È possibile ripudiare la guerra? Solo una bella utopia?

31164aa3-d269-4cda-afb3-2aa0142c9843GUERRA, sempre? PACE, mai?
Maria Paola Patuelli​
20 aprile 2022 Democrazia costituzionale.

Poco dopo l’inizio della guerra, mi è stato chiesto di condurre un dialogo fra voci diverse. Chiesi di aprire con una mia personale riflessione dettata dalla cultura femminista che da tempo mi sta facendo rileggere la storia del mondo da un altro punto di vista, il più radicale da me trovato. Sono passate ormai settimane, la guerra continua in forme sempre più tragiche. Riprendo in mano gli appunti stesi in quell’occasione. Il mio addolorato spaesamento continua, e aggiungo considerazioni lunari. Meglio, lunatiche.
Un punto di vista non neutro, il mio, come il maschile che si presume universale. In genere si associa il neutro alla mancanza di estremi. La guerra è l’opposto del neutro, è un estremo, è torrida. E calda lo era anche nei decenni in cui fu definita fredda. Fredda per chi, poi? Per noi casualmente nati in Europa o negli USA. Fredda non lo fu in Corea, anche per molti giovani americani che vi lasciarono la vita. Non fu fredda nel Vietnam, una guerra che coinvolse le passioni di molte e molti giovani della mia generazione. Molti furono i fronti caldi, pure in un mondo che pareva regolato da un ordine bipolare chiaro. In quel tempo non avevo chiavi di lettura femministe. E mi collocavo nella parte che mi pareva la migliore.
Il neutro universale mi fa pensare, oggi, all’estremo abissale di una cultura maschile, radicata fin dall’inizio della storia umana. Spiegherò questo maschile nel corso della riflessione.
In apertura dell’incontro a più voci, sono partita da un libro del 1974, che fu per me di grande nutrimento, La storia. Uno scandalo che dura da diecimila anni, di Elsa Morante. Quale è lo scandalo? La guerra. Non a caso, pensai allora, quando comparve la parola di Gesù, fu considerata uno scandalo ribaltante, perché bandiva la guerra, considerata al tempo di Gesù naturale come la grandine. Fu messa in croce la predicazione della pace. Predicazione presto rimossa. E molte potenze cristiane, anche di cristianesimi fra loro diversi, nel passato e nel presente, guerreggiano. E’ naturale?
Come comincia il racconto di Elsa Morante? Con un soldato ubriaco che stupra una donna. Maschio casualmente tedesco, donna casualmente italiana.
Donne estranee alla guerra, fuori dalla storia per tempi immemorabili, estraniate. Volute fuori, estranee, perché impegnate doverosamente in altri compiti sociali. Ma tracce di estraniamento critico compaiono, quasi dal sen fuggite. Nell’Iliade, Cassandra, Ecuba, Andromaca, tragicamente estranee, lontane dal coraggio dei loro maschi, meglio morire da eroi che essere sconfitti. Simone Weil scrisse L’Iliade le poème de la force, opera fondativa dell’immaginario maschile occidentale ben più dei Vangeli. Omero vince su Gesù. Normale? Guerra, fra forza violenta e maschile piacere, brividi di piacere lungo la schiena, forti emozioni. Christa Woolf, comunista e femminista, in Cassandra fa esplodere il suo urlo femminista. Fossero così pacifiche le esplosioni causate dall’invenzione della polvere da sparo, che ha segnato la nostra storia non meno dell’invenzione della stampa, due invenzioni cinesi arrivate quasi simultaneamente in Europa. E tutto cambiò seppure non con la velocità del tempo presente. Per restare in Grecia, punto di partenza della nostra civiltà, Aristofane ci prende in giro, in Lisistrata, raccontando di donne stanche di guerra che minacciano lo sciopero del sesso. Evidentemente sotto traccia qualcosa ribolliva nel sentire delle donne ateniesi e non solo.
Faccio un salto di millenni, ma in mezzo c’è stata sempre la stessa musica, guerre, donne merce di scambio, stupri. Ed eroi coraggiosi, costi quel che costi.
Virginia Woolf, in Le tre Ghinee, denuncia in modo netto, indiscutibile, il legame fra sistema patriarcale, militarismo, regimi totalitari e il nesso stretto fra potere nella sfera pubblica e nella sfera privata.
Le sue parole.
Il modo migliore di aiutarvi a prevenire una guerra non è ripetere le vostre parole e i vostri metodi, ma di trovare nuove parole e inventare nuovi metodi.
Io in quanto donna non ho patria. In quanto donna, la mia patria è il mondo intero.
