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Una singolare lettera collettiva senza destinatari è stata resa pubblica da Giorgia Meloni il 22 maggio in occasione del suo incontro con il Primo Ministro danese Mette Frederiksen, leader del partito socialdemocratico. La lettera aperta è frutto di un’iniziativa politica promossa da Italia e Danimarca, a cui si sono accodati i primi ministri di Belgio, Repubblica Ceca, Austria, Polonia, Lituania, Lettonia ed Estonia. Con questo documento per la prima volta un gruppo di Paesi europei si ribella collettivamente alla giurisdizione della Corte europea dei diritti dell’uomo, strumento di garanzia e di attuazione dei valori e dei principi espressi dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali; tali principi sono gli elementi portanti che definiscono l’identità dello Stato di diritto. Nella lettera ciò che è più rivoltante è l’ipocrisia: i magnifici nove si sbracciano in dichiarazioni di ossequio ai valori dello Stato di diritto e dei diritti umani. Dichiarano di credere profondamente nella: “inviolabile dignità dell’individuo” e osservano che “le idee stesse (della Convenzione) sono universali ed eterne”. Però i tempi sono cambiati: “Ciò che un tempo era giusto potrebbe non essere la risposta di domani”. È un po’ come dire: noi non siamo razzisti, ma…L’accusa che viene – impudentemente – rivolta alla Corte di Strasburgo è di avere limitato la capacità della politica di adottare le scelte più adeguate per contrastare l’immigrazione irregolare. In altre parole, di avere legato le mani agli Stati con i vincoli fastidiosi del diritto. Il punto dolente sono le espulsioni, sulle quali la Corte è intervenuta ripetutamente, per esempio vietando all’Italia di catturare i migranti in alto mare e di respingerli in Libia (Sentenza Hirsi Jamaa e altri c. Italia, del 23 febbraio 2012). L’ attacco all’indipendenza della Corte è stato apertamente biasimato dal Segretario generale del Consiglio d’Europa, Alain Berset, che ha osservato: «In una società governata dallo Stato di diritto, nessun organo giudiziario dovrebbe subire pressioni politiche. Le istituzioni che proteggono i diritti fondamentali non possono piegarsi ai cicli politici». In realtà questa ribellione alle Corti, è espressione di una politica impegnata attivamente a smantellare le conquiste di civiltà del diritto. Senza una giurisdizione che le faccia rispettare, che cosa sono le Carte dei diritti se non parole vuote, parole di carta?
I magnifici nove con questa lettera in sostanza si dolgono di non avere le mani libere come Trump che può permettersi le espulsioni collettive degli stranieri, per di più verso Stati terzi dove sono esposti al rischio di tortura. Sarebbe sbagliato confinare la questione al tema dell’immigrazione irregolare. L’immigrazione è semplicemente il banco di prova sul quale si testa la capacità del potere politico di spezzare l’universalità dei diritti e di sottrarre l’esercizio del potere politico ai vincoli del diritto. Questione che, in questo contesto storico assume aspetti inquietanti se pensiamo a vicende, prima inimmaginabili, come il genocidio in Palestina.
Al riguardo deve far riflettere la diffida di un gruppo di giuristi notificata il 21 maggio ai ministri degli esteri e della difesa con l’istanza di bloccare il rinnovo automatico del memorandum d’intesa fra il Governo italiano e quello d’Israele in materia di cooperazione nel settore militare e della difesa. Nel Regno d’Italia il campo della politica estera rappresentava un dominio riservato del Sovrano che poteva agire con la massima libertà, senza vincolo alcuno, fino al punto che, il 26 aprile 2015, il Re stipulò un Trattato segreto con le Potenze dell’Intesa, impegnando l’Italia a entrare in guerra. Con l’avvento della Costituzione repubblicana, si verifica un’innovazione decisiva rispetto allo Statuto albertino: il diritto si espande e penetra nel fortino della politica estera, ponendo dei criteri che indirizzano e vincolano l’azione del Governo. Gli articoli 10 e 11 della Costituzione, che definiscono il volto dell’Italia nelle relazioni internazionali, stabiliscono l’ingresso diretto nell’ordinamento giuridico dei principi del diritto generale internazionale e introducono dei fini generali alla politica estera, scolpiti nel principio del ripudio della guerra e della promozione della pace e della giustizia fra le Nazioni. Dato il loro carattere generale queste norme hanno un valore programmatico, perché indirizzano verso obiettivi (la Pace e la Giustizia) che possono essere perseguiti con scelte di vario tipo, ma hanno anche un carattere precettivo perché delimitano rigorosamente ciò che è decidibile e vincolano qualunque governo a non compiere azioni o scelte incompatibili con i fini posti.
