Vai avanti Renzino

Aladin robber barons

di Raffaele Deidda *

Parafrasando un modo di dire, il CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro) è vivo e produce (poco). Perciò il governo Renzi ha deciso di eliminarlo e il senato ha approvato l’art. 27 della riforma costituzionale che ne prevede l’abolizione. Il Cnel costa 20 milioni di euro l’anno pur avendo una produttività scarsa. Come organo di consulenza del governo e del parlamento, in 56 anni ha prodotto 14 disegni di legge e 96 pareri.

E’ composto da 64 consiglieri: 10 della cultura economica, sociale e giuridica; 48 delle categorie produttive; 6 delle associazioni di promozione sociale e delle organizzazioni del volontariato. Nelle more degli atti formali per l’abolizione, insieme ad una lunga lista di “enti inutili” e costosi, il Cnel ha pubblicato il Rapporto sul mercato del lavoro 2013-2014, che ha raggelato le pur tiepide aspettative conseguenti alle previsioni di Matteo Renzi, che nel mese di marzo aveva indicato la disoccupazione sotto il 10% entro il 2018, attraverso lo Jobs Act, che ha spaccato il Pd e determinato le reazioni delle Organizzazioni Sindacali.

Per il Cnel è impossibile tornare ai livelli occupazionali precedenti la crisi iniziata nel 2007. Perché il tasso di disoccupazione scenda del 7% occorrerebbe creare da qui al 2020 due milioni di posti di lavoro. Impensabile se si pensa che dal 2007 l’Italia ne ha perso circa un milione. Cinquecentomila in meno di quelli che Berlusconi aveva promesso col Contratto con gli italiani, firmato a “Porta a Porta”. Nella migliore delle ipotesi, per il Cnel, il nostro mercato del lavoro “potrebbe iniziare a beneficiare di un contesto congiunturale meno sfavorevole non prima dell’inizio del 2015”. Quindi, solo meno sfavorevole.

Altro che positività del Jobs Act e abolizione dell’art.18 dello Statuto del Lavoratori, che secondo la concezione confindustriale, sposata da Renzi e dalla maggioranza, penalizzerebbe l’economia e frenerebbe l’occupazione. Come se le preoccupazioni delle imprese non fossero la pressione fiscale, l’inadeguatezza delle infrastrutture, la criminalità organizzata, l’insostenibile burocrazia. Ciò che penalizza l’economia, e l’occupazione, è stato individuato dal consigliere Cnel Tiziano Treu nel cuneo fiscale sul costo del lavoro: “I dati mostrano come nei confronti comparati l’handicap maggiore del nostro paese non riguardi il livello assoluto del costo del lavoro, ma il peso del cuneo fiscale e contributivo che è tra i più alti dell’area Ocse”.

Può essere davvero l’art.18 il fattore frenante dell’economia quando per il Cnel il potere d’acquisto dei salari è tornato ai valori della metà degli anni 2000? Dipende dall’art. 18 la caduta del Pil al Sud quasi il doppio di quella del centro-Nord e “la contrazione in termini di input di lavoro è di quasi 600mila occupati nelle regioni meridionali, e poco più di 400mila nel resto d’Italia”?

Anche senza possedere le competenze del Cnel, basta il buon senso per concludere che non dipende dall’art. 18. Eppure la Direzione Nazionale del Pd con 130 sì, 20 no e 11 astensioni, ha dato il via libera al segretario-premier per abolirlo. “Lavoratori e imprenditori sono insieme. I padroni lasciamoli nel secolo scorso. Destino comune” (sic!), ha twittato l’eurodeputato Renato Soru, per riassumere il senso del suo intervento alla Direzione nazionale sul Jobs Act che riassume la posizione della maggioranza renziana. Con tale viatico Renzi può stare sereno ed abolire quello che fino ad ieri definiva un falso problema.

