Dalla Brexit una spinta propulsiva al processo di unificazione politica dell’Europa. E’ un auspicio!

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Le incerte conseguenze del negoziato sul “divorzio” della Gran Bretagna dall’Unione Europea

di Gianfranco Sabattini*

Dopo il referendum del 23 giugno del 2016 e la formale notifica da parte della Gran Bretagna dell’intenzione di abbandonare l’Unione Europea (UE), stanno concretizzandosi gli accordi volti a definire le modalità del recesso, nonché le basi giuridiche che dovranno regolare i futuri rapporti tra Regno Unito e UE.
Di recente, nel dicembre del 2017, il Consiglio europeo, ha esaminato gli ultimi sviluppi dei negoziati sulla Brexit, valutando positivamente i progressi compiuti dai negoziati. Su tale base si è deciso di approvare le direttive per passare alla seconda fase dei negoziati, in cui saranno avviate le trattative anche riguardo al periodo di transizione e alle future relazioni.
Secondo l’accordo raggiunto, il costo del “divorzio” dovrebbe ammontare, per la Gran Bretagna, a circa 50 miliardi di euro; a parere di molti osservatori, si tratterebbe di un passo in avanti per il debole governo britannico, anche se esso dovrà affrontare l’opposizione, all’interno del Regno Unito, di chi lamenterà il pagamento della somma convenuta; ad opporsi saranno soprattutto i laburisti, per via del possibile impatto negativo della Brexit su diversi comparti produttivi dell’economia. Restano in ogni caso ancora da dirimere le altre due questioni preliminari (i diritti dei cittadini UE residenti nel Regno e i confini fra l’Eire e l’Irlanda del Nord) prima di poter passare alla seconda fase del negoziato sulla Brexit, quello riguardante, tra l’altro, le future relazioni commerciali.
L’abbandono di una “hard Brexit” (come si sosteneva dovesse avvenire il distacco della Gran Bretagna dall’UE all’indomani del referendum) in pro di una più plausibile “soft Brexit”, a parere di Stefano Civitarese Matteucci, docente di Diritto amministrativi pressi l’Università di Chieti-Pescara, in “Brexit: la fine dell’Europa o la fine del Regno Unito?” (Istituzioni del federalismo, numero speciale/2016), è dovuto al fatto che le elezioni politiche dell’8 giugno del 2016 hanno notevolmente indebolito il Governo di Theresa May; ciò ha consentito ai laburisti di sostenere la necessità che i negoziati siano improntati ad una strategia flessibile, con una fase transitoria sufficientemente lunga, per pervenire, dopo la fine dei negoziati, a stabilire convenienti relazioni economiche col mercato interno dell’UE e regolare convenientemente i diritti dei cittadini dei Paesi europei residenti da tempo in Gran Bretagna.
Questa preoccupazione è stata fatta propria da Theresa May, come dimostra il fatto che, nel suo discorso di Firenze del 22 settembre del 2017, rivolgendosi ai Paesi europei ha annunciato d’essere favorevole ad accettare, a negoziati conclusi, un periodo transitorio di circa due anni e ad osservare le regole comunitarie per consentire a cittadini e imprese extrabritannici di “entrare gradatamente e senza traumi nel nuovo regime”. In ogni caso, nell’incertezza di quello che sarà il nuovo regime, i maggiori interrogativi, in assenza di una chiara strategia per condurre la Gran Bretagna fuori dall’UE, riguardano, a parere di Matteucci, da un lato, la condotta dei negoziati con le istituzioni europee, e dall’altro lato, le conseguenze di carattere giuridico e amministrativo sull’ordinamento interno al Regno Unito, dopo 45 anni di appartenenza all’Unione.
Riguardo ai negoziati, la posizione dell’UE è stata indicata dalle linee guida fissate dal Consiglio europeo del 29 aprile del 2017; il processo di negoziazione deve svolgersi in due fasi distinte: la prima, per definire le modalità con cui deve avvenire il recesso; la seconda, per stabilire come regolare i futuri rapporti tra Regno Unito e la UE; ciò perché, il Consiglio ha ritenuto che l’accordo sui rapporti futuri possa essere definito “solo quando il Regno Unito sarà diventato un Paese terzo”. La posizione del Regno Unito su questo problema risultava all’origine alquanto diversa, nel senso che recesso e rapporti futuri avrebbero dovuto essere disciplinati congiuntamente, in quanto considerati strettamente interconnessi, in relazione soprattutto alle questioni concernenti il debito del Regno Unito verso la UE, i diritti dei cittadini europei residenti in Gran Bretagna e la soluzione del problema dei rapporti tra le due Irlande. Si tratta di problemi complessi per la Gran Bretagna, riguardo ai quali si registrano posizioni diverse, non solo all’interno del partito conservatore, ma anche tra quest’ultimo e il partito laburista.
