DIBATTITO. Migrazioni: che fare?
La difficile soluzione del problema dell’integrazione dei “diversi”
di Gianfranco Sabattini
In molti Paesi, tra i quali l’Italia, l’islamofobia non ha mai costituito un serio problema, se non per minoranze politiche contrarie alla cultura occidentale dello Stato di diritto. Il problema è nato col relativismo culturale, sostenuto soprattutto da una parte della sinistra che, in nome di “altre religioni”, non solo ne ha sostenuto la diffusione, ma ha anche promosso la relativizzazione dello Stato di diritto e dei diritti umani.
Il numero 1/2018 del periodico “Limes” è stato dedicato, quasi per intero, al problema dell’islamofobia, con un Editoriale che riassume e documenta, in modo articolato, i termini intorno ai quali “ruota” il dibattito sull’integrazione degli immigrati; molti di quei termini vengono utilizzati ora solo per motivi di propaganda elettorale, soprattutto da parte dei partiti di destra che dell’islamofobia hanno sempre fatto un loro “cavallo di battaglia” sul piano politico.
L’Editoriale di “Limes” informa che un anno fa Chatam House, un Istituto londinese specializzato nello studio dei problemi internazionali, ha svolto un’indagine in dieci Paesi europei, dalla quale sono stati tratti elementi per una plausibile “misura dell’islamofobia” nell’Europa comunitaria. L’intento era quello di misurare la reazione degli intervistati di fronte all’affermazione seguente: “Ogni ulteriore migrazione dai Paesi maggiormente musulmani dovrebbe essere fermata”. L’indagine ha consentito di rilevare che il 55% del campione si è detto d’accordo, il 20% contrario, mentre il restante 25% ha preferito non rispondere. Con l’eccezione del Regno Unito (47%) e della Spagna (41%), la maggioranza degli intervistati degli altri otto Paesi si è dichiarata favorevole al “blocco” dell’immigrazione islamica: la Polonia con il 71% dei favorevoli al “blocco” è risulta in testa, benché, osserva l’Editoriale di “Limes”, “la popolazione musulmana vi sia quasi nulla”; seguono nella graduatoria l’Austria (65%), la Francia (61%) e, dopo un salto considerevole, la Germania (53%) e l’Italia (51%).
I risultati dell’indagine, condotta nel corso del 2017, hanno confermato una precedente indagine del Chatam House Institut, svolta ugualmente in diversi Paesi europei, dalla quale era emerso un identico “atteggiamento sfavorevole verso i musulmani”, con punte molto alte in Ungheria (72%), Italia (69%), Polonia (66%) e Grecia (65%), mentre Regno Unito (29%), Germania e Francia (entrambe con il 28%) risultavano più tolleranti, evidenziando che una società, quanto più islamici avesse ospitato, tanto meno avrebbe manifestato atteggiamenti anti-islamici. Riguardo all’Italia, l’Editoriale di “Limes”, osserva che l’antislamismo degli italiani sembra alimentato da due “convinzioni: la prima, sorretta dall’assunto secondo cui i seguaci dell’Islam costituiscono il “brodo di coltura” del terrorismo; la seconda, dalla presunzione che “i musulmani di casa nostra siano molti più di quanti ne vengano ufficiosamente contati”.
Tenuto conto dell’incertezza delle stime, dovuta alla presenza dei molti “irregolari” sparsi nel territorio e ai censimenti effettuati sulla base della presunta appartenenza religiosa, l’ultima rilevazione effettuata, nel 2016, dal “Pew Research Center” (un “think tank” statunitense che fornisce risultati di indagini condotte su problemi sociali, opinione pubblica, andamenti demografici sugli Stati Uniti ed il mondo in generale) ha stimato che nell’Europa dei 28 Stati (più Svizzera e Norvegia) vivessero 25,8 milioni di musulmani, pari al 4,9% della popolazione, mentre nel 2010 erano 19,5 milioni (pari ad un’incidenza sulla popolazione del 3,8%); crescita, questa, imputata ai flussi migratori provenienti dalla Siria e dall’Africa subsahariana, più o meno considerati di religione islamica. I 25,8 milioni di musulmani stimati dal “Pew Research Center” (dopo la Bulgaria, Paese di storico insediamento islamico, con un’incidenza sulla popolazione dell’11,2%) sono risultati principalmente presenti “nelle ex grandi potenze coloniali”, come la Francia (8,8%) e il Regno Unito (6,3%), alle quali sono risultate affiancate la Svezia (8,1%), l’Austria (6,9%) e la Germania (6,1%). L’Italia seguiva con un presenza di musulmani pari il 4,8% della popolazione.
