Per un’educazione sinodale

sinodo-pcc-01Tonio Dell’Olio su Rocca 19/2021.
Nonostante il tema del Sinodo continui ad essere dibattuto e «frequentato» in seno alle chiese locali e ad alcune associazioni e nonostante il Consiglio permanente della Conferenza episcopale italiana si affanni a produrre linee guida, tappe e itinerari, si comprende bene come quella del Sinodo sia una mentalità estranea alla cultura ecclesiale italiana e che ci trovi tutti abbastanza impreparati. [segue] Dobbiamo ammettere che somigliamo a quei pazienti che, per forza di cose, sono rimasti immobili a letti per qualche mese e hanno bisogno ora di una riabilitazione motoria che restituisca il giusto tono ai muscoli. Diciamoci la verità: come comunità cristiana, nonostante l’insistenza conciliare sulla visione ecclesiologica della categoria del «popolo di Dio» abbiamo sottolineato e praticato con profitto solo le categorie della chiesa gerarchica. Beninteso, non c’è contraddizione tra le due, che dovrebbero piuttosto inte- grarsi e alimentarsi in modo complementare e comunionale, ma nei fatti è avvenuto che, al di là di un vago ruolo consultivo, anche gli organi di partecipazione ecclesiale, hanno contribuito a tenere ai margini una buona parte del popolo di Dio invece che all’interno di un vero e proprio cammino da compiere insieme. Insomma c’è bisogno di una vera e propria alfabetizzazione sinodale, di un’educazione alla partecipazione della vita ecclesiale che faccia avvertire quanto quella comunità sia parte di una comunità umana più vasta e pertanto ne assuma il grido, la festa, le speranze e i travagli. Un’educazione alla responsabilità comune rispetto alle sorti del cammino comunitario in cui anche le delegate alla pulizia dell’aula liturgica e all’addobbo della mensa, gli addetti al servizio d’ordine e quelli della manutenzione volontaria ordinaria, diventino consapevoli di essere parte di una stessa realtà che cammina tra le donne e gli uomini del proprio tempo. Non vi può essere alcun cammino sinodale concreto ed efficace se previamente non si investono energie nella riabilitazione educativa di un tessuto umano che comprenda e pratichi la comunione fraterna in pienezza. Non c’è distinzione tra manovalanza e dirigenza in una chiesa sinodale in cui tutti sono fratelli e sorelle e non ci sono subalterni chiamati solo ad obbedire e altri deputati esclusivamente a ordinare. Questo sarebbe secondo l’ordine del mondo e non in sintonia con l’insegnamento evangelico (cfr. Luca, 22,24-26). E non si tratta di aggiungere un capitolo alla catechesi ordinaria quanto piuttosto di osare strade nuova di inclusione attiva che si formi con l’esperienza e la pratica, con una mentalità nuova (o rinnovata) sul calco originario del Vangelo. Anche in questo ambito, pertanto, educare diviene un atto liberante e creativo, dinamico (nel senso che pone in cammino) e tutt’altro che individuale. Forse l’errore più macroscopico che si va commettendo in questo tempo di cantiere sinodale è di varare un processo che non può esprimere alcuna reale e concreta sinodalità semplicemente perché non siamo pronti, non ne conosciamo la grammatica, non ne comprendiamo il «senso» inteso come significato e direzione. Per camminare insieme occorrono gambe e intelligenza, oltre alla passione e alla convinzione del mettersi in cammino. Ebbene l’educazione sinodale corrisponde alla palestra e all’aula in cui si apprende e si pratica il cammino compiuto insieme.
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Un intervento di Brunetto Salvarani su Avvenire.
Mappa da decifrare. In cammino sinodale in una realtà di «esculturato» cristianesimo
In cammino sinodale in una realtà di «esculturato» cristianesimo
Brunetto Salvarani
mercoledì 20 ottobre 2021
C’è un tempo per ogni cosa, sostiene il Qohelet. E questo, certo, è tempo di interrogarsi a fondo sui diversi significati di una pandemia che sta smascherando le nostre fragilità. Ma per le nostre diocesi – al pari delle altre della cattolicità sparse nel mondo – è altresì tempo di mettersi in cammino, anzi: di avviarsi per un cammino sinodale, come l’hanno definito i vescovi (scelta che non è una diminutio rispetto a sinodo, rinviando a uno stile, una metodologia, un atteggiamento ecclesiale, ben più di quello che, nel caso peggiore, potrebbe risultare anche solo un mero adempimento burocratico). Il titolo è programmatico: «Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione». Un impegno, va detto, da far tremare i polsi, pur limitandosi al piano organizzativo: ma anche, e soprattutto, un’occasione preziosa, da cogliere al volo e sfruttare appieno, che avrà bisogno da parte di tutti noi di pazienza, capacità di ascolto e umiltà. Imparare ad agire sinodalmente, da parte di laici, presbìteri e vescovi, docili all’azione dello Spirito, non sarà facile. Anche per la nostra disabitudine a camminare insieme.

