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Editoriali
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Sa Die de Sa Sardinia – La celebrazione in Consiglio regionale
[Dal sito web della RAS] Cagliari, 28 aprile 2024 – La presidente della Regione Alessandra Todde ha partecipato oggi, in Consiglio regionale, alle celebrazioni della Sa Die de sa Sardigna.
Di seguito la traccia del suo intervento.Presidente Comandini, consigliere e consiglieri, ragazzi e ragazze, noi sardi abbiamo diritto a festeggiare noi stessi e la nostra storia. Ed è con emozione che prendo la parola per celebrare con voi “Sa Die de sa Sardigna”. Per troppo tempo ci siamo raccontati che di storia non ne avevamo, dando per buono che il nostro passato fosse solo un susseguirsi di dominazioni, un vuoto di vera storia, quella con la S maiuscola, quella prodotta da soggetti attivi che lottano, creano, sognano. Oggi siamo qui a ricordare a noi stessi, e a chiunque ami questa terra, che abbiamo avuto una storia nostra, imbevuta di mondo, intessuta di grandi aspirazioni, certo complicata da cadute ma anche ricca di momenti alti. Siamo un popolo che ha affrontato contraddizioni ma anche depositario di grandi potenzialità che ancora dobbiamo dispiegare totalmente. Conoscendo questa storia, condividendola, meditandola, traducendola giorno dopo giorno noi costruiamo gli strumenti per alimentare il nostro desiderio di unità, libertà e prosperità. Per questo dobbiamo festeggiarci senza incensarci: Sa Die non è e non deve essere un giorno di parole roboanti a compensazione degli altri 364 giorni dell’anno. Sa Die non è e non deve essere una sbornia di fierezza o di rivalsa che ci esime dal fare i conti con la nostra coscienza e la nostra azione politica ogni giorno dell’anno. Sa Die non è il fine ma è un impegno. L’impegno a conoscerci, a fare i conti con noi stessi. Per migliorarci, per agire in modo differente. L’autodeterminazione, lo abbiamo detto, cammina sulle spalle di un popolo istruito. Un popolo consapevole di sé. La nostra coscienza nazionale di sardi è un compito, e Sa Die è l’occasione per assumere l’impegno a svolgere questo compito con slancio rinnovato, costante, convinto, chiamando alla partecipazione ogni donna e uomo di Sardegna. A maggior ragione lo dico parlando a voi giovani, che siete i costruttori del presente e del prossimo futuro.
Il nostro patto generazionale si è rotto e possiamo ricostruirlo attraverso la conoscenza della nostra storia che ci aiuti a creare una nuova comune coscienza collettiva. Sa Die non è un giorno solitario: non lo fu allora e non deve esserlo oggi. Gli eventi che commemoriamo non iniziarono e non finirono in quel 28 Aprile 1794. Quella giornata di sollevazione – che la parte più timorosa della classe dirigente immediatamente bollò come “emozione popolare” – affondava le sue radici alla metà del Settecento, nella riscoperta da parte dei sardi della loro diversità nazionale, così come nella crescente consapevolezza popolare di una condizione di ingiustizia di cui il feudalesimo era il segno più appariscente. Questa corrente, alimentata carsicamente dalla nostra lunghissima storia di sovranità, testimoniata dal rifiorire della lingua sarda, si alimentava al contempo delle correnti di pensiero illuministe, riformiste, rivoluzionarie che attraversavano l’Europa. Per questo Sa Die fu più di una ribellione estemporanea. Per questo il suo culmine non è la cacciata temporanea della classe dirigente sabauda e la sua esemplarità non risiede nello spirito di rivendicazione che innerva le “cinque domande” che la classe dirigente sarda rivolse con ingenua fiducia al sovrano sabaudo. Sa Die ci parla di tempi costituenti. Tempi in cui un parlamento riprende vita, la virtù patriottica accende gli animi, le nostre comunità sperimentano patti federativi per liberarsi dal giogo feudale, una parte importante della classe dirigente sarda pone la felicità e la dignità della Nazione sarda come suo obbiettivo. “Un Regno non mai Colonia d’alcun altra Nazione, ma separato ed indipendente dalli Stati di Terraferma”, così si esprime il Parlamento sardo una volta autoconvocato nel 1793. “La Nazione Sarda contiene in sé stessa delle grandi risorse per potere sviluppare una grande forza coattiva, onde fare rispettare la sua costituzione politica”, così recita L’Achille della Sarda Liberazione, uno