Poiché l’Italia ha aderito alla Convenzione per la prevenzione del delitto di genocidio, poiché il genocidio costituisce la massima violazione ipotizzabile della Giustizia sul piano internazionale, la Costituzione vieta che l’Italia possa cooperare, con uno Stato responsabile di crimini internazionali e azioni genocidiarie. In questa situazione, il diritto lega le mani ai Governi. Per questi motivi, alla luce del fatto che Israele ha apertamente violato le misure impostegli dalla Corte Internazionale di Giustizia per prevenire il genocidio (il 26 gennaio, il 28 marzo, il 5 aprile e il 24 maggio 2024), il Governo italiano ha il dovere giuridico di denunciare il memorandum e di porre fine ad ogni forma di sostegno militare ad Israele. C’è un filo rosso che lega l’abbaiare di Meloni contro i giudici italiani ed europei e il sostegno tacito dell’Italia ad Israele: l’aspirazione di questo potere politico di liberarsi dei fastidiosi vincoli del diritto. Contro questa tendenza a smantellare le Carte dei diritti a livello interno ed internazionale deve nascere una resistenza all’altezza della sfida che abbiamo dinanzi.
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- Sbilanciamoci
Nel 1973 si riunì per la prima volta un gruppo di politici, economisti, studiosi, formando un gruppo conosciuto come “commissione trilaterale”. Ne facevano parte personaggi come Kissinger; Rockfeller, Brzezinski, Gianni Agnelli e tutto il gotha della finanza e della politica mondiale. 50 anni fa, nel 1975, in una successiva riunione della commissione venne pubblicato un rapporto dal titolo: La crisi della democrazia. Rapporto sulla governabilità delle democrazie, rapporto curato da Michel Crozier, Joji Watanuki e Samuel Huntington, lo stesso che poi avrebbe preconizzato la fine della storia, dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989. Oggi, della commissione trilaterale fanno parte l’ex dalemiana Marta Dassù, l’AD di Intesa San Paolo Carlo Messina, l’ex Ceo di Allianz Enrico Tommaso Cucchiani e tanti altri.La tesi del rapporto del 1975 era che nel mondo ci fosse un eccesso di democrazia nei sistemi politici: la soluzione sarebbe dovuta essere quella di ridurre lo spazio della rappresentanza a favore degli esecutivi, dei governi, della tecnocrazia. Kissinger si era portato avanti con il lavoro e nel 1973 aveva aiutato la realizzazione del golpe di Pinochet contro Allende. Da allora le tesi della “commissione trilaterale” hanno fatto breccia in tutti i governi e – a dosi omeopatiche – la democrazia e la rappresentanza sono state svuotate a favore di governi sempre di più autoreferenziali e oligarchici. La proposta del premierato della Meloni va proprio in questa direzione. L’orizzonte è quello della trasformazione delle democrazia in oligarchie, delle sedi della rappresentanza in luoghi di ratifica della decisione dei governi.
In più, nel tempo, in coerenza con queste tendenze, sono state varate norme che hanno limitato la democrazia diretta, il dissenso, l’informazione libera, la libertà delle opposizioni, gli spazi di partecipazione. Nei paesi dell’Est europeo (e negli Stati Uniti) gli esempi sono a non finire. Ma anche da noi non mancano. Il decreto sicurezza approvato in prima lettura alla Camera dei deputati ha questo significato: limitare gli spazi di libertà e di protesta, riportandoci ai tempi del Codice Rocco, o anche peggio. Le proteste contro queste norme sono sacrosante ed è per questo che partecipiamo a tutte le manifestazioni che si tengono in questi giorni per impedire che questo decreto venga approvato in via definitiva. Ai tempi della Costituente, Giuseppe Dossetti propose di inserire il diritto di resistenza nel testo della Carta. Un diritto che – pur se non inserito poi nel testo finale della Costituzione – dobbiamo rivendicare e praticare quotidianamente: per noi “obbedire” alla Costituzione significa disobbedire a chi vuole sovvertirla.