Cara sorella Virginia, sorella non perché abbiamo lo stesso sesso, ma perché la pensiamo allo stesso modo. Le tue parole raggiungono, indietro nel tempo, il cosmopolitismo dell’ateo e materialista Democrito – a me fratello – e il radicale pacifismo del cristiano Erasmo da Rotterdam, che, prima che avesse inizio la rivoluzione luterana, scrisse Il Lamento della pace. Dove spiegò, con parole le più radicali, dopo quelle di fratello Francesco – del Duecento – che la guerra non è solo crudele. E’ inutile e stupida. Quello che sta ogni giorno dicendo Francesco, il Papa di oggi. Ascoltato da pacifisti, uomini e donne, quegli ingenui – ma dove vivono? – e da femministe. Ben diverso da Papi del passato, alcuni anche in armi, e da varie chiese, che benedivano armi amiche. Got Mit Uns. La riedizione di un Olimpo patriarcale, un Dio per ogni diverso esercito.
L’unico modo per spiegare la guerra, la vergogna umana per eccellenza, è porsi al di fuori, farsi, almeno per qualche istante, apolidi, guardare la terra dalla luna. Non è un caso, forse, se spesso le donne strane sono definite lunatiche. Virginia Woolf, lunatica, vide le divisioni all’interno dei movimenti pacifisti del suo tempo, e ne fu addolorata. Senza dimenticare che lei stessa fu vittima di guerra. Vedendo, da lontano, i bombardamenti sulla sua amata Londra, decise che al mondo non voleva più starci. E se ne andò.
Sia chiaro. Le donne non sono nate pacifiche e i maschi bellicosi. La spiegazione è nella storia, nella cultura. Disperazione e speranza. Speranza che non avremmo, se fosse faccenda di natura. Se i maschi fossero bellicosi per natura, nulla di buono vedremmo, come possibilità, davanti a noi. Le donne sono pacifiche per natura? Ci sono state regine, all’interno di una cultura patrircale pienamente accolta, che hanno esercitato il potere con guerre – anche donne capo di stato recenti – e, stando ai giorni nostri, vediamo donne che scelgono il mestiere delle armi, un esito della emancipazione che ben poco mi piace. In Irak abbiamo visto donne che partecipavano a torture per umiliare il nemico sconfitto. Arduo spiegare a un eventuale abitante della luna perché gli irakeni fossero nemici di nate e nati in Usa. Lessi, poi, che una di loro era, in quel momento, incinta. Naturale? Quando furono aperte alle donne le porte degli eserciti, non molto tempo fa, pensai che ogni porta chiusa viene prima o poi aperta. Ma cosa sperai? Che le donne dicessero, no, grazie. E invitassero i maschi a fare altrettanto.
Rientro lentamente – in quanto lunatica -, e con fatica, nel mondo comune.
Le stesse analisi di Virginia Woolf le ho trovate in un libro recente di Giorgia Serughetti Il vento conservatore. La destra populista all’attacco della democrazia, uscito prima della guerra. Giorgia Serughetti indica le stesse connessioni: Dio, Patria, Famiglia, da Trump a Putin, passando per Salvini. Una vasta geopolitica. Tutta destra populista, una internazionale di destra, una ferita per me che ho alle spalle una gioventù dove l’internazionalismo era sicuramente di sinistra. O, almeno, così sentivo. La stessa analisi di Virginia in Le Tre Ghinee. La sacra alleanza, fra Putin e Kirill, il patriarca di tutte le Russie. Trono e altare. Vecchia storia. Nostalgia dell’Impero che fu, da riprendere, costi quel che costi. Femmine al loro posto e maschi al loro superiore posto. Minoranze sessuali? Che orrore! Ma c’è una matassa ancora più difficile da districare. Trump disse che non voleva più occuparsi delle disgrazie degli altri popoli. Biden, nello spazio di un mattino si ritira dall’Afganistan. Io, lunare, pensai. Cha abbiano capito che le guerre è inutile farle? Che sia diventato più saggio di Putin, che bombarda in Siria? La democrazia liberale fa un passo in avanti? Invece, cosa scopro, in questi giorni? Che l’Ucraina, martoriata, è stata riempita da tempo di armi occidentali, tantissime, e di ogni tipo. Perché? Che la Cia opera da tempo in Ucraina. Perché? Non ricordo chi, nel passato, disse. L’Orso russo è difficile da stanare dalla sua tana. Ma quando ne è uscito, ancora più difficile è farlo rientrare. Allora chiedo ai grandi esperti di mondo e di guerre. Siete impreparati, non fate bene il vostro mestiere, o vi piace proprio il mestiere della guerra? L’orso lo avete voluto stanare? E l’orso si è fatto stanare e intrappolare? Tutti molto bravi, non c’è che dire, i professionisti del potere e della guerra. Non dico della politica. Perché qui dall’alto, sulla Luna, dove mi trovo, non vedo la politica. Chissà dove si è nascosta. Così come vedo un’Europa che si restringe sempre più, come un tessuto lavato a temperature troppo altre, brucianti.