dei pamphlet simbolo del triennio rivoluzionario sardo. Non è questa l’occasione per discutere su come e perché questo spirito si sia infranto, tanto da arrivare a noi offuscato se non completamente dimenticato. L’occasione odierna è piuttosto quella di guardarci nello specchio della storia e capire insieme se, proprio grazie a questa storia, possiamo fare di più e meglio per la nostra gente e la nostra terra. Se possiamo trovare in essa alimento per delle sfide enormi, come quelle di chi deve affrontare le molteplici crisi che sembrano condannare la Sardegna a un destino di spopolamento e spoliazione. Nel 1798, nel suo Essai sur la Sardaigne indirizzato da Parigi al Parlamento Sardo, il grande giurista sassarese Domenico Alberto Azuni scriveva: “Il mio unico scopo è ricordare alla Nazione lo studio dell’economia politica, e di stimolarla a mettere ogni cura nel commercio, nell’industria, nelle manifatture, nella navigazione. La posizione dell’isola al centro del Mediterraneo, tra i due grandi continenti d’Africa e d’Europa; la molteplicità delle sue produzioni, le cui considerevoli eccedenze possono essere annualmente esportate; la sicurezza dei suoi porti; la ricchezza dei suoi mari, dovrebbero renderla consapevole che essa è destinata dalla Natura ad avere un rango distinto fra le Nazioni commercianti dell’Universo”. Nel 1799, nel suo Memoriale scritto dall’esilio, il leader della Sarda Rivoluzione, Giovanni Maria Angioy, diceva: “Malgrado la cattiva amministrazione, l’insufficienza della popolazione e tutti gli intralci che ostacolano l’agricoltura, il commercio e l’industria, la Sardegna abbonda di tutto ciò che è necessario per il nutrimento e la sussistenza dei suoi abitanti. Se la Sardegna in uno stato di languore, senza governo, senza industria, dopo diversi secoli di disastri, possiede così grandi risorse, bisogna concludere che ben amministrata sarebbe uno degli stati più ricchi d’Europa”. Queste parole di fiducia forse suonano lontane. E ancor più lontano suona forse il loro presupposto: “testimoniare pubblicamente l’attaccamento alla patria”, contribuire alla “felicità della Nazione sarda”, fare della Sardegna uno Stato d’Europa. Il punto non è risolvere la distanza fra noi e quel passato in un giorno, tantomeno con un discorso. Il punto è non aver paura a ricordare queste parole e quello spirito, anche queste parole e quello spirito, per cui tanti sacrificarono la loro vita. Se avremo la forza di fare i conti, da domani, nel nostro concreto operare – come Governo, come Parlamento, come classe dirigente, come società sarda nella sua interezza -, con questo lascito, allora apriremo davvero una via, difficile ma necessaria, ad una diversità consapevole, effettiva, produttiva. In altre parole, mentre celebriamo, abbiamo l’occasione di domandarci se sia meglio proseguire con una storia di rivendicazione, in cui noi sardi chiediamo ad altri di farsi carico dei nostri problemi e delle loro soluzioni, o se non sia il caso di entrare in una fase di reale autodeterminazione, in cui plasmare una nuova politica sarda, in cui costruire con tutta la passione e l’intelligenza possibile delle istituzioni al pieno servizio dei sardi e della Sardegna. Il primo modo per cambiare la propria storia è raccontarla in modo diverso. È raccontarci in modo diverso. Anche a costo di mettere in discussione quegli stereotipi e quell’orgoglioso senso di identità che dietro un velo di confortante abitudinarietà nasconde la difficoltà a darsi valori alti e obbiettivi chiari. Motivi di unità. Motivi per avanzare. Da troppo tempo siamo intrappolati in un racconto che è “contro”. Un racconto in cui altri hanno il potere di decidere della nostra vita e a noi non rimane che ribellarci per rivendicare un trattamento meno opprimente. Ma questa non è la nostra storia. Non è l’unica che il nostro passato ci ha lasciato in eredità. Non è la migliore che possiamo raccontare a noi stessi e, soprattutto, ai nostri figli e alle nostre figlie. C’è una storia di autodeterminazione tutta da scrivere, tutta da fare. E allora quando cantiamo le strofe di ‘Su patriota sardu a sos feudatarios”, scritto da Francesco Ignazio Mannu nel 1795, durante i moti rivoluzionari e dal 2018 inno della Sardegna,
andiamo oltre la rivendicazione e sforziamoci di costruire, progettare, inventare ciò che vogliamo la nostra isola diventi.
