IL DIBATTITO POLITICO. Può esistere un populismo democratico?
“Un nuovo spettro s’aggira per l’Europa”: il populismo, col quale vengono indicate tutte le manifestazioni politiche considerate anomale dagli establishment prevalenti, preoccupati di perdere le loro posizioni di comando. Secondo Íñigo Errejón, segretario politico di Podemos (“L’Occidente nel suo momento populista”, in Historia Magistra, n .23/2017), un numero sempre crescente di fenomeni politici, “praticamente tutti quelli che costituiscono delle novità, sono catalogati sotto la stessa etichetta, nonostante, in molti casi, portino avanti progetti di segno opposto”. In mancanza di una più corretta considerazione, il populismo è da tempo rappresentato nell’immaginario collettivo come tutto ciò che eccede la normale valutazione dello stato del mondo, da parte delle élite tradizionali, e per questo motivo demonizzato indiscriminatamente.
In tal modo, le élite mancano di cogliere che, all’interno dei singoli Stati, da tempo si è formato un coagulo di “forze che aspirano a mobilitare una nuova volontà popolare a fronte dei partiti tradizionali, sottomessi ai poteri oligarchici e finanziari”; essi, i partiti tradizionali, anziché preoccuparsi di cogliere la “domanda politica” inevasa, originante dalla protesta di quelle forze, sono unicamente impegnati a trovare il modo di neutralizzarle, indipendentemente da ogni valutazione riguardo alla caratterizzazione politica dei soggetti che le esprimono, ovvero se essi sono di orientamento reazionario e xenofobo, oppure democratico e progressista.
Accade così che il populismo sia largamente “incompreso”, sia da destra che da sinistra. I ceti conservatori e liberali sono soliti reagire con lo spavento e la condanna morale; per essi gli Stati devono essere difesi dal protagonismo politico delle masse popolari, forti del convincimento che, secondo l’ideologia neoliberista interiorizzata, l’appartenenza ad una comunità libera e l’affermazione di valori tolleranti possono essere garantite solo da forze autenticamente liberali e razionali. Inoltre, tali ceti conservatori si avvalgono del fatto che le loro posizioni siano spesso difese dalle forze politiche socialdemocratiche che, invece di risultare schierate a sinistra, manifestano d’essere subalterne alle politiche e agli interessi degli establishment prevalenti.
Dall’altra parte dello schieramento politico è collocata una sinistra caratterizzata da una scarsa disponibilità a comprendere i mutamenti che hanno caratterizzato le società capitalistiche nella seconda metà del secolo scorso, per via della sua incapacità di elaborare una comune strategia. Essa, infatti, si compone di una parte portatrice di istanze radicali, che tende ancora ad avvalersi di categorie interpretative dei fenomeni sociali da tempo superate; categorie, queste, che spingono la sinistra radicale ad “attendere la crisi economica definitiva” del capitalismo, per cui ogni accadimento politicamente rilevante rappresenta per essa una conferma di quanto previsto dalla sua ideologia di riferimento, anche quando si tratta di accadimenti contrari alle sue previsioni.
L’altra parte della sinistra, quella socialdemocratica, anche quando appare aperta alla comprensione del senso della domanda politica della quale si rendono interpreti i movimenti populisti, tende a demonizzarli e a considerarli distruttivi, a causa della sua tendenziale subalternità alle posizioni dei ceti liberali e conservatori, siano questi movimenti di segno progressista o conservatore o reazionario. L’atteggiamento acritico della sinistra socialdemocratica nei confronti del populismo è senz’altro un errore, in quanto può avere – come afferma Íñigo Errejón – la conseguenza di lasciare le forze progressiste portatrici della protesta popolare “fuori da qualsiasi possibilità di governo”, e dunque impotenti ad affrontare realmente le oligarchie economico-finanziarie che oggi “si impongono sopra ogni necessità e domanda delle maggioranze sociali”. Se lasciate a se stesse, le forze sociali, che con la loro protesta, alimentano i movimenti populisti, sono destinate inevitabilmente ad essere catturate per intero dalla destra reazionaria nazionalista e xenofoba.