La questione del debito deve essere risolta tenendo conto del fatto che la programmazione finanziaria dell’Unione è basata su un bilancio settennale e che quello in corso è relativo al periodo che va dal 2014 al 2020; rispetto ad ogni bilancio settennale, sono stabiliti i programmi europei, in armonia con i versamenti dei contributi degli Stati nell’arco del settennio. Il recesso del Regno Unito, perciò, è destinato a creare uno scompenso nell’equilibrio raggiunto nei rapporti tra tutti gli altri Stati membri; al fine di evitare tale scompenso, il Regno Unito dovrà onorare la sua posizione debitoria verso l’UE sino al 2020 e, inoltre, farsi carico – afferma Matteucci – dei costi relativi all’attuazione di programmi “il cui orizzonte temporale travalichi il 2020”. Di fronte alla previsione che il debito potesse ammontare a 100 miliardi di euro, secondo l’accordo raggiunto nel dicembre scorso, la Gran Bretagna dovrebbe saldarlo versando all’Europa la metà della somma prevista.
Riguardo ai diritti dei cittadini europei residenti in Gran Bretagna, dalla posizione iniziale del Regno che sembrava prospettare la perdita della cittadinanza europea da parte dei residenti non britannici, si è passati ad una posizione conciliante, come risulta dal discorso che la premier britannica ha tenuto a Firenze nel settembre dello scorso anno. Sul punto, Theresa May ha dichiarato di voler adottare nell’accordo di recesso una clausola sulla protezione giuridica per i cittadini dei Paesi dell’Unione residenti in Gran Bretagna, affermando, tra l’altro, di voler inserire la clausola sulla protezione nell’ordinamento britannico, in modo da assicurare che i giudici, in caso di eventuali controversie, possano fare riferimento diretto alla clasusola di salvaguardia dei diritti dei cittadini residenti non britannici. Tale atteggiamento viene valutato positivamente dai negoziatori dell’UE, considerando, come sottolinea Matteucci, che, insieme al controllo dell’immigrazione, il più ricorrente bersaglio dei sostenitori della Brexit era la “soggezione alle corti europee quale principale vulnus alla sovranità nazionale”.
Riguardo ai rapporti tra le due Irlande, sarebbero stati fatti notevoli progressi; secondo i giornali inglesi, il governo britannico dovrebbe devolvere all’Irlanda del Nord poteri sufficienti al fine di favorire un’armonizzazione doganale per i prodotti agricoli ed energetici. Circa la devoluzione dei poteri di armonizzazione, il governo britannico si troverà a doversi scontrare con il partito irlandese di destra, il Democratic Unionist Party, che si oppone a qualsiasi differenziazione dello status esistente tra Ulster ed Eire, temendo che l’omogeneizzazione possa essere il presupposto della riunificazione dell’Isola irlandese; non casualmente, il leader unionista Arlene Foster non manca di ribadire che non possono esservi accordi tali da compromettere l’integrità del mercato unico del Regno Unito.
Per quanto riguarda le difficoltà che il problema dei rapporti tra Ulster ed Eire continuerà a presentare per il governo inglese, nel discorso di Firenze della premier May non sono state formulate indicazioni come rimuoverle; sul punto, Matteucci, riportando il parere di Peter Leyland, docente di Public law presso l’Università di Londra, afferma che il processo di devoluzione all’Irlanda del Nord dei poteri per l’armonizzazione doganale, dovendosi articolare in accordi sopranazionali che coinvolgeranno “la Repubblica d’Irlanda a loro volta fondati sulla comune qualità di Stati membri UE di ques’ultima e del regno Unito”, presenta l’insidia di destabilizzare gli accordi di pace del Venerdì santo e il “North Ireland Act” del 1998; un vero ostacolo per la Gran Bretagna nella prosecuzione dei negoziati, posto che l’UE, conscia della criticità dell’argomento, resta ferma nell’attesa di una proposta concreta per risolvere il problema da parte del Regno Unito.
Circa le conseguenze di carattere giuridico e amministrativo del recesso sull’ordinamento interno al Regno Unito, Matteucci, sempre sulla scorta del parere di Leylend, sottolinea la “complessità del processo occorrente per ‘districare’ l’ordinamento britannico da quello europeo”, a causa dell’esistenza in quest’ultimo sia “relazioni complesse tra livelli di governo tanto infra – quanto sovra-statuali sia relazioni orizzontali tra settore pubblico e settore privato”. La conseguenza della complessità del problema vale ad evidenziare che “rimpatriare” il potere normativo, al fine di poter intervenire in via unilaterale su tale sistema, è operazione destinata a rivelarsi “molto delicata e probabilmente velleitaria”.