Sa Die de Sa Sardigna è l’occasione per ricordarlo a noi stessi.
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[…] addirittura al di sopra del giudice! Nei loro confronti per il malcapitato debitore non c’è quel “giudice a Berlino“, che esisteva perfino per il mugnaio Bertold contro il potente imperatore Federico II di Prussia, […]
[…] L’epidemia del Covid-19, oltre ai problemi medici e di vita comune, fa sorgere sul fronte giuridico notevoli questioni, alcune delle quali fra le più acute cercheremo di delineare a caldo e sommariamente. Si tratta di questioni in continua evoluzione – dobbiamo qui tener conto della situazione esistente al 23 marzo – che, pur non prive di solidi riferimenti a nozioni giuridiche acquisite, sono in gran parte nuove e di fatto sembrano spesso affrontate più con aderenza alle necessità straordinarie del caso che non alla formale aderenza a quelle nozioni. Sappiamo di sfidare così, prima che i limiti dell’autore di queste note (…come di ogni altro, crediamo) le inadeguatezze e incertezze del diritto, soprattutto ma non solo di fronte a fatti così travolgenti. Possiamo annodare le questioni da affrontare attorno a due nuclei, seppur legati tra loro: il primo è quello dei diritti delle persone e delle loro limitazioni; il secondo è il problema organizzativo. Muoviamo qui da quest’ultimo, nonostante che esso abbia natura servente rispetto al primo. Esso, a un esame del sistema normativo messo in piedi per affrontare il caso, appare risolto in modo complessivamente soddisfacente, secondo linee adeguate alla forma di Stato propria del nostro ordinamento, smentendo, ci sembra, la condizione di un Paese… che in genere non possiede precisamente una vocazione all’organizzazione. Il perno dell’azione deliberata per la lotta contro il virus, in nome di quel diritto della persona alla tutela della salute che la Costituzione definisce come diritto “fondamentale”, è la fonte legislativa statale. Trattandosi nella presente situazione di un caso straordinario di necessità e di urgenza, è stato giustificatamente approvato dal Governo come atto fondamentale un decreto legge (n. 6 del 2020), che il Parlamento ha con non frequente senso di concordia convertito nella legge 5 marzo 2020, n. 13, seguito da altri analoghi provvedimenti. Questa fonte legislativa prevede (art. 1.2) un elenco di numerose e pregnanti misure restrittive di diritti fondamentali delle persone e di provvedimenti ad esse connessi, di applicazione nell’insieme doverosa pur lasciando aperta una discrezionalità applicativa, e autorizzandone come eventuali anche altre, individuate con la formula generale “ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica” (art.1.1 e art. 2), che definisce quelle non esplicitamente elencate come misure “ulteriori”. L’elencazione è sufficientemente precisa, ma costituisce base per atti governativi previsti a valle della legge, che consistono essenzialmente nell’adozione di decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (art. 3.1), che, come vedremo sono stati infatti abbondantemente emanati (fondamentale quello dell’11 marzo). E’ chiaro che il legislatore ha aderito all’idea che il carattere relativo che può avere la riserva di legge in relazione ad alcuni diritti fondamentali – tanto più quando, come quello alla salute, sono concepiti dalla Costituzione, anche in quanto interesse della collettività, come aventi un grado superiore rispetto ad altri – autorizza il complemento di provvedimenti governativi. E non si può negare – anche senza poter qui coinvolgere una competenza sanitaria che chi scrive non possiede – che i provvedimenti adottati dai numerosi DPCM finora emanati abbiano in generale una loro congruità. Ma qual è il fondamento, nello Stato fortemente regionalizzato che è il nostro, dell’assegnazione di un ruolo fondamentale alle norme statali, come evidentemente ha ritenuto il sistema adottato? Se lo chiede… quel giustificatamente scrupoloso pignolo che è il giurista, mentre il profano risolve la questione con naturalezza, ritenendo che le dimensioni del problema dell’attuale epidemia