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[…] Un bel aforisma di Barbara Wootton* “E’ dai campioni dell’impossibile piuttosto che dagli schiavi del possibile che l’evoluzione trae la sua forza creativa” Il CoStat propone un’Intesa al Centro Sinistra, al M5Stelle e alle organizzazioni indipendentiste e autonomiste per battere la Destra di Salvini e soci. Missione impossibile? Non è detto. Il CoStat non demorde e, dati alla mano, chiama tutti all’impegno perché la Sardegna non venga consegnata alla Destra, la peggiore Destra oggi presente sullo scenario politico. L’Unione Sarda – Edizione del 1/12/2018 Sezione “Primo Piano” Centrosinistra e Cinquestelle uniti al voto per battere Salvini in Sardegna. Fantapolitica? Non per Andrea Pubusa, ex consigliere regionale del Pci e animatore del dibattito nella sinistra sarda. «La mia proposta – spiega – nasce da un’osservazione: a livello nazionale si è arrivati a questo governo per il veto del Pd sui 5Stelle. Uguale a quello di Grillo su Bersani 5 anni fa. Esclusioni reciproche che hanno avuto esiti disastrosi». [segue] In Sardegna la situazione politica è diversa. «Parto da un ragionamento matematico, oltre che politico. Salvini è dato al 36%, il M5S sopra il 20, il centrosinistra con Zedda su cifre simili. Se cadessero quelle preclusioni, con un blocco unico potrebbero bloccare Salvini». È così importante batterlo? «Beh, se lo si accusa di fascismo, allora le forze democratiche dovrebbero mostrarsi responsabili e unirsi. E poi una forza da sempre anti-Sud non può trionfare nella terra di Lussu, Gramsci, Dettori». Ma il Movimento 5Stelle con Salvini ci governa. «Sì, ma ne è fagocitato ogni giorno di più. Il M5S ha interesse a non consegnargli la Sardegna per non dargli una forte rincorsa per conquistare del tutto il livello nazionale. E il Pd… il Pd deve decidere cosa fare da grande». Non sembra che ci siano le condizioni per un’intesa simile. «Io credo che ci possano essere. Lo impone la legge elettorale. Devi fare un contratto di governo prima del voto, perché poi non si può. Un vantaggio per tutti i contraenti, che vincendo eleggerebbero molti più consiglieri». Lei è stato spesso accostato ai 5Stelle. È corretto? «Non sono del M5S, mi considero un vecchio pensatore di sinistra. Condivido alcune loro idee, come il reddito di cittadinanza e la lotta alla corruzione, temi storici della sinistra. Se non ha i paraocchi, un vero democratico non può non sostenerle». Il M5S ha anche votato il decreto sicurezza. «Lì c’è un contratto da rispettare, se no cade il governo, e capisco che il M5S non voglia. Però, appunto, fermare Salvini qui servirebbe anche a rinfrescare la carica innovativa del Movimento». Ha mai parlato della sua idea ai vertici locali del M5S? «Mesi fa, ad alcuni amici, ho fatto una proposta limitata: con questa legge elettorale avrebbero dovuto accordarsi, prima del voto, con l’area democratica. Hanno detto di no, ma ora le cose sono cambiate. Il M5S arranca con le regionarie, il Pd ha scelto Zedda come foglia di fico». Zedda non le piace? «Lotta per arrivare secondo anziché terzo. Non credo che il suo impatto andrà oltre il Medio Campidano. Ma un po’ tutti stanno pensando a perdere bene più che a vincere. Pds e Autodeterminatzione sperano di superare il 5%; lo stesso M5S sa che non vincerà. Perché non provare a vincere tutti insieme?» Con quale candidato? «Si dovrebbe cercare insieme una figura condivisa». Non Zedda, comunque. «Lui rappresenta, al di là del suo successo, la sinistra minoritaria che si è autodistrutta. Il M5S sceglierà una brava persona, ma poco nota. In Sardegna ci sono molte figure autorevoli che potrebbero guidare una tale alleanza, non lo vedo un problema». E i programmi? «Ci sono molti temi su cui basare un contratto di governo: occupazione, lotta alla povertà, difesa dell’ambiente, taglio delle servitù militari». Su altri però ci sono vedute opposte, come il metanodotto. «Su questo, i contrari non sono solo nel M5S. Certo, il programma non sarà solo rose e fiori, ma il problema sono i pregiudizi reciproci. Però con gli stereotipi andiamo a sbattere contro il muro». Giuseppe Meloni, L’Unione Sarda sabato 1 dicembre 2018. […]