Io, lunare, pensavo che era la cultura dei diritti umani – la parte migliore della storia europea – che l’Est post sovietico voleva, non le armi e i servizi segreti occidentali. Di nuovo ha ragione Virginia. Se si resta dentro lo stesso schema non di gioco, ma di guerra, le dinamiche sono sempre le stesse. In Occidente, in Oriente, nelle democrazie liberali, nei regimi ancora comunisti (quali?) e post comunisti. Vanno inventate nuove idee, nuove parole, nuovi metodi. Che non trovo né nei filo Putin né nei filo Zelenski. Né a Ovest, né a Est.
Sono equidistante? No, sono sulla Luna.
Femministe, donne e uomini pacifisti hanno manifestato, correndo grande pericolo, contro la guerra, a Pietroburgo, a Mosca. Giorgia Serughetti ha recentemente ricordato le attiviste russe della Feminist anti-war resistans. Generazioni, generi e culture plurali, inedite, si affacciano all’orizzonte. Qui mi ritrovo non più lunare. In un mondo che ancora non c’è.
—————————-
85823817-ca10-452d-8da4-634b5feae8f6
Manifesto Russell-Einstein
Nel 1955 il filosofo-matematico Bertrand Russell e lo scienziato Albert Einstein si fanno promotori di una importante dichiarazione in favore del disarmo nucleare e della scelta pacifista per l’umanità, sottoscritta da scienziati e intellettuali di prestigio.
————-
Nella tragica situazione che l’umanità si trova ad affrontare, riteniamo che gli scienziati debbano riunirsi per valutare i pericoli sorti come conseguenza dello sviluppo delle armi di distruzione di massa e per discutere una risoluzione nello spirito del documento che segue.
Non parliamo, in questa occasione, come appartenenti a questa o a quella nazione, continente o credo, bensì come esseri umani, membri del genere umano, la cui stessa sopravvivenza è ora in pericolo. Il mondo è pieno di conflitti, e su tutti i conflitti domina la titanica lotta tra comunismo
e anticomunismo. Chiunque sia dotato di una coscienza politica avrà maturato una posizione a riguardo. Tuttavia noi vi chiediamo, se vi riesce, di mettere da parte le vostre opinioni e di ragionare semplicemente in quanto membri di una specie biologica la cui evoluzione è stata sorprendente e la cui scomparsa nessuno di noi può desiderare.
Tenteremo di non utilizzare parole che facciano appello soltanto a una categoria di persone e non ad altre. Gli uomini sono tutti in pericolo, e solo se tale pericolo viene compreso vi è speranza che, tutti insieme, lo si possa scongiurare.
Dobbiamo imparare a pensare in modo nuovo. Dobbiamo imparare a domandarci non già quali misure adottare affinché il gruppo che preferiamo possa conseguire una vittoria militare, poiché tali misure ormai non sono più contemplabili; la domanda che dobbiamo porci è: “Quali misure occorre adottare per impedire un conflitto armato il cui esito sarebbe catastrofico per tutti?”
La gente comune, così come molti uomini al potere, ancora non ha ben compreso quali potrebbero essere le conseguenze di una guerra combattuta con armi nucleari. Si ragiona ancora in termini di città distrutte. Si sa, per esempio, che le nuove bombe sono più potenti delle precedenti e che se una bomba atomica è riuscita a distruggere Hiroshima, una bomba all’idrogeno potrebbe distruggere grandi città come Londra, New York e Mosca.
È fuor di dubbio che in una guerra con bombe all’idrogeno verrebbero distrutte grandi città. Ma questa non sarebbe che una delle tante catastrofi che ci troveremmo a fronteggiare, e nemmeno
la peggiore. Se le popolazioni di Londra, New York e Mosca venissero sterminate, nel giro di alcuni secoli il mondo potrebbe comunque riuscire a riprendersi dal colpo. Tuttavia ora sappiamo, soprat- tutto dopo l’esperimento di Bikini, che le bombe atomiche possono portare gradatamente alla distruzione di zone molto più vaste di quanto si fosse creduto.
Fonti autorevoli hanno dichiarato che oggi è possibile costruire una bomba 2500 volte più potente di quella che distrusse Hiroshima. Se fatta esplodere a terra o in mare, tale bomba disperde nell’atmosfera particelle radioattive che poi ridiscendono gradualmente sulla superficie sotto forma di pioggia o pulviscolo letale. È stato questo pulviscolo a contaminare i pescatori giapponesi e il loro pescato.
Nessuno sa con esattezza quanto si possono diffondere le particelle radioattive, ma tutti gli esperti sono concordi nell’affermare che una guerra con bombe all’idrogeno avrebbe un’alta probabilità di portare alla distruzione della razza umana. Si teme che l’impiego di molte bombe all’idrogeno possa portare alla morte universale – morte che sarebbe immediata solo per una minoranza, mentre alla maggior parte degli uomini toccherebbe una lenta agonia dovuta a malattie e disfacimento.