sono almeno di livello statale (e in realtà chiamerebbero in gioco, più di quanto non sia finora avvenuto, l’organizzazione europea e quel tanto che esiste di organizzazione mondiale). La Costituzione assegna la tutela della salute alla competenza concorrente di Stato e Regioni. Come pure è di tale natura la materia della protezione civile, che risulta ripetutamente invocata dalle norme adottate, nonostante che nel caso della salute siamo di fronte a un tipo di calamità diverse da quelle legate ai beni legati al territorio in quanto tale, normale oggetto di questa funzione, che ordinariamente le affronta sulla base, ora, del codice della protezione civile oggetto del d. lgsl. 2 gennaio 2018, n. 2. Entrambe le materie supporrebbero la determinazione da parte della legge statale dei principi fondamentali e l’applicazione dettagliata spetterebbe alla legge regionale. Qui ci troviamo invece davanti a una legge statale che domina il campo, avocandolo fondamentalmente allo Stato. Se cerchiamo una giustificazione giuridica di questo fatto, viene sotto gli occhi la chiamata in sussidiarietà elaborata dalla Corte costituzionale nella ricostruzione degli art. 117 e 118 Cost., perché sembra che siamo in presenza della generale necessità di assicurare “l’esercizio unitario “ di una funzione sollecitata da circostanze la cui dinamica travalica i confini dei territori e delle stesse prerogative regionali. Potrebbe anche invocarsi l’art. 120, che opera quando vi è un “pericolo grave per l’incolumità pubblica” o quando lo richiede la tutela del’unità giuridica dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. Anche se questo secondo tipo di intervento, lasciato al Governo, è assimilato a quelli sostitutivi nei confronti delle regioni considerate inadempienti, i due fondamenti dell’intervento statale convergono ed entrambi comportano la leale collaborazione tra Regione e Stato. E lo Stato la ha realizzata, per disposizione del’art. 3.1 del d.l. n°6, come convertito dalla legge n. 13, sentendo prima dell’emanazione dei decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri ad efficacia per tutto il territorio nazionale il Presidente della conferenza dei presidenti delle Regioni e, sulle eventuali norme che concernono specificamente singole Regioni, i loro presidenti (art. 3.1). Si tratta dunque giuridicamente di un semplice parere e non di un’intesa, come si era in una prima fase pensato per i casi di attrazione in sussidiarietà; d’altronde risulta dai decreti o si apprende dai media che alcuni provvedimenti (come quelli ministeriali in tema di trasporti per il Sud e le Isole) sono stati assunti su richiesta delle relative Regioni. Inoltre, la stessa legislazione statale, riconoscendo, quanto meno implicitamente, che vi sono altre “autorità competenti”, con l’art. 2 stabilisce che esse – e si tratterà, secondo l’estensione territoriale, del Ministro della salute o di altri ministri, delle Regioni e dei Comuni – possano adottare quelle ulteriori misure di contenimento e gestione dell’emergenza di cui si è accennato; e con l’art. 3.2 per i casi di “estrema necessità ed urgenza” mantiene in vita i poteri di ordinanza contingibile ed urgente che precedenti leggi assegnano a entrambi. I presidenti di Regione e i sindaci hanno fatto largo uso di quei poteri per i servizi locali; così pure il Ministro della salute per problemi più generali. A sua volta, il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti è stato dotato del compito di limitare o sospendere i servizi diversi da quelli locali di persone e di merci terrestri, aerei, marittimi e lacustri (art. 1.5 del DPCM dell’11 marzo in relazione all’art. 1 lett. m della legge). Il Ministro ad esempio se ne è avvalso con separati provvedimenti per la Sardegna e per i percorsi per il Sud. Nel complesso sembra che le norme così adottate (salvo il giudizio sui singoli casi di merito) siano aderenti al sistema di ripartizione dei poteri costituzionalmente stabilito. Per quanto attiene alla collaborazione tra le autorità statali, si può constatare che i provvedimenti del Presidente del Consiglio