La posta in gioco, in effetti, è davvero alta. Anche perché, per ragioni anagrafiche, dell’evento potrà sentirsi partecipe per l’ultima volta di un’esperienza ecclesiale importante una generazione ancora in grado di riferirsi al Concilio Vaticano II con cognizione di causa, avendo udito i racconti dai diretti protagonisti e respirato l’atmosfera unica di quell’assise di quasi sei decenni fa. Una generazione che può ancora scaldarsi il cuore su temi (dalle riforme ecclesiali al sacerdozio comune) che alla stragrande maggioranza dei nostri giovani probabilmente appaiono sospesi fra l’astruso e l’insensato: eppure, ovvio, il coinvolgimento di questi ultimi nel processo sinodale resta vitale. Nessuno si senta escluso!

Credo che la domanda sottesa a tale percorso, sull’identità della Chiesa e su cosa significhi essere Chiesa oggi, vada declinata in un’unica modalità sensata: non rassegnandosi a contemplare il proprio ombelico né cimentandosi in analisi autoconsolatorie o lamentazioni laceranti, ma misurandola sulla sua disponibilità a relazionarsi con il mondo esterno, con quell’alterità che ormai ci abita e ci mette in crisi e spesso ci inquieta; con la vasta porzione di Paese che non soltanto ha smarrito il senso di Dio, ma non sente per nulla la spinta a un’appartenenza ecclesiale e neppure ha la percezione di cosa voglia dire un’appartenenza simile (penso all’analisi di un teologo di vaglia, il gesuita Theobald, che parla apertamente di esculturazione del cristianesimo dalla cultura europea).

Per orientarci disponiamo, dal 2013, di una bussola non ancora sperimentata a fondo, l’Evangelii gaudium, che papa Francesco ci ha donato come mappa di una Chiesa capace di uscita. Mappa tutta da decifrare, perché, come rileva il vescovo Erio Castellucci, «non sono concetti: sono volti, esperienze, urgenze che riguardano tutte la necessità di ripensare l’annuncio di Cristo, in un contesto nel quale si sono riscoperte alcune grandi domande esistenziali». Volti ammaccati, confusi, e mascherati. Sì, c’è tanto da riflettere, in vista del sinodo che si è appena aperto. Come si legge nella Mishnà, trattato Pirkè Avot: «La giornata è corta e il lavoro è tanto; gli operai sono pigri, il compenso è abbondante e il padrone di casa incalza. Ma non è tuo il compito di completare l’opera, né sei libero di esentartene ». Se c’è un tempo per ogni cosa, è proprio questo il tempo per non esentarsi dal tentare l’opera e dal sentirsene partecipi.
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2 Responses to Per un’educazione sinodale

  1. Franco Meloni scrive:

    Scrive Giorgio Seguro sulla chat whatsapp del “Patto per la Sardegna: “ Concordo con l’impianto generale della tua riflessione, caro Franco, ma io farei uno sforzo ulteriore, rendendolo più concreto e invitando la “gerarchia ecclesiale” a dare realmente parola libera ad ogni cristiano perché possa parlare
    “a cuore aperto”, facendo si che realmente si senta ascoltato: a partire dalle persone più umili.