L’idea originaria di disciplinare il recesso sulla base di un disegno di legge, denominato dai sostenitori della Brexit “disegno della grande abrogazione” (great repeal bill), oggi è riproposta con la denominazione meno aggressiva di “disegno di legge sul recesso” (withdrawal bill), con l’intento di associare “alla abrogazione della legge del 1972 di adesione alla Comunità Europea, una clausola di incorporazione di tutta la normativa UE nell’ordinamento giuridico del Regno Unito”. Si tratterebbe – afferma Matteucci – di “una sorta di ‘naturalizzazione’ del diritto europeo nel ‘libro delle leggi’ britannico”, con la precisazione che la “legislazione post-Brexit avrà forza abrogativa [...] su quella dell’UE incorporata, ma che in caso di conflitto tra una norma UE incorporata e una pre-Brexit puramente domestica la prima continuerà a dover essere applicata”.
Tra le norme che dovrebbero essere incorporate nell’ordinamento del Regno Unito vi sono anche quelle create dalla Corte di Giustizia Europea, che siano state adottare prima dell’”exit day”; il problema che insorgerà, a questo riguardo, sarà quello del ruolo dei giudici britannici, sia circa l’interpretazione del diritto europeo, sia per quanto concerne il loro rapporto con la Corte di Giustizia. Se si considera che la giurisdizione della Corte ha a che fare con la tutela dei cittadini dei Paesi europei residenti in Gran Bretagna, è facile capite come l’incorporazione delle decisioni della Corte nell’ordinamento del Regno Unito sia destinata ad originare un ulteriore ostacolo per il governo inglese nella prosecuzione dei negoziati con l’UE.
Matteucci conclude la sua analisi delle problematiche insite nel processo di recesso della Gran Bretagna dell’Unione europea, giudicandole, secondo una prospettiva più ampia, di difficile soluzione, al punto da configurarle come l’origine della “fine del processo di integrazione europea”; ciò perché le difficoltà opposte dalla soluzione di tali problematiche può essere vista come crisi giuridico-costituzionale dell’equilibrio tra le ragioni dell’Unione e il riconoscimento del ruolo delle entità nazionali, compreso il sistema della autonomie locali, quale viene sancito dal Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE).
Qust’ultimo Trattato è, accanto a quello costitutivo dell’Unione Europea (TUE), uno dei Trattati fondamentali dell’ HYPERLINK “https://it.wikipedia.org/wiki/Unione_europea” \o “Unione europea” Unione. Assieme costituiscono le basi fondamentali del diritto nel sistema politico dell’UE; per questo motivo, essi vengono anche indicati come “ HYPERLINK “https://it.wikipedia.org/wiki/Diritto_costituzionale” \o “Diritto costituzionale” diritto costituzionale europeo”. Il TFUE svolge quindi una funzione di completamento e rappresenta la concretizzazione dei principi espressi nel TUE. Il tentativo di fusione del TUE con il TFUE, che in un primo momento era stato pianificato in modo da dare all’UE una costituzione, è fallito nel 2005, con gli esiti negativi dei referenda della HYPERLINK “https://it.wikipedia.org/wiki/Francia” \o “Francia” Francia e dei HYPERLINK “https://it.wikipedia.org/wiki/Paesi_Bassi” \o “Paesi Bassi” Paesi Bassi. Le difficoltà con le quali si scontreranno i negoziatori per il recesso del Regno Unito dall’UE sono certamente il sintomo dell’incapacità dell’Unione di darsi una Costituzione, in mancanza della quale diventa plausibile ipotizzare, secondo Matteucci, la possibile fine del processo di integrazione politica dell’Europa.
Tuttavia, lo shock causato dal referendum che ha condotto il Regno Unito a recedere dall’Europa sembra aver dato una scossa ai principali Stati membri, motivandoli a cercare il modo in cui uscire dall’empasse nel quale da tempo si è incagliato il processo di unificazione politica; non solo, lo shock sembra aver fornito, all’interno dei principali Stati membri (ieri in Francia, oggi in Germania e domani, è auspicabile, anche in Italia), le ragioni per indurre le forze politiche europeiste a trovare gli accordi utili ad evitare il pericolo, reale, che le coiddette forze sovraniste, xenofobe ed antieuropee, possano riscuotere il necessario consenso elettorale per accedere al governo, complicando la situazione politica all’interno di quei Paesi che, come l’Italia, non si sono ancora ripresi del tutto dagli esiti della Grande recessione.
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* Anche su Avanti online
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L’Europa dell’austerità e dei cappi di bilancio alimenta la protesta e genera questi terremoti politici”
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Intervista a Jean-Paul Fitoussi*: “L’Europa dell’austerità e dei cappi di bilancio alimenta la protesta e genera questi terremoti politici”
a cura di Umberto De Giovannangeli su HuffPost.