Il “Pew Research Center” ha anche effettuato una proiezione della presenza della popolazione musulmana in Europa al 2050, stimata pari all’11,2%, in termini percentuali, corrispondente ad una popolazione di 57,9 milioni, in termini assoluti; al riguardo, in un articolo comparso sul numero 1/2018 di “Limes” (“In Europa i musulmani resteranno minoranza”), il demografo Massimo Livi Bacci, sulla base di sue valutazioni personali, ha valutato che la stima possa essere ridotta a circa 50 milioni, con una diminuzione pari al 10% circa della popolazione italiana. La previsione di Livi Bacci è stata fondata sulle ipotesi ottimistiche che la fecondità delle donne musulmane residenti in Europa tenda a convergere verso quella delle donne italiane (oggi 2,6, contro 1,6 figli per donna), da un lato, e che le barriere all’immigrazione siano inasprite, dall’altro.
A fronte delle previsioni allarmanti, anche se ridimensionate secondo le ipotesi di Livi Bacci, le stime statistiche, secondo l’Editoriale di “Limes”, devono essere prese con qualche “grano di sale”, ovvero di buon senso: innanzitutto, perché le proiezioni sono state effettuate sulla base di rilevazioni imperfette; in secondo luogo, perché gli atteggiamenti sociali nei confronti dei “diversi” sono determinati più dalle percezioni, che dalle rilevazioni ed elaborazioni statistiche; in terzo luogo, perché non esiste un “numero magico” oltre il quale la presenza di musulmani rappresenti una minaccia per il contesto sociale di residenza; infine, perché esistono molte indagini “sui modi europei di considerare i musulmani d’Europa”, ma non si dispone di “dati ‘scientifici’ su come loro percepiscono noi”.
Da quest’ultimo punto di vista, si deve considerare sorprendente il fatto che due studiosi dell’Università di Münster (Monaco di Vestfalia), con una loro ricerca, abbiano accertato che i musulmani residenti in Europa hanno più fiducia nelle istituzioni europee di quanto ne abbiano i cristiani e i non credenti; dalla ricerca è risultato che il 76% degli intervistati si sentiva fortemente attaccato al Paese di residenza. La misura di tale attaccamento, stimata sulla base di una scala di 5, ha segnato una media di 4,1, con questa distribuzione per Paese: Finlandia (4,6), Svezia (4,4), Regno Unito e Francia (4,3), Germania (4,0), mentre l’Italia seguiva all’ultimo posto con una stima dell’attaccamento della popolazione musulmana alle istituzioni italiane pari a 3,3. L’Editoriale di “Limes”, con un filo d’ironia, giustamente osserva che a noi italiani è riservata la decisione se “rattristarci o consolarci per la similitudine fra civismo autoctono e d’importazione”.
Tenuto conto di quanto sin qui detto (inaffidabilità delle rilevazioni ed elaborazioni statistiche, previsioni solo percepite sulla futura espansione della popolazione musulmana in Europa, scarsa conoscenza dei prevalenti atteggiamenti della popolazione musulmana nei confronti delle istituzioni europee, ecc.), è d’uopo constatare, come fa l’Editoriale di “Limes”, che i “modelli di relazione con i migranti, musulmani e non, cui i maggiori Paesi europei hanno inteso ispirarsi, sono falliti”, così come erano fallite le politiche “assimilative” e “restrittive” sperimentate negli Stati Uniti, assunte come modello da imitare in fatto di integrazione di gruppi etnicamente e culturalmente diversi.
L’esperienza vissuta dalla società americana è stata in sostanza quella propria del processo di formazione degli Stati-nazione; questi hanno ricondotto a sé l’esercizio della funzione potestativa, per perseguire l’obiettivo di fare corrispondere i propri confini territoriali a quelli della nazione, intesa come amalgama, o fusione, di tutti i soggetti che avessero subito l’”ordinatio ad unum” sul piano dell’adesione ad un unico modello organizzativo statuale: è stata questa la fase del “melting pot” statunitense.
All’interno di una siffatta esperienza, gli Stati-nazione hanno subito un processo di trasformazione in senso democratico che ha consentito di ricuperare, parzialmente o totalmente, alcuni dei tratti culturali originari delle singole componenti dei popoli, tenuti insieme da una crescente propensione alla cooperazione ed alla solidarietà; ciò, grazie all’affermazione di una generalizzata adesione al cosiddetto “patriottismo costituzionale”, che ha caratterizzato la fase statunitense del “salad bowl”, su basi però di un multiculturalismo aggregante. Per risultare aggregante, il patriottismo costituzionale era fondato sul presupposto che tutti i gruppi culturali insistenti sul territorio statunitense accettassero spontaneamente un insieme condiviso di valori enunciati nelle Carte costituzionali e che nessuno dei gruppi dei diversi “abusasse” dei valori della sua Heimat (patria di origine) per una strategia politica di potere.