dei Ministri vengono adottati su proposta del Ministro della salute, sentiti una serie di altri ministri. Il Governo è dunque implicato collegialmente, e del resto aveva fin dal mese di gennaio agito in maniera preventiva con ordinanze del Ministro della salute e con la dichiarazione di emergenza nazionale assunta dal Consiglio il 31 di quel mese. Da più parti è stata criticata la scarsa capacità di intervento lasciata al Parlamento; ma, a parte la conversione in legge dei decreti legge, e tenuto conto dell’assegnazione di gran parte della materia a riserve di legge puramente relative, esso ha mantenuto la possibilità, invero scarsamente esercitata (ma si veda la doppia deliberazione dell’11 marzo), di discutere dell’operato degli organi governativi. Qui si viene a quello che abbiamo ricordato essere il primo nucleo di questioni, che non può qui essere facilmente oggetto di un’analisi riferita alla totalità degli aspetti e che, comunque, è quello su cui sono possibili le maggiori perplessità. La questione generale che si apre è quella dei contenuti restrittivi che il trattamento dell’epidemia comporta per i diritti fondamentali. E’ chiaro che il riferimento primo riguarda il diritto alla salute delle persone e, in pari tempo, della collettività. Esso ha sempre comportato vari limiti a sua tutela, come ad esempio le vaccinazioni obbligatorie e altri trattamenti sanitari che colpiscono le libertà della persona. Tra i diritti fondamentali il diritto alla salute, dato il suo grado, nell’inevitabile comparazione che nasce dalla convivenza e spesso dallo scontro tra i diversi diritti pure qualificati come fondamentali tende a rivestire un valore tendenzialmente più elevato di altri. Ma si sa che nei diritti fondamentali non si può prescindere da un criterio di proporzionalità tra i diritti la cui prevalenza determina i sacrifici legittimi e i diritti sacrificati. La prevalenza del diritto alla salute pesa proprio nella situazione attuale, che si inquadra prima di tutto nell’art. 16 della Costituzione. Anche quest’articolo garantisce un diritto e un valore collettivo fondamentale – la libertà di circolazione – ma prevede espressamente la possibilità di limitazioni, in via generale, per motivi di sanità (oltre che di sicurezza). Senza entrare in tutti i provvedimenti economici né in quelli sul potenziamento del Servizio sanitario nazionale, che hanno disposto sia restrizioni che aiuti, va sottolineato che, con un successivo rapido infittirsi di provvedimenti del Presidente del Consiglio dei Ministri del 1°, 4, 8, 9, 11 e, ora, 22 marzo, sono state disposte misure restrittive e talora solo raccomandazioni o semplici inviti, a non allontanarsi o accedere ai luoghi infetti e ad astenersi da una serie di comportamenti, qualificati diversamente secondo tempi e luoghi, via via estesi all’intero territorio nazionale e fino al 25 marzo o al 3 aprile o data posteriore fissata dalle varie norme. Esse investono tutte le principali libertà, in particolare alcuni aspetti della libertà personale, quelle di riunione, di manifestazioni anche di pensiero, e attività di istruzione, di lavoro ed economiche, contenendo però una serie di deroghe. La normativa delle varie fonti – per lo più nata dapprima nella tragica esperienza lombarda con provvedimenti regionali basati su un modello fatto proprio nell’insieme da altre Regioni ed esteso a tutto il territorio nazionale – suscita talora interrogativi e perplessità, data la pur comprensibile formulazione di categorie scarsamente definite. Per esempio l’espressione “esercizi commerciali di vicinato” (che sono permessi, e che comunque dovrebbero comprendere quasi tutti gli esercizi di vendita di generi alimentari e “di prima necessità”, purché limitatamente a questi ultimi). In esse può sorprendere fra altre…”l’indulgenza” per le rivendite di tabacchi, la cui apertura appare essenzialmente motivata da preoccupazioni per le entrate erariali. Fino al 22 marzo, non ha avuto corso un divieto generale delle attività produttive, anche se molte erano le attività vietate ed alcune assai delicate erano specificamente