In più occasioni eminenti uomini di scienza ed esperti di strategia militare hanno lanciato l’allarme. Nessuno di loro afferma che il peggio avverrà per certo. Ciò che dicono è che il peggio può accadere e che nessuno può escluderlo. Non ci risulta, per ora, che le opinioni degli esperti in questo campo dipendano in alcuna misura dal loro orientamento politico e dai loro preconcetti. Dipendono, a quanto emerso dalle nostre ricerche, dalla misura delle loro competenze. E abbiamo riscontrato che i più esperti sono anche i più pessimisti.
Questo dunque è il problema che vi poniamo, un problema grave, terrificante, da cui non si può sfuggire: metteremo fine al genere umano, o l’umanità saprà rinunciare alla guerra? È una scelta con la quale la gente non vuole confrontarsi, poiché abolire la guerra è oltremodo difficile.
Abolire la guerra richiede sgradite limitazioni alla sovranità nazionale. Ma forse ciò che maggior- mente ci impedisce di comprendere pienamente la situazione è che la parola “umanità” suona vaga e astratta. Gli individui faticano a immaginare che a essere in pericolo sono loro stessi, i loro figli e nipoti e non solo una generica umanità. Faticano a comprendere che per essi stessi e per i loro cari esiste il pericolo immediato di una mortale agonia. E così credono che le guerre potranno continuare a esserci, a patto che vengano vietate le armi moderne.
Ma non è che un’illusione. Gli accordi conclusi in tempo di pace di non utilizzare bombe all’idrogeno non verrebbero più considerati vincolanti in tempo di guerra. Con lo scoppio di un conflitto armato entrambe le parti si metterebbero a fabbricare bombe all’idrogeno, poiché se una parte costruisse bombe e l’altra no, la parte che ha fabbricato le bombe risulterebbe inevitabilmente vittoriosa. Tuttavia, anche se un accordo alla rinuncia all’armamento nucleare nel quadro di una generale riduzione degli armamenti non costituirebbe la soluzione definitiva del problema, avrebbe nondimeno una sua utilità. In primo luogo, ogni accordo tra Oriente e Occidente è comunque positivo poiché contribuisce a diminuire la tensione internazionale. In secondo luogo, l’abolizione delle armi termonucleari, nel momento in cui ciascuna parte fosse convinta della buona fede dell’altra, diminuirebbe il timore di un attacco improvviso come quello di Pearl Harbour, timore che al momento genera in entrambe le parti uno stato di agitazione. Dunque un tale accordo andrebbe accolto con sollievo, quanto meno come un primo passo.
La maggior parte di noi non è neutrale, ma in quanto esseri umani dobbiamo tenere ben presente che affinché i contrasti tra Oriente e Occidente si risolvano in modo da dare una qualche soddisfa- zione a tutte le parti in causa, comunisti e anticomunisti, asiatici, europei e americani, bianchi e neri, tali contrasti non devono essere risolti mediante una guerra. È questo che vorremmo far capire, tanto all’Oriente quanto all’Occidente.
Ci attende, se lo vogliamo, un futuro di continuo progresso in termini di felicità, conoscenza e saggezza. Vogliamo invece scegliere la morte solo perché non siamo capaci di dimenticare le nostre contese? Ci appelliamo, in quanto esseri umani, ad altri esseri umani: ricordate la vostra umanità, e dimenticate il resto. Se ci riuscirete, si aprirà la strada verso un nuovo Paradiso; altrimenti, vi troverete davanti al rischio di un’estinzione totale.
Invitiamo questo congresso, e per suo tramite gli scienziati di tutto il mondo e la gente comune, a sottoscrivere la seguente mozione:
In considerazione del fatto che in una futura guerra mondiale verrebbero certamente impiegate armi nucleari e che tali armi sono una minaccia alla sopravvivenza del genere umano, ci appelliamo con forza a tutti i governi del mondo affinché prendano atto e riconoscano pubblicamente che i loro obbiettivi non possono essere perseguiti mediante una guerra mondiale e di conseguenza li invitiamo a trovare mezzi pacifici per la risoluzione di tutte le loro controversie.
Albert Einstein Bertrand Russell
Max Born
(Premio Nobel per la fisica)
Percy W. Bridgman
(Premio Nobel per la fisica)
Leopold Infeld
(Professore di fisica teorica)
Frédéric Joliot-Curie
(Premio Nobel per la chimica)
Herman J. Muller
(Premio Nobel per la fisiologia e medicina)
Linus Pauling
(Premio Nobel per la chimica)
Cecil F. Powell
(Premio Nobel per la fisica)
Józef Rotblat (Professore di fisica)
Hideki Yukawa
(Premio Nobel per la fisica)