[…] Dopo la pubblicazione, nel 2013, di “Il reddito minimo universale” e, nel 2017, di “Il reddito di base”, entrambi dedicati dagli autori, Philippe Van Parijs e Yannick Vanderborght alla spiegazione del significato e della funzione del reddito di cittadinanza (assegnato a ogni individuo senza vincoli di “contropartite lavorative” e senza “prova dei mezzi”), era plausibile attendersi che la classe politica si fosse presa la briga di leggerli; ciò avrebbe consentito di evitare la confusione, ormai radicata anche nell’opinione pubblica, che solitamente viene fatta per la mancata distinzione tra la forma di reddito della quale parlano gli autori e tutte le misure monetarie di natura welfarista adottabili e adottate (come, ad esempio quella introdotta dall’attuale governo italiano) per contrastare il fenomeno della povertà. La confusione non potrà essere d’aiuto per riflettere sui contenuti più appropriati della politica economica, presumibilmente chiamata nel prossimo futuro ad affrontare i fenomeni dell’insicurezza economica e dell’esclusione sociale che affliggono attualmente il sistema socio-politico dell’Italia, congiuntamente a quello di molti altri Paesi industrializzati di mercato, per tutte le ragioni puntualmente illustrate nei libri sopra richiamati. Viviamo in un mondo radicalmente nuovo rispetto a quello nato e consolidatosi nei primi trent’anni successivi alla fine del secondo conflitto mondiale; si tratta – affermano Van Parijs e Vanderborght, – di un mondo “riplasmato da numerose forze: la dirompente rivoluzione tecnologica determinata dal computer e da Internet; la globalizzazione dei mercati, delle migrazioni e della comunicazioni; la crescita impetuosa della domanda mondiale di beni a dispetto dei limiti imposti dall’esaurimento delle risorse naturali e dalla saturazione dell’atmosfera; la crisi delle tradizionali istituzioni protettive, dalla famiglia ai sindacati, ai monopoli di Stato, ai sistemi di welfare; infine le interazioni esplosive di queste varie tendenze”. Per poter valutare razionalmente come contrastare le minacce delle quali sono portatrici queste tendenze, occorre, a parere di Van Parijs e Vanderborght, definire un quadro istituzionale di riferimento alternativo a quello esistente; a tal fine, gli autori, affermati docenti di economia e di scienza politica e divulgatori dell’idea di “reddito di base” (o reddito di cittadinanza), avanzano la proposta di un “nuovo quadro istituzionale” fondato sulla libertà, “intesa come libertà sostanziale di tutti e non solo dei ricchi”. Per realizzare il nuovo quadro istituzionale occorre agire su diversi fronti, dal miglioramento dell’uso delle risorse, alla ridefinizione dei diritti di proprietà, dal miglioramento del sistema dell’istruzione (attraverso la sua trasformazione in sistema di apprendimento permanente), alla ristrutturazione del modo in cui all’interno delle moderne società industriali ad economia di mercato si persegue l’obiettivo della sicurezza economica e dell’inclusione sociale. Lo strumento sul quale edificare il nuovo quadro istituzionale alternativo a quello attuale (non più in grado di garantire, sia la sicurezza economica, che l’inclusione sociale) consiste, secondo Van Parijs e Vanderborght, nell’introdurre nell’insieme delle regole di funzionamento delle moderne società industriali ciò che oggi “è comunemente chiamato reddito di base: un reddito regolare pagato in denaro ad ogni singolo membro di una società, indipendentemente da altre entrate e senza vincoli”. Qual è l’incombenza, si chiedono Van Parijs e Vanderborght, che, pesando oggi sullo stabile funzionamento delle società economicamente avanzate, a rendere necessaria una riforma del loro quadro istituzionale, fondata sull’introduzione di un reddito di base universale e incondizionato? Tutti coloro che sinora si sono pronunciati in favore di tale forma di reddito chiamano in causa alcuni aspetti della dinamica propria delle