garantite (DPCM 11 marzo). Ora è in vigore (DPCM 22 marzo) una “sospensione” teoricamente generale, rinviando peraltro per le modalità all’accordo condiviso con le parti sociali del 14 marzo, e corredato da quasi cento deroghe; troppe, secondo i sindacati, spesso espresse con larghezza e “cumulativamente” a quanto previsto dal decreto dell’11 marzo. A differenza di quanto era stato discusso come oggetti di possibili generali divieti, risultano permesse numerose attività artigianali, le attività nei cantieri, determinati studi professionali. In materia ci si potrebbe interrogare circa la congruità di alcune modificazioni a tale regime contenute nelle norme di altri Paesi, quali quelle del Portogallo che consentono, oltre la possibilità di requisizione di beni immobili e mobili, l’eventualità dell’imposizione di apertura e funzionamento di certe imprese e di prestazione al lavoro di collaboratori di entità pubbliche e private. In alcune Regioni – la Lombardia, prima di tutto (v. le ordinanze n. 514 e 515 del 21 e 22 marzo) – sembrano da ritenere in vigore provvedimenti più restrittivi in importanti campi, il che dovrebbe esser possibile in forza della disposizione, già ricordata, per cui le Regioni possono sancire misure ulteriori rispetto a quelle previste dalle norme statali. Tali sono la sospensione di attività “decentrate” delle amministrazioni pubbliche, le attività nei cantieri (salvo alcuni tipi di essi) e la chiusura degli studi professionali, mentre altre disposizioni delle ordinanze ripetono prescrizioni già vigenti o anticipano misure contenute poi nel DPCM del 22 marzo, incoraggiando le forme di lavoro detto agile o a distanza. In molti aspetti dubbia è l’identificazione degli “spostamenti” delle persone, che le norme hanno disposto prima come da “evitare”, poi vietati, salvo che per comprovate esigenze lavorative, situazioni di necessità o di salute o per rientro al proprio domicilio, abitazione o residenza. Si potrebbe forse accogliere, per via interpretativa o meglio con una modifica al decreto vigente, l’ulteriore deroga per “assistenza a terzi”. Da ultimo è stata vietata l’attività motoria, svolta anche singolarmente, se non nei pressi della propria abitazione. Nei dettagli, come sempre accade (come si suol dire…il diavolo è nei dettagli) molte sono le perplessità che possono sorgere al riguardo. Evidentemente sono da ritenere permesse da stretta necessità le uscite da casa per accedere alle attività garantite; ma altre sono soggette a interpretazione non agevole. In ogni caso la prescrizione, così frequente nei media e a livello di opinione pubblica, “Io resto a casa” sembra comunque semplificata o nella sua generalità ha il valore di una raccomandazione o di un invito. Un interrogativo tra gli altri verte sulla chiusura dei parchi urbani, su cui si potevano già documentare, per le grandi città, i casi dei Comuni di MiIano, Bologna, Firenze e Cagliari (ma certamente anche di altri), che hanno chiuso i parchi recintati, impedendo così attività per altro verso di giovamento alla normale salute dei cittadini (si pensi in particolare ad anziani e bambini) e che se, come si rilevava, avrebbero teso a essere luogo di assembramenti di persone, potrebbero semmai essere oggetto di maggior vigilanza di polizia volti a scioglierli. Sennonché nell’ultimo provvedimento del presidente del consiglio dei ministri i parchi sembrano ora tutti oggetto di divieto, così come le ville, le aree di gioco, i non meglio identificati giardini (le aiuole aperte su strade pubbliche sono comprese nel divieto?) In genere lo spostamento ammesso è quello nell’ambito del proprio comune; ma così non pare si tenga conto della diversa configurazione degli abitati, per esempio delle particolari esigenze delle campagne e di abitati molto piccoli, privi di essenziali servizi, e per altro verso di quelle delle città metropolitane, che vedono per solito certi tipi di esercizi – come quelli riguardanti gli arredi per la casa, quand’anche di stretta necessità – funzionare nei comuni suburbani anziché nella città centrale o negli altri comuni