Trad. it. di Aurelia Martelli
—————

One Response to È possibile ripudiare la guerra? Solo una bella utopia?

  1. admin scrive:

    Il fisico Rovelli: «Addio alle armi, gli scienziati sanno come si fa». Intervista a Carlo Rovelli a cura di Luca Attanasio, in “Domani” del 24 aprile 22.

    Carlo Rovelli, 66 anni tra qualche giorno, ha un curriculum che esaurirebbe l’intero articolo. Ha insegnato a Roma, a Pittsburgh (Usa) e in Canada. È uno dei fisici più noti al mondo, ha fondato il Quantum Gravity Group e oggi si occupa principalmente della teoria della gravità quantistica a loop. Tre anni fa è stato inserito nella lista dei cento migliori pensatori del pianeta dalla rivista Foreign Policy. Rovelli può essere considerato un intellettuale a tutto tondo visti anche i suoi studi e scritti di storia, di filosofia e sul pensiero scientifico. Il suo best seller Sette brevi lezioni di fisica (Adelphi, 2014) ha avvicinato migliaia di lettori comuni ai segreti più estremi della scienza. La sua fama si lega anche all’antico impegno civile per la pace e la distensione globale. Pochi sanno che nel 1983, dopo che gli fu respinta la domanda di obiezione di coscienza, rifiutò di presentarsi alla visita di leva e fu arrestato per qualche giorno. Lo scorso dicembre, quando il tema della guerra non aveva ancora la drammatica attualità di oggi, ha raccolto la firma di 50 premi Nobel (prevalentemente scienziati) intorno all’appello a tutti i governi del mondo perché riducessero le spese militari del due per cento ogni anno, intitolato Una semplice concreta proposta per l’umanità: un discorso fondato sulle ragioni scientifiche ed economiche, prima che morali, del disarmo.