moderne società industriali, quali, in primo luogo, l’ondata di automazione (di cui è prevista un’accelerazione nei prossimi anni) che sta investendo i processi produttivi, causando una crescente polarizzazione del prodotto sociale; in secondo luogo, l’approfondimento e l’allargamento della globalizzazione che, oltre ad aggravare le disuguaglianze distributive, causerà l’aumento del numero delle persone che perderanno irreversibilmente la stabilità occupazionale. Le innovazioni dei processi produttivi (che consentono “risparmio di lavoro”, indotto dal progresso scientifico e tecnologico e dalla natura altamente competitiva del mercato globale), potrebbero non rappresentare una “calamità sociale” insormontabile, se la maggior produttività da esse determinata potesse tradursi in una maggiore crescita; ma la fiducia su una crescita senza limiti presenta diverse controindicazioni: in primo luogo, esse sono dovute ai limiti ecologici, oggi amplificati dall’impatto sull’atmosfera; in secondo luogo, al fatto che i moderni sistemi industriali, come sottolineano molti economisti, sono esposti agli esiti di una loro tendenza a una “stagnazione secolare”; in terzo luogo, alla consapevolezza che la crescita, anche per chi la ritiene auspicabile che possibile, non costituisca una soluzione alla disoccupazione strutturale e alla precarietà. Le controindicazioni circa la possibilità che un’ulteriore crescita basti a risolvere i problemi della disoccupazione e della precarietà, nel contesto di un’automazione crescente e di un allargamento della globalizzazione, sono forse discutibili; esse, tuttavia, sono sufficienti a “spiegare e a giustificare” le richieste di una più efficace risposta alle sfide poste dall’aggravarsi dei fenomeni della disoccupazione strutturale e delle disuguaglianze distributive: secondo Van Parijs e Vanderborght, se non si troverà “un modo per assicurare un reddito di base da corrispondere alle persone che non hanno lavoro (o non hanno un lavoro decente), le moderne società industriali ad economia di mercato andranno incontro ad un futuro perennemente caratterizzato da instabilità economica e conflittualità sociale”. La previsione che la creazione di nuovi posti di lavoro “dignitosi” sarà sempre più difficile suggerisce perciò la necessità che gli establishment dominanti si convincano che occorre assicurare le risorse necessarie alla sopravvivenza della crescente massa di disoccupati e di poveri. Van Parijs e Vanderborght indicano due alternative per rispondere a questa necessità. Un primo modo di procedere (che gli autori considerano sconveniente) potrebbe consistere nell’allargamento dell’esistente sistema di assistenza pubblica; si tratterebbe di un modo utile solo per contrastare la “povertà estrema”, ma, a causa della sua “condizionalità”, varrebbe a trasformare i beneficiari in una classe di cittadini destinati a dipendere “permanentemente dall’assistenza sociale”. L’altra possibile soluzione, fondata sul principio che la libertà sostanziale debba essere garantita a tutti, consiste nell’introdurre un reddito di base di tipo incondizionato, inteso “nell’accezione più piena del termine”. Il reddito di base differisce da ogni altra forma di sussidio corrisposto a chi versa in stato di necessità, perché esso, oltre ad essere universale (dimensione di cui sono prive tutte le “misure” welfariste destinate ad alleviare le condizioni esistenziali di chi è privo di ogni fonte di sostentamento), è anche incondizionato, in quanto, a differenza di tutte le forme di assistenza welfarista, esso è esente da ogni accertamento della condizione economica del beneficiario. Infatti, ogni forma di assistenza condizionata presenta lo svantaggio che il sussidio sia corrisposto ai beneficiari solo “ex post” (cioè sulla base di una preliminare determinazione delle risorse materiali delle quali possono disporre gli stessi beneficiari); il reddito di base incondizionato, al contrario, è corrisposto “ex ante”, senza alcun accertamento della condizione economica degli aventi diritto. Le conseguenze