Nel caso dell’Italia, perciò, la sinistra socialdemocratica dovrebbe decidersi a riflettere sul fatto che, come viene affermato da un gruppo di docenti e ricercatori (Mchelangela di Giovanni, Sanuele Mazzolini, Stefano Barolini, Stefano Poggi, Tommaso Nencioni, Paolo Gerbaudo) in “Per un populismo democratico. Manifesto di senso comune” (Historia Magistra, n. 23/2017), il “crescente livello di astensionismo e di apatia nei confronti della politica sono solo l’epifenomeno di un processo di scollamento tra la popolazione italiana e le sue istituzioni senza precedenti”; la sinistra socialdemocratica dovrebbe prendere in seria considerazione questa “spaccatura” profonda che denuncia “il sequestro delle istituzioni politiche ad opera dei potentati economico-finanziari”, rendendo l’uguaglianza politica a fatto puramente formale e polarizzando “in maniera progressiva la società in due campi, élite economiche e politiche da una parte, gente comune dall’altra”.
In questo contesto, i sottoscrittori del “Manifesto” evidenziano che le parti sociali dominanti, mancando un’efficace opposizione e in assenza di risposte adeguate rispetto all’entità della crisi della società italiana, hanno potuto “usare le loro posizioni di potere per difendere i propri privilegi”. In questo modo, le forze della sinistra socialdemocratica, non schierandosi dalla parte della società più debole, consentono di lasciare il governo del possibile cambiamento “alle forze conservatrici e reazionarie”. Ciò sta consentendo che le istituzioni, “sorte a parziale difesa del potere popolare dopo la Seconda guerra mondiale” siano depotenziate, lasciando il presidio di ciò che resta di tali istituzioni ai movimenti populisti, trascurando però di considerare che solo un “populismo democratico può dare vita ad istituzioni nuove a difesa degli stati di bisogno popolari.
Lasciando che la spaccatura tra popolazione italiana ed istituzioni si approfondisse, è accaduto che all’apice della piramide sociale si siano collocate fasce sociali “sempre più ristrette e potenti, indifferenti come non mai alle sorti del resto della società”; ciò ha alimentato un processo che ha dato luogo all’approfondimento del divario tra “ricchi” e “poveri”, generando un disorientamento dei ceti popolari, al quale le forze della sinistra socialdemocratica non hanno tentato di porre rimedio. Allo stato attuale, perciò, secondo i sottoscrittori del “Manifesto”, la sinistra socialdemocratica, aprendosi alle ragioni del populismo democratico, dovrebbe ricuperare il consenso della protesta popolare raccogliendo una platea di consenso, “non più facendo leva su una classe intesa come fatto sociologico, come qualcosa di già dato, quanto piuttosto su una comunità immaginata che ancori il cambiamento all’articolazione di pratiche rivendicative che contengano un’ipotesi universalistica”; in altri termini, le forze della sinistra socialdemocratica dovrebbero “dare voce” alle richieste della protesta popolare, incanalando “i sentimenti di rabbia e di frustrazione di ampie fasce della popolazione con linguaggi e istanze da essa comprensibili e sentite come proprie”.
Tanti sono i temi ai quali le forze socialdemocratiche potrebbero aprirsi: tutela dell’ambiente, insicurezza sociale e lavorativa, modalità di fruizione dei beni comuni, forme di sostegno alternative del reddito, equità fiscale e distributiva, contrasto dell’evasione e dell’elusione fiscale, riduzione dei livelli non più sopportabili di burocratizzazione nel funzionamento della pubblica amministrazione, difesa del risparmio e tanti altri ancora. Sono temi, questi – affermano i firmatari del “Manifesto” – “su cui costruire la piattaforma di un populismo democratico in grado di mettere insieme un programma di trasformazione con una sua visione del futuro che recuperi la carica critica e la capacità di immaginazione di un’idea di democrazia efficace ed inclusiva”. Inoltre, quelli indicati sono temi che, a parere dei “firmatari”, possono rendere il populismo, non già sinonimo di “demagogia o autoritarismo”, configurarandolo non in termini di una patologia o di un’ideologia distruttiva, ma come “logica costruttiva di una politica attraverso la quale diversi progetti competono per egemonizzare il campo sociale”.
Il dubbio che dai movimenti populisti non possa emergere un personale in grado di dare una risposta adeguata alla domanda politica non soddisfatta dalle forze politiche oggi dominanti è di solito uno dei motivi con cui il populismo viene descritto come movimento distruttivo. Il dubbio non è privo di qualche fondamento; in Italia, l’opposizione politico-sociale popolare è stata mobilitata prevalentemente dal Movimento 5 Stelle, al quale deve essere riconosciuto il merito di aver coagulato un ampio ventaglio di “domande di giustizia provenienti dal Paese reale e di aver indicato per primo la delegittimazione delle istituzioni e del ceto politico”; la sua capacità di trasformare la protesta in azione di governo ha, però, presto presentato il limite di non essere riuscito “ad elaborare sbocchi politici adeguati per le istanze sociali che si sono riversate al suo interno”.