    Professore, lei è un fisico teorico, parla e dimostra con la facilità del grande scienziato fenomeni inspiegabili come il tempo che scorre in modo diverso a seconda dello spazio. È quindi a suo agio con ciò che è apparentemente inspiegabile e inconcepibile. Partiamo da qui: è possibile secondo lei parlare di disarmo totale?
    «Ci si può arrivare in modo graduale e potrebbe essere un obiettivo realistico. Se pensiamo all’Italia, vediamo che ogni città ha mura erette per difendersi da una città vicina pronta a invadere e muovere guerra. Questo fenomeno, fino a secoli fa diffusissimo, si è completamente esaurito e ora Verona e Padova, tanto per fare un esempio della mia terra di origine, non si guardano più in cagnesco, così come Francia e Germania e altri vicini, nemici acerrimi una volta, hanno gradualmente imparato a convivere senza eserciti schierati. È un lento processo di apprendimento ma è necessario avere come obiettivo la grande idea del filosofo Immmanuel Kant: il mondo imparerà su grande scala. Al momento può sembrare utopico. Ma se pensiamo il processo a lunghissimo termine ed entriamo nello spirito di collaborazione globale, non vedo perché non possiamo immaginare una cosa del genere. Forse non sarà un disarmo totale, magari ci saranno piccole forze di polizia che gestiranno piccoli eventi. È un sogno? Sì, ma ha alla base una concezione fortemente razionale».

    In effetti sappiamo che qualcosa di simile è accaduto con il trattato Intermediate-Range Nuclear Forces tra Usa e Urss, siglato nel 1987 da Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov. Il suo concetto, quindi, è puntare sulla collaborazione piuttosto che sul confronto?
    «Esattamente. Detto così può sembrare semplicistico, ma c’è qualcosa di profondo in questo ragionamento. Tutto ciò di cui possiamo godere oggi è frutto di collaborazione tra uomini e tra popoli diversi. Non è che tradiamo i valori dell’occidente se riconosciamo ideologie o approcci diversi. Noi, al contrario, tradiremmo illuminismo, cristianesimo e valori europei se non acccettassimo che possiamo essere diversi. L’esasperazione del confronto porta sempre a polarizzazioni. Leggevo proprio qualche giorno fa sul New York Times che il sostegno dei russi a Vladimir Putin prima della guerra si aggirava attorno al 60 per cento mentre adesso è salito all’85 per cento».

    Frutto di una propaganda fuori controllo?
    «Le perplessità di una parte della popolazione sul senso di fare una guerra sono diminuite. Le tv russe parlano di quanto è aggressivo l’Occidente, di quanto sia pericoloso per la popolazione e stia crescendo un fortissimo senso di gruppo “contro”. Questa polarizzazione avviene anche da noi, ovviamente rafforzata dagli orrori reali compiuti dai russi. Insistere su questo è molto dannoso. Io credo che bisogna ripartire dall’idea che anche la politica internazionale debba essere di collaborazione e non di contrapposizione, che dobbiamo uscire dal loop “Oh mio Dio qualcuno può diventare più forte di me, allora devo rafforzarmi, aumentare le spese militari e ritornare a una posizione di forza”. Invece di soffiare sulla retorica “gli altri sono i cattivi, noi i buoni”, parliamoci anziché armarci».

    Quante volte le avranno detto: “Ma cosa c’entra un fisico con il disarmo? Perché non si occupa di fisica e lascia parlare di guerra e armi chi se ne intende?”. Lei come rivendica il ruolo dello scienziato su questi temi?
    «Prima di tutto mi lasci dire che gli scienziati sono intellettuali, cioè persone che vengono pagate non tanto per risolvere un problema tecnico specifico quanto per pensare. La filosofia è il mestiere di uno scienziato degno di questo nome. La tradizione del pensiero critico in Europa, nell’area del Mediterraneo, in Cina e in Oriente vanta secoli di storia. La figura dell’intellettuale pagato perché esprima un suo parere è decisiva, imprescindibile nelle società democratiche. In ogni caso, se ripensiamo alla storia del pensiero di opposizione agli armamenti e al confronto bellico, dobbiamo risalire al prototipo degli scienziati, Albert Einstein. Fu lui nel 1955, in piena Guerra fredda e corsa al riarmo nucleare, a promuovere assieme al filosofo-matematico Bertrand Russell la dichiarazione sul disarmo che porta i loro due nomi. Un documento storico, di chiaro stampo pacifista, che fu sottoscritto da scienziati e intellettuali di grandissimo profilo».