dell’incondizionalità risultano tali da rendere il reddito di base profondamente diverso da ogni forma di assistenza condizionata; dal punto di vista del disoccupato strutturale o del povero, l’elemento che più di ogni altro vale a differenziare questo tipo di reddito dai sussidi condizionati è la possibilità assicurata ai beneficiari di sottrarsi al ricatto intrinseco alla condizioni alle quali è tradizionalmente subordinata la fruizione di un sussidio condizionato; ne è un esempio il “potere di ricatto” che può essere esercitato da ogni datore di lavoro ai danni dei lavoratori, quando questi ultimi siano “obbligati a svolgere un lavoro” infimo e mal pagato, per conservarsi nella condizione di poter fruire del beneficio assistenziale. In conseguenza di quanto sin qui osservato sulle specificità del reddito di base, si può dire che, mentre la sua universalità consente di evitare la “trappola” delle disoccupazione e della povertà, il fatto di non essere condizionato serve a contrastare la “trappola” del lavoro obbligato, spesso sottopagato o degradante. Considerati i vantaggi connessi alle specificità del reddito di base universale e incondizionato, è difficile – affermano Van Parijs e Vanderborght – negare che esso costituisca nelle moderne società industrializzate ad economia di mercato, non solo un “potente strumento di libertà”, ma anche, più che una spesa, una forma d’investimento, utile a garantire una maggior flessibilità nel governo dei moderni problemi economici e sociali delle società economicamente avanzate e integrate nell’economia mondiale. I principali interrogativi che incombono sulla possibilità di istituzionalizzare il reddito di base universale e incondizionato (come antidoto alla crescente disoccupazione strutturale e alla diffusione della povertà nelle società industriali avanzate e ad economia di mercato) riguardano la sua sostenibilità e il sui finanziamento. Per quanto riguarda la sostenibilità, molto diffusa è la preoccupazione che l’offerta di lavoro venga negativamente influenzata dall’assenza di obblighi da parte dei beneficiari del reddito di base. Van Parijs e Vanderborght ritengono fuorviante “ridurre le conseguenze economiche del reddito di base al suo impatto immediato sull’offerta del mercato del lavoro”. Fornendo sicurezza e autonomia economica, è plausibile prevedere che il reddito di base possa incoraggiare l’imprenditorialità, promuovendo l’allargamento di forme di lavoro autodiretto; in secondo luogo, esso può motivare molti lavoratori a scegliere di optare per un lavoro a tempo parziale; in terzo luogo, liberando chi è privo di reddito dalla “trappola della disoccupazione”, il reddito di base universale e incondizionato può produrre effetti positivi sul capitale umano, motivando i fruitori ad aumentare il loro “interesse a investire nell’istruzione e nella formazione continua”. Secondo Van Parijs e Vanderborght, tutte queste ragioni concorrono a rendere stretta la connessione che esiste tra una maggior sicurezza garantita dal reddito di base e una maggior flessibilità del mercato del lavoro; si tratta di una connessione che tende ad assicurare ai senza reddito la libertà di non lavorare, piuttosto che l’obbligo di lavorare. Tra l’altro, la stretta connessione che esiste tra la libertà dal bisogno e la maggior flessibilità del mercato del lavoro rende possibile anche una più funzionale riorganizzazione del tradizionale sistema di welfare State; essa consente infatti la sua trasformazione da “sistema protettivo caritatevole e punitivo” in “sistema di welfare State attivo ed emacipatorio”, orientato “a rimuovere gli ostacoli allo svolgimento di un’attività lavorativa gratificante, quali sono le trappole della disoccupazione e dell’emarginazione”, e a “facilitare l’accesso delle persone all’istruzione e alla formazione”, strumentali all’intrapresa di una pluralità di attività produttive. In questo modo, nelle moderne società industriali, il welfare State cesserebbe d’essere strumento “punitivo del lavoro” (come avviene con il sistema esistente, che rimuove il