Il limite è consistito nel fatto che il M5S non è riuscito ad elaborare un’analisi dei motivi di fondo della crisi della società italiana che andasse al di là della mera protesta, né a formulare un modello sufficientemente compiuto del modo in cui affrontare i temi che costituiscono il “nocciolo duro” della protesta sociale da esso rappresentata. Su tutti i temi che hanno motivato la crescita e la diffusione delle protesta sociale, “la vaghezza dei programmi del M5S” ha fatto intravedere solo un vuoto di idee che rende poco auspicabile un suo eventuale accesso al governo del Paese.
Così stando le cose, solo una considerazione superficiale della politica – secondo i firmatari del “Manifesto” – “può fare pensare che la conquista del potere popolare possa avvenire spontaneamente o sull’onda di uno slancio di indignazione”. L’impegno per l’accesso al governo delle forze che sono portatrici del senso della protesta popolare richiede una strategia di ben altra natura rispetto a quella sin qui praticata; richiede, cioè, che tali forze si organizzino in un movimento articolato, all’interno del quale le diverse organizzazioni delle forze popolari possano coordinare la loro azione. Questo movimento deve porsi principalmente, sostengono i “firmatari”, “l’obiettivo di fare affiorare tutte quelle domande e quei conflitti irrisolti che rimangono silenti”; ciò, al fine di rendere “palpabile” il danno provocato agli strati popolari della società dall’aver lasciato per troppo tempo inevasa la domanda politica relativa ai temi che sono oggi il contenuto principale della protesta.
Un problema rilevante che si porrà per un movimento così inteso, consisterà nello stabilire l’atteggiamento più conveniente che esso dovrà tenere nei riguardi dei partiti tradizionali, tenendo ferma l’idea che la sua azione dovrà essere sempre “contro” l’establishment prevalente, evitando però che, nella pratica della sua strategia politica, prevalgano forme di chiusura settaria, poiché nei partiti tradizionali esistenti “si annidano risorse inquiete e insoddisfatte, pronte a mobilitarsi”.
La non chiusura settaria e l’attenzione rivolta verso le potenziali forze che possono essere “ricuperate” dai partiti esistenti, non significa che il cambiamento possa essere realizzato attraverso l’utilizzazione di “spezzoni” di vecchi progetti politici; significa, al contrario, che il cambiamento potrà essere realizzato solo con il supporto di una nuova maggioranza sociale, anziché con l’ausilio di “minoranze politiche”. Invece di fare appello “a frammenti di ceto politico ormai non più rappresentativi”, occorrerà- sostengono i firmatari del “Manifesto” – “mobilitare le energie sorte in seno alla società e dare loro uno sbocco politico”. Solo così, concludono i “firmatari”, l’organizzazione della protesta popolare potrà “dare voce” a spazi sociali in cui “la nuova politica del senso comune trovi il suo ideale terreno di coltura”.
Come tutti i “Manifesti” che si sottoscrivono per auspicare un mutamento di situazioni che si ritiene abbiano “fatto il loro tempo”, si può dire che quello proposto dai “firmatari” “pecchi” di realismo. L’analisi che essi effettuano riguardo alla crisi di molti sistemi sociali moderni, incluso quello italiano, e la spiegazione del perché si sono affermati i movimenti populisti sono certamente credibili; ciò che lascia ampi margini di dubbio e perplessità è l’ipotesi implicita nella loro analisi che il tipo di proposta che essi avanzata (ovvero che l’organizzazione della protesta popolare per l’attuazione di una “politica del senso comune”) possa avere immediata attuazione.
E’ questo un ostacolo insormontabile per la realizzazione di quanto i “firmatari” propongono; ciò perché il loro suggerimento può essere accolto solo da forze politiche, quali potrebbero essere quelle che si raccolgono intorno a quanto resta del vecchio partito socialista democratico; quest’ultimo, considerata la sua esigua consistenza elettorale, potrebbe, profittevolmente per la società italiana, privilegiare l’organizzazione della protesta popolare oggi rappresentata da movimenti populisti politicamente non professionalizzati, anziché scegliere la confluenza nelle maggioranze politiche esistenti, obnubilando così la propria storia ed il proprio prestigio e dimenticando di essere stato, fin dall’origine e per un lungo periodo di tempo, sempre dalla parte dei più deboli.
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