Torna alla mente un aneddoto. Anni ’80, riunione al Cnel nella sede di Villa Lubin. Un dirigente sindacale arriva in ritardo, tutti i posti sono occupati. Si guarda attorno e vede un’elegante poltrona in prima fila, stranamente vuota. Ha davanti un cordolo, lo sposta e si siede. Si accosta un usciere che gli sussurra “Signore, questa é la sedia di Quintino Sella” ed il sindacalista replica “Va bene, appena arriva mi alzo”. Se ne ricava che quel sindacalista non era forse il più adeguato a far parte del Cnel. Siamo sicuri che Renzi, i suoi ministri, la sua maggioranza siano i più adeguati a governare l’Italia?
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* By sardegnasoprattutto/ 2 ottobre 2014/ Società & Politica
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ape-innovativaStudenti universitari fuori corso: le ragioni per contrastare le politiche di chi li vuole uccidere
Dal blog Valorest di Aladinews del 28 Settembre 2011
UN INTERVENTO DATATO (24 aprile 2008) MA TUTTORA VALIDO. DA SEGNALARE L’ARRETRAMENTO DELL’UNIVERSITA’ DI CAGLIARI CHE HA DECISO DI FAR FUORI I FUORI CORSO SEMPLICEMENTE ABOLENDOLI PER REGOLAMENTO
di Franco Meloni
(…) In questo periodo in cui l’innovazione e la creatività hanno molta udienza si potrebbe dire che all’Università serve un po’ di pensiero laterale che ormai è sinonimo di pensiero creativo. A volte si tratta di leggere i fenomeni con prospettive diverse. Un teorico del pensiero creativo, il professor Edward De Bono, al riguardo ha lanciato una metodologia originale:
la teoria dei sei cappelli di diverso colore. A seconda del colore del cappello che si indossa occorre orientare forzatamente il pensiero rispetto al significato attribuito al colore del cappello medesimo. Per farla breve, solo alcune esemplificazioni: indossando il cappello nero si orienterà il pensiero al pessimismo; indossando il cappello rosso si orienterà il pensiero in modo passionale; indossando il cappello verde si orienterà il pensiero alla prospettiva ottimistica, e così via. Per fare una rapida e superficiale applicazione a una questione universitaria, pensiamo al fenomeno dei fuori corso che appare drammatico per l’Università italiana. Bene, in parte lo è, esattamente per la parte che rappresenta le difficoltà di percorso dei giovani studenti. Certo non lo è per quanto riguarda gli studenti maturi, quelli cioè che si iscrivono all’Università per fare carriera negli impieghi, per gli adulti che vogliono cambiare o riqualificare una professione, per quanti si iscrivono all’università solo nella ricerca di stimoli culturali e nuove conoscenze, e così via. E allora, indossando un cappello di colore diverso dal nero, non si potrebbe ammettere che in certa parte, non so quanta, ma certamente rilevante, i fuori corso sono una risorsa? Fenomeno quindi da trattare in modo differenziato, distinguendo i problemi degli studenti normali, che devono fare l’Università entro gli anni canonici, da quelli degli studenti maturi, i quali vanno tolti dalle statistiche della produttività degli atenei, anche per non influire sul determinazione dell’importo dei fondi statali del Fondo di finanziamento ordinario (FFO) che lo Stato trasferisce annualmente agli stessi atenei. I lavoratori studenti vanno curati in modo diverso e particolare rispetto agli studenti normali. Sicuramente la questione è di competenza in prevalenza di altre istituzioni rispetto all’Università. Sono infatti lo Stato e le regioni che devono intervenire se vogliono che le università facciano la loro parte: si tratta in massima parte di persone che possono pagare tasse congrue, ma che hanno diverse esigenze per poter completare il ciclo di studi in tempi ragionevoli. Hanno bisogno di tutor, di aule aperte in orari serali e notturni, di modalità fad ed e-learning di erogazione della didattica… tutte cose che hanno costi che le università non possono affrontare con le sole tasse di iscrizione e che invece dovrebbe affrontare l’amministrazione pubblica, considerato che la questione rientra pienamente negli obiettivi dello Stato, delle Regione e,ovviamente, dell’Unione europea (obiettivi di Lisbona), e pertanto sono costi che possono essere in gran parte riconosciuti sui programmi europei Long life learning (fondi strutturali e programmi dedicati).
Di quali strumenti deve disporre l’Università per rispondere a questa esigenza? Una risposta la sta già dando ad esempio la nostra università con il Centro d’ateneo per la formazione permanente Unica.for. Una risposta in termini di struttura dotata di maggiore autonomia può essere la costituzione di apposite fondazioni universitarie, strumenti operativi delle università pubbliche.
Dunque come continuare? Premesso che occorre affinare gli strumenti di ascolto delle esigenze delle persone e delle organizzazioni, dobbiamo avere la capacità di utilizzare in maggior misura le risorse pubbliche, soprattutto quelle messe a disposizione dall’Unione europea per il tramite delle regioni. Si tratta in prevalenza di risorse del Fondo sociale europeo, ma non solo. Eccovi un dato: la Sardegna nella programmazione 2007-2013 dispone per gli interventi del Fondo sociale europeo, cioè interventi per il capitale umano, di oltre 791 milioni di euro, messi a disposizione dall’Unione europea, dallo Stato e dalla Regione Sarda, alle quali si aggiungono altre opportunità, anche di diretta assegnazione comunitaria.(…)

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