beneficio corrisposto al lavoratore disoccupato o al povero indigente che dovessero rifiutare di sottostare ai “vincoli” previsti per il loro reinserimento e/o inserimento lavorativo), per diventare, al contrario, strumento di promozione di forme gratificanti e socialmente utili di lavoro. Per quanto riguarda l’altro interrogativo (quello relativo al finanziamento), incombente sulla possibilità di istituzionalizzare il reddito di base universale e incondizionato come antidoto alla crescente disoccupazione strutturale e alla diffusione della povertà, la preoccupazione principale che esso solleva è riconducibile all’ipotesi che le società industriali moderne, già gravate di un oneroso sistema fiscale, possano non tollerare un suo ulteriore inasprimento per finanziare il reddito di base, a meno che l’inasprimento non sia associato ad una riduzione dell’asimmetria nel trattamento fiscale dei redditi da capitale e dei redditi da lavoro, “caricando” prevalentemente sul capitale l’onere del finanziamento del reddito di base. Un più equo trattamento fiscale delle due classi di reddito, però, si scontrerebbe con l’opposizione delle forze economiche e politiche prevalenti, per via del fatto che l’asimmetria nel trattamento fiscale a vantaggio del capitale è tradizionalmente “giustificata dalla necessità – affermano Van Parijs e Vanderborght – di incoraggiare investimenti ad alto rischio e lo spirito imprenditoriale” e di non promuovere la mobilità internazionale del capitale che, di fronte alla minaccia di perdere in parte i privilegi fiscali potrebbe “fuggire all’estero”. Per finanziare il reddito di base esistono però – sottolineano Van Parijs e Vanderborght – delle alternative che non prevedono il ricorso alla tassazione. Tra queste, la principale consiste nella creazione di un “Fondo Sovrano Permanente”, una sorta di “salvadanaio collettivo”, nel quale fare affluire le entrate derivanti da tutte le forme di collocamento (a titolo di affitto o di cessione) delle risorse mobiliari e immobiliari di proprietà pubblica. In questo modo, il finanziamento del reddito di base avverrebbe secondo le modalità previste da James Meade nel suo “modello agathopista”; in altri termini, il reddito di base potrebbe essere finanziato senza bisogno di alcuna tassazione, mediante la distribuzione annuale a tutti i cittadini, su basi paritarie, della dotazione del “Fondo”, sotto forma di reddito di base universale e incondizionato, inteso come dividendo del rendimento economico di un capitale pubblico. Un disegno di riforma del quadro istituzionale di riferimento, quale quello fondato sull’introduzione di un reddito di base (o di cittadinanza, come anche viene chiamato), per risolvere i problemi delle società industriali avanzate, richiede ovviamente che il loro sistema economico sia efficiente e gestito da forze economiche e politiche interessate al suo stabile funzionamento. Ipotizzare che questo disegno sia proponibile e attuabile all’interno di un Paese qual è l’Italia di oggi può apparire temerario, considerato lo stato in cui essa versa. Una cosa però è certa: se tutte le forze sociali impegnate (sul piano culturale, politico ed economico) a risolvere i problemi che maggiormente affliggono il Paese (rilancio della crescita e contrasto della disoccupazione strutturale e della diffusione della povertà) abbandoneranno molti dei pregiudizi ideologici che hanno sinora condizionato la ricerca di adeguate soluzioni, dovranno (quelle forze) necessariamente tener conto del fatto che l’istituzionalizzazione del reddito di base universale e incondizionato è uno dei presupposti per fare dell’Italia del futuro, parafrasando un’efficace espressione di Meade, “un luogo in cui è ancora conveniente e gratificante vivere”. ——————————————————— ——————————————————— – Gianfranco Sabattini su AladiNews. – Campioni dell’impossibile: https://www.aladinpensiero.it/?p=89277 […]
[…] o impresa possibile portata avanti da un “campione dell’impossibile”? Ce ne faremo un’idea più precisa nell’incontro di questo pomeriggio, a cui siete tutti […]