    Un passaggio fondamentale recita: «Nella tragica situazione che l’umanità si trova ad affrontare riteniamo che gli scienziati debbano riunirsi per valutare i pericoli sorti come conseguenza dello sviluppo delle armi di distruzione di massa e per discutere una soluzione».
    «Sono parole semplici che possono essere riassunte in un disperato appello: “Ma ci siamo tutti rincretiniti? Vogliamo davvero rituffarci in una guerra? Sarebbe qualcosa di cui ci pentiremmo tutti”. È ragionevole, immagino, ancora oggi trovare qualcuno che mi dica “occupati delle tue cose”. M è proprio di queste cose che si occupavano Einstein e i più grandi scienziati dell’epoca e di cui oggi voglio occuparmi io. Perché gli scienziati non hanno mai smesso di farlo».

    In quale modo lo hanno fatto?
    «Il disarmo nucleare tra Urss e Usa siglato con il Trattato Intermediate-Range Nuclear Forces che lei ha citato prima, poi completato con gli accordi Start, è nato grazie a un grandissimo impegno di fisici americani, russi ed europei che si incontravano in piena Guerra fredda e, da scienziati, affrontavano il problema del rischio di annientamento del genere umano. È un percorso lungo, nato subito dopo la seconda guerra mondiale, passato per la Conferenza di Pungwash sulla Scienza e gli Affari mondiali (l’organizzazione che nacque nel 1957 per dare impulso alla Dichiarazione Einstein-Russell, ndr) e poi continuato fino al nostro appello di dicembre scorso. La scienza, la fisica in modo particolare, hanno dato un continuo contributo al ragionamento sul destino del genere umano».

    Ma oggi non è utopistico pensare a un dialogo del genere tra gli scienziati dei paesi Nato e i loro colleghi russi?
    «Già, molti pensano che sia impossibile trattare proprio oggi, ma quanto deve essere stato difficile per scienziati russi e americani incontrarsi quando da una parte si diceva che i sovietici mangiavano i bambini e dall’altra che l’occidente è il regno dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo? Dagli intellettuali che si parlano può nascere un’idea. Pensare e parlare, questa è la via, non possiamo solo limitarci all’invio di armi. La mia impressione è che le guerre si combattano per interposta nazione, si arma l’Ucraina per indebolire Putin come l’Unione Sovietica armava il Vietnam per fiaccare l’America. Sta aumentando il clima di confronto come fosse uno scontro di civiltà: guardiamo la Cina, il fatto che mezzo miliardo di cinesi siano usciti dalla povertà è una bellissima notizia per il mondo, per noi, invece, la loro crescita è percepita come una minaccia».

    Tutte le statistiche economiche dimostrano che l’industria bellica non porta ricchezza né occupazione. Non è, per usare un termine caro al ministro della Difesa Lorenzo Guerini, un investimento. Perché allora c’è questo affanno a produrre e vendere armi, in tutto il mondo e anche nel nostro Paese?
    «Le armi servono innanzitutto a chi le produce. E circolano per l’enorme quantità di benefici che la politica trae dall’industria. È chiaro che l’industria bellica non è produttiva e che i numeri relativi al riflesso sull’economia sono risibili. Questo anche per la natura stessa della produzione bellica. L’industria alimentare o quella dei mezzi di trasporto, tanto per fare esempi, oltre a procurare posti di lavoro forniscono beni di consumo di cui la gente non può fare a meno. Le armi non le mangia nessuno, quale teoria economica potrebbe sostenere l’idea che un oggetto contenga o porti un vantaggio economico se è fatto per distruggere? Il punto, poi, è che non si tratta di un’industria civile e non fa quindi parte del vero mercato, non soggiace alle sue leggi e sostanzialmente non è soggetta alla concorrenza quindi i prezzi sono enormi rispetto ai costi reali. Per di più i soldi investiti sono pubblici oltre che tanti. Siamo noi a pagare gli aerei militari il doppio del costo di produzione, ad esempio. L’industria militare produce un sacco di soldi che però restano all’interno di un cerchio limitato alla politica e alla stampa».

