché comincia a crescere, comprensibilmente, l’attesa per l’assemblea della Cei prevista per il 22-25 maggio prossimi, quando per la prima volta i vescovi saranno chiamati a votare una terna di candidati alla loro presidenza, da sottoporre poi al papa perché ne scelga uno. Sta per avviarsi, dunque, il dopo-Bagnasco, e in molti ritengono si tratterà di una svolta decisiva per la cattolicità nazionale. Perché rimane la domanda: quanto e come essa si mostra in grado di vivere, in termini di pastorale, linguaggi, stili ecclesiali accoglienti ed ecumenici, sulla linea chiaramente tracciata dal primo papa gesuita? Non è facile rispondere; e un esperto conoscitore di cose ecclesiali come Alberto Melloni, di recente, ha evidenziato il paradosso che, a dispetto del terzo di vescovi nominati da Francesco, la Cei sinora «sembra rimasta al palo», quasi scioccata dalla novità apportata da questo papa fuori dalla norma… Fermo restando che non bisognerebbe mai dimenticare che, come amava sottolineare il vescovo don Tonino Bello, un vescovo che l’odore delle pecore se lo portava continuamente addosso, «una Chiesa che non sogna non è una Chiesa, è solo un apparato: non può recare lieti annunzi chi non viene dal futuro».

Brunetto Salvarani su Rocca 07
Rocca 07 mar 2017

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