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L’Huff.it 5 /03/2018. “L’Europa dell’austerità e dei “cappi” di bilancio sta generando tutto questo. La Brexit doveva suonare anche per l’Italia come un campanello d’allarme: perché l’Europa dell’iper-rigorismo, dell’assenza più totale di politiche di sviluppo e di occupazione, è stata percepita come una minaccia soprattutto dai ceti più deboli, meno garantiti sul piano sociale.
In questa ottica, dire solo più Europa, senza premettere di essere contro l’Europa dell’austerità, ha finito per alimentare la protesta. Di Maio e Salvini devono ringraziare l’Europa rigorista”
. A sostenerlo, in un’intervista concessa a HuffPost è Jean-Paul Fitoussi, professore emerito all’Institut d’Etudes Politiques di Parigi e alla Luiss di Roma, secondo cui bisogna tuttavia distinguere fra M5S e Lega, il primo “capace di catturare consensi in varie fasce sociali e anagrafiche”, la seconda “espressione di un populismo di destra”. Per questo Fitoussi non crede a un’alleanza M5S-Lega.

Come giudica il risultato elettorale in Italia?
“Il voto è l’effetto e non la causa del terremoto politico italiano. Ne è l’effetto, perché l’Italia andava male anche prima di questo voto. Perché i governi che si sono succeduti nell’arco di un ventennio, siano essi politici o tecnici, non hanno risolto i problemi della gente. I problemi veri, quelli legati alle condizioni materiali di vita.
Si è, non so quanto consapevolmente, fatto finta che in Italia non esistesse una grande e irrisolta questione sociale. Mutatis mutandis, il centrosinistra italiano ha fatto lo stesso errore, devastante, dei democratici americani: sottovalutare gli effetti della crisi, non agire con la necessaria efficacia contro la finanziarizzazione dell’economia, incapaci di una critica non protezionistica, ma non per questo meno radicale alla globalizzazione. La disoccupazione è rimasta alta, soprattutto tra i giovani, i salari bassi, così come le pensioni, e nuove povertà si sono aggiunte a quelle vecchie”
.

Non ha pagato una narrazione che ha puntato sul racconto di una Italia in crescita.
“Non solo non ha pagato, ma ha contribuito ad alimentare la rabbia che si è innestata sul disagio sociale. Se c’è stata un po’ di crescita, questa ha finito per favorire una fascia ristretta della società. E ciò ha finito per accrescere la rabbia di quanti non hanno ricevuto alcun dividendo da questa mini-crescita.
Non si tratta di mettere in contrasto diritti civili e diritti sociali, ma quest’ultimi non possono essere considerati un retaggio del passato, perché a orientare le scelte restano in primo luogo le condizioni materiali per sé, i propri figli. Potrà sembrare poco poetico, ma è così. Ed è questo un discorso che vale per l’Italia, come per la Francia, la Gran Bretagna e, in prospettiva ravvicinata, anche per la Germania…”.