    Anche alla stampa?
    «Certo, e le spiego perché. L’industria militare ha un legame diretto con la politica. Le faccio l’esempio degli Usa. C’è stata una richiesta di aumento del budget militare da parte del Pentagono, il ministero della Difesa americano. Bene, a questa richiesta ha fatto seguito una richiesta ben maggiore da parte del Congresso. Cioè, in pratica i parlamentari ritengono che la richiesta del Pentagono sia troppo bassa e finiscono per sostituirsi a chi è direttamente preposto a gestire le spese. Ma poi c’è un enorme e ingiustificato surplus di spese, una iperproduzione di cui non c’è reale bisogno e che risponde ad altre logiche. I soldi, le ripeto, se li spartiscono industria, politica e media e su questo ultimo attore le posso dire con certezza che è molto difficile parlare e scrivere qualcosa contro l’industria militare».

    Ci parli del vostro appello per la riduzione delle spese militari. Si tratta di una proposta tanto efficace quanto semplice, ma nonostante provenisse da 50 premi Nobel e autorevoli scienziati ha avuto poco risalto. È stata banalizzata?
    «Bene, in effetti l’idea è molto semplice. In questo momento l’umanità deve affrontare con urgenza problemi globali molto seri: il clima, le pandemie, la povertà estrema. Sappiamo tutti cosa bisognerebbe fare ma non riusciamo a farlo perché costa troppo. Come troviamo i soldi? La parola chiave è sempre la stessa: collaborando. Mettiamoci tutti d’accordo e diminuiamo in modo equilibrato e comune del 2 per cento all’anno per cinque anni le spese militari in modo che nessuno ci guadagna e nessuno ci perde. La piccola percentuale risparmiata libererebbe energie enormi per affrontare i problemi dolorosi che gravano sull’umanità, pensiamo a mille miliardi di dollari. A ciascuno dei governi noi proponiamo: non diminuire le spese unilateralmente, ma mettiti d’accordo per farlo collettivamente».

    Si potrebbe obiettare che una misura del genere colpirebbe anche economia e posti di lavoro.
    «Non è così. Mi preme sottolineare che non stiamo chiedendo di ridurre il turismo, una delle industrie più produttive in Italia, ma le armi che non hanno incidenza sul Pil, producono pochissima occupazione e non si può certo dire che abbiano un impatto positivo sulla popolazione. L’accoglienza è stata buona in alcuni paesi come l’Italia, pessima in altri, sono rimasto molto colpito del rifiuto di parlarne di alcuni media americani come il New York Times. Purtroppo, mentre l’appello stava guadagnando un po’ di scena, è scoppiata la guerra in Ucraina e la proposta ha perso impeto. La politica però è lenta, ha i suoi tempi. In Italia alcuni politici mi hanno detto che non porta voti, ma si sbagliano, il paese profondo è vicino a queste istanze e guarda a loro con interesse. Il fatto che il parlamento voti a stragrande maggioranza l’invio di armi all’Ucraina va anche contro i sondaggi».

    La sua, e anche la mia, scrittrice preferita è Elsa Morante, proprio per come racconta la guerra in libri come La Storia. Fosse con noi oggi, cosa direbbe?
    «Il sottotitolo di quel meraviglioso libro definisce la guerra “Uno scandalo che dura da diecimila anni”. Io penso che la Morante ha avuto la capacità straordinaria di vedere la guerra non con gli occhi del nemico ma ma con quelli dei singoli che soffrono, impigliati in una trappola più grande di loro. Al di là delle retoriche belliche, dell’odio, c’è l’umanità e in quel libro si capisce molto bene che la guerra genera sofferenza per tutti. Usciamo da questa follia che dura da 10 mila anni. Io aggiungerei “solo” da 10 mila anni, perché è possibile che prima non fosse stata inventata ancora. Ci sono tante cose da cui siamo riusciti a guarire, come la schiavitù e i sacrifici umani. Possiamo guarire anche dalla guerra».

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>