La rigidità della struttura normativa propria dell’integrazione perseguita durante la fase del “salad bowl” è stata successivamente rifiutata dal “transnazionalismo”, inteso come modello interpretativo dei legami conservati dai migranti con la società di provenienza, nonché come insieme, empiricamente definito, dei legami stessi. Con il transnazionalismo, gli Stati Uniti hanno inteso perseguire un’identità della nazione americana che rifiutasse, sia la prospettiva della fusione, che quella di una nazione fondata sull’adozione di una costrittiva struttura normativa. Il doppio rifiuto ha dato luogo alla sperimentazione di altre “logiche di integrazione”, come, ad esempio, quella fondata sull’integrazione dei gruppi più affermati sul piano culturale ed economico (assimilazione segmentata), o quella fondata sulla prioritaria integrazione delle prime generazioni dei gruppi di migranti giunti negli Stati Uniti (assimilazione anticipatoria). Tutti i tentativi effettuati hanno avuto però scarso successo.
Ciononostante, malgrado gli insuccessi della politica d’integrazione sperimentata negli USA, i due modelli principali di integrazione adottati in Europa sono stati quello dell’”assimilazione in stile francese” e quello del “multiculturalismo britannico”, col risultato d’essersi rivelati, com’è avvenuto nell’esperienza americana, entrambi conservativi: quello francese, in quanto fondato unicamente su un “positivismo progressivo”, ispirato ad una missione civilizzatrice, che avrebbe dovuto assimilare lo straniero al natio; quello britannico, in quanto orientato a conservare ogni singolo gruppo nel suo enclave etnico-culturale, che ha solo motivato chi vi è stato costretto ad organizzare la propria vita “coltivando” un senso crescente di rivalsa nei confronti della maggioranza inglese.
Di fronte al generalizzato insuccesso dei Paesi europei nell’intraprendere un’efficace e reale politica di integrazione degli immigrati, per l’Italia, scarsamente legittimata dalle modalità con cui è pervenuta all’unità nazionale, una politica di integrazione dei “diversi”, musulmani e non, secondo l’Editoriale di “Limes”, è “imperativa”; in caso contrario, sempre secondo l’Editoriale, “ci ridurremo a campo di esercitazione delle influenze altrui. Non solo dei nostri alleati e partner, abituati a considerarci terra nullius. Anche degli Stati e dei regimi da cui provengono i migranti che intendono serbare influenza nelle rispettive diaspore”. L’Italia, secondo l’Editoriale, non ha una strategia valida: i governi sono assenti, e i partiti, che solo a parole si aprono all’integrazione, non riescono poi a mantenere fede alla promessa, “perché temono di perdere consenso a favore di chi denuncia l’’invasione’”.
La conclusione dell’Editoriale di “Limes” è che, l’Italia, “inconsapevole del tempo e dello spazio in cui vive, in declino demografico, incapace di selezionare gli immigrati ma disposta a veder partire i suoi giovani più preparati, rinunciare all’integrazione equivale vegetare. Se non a sparire. Qui si fanno i nuovi italiani o si muore”. D’accordo, ma sulla base di quale politica? Deve essere una politica che effettivamente, nell’interesse del Paese, provveda ad investire sull’integrazione solo per fare fronte ai deficit di natalità e a rimuovere gli aspetti negative che l’immigrazione presenta di per sé?
Considerati i costi economici e sociali immediati che l’immigrazione (musulmana e non) comporta, cos’è preferibile per l’Italia? Affrontare con politiche adeguate il problema interno del calo della riproduttività della propria popolazione e dei conseguenti squilibri nella distribuzione demografica per classi dei età? Oppure tentare di risolvere il problema del deficit demografico interno avvalendosi della fuga degli immigrati dai propri Paesi d’origine?
L’alternativa efficace alle modalità “fai da te”, sinora adottate senza successo dall’Italia nel risolvere i problemi dell’immigrazione, sembra essere quella di lungo periodo, volta a favorire, non solo il ritorno degli immigrati ai loro Paesi di partenza, ma anche a sostenere una politica internazionale, orientata a finanziare lo sviluppo economico delle aree da cui ha origine l’emigrazione, previa la loro pacificazione.
Questa prospettiva d’approccio al problema dell’immigrazione appare tanto più urgente, se si considera che il “nazionalismo” (inteso come rapporto che lega l’emigrato attuale, ma anche quello di prima o seconda generazione che si presume integrato e assimilato) è un sentimento di difficile rimozione, come spiega Benedict Anderson nel libro “Comunità immaginate. Origine e fortuna dei nazionalismi”; ciò è tanto più vero, se si tiene conto del fatto che un Paese come l’Italia, dove la soluzione del problema degli immigrati non potendo essere, per tutte le ragioni illustrate dall’Editoriale di “Limes”, che di breve respiro, sarà sempre esposto al pericolo che i “diversi”, integrati e non, siano “preda” dei manipolatori politici operanti nella loro patria d’origine.
[…] In argomento, tra le molte contenute nella nostra News, le riflessioni di Gianfranco Sabattini e di Ritanna Armeni (Rocca). […]