    Non vorrei che si ripetesse, con l’occasione di questo Sinodo, la grande illusione che la mia generazione di sinistra sopporto’ allorché accolse con ammirazione ed entusiasmo la mitica rivoluzione culturale cinese. Ricordate le parole d’ordine lanciate da Mao all’indirizzo del popolo: “sparate al quartier generale” ; “coltiviamo la politica dei 100 fiori”…..eppoi, ben presto, giunsero gli scempi delle guardie rosse che imponevano “la giusta linea”. E l’ubbriatura ideologica svani’ col processo alla “banda dei 4″ da parte dei nuovi tiranni….

    Che c’entra tutto ciò?

    Mutata mutandis, se auspico che la Chiesa sia davvero disposta ad “ascoltare” il suo popolo, lo faccia con umiltà, rinunciando un pochettino al discorso gerarchico a favore di una autentica volontà di ascolto. Democratico.

    Detto ciò, vorrei condividere, elencadole, delle tematiche aperte che mi stanno davvero a cuore e su cui auspico una riflessione.

    1) Riformare il corso di studi dei presbiteri, valorizzando esperienze extra seminario, per es. vivendo x un anno in piccole comunità dedite all’azione e alla preghiera o presso la famiglia di un diacono, proprio x non perdere l’abitudine a confrontarsi continuamente con le durezze della società civile (vedi proposta al riguardo fatta da mons. Castellucci , vescovo di Modena e vice presidente della CEI). Se i futuri preti si formano esclusivamente dentro le mura di un seminario, con tanta dotta teoria e scarsissima pratica, come potranno essere preparati a vivere realmente, e non astrattamente, dentro i mali della realtà? Non risulterà loro più semplice occuparsi, una volta consacrati, certo di liturgia e preghiera, ma tanto anche di burocrazia dentro la parrocchia aspettando che i fedeli vengano incontro a loro? E dove finisce l’invito del Papa a uscire e “odorare di pecore”?

    2) abolizione dei titoli “nobiliari” ai capi della gerarchia, sostituendo con il semplice, bellissimo, “don” espressioni come “eccellenza, eminenza….”. Perché non seguire l’esempio di Tonino Bello vescovo di Molfetta, che si faceva chiamare semplicemente “don”? Anche le parole possono essere portatrici di sana e benedetta umiltà!

    3) avviare davvero una profonda e onesta riflessione sul sacerdozio alle donne. Ci risulta così estranea la presenza di sacerdotesse e vescovi donne nella Chiesa anglicana?

    4) avviare davvero un’altra riflessione: perché sacerdoti che, dimettendosi, scelsero di sposarsi e che nel tempo hanno mantenuto una profonda fede e continuato a condurre una vita-testimonianza di veri cristiani, non potrebbero essere riammessi a esercitare il ruolo di parroco? Non si dice che chi si é consacrato sacerdote, tale rimane per sempre? E quanta capacità in più avrebbero di conoscere e capire le difficoltà di ogni genere che vivono le famiglie? Non si verrebbe così a contrastare anche il drammatico fenomeno di tante parrocchie senza prete? E perché non osservare quanto di simile avviene positivamente già nelle chiese ortodosse?

    5) aprire davvero tanti Istituti religiosi, ormai pressoché vuoti (se non hotel!), all’accoglienza dignitosa di senza tetto, di migranti, di poveri?

    6) organizzare dei corsi di oratoria e di retorica a favore dei parrocci affinché eccellano nel preparare le omelie che dovranno essere sempre più in grado di conformare ai tempi moderni le eterne Parole del Vangelo, anziché noiose prediche astratte e lontane dalla realtà.
    Ancora una volta: sottolineiamo l’importanza delle parole, specie se sono trasmissione del Verbo divino incarnato.

    Questi sono alcuni temi che mi permetto di esporre, anche se credo che x nessuno di essi al momento attuale i tempi saranno considerati maturi x una loro attuazione.

    Mi conforta comunque la constatazione che prima del Concilio Vaticano II il Papa usciva portato in spalla su una sedia gestatoria mentre oggi questo sarebbe fortunatamente inimmaginabile e ne abbiamo uno, di Papa, che esce da solo in un negozio di Roma x cambiarsi gli occhiali!
    E mi conforta anche la considerazione che queste mie convinzioni tanti anni fa sarebbero state tacciate di eresia, se non peggio….

    Oggi, almeno spero, se ne può parlare e, chissà, venirne addirittura ascoltati.

    O no? “

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