Considera quello che ha premiato il Movimento 5 Stelle e la Lega un voto anti-establishment?
“Manca un aggettivo: incompetente. La gente bada al sodo. Un amministratore delegato di un’azienda pubblica può anche prendere stipendi d’oro, ma se si rivela un incapace è certo che la protesta è destinata a travolgere non solo lui, ma i governanti che lo hanno nominato. Vede, a volte, nei salotti dei benpensanti e acculturati, si pensa di poter spiegare fenomeni di massa usando e abusando di parole che finiscono per diventare vuote: l’anti-politica, il populismo…
E di grazia quale sarebbe la buona politica che contrasta l’anti? E qual è l’antitesi del populismo: l’esaltazione dei tecnici, una idea elitaria della democrazia? Il fatto è che il voto in Italia ha reso più evidente un fenomeno che è proprio di tutte, o quasi, democrazie occidentali ed europee: la crisi di una sinistra storica o di rassemblament nati senza una discontinuità col passato. La sinistra e il centrosinistra sono stati vissuti come forze di conservazione, e questo non paga neanche quando, è il caso della Francia o dei Paesi del Nord Europa, s’intende conservare alcune realizzazione del welfare”.

Quale ricaduta può avere il voto italiano in una ottica europea?
“Io ribalterei lo schema. È questa Europa ad aver contribuito a determinare il voto italiano. L’amara verità è che oggi l’Europa manca su tutti i fronti. Manca sul fronte dell’occupazione, della lotta alla precarietà: manca sul fronte della lotta al terrorismo, manca sul piano militare. E l’elenco sarebbe interminabile. Il problema è che non può durare a lungo così. L’Europa non può dire: non ci sono i soldi. Questa giustificazione non regge più.
Puntare, anche attraverso l’intervento pubblico, su settori strategici è investire sul futuro, e lo è anche se questo significa, nel presente, allargare i vincoli di bilancio. Non farlo, significa condannarsi non solo alla marginalità nella competizione internazionale ma favorire le spinte sovraniste nazionali. Il paradosso, che genera ‘mostri’, è che questa mancanza viene però percepita come una presenza opprimente dai settori più deboli nei singoli Paesi dell’Unione, in questo caso è l’Italia. E’ una presenza-assenza che provoca ostracismo, che innesca insicurezza, e che finisce per premiare le forze meno accostate a questa Europa dell’austerità e dei cappi di bilancio”.

Molto si è discusso in passato e ancor più lo si farà dopo l’indiscutibile successo elettorale, sulla natura dei 5 Stelle. C’è chi sostiene che sono un movimento populista di destra e chi, al contrario, li pensa come qualcosa di più complesso e più orientato, almeno sul terreno sociale, a sinistra.

“La forza dei 5 Stelle sta, a mio avviso, nella capacità dimostrata di mantenersi border line, sviluppando una sorta di ‘ermafroditismo’ politico, capace di catturare consensi in varie fasce sociali e anagrafiche.
Proprio per questo sarei stupito se Luigi Di Maio guardasse in direzione della Lega, essa sì espressione di un populismo di destra come lo è il Front National in Francia, per avere i numeri per governare. Un’elezione si può vincere, ma poi si deve poi dimostrare di essere più competenti dell’establishment di incompetenti che il voto ha terremotato…”.

È la prova del governo, dunque, che darà la vera cifra dei 5 Stelle?
“Più che di governo, parlerei di cambiamento. Quest’ultimo sarà, a mio avviso, il vero banco di prova dei 5 Stelle. Quali saranno le scelte che, se dovessero essere chiamati alla guida dell’Italia, faranno sull’occupazione, le tasse, i diritti sociali e di cittadinanza, sul rapporto con l’Europa, sui migranti… Il cambiamento non è neutro, anche per i 5 Stelle”.

*Giornalista, esperto di Medio Oriente e Islam
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Cari amici/e, compagni/e,
dopo il voto di domenica, che fare in vista delle elezioni regionali dell’anno prossimo? Partendo dalla battaglia contro la legge truffa sarda, per una nuova legge elettorale regionale, come allargare il movimento per un nuovo governi della regione? Con quali obbiettivi? Dopo i referendum lombardo e veneto e l’accordo preliminare fra Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e governo che fare per la Sardegna? Quale rapporto con lo Stato? E’ ora di pensare per agire in modo unitario… Parliamone insieme.
Il Comitato d’iniziativa costituzionale e statutaria indice un’assemblea di valutazione a caldo del voto in vista delle elezioni regionali del febbraio prossimo. Sopra la locandina, con invito alla partecipazione e all’ulteriore diffusione.
Cordiali saluti.
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