dell’area; il che dovrebbe impedire come eccessivamente semplificata l’esortazione che lo spostamento delle persone debba sempre esser confinato al proprio comune. E’ invece generale e giustamente ripetuta la prescrizione di osservare la distanza di un metro fra le persone. Volendo scegliere altri giustificati esempi, potremmo indicare l’assoggettamento a quarantena (40 giorni, 14 o altra durata?) di coloro che arrivano dalle zone rosse e di coloro che sono risultati positivi o che abbiano avuto contatti stretti con casi della malattia confermati positivi e la permanenza domiciliare fiduciaria per le persone provenienti dalle aree colpite (quale sia la vera differenza di effetti tra le due misure non è chiarissimo); la sottoposizione delle persone in arrivo nei porti e aeroporti al rilevamento automatico della temperatura corporea; e, in presenza di frequenti arrivi nel Sud e nelle Isole di proprietari di seconde case, che anche prima erano stati oggetti di divieti, gli obblighi di questi soggetti di osservare la permanenza domiciliare con isolamento fiduciario. Sono notevolmente colpiti i trasporti di persone, rispetto ai quali il decreto del presidente del consiglio dei ministri dell’11 marzo, pur avendo sulle prime disatteso le proposte di una rigorosa misura di chiusura reiteratamente sostenuta dai presidenti di varie Regioni, li ha autorizzati all’adozione, nei limiti dei “casi di estrema necessità ed urgenza”, a una cosiddetta “programmazione del servizio” locale “finalizzata alla riduzione” e fino alla “soppressione” dei servizi locali. Così pure, ma in questo caso con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti di concerto con il Ministro della Salute, può essere oggetto di discussione l’analoga possibilità di riduzione dei servizi automobilistici interregionali e dei mezzi di trasporto aerei, ferroviari e marittimi. Così, oltre al divieto assoluto di trasporti marittimi di persone per la Sardegna, molte restrizioni sono state introdotte nei collegamenti aerei, stabilendo che resti in attività, di massima, un solo aeroporto per regione, provocando rilevanti disagi (così, a differenza della Sicilia, in cui sono aperti due aeroporti, la Sardegna del Nord, assai malagevolmente collegata a Cagliari per via interna, è stata privata di ogni collegamento aeroportuale), e sono stati gravemente ridotti i numeri di voli in arrivo anche negli aeroporti lasciati aperti. La preoccupazione che queste possibilità comportano appare evidente: si pensi alla soppressione o grave riduzione delle linee di autobus e delle ferrovie metropolitane nelle grandi città e, parrebbe, forse anche dei taxi (poiché nelle norme si parla di misure sui trasporti non di linea), e al movimento nazionale e internazionale del trasporto a grande distanza, inclusi per i primi gli effetti di produzione di diseguaglianze nei confronti di chi non ha la disponibilità di automobili e motociclette e quelli sull’incremento dell’inquinamento (benché probabilmente contenuto per effetto delle altre misure). Tutto ciò sulla considerazione della necessità di mantenere possibili i collegamenti, resi peraltro problematici dalle limitazioni di numero e capienza, a tutela di una serie di diritti fondamentali compatibili in giusta proporzione col diritto alla salute. Si ha notizia che in alcuni altri paesi sarebbe vietato che un’auto trasporti più di due persone; le ordinanze lombarde a loro volta ritengono un assembramento l’incontro tra più di due persone in luoghi pubblici. Non mancano del resto i paradossi, come quello manifestato dai servizi delle linee metropolitane milanesi che, ridotte in applicazione delle norme citate, hanno prodotto il controeffetto di caricare eccessivamente le carrozze mantenute in attività, impedendo l’osservanza della regola del distanziamento delle persone. Ma altre limitazioni in nome della tutela della salute possono derivare alla libertà personale, a quella di riunione e, più o meno direttamente, alla libertà di associazione, a quella religiosa – ma almeno alcune conferenze episcopali regionali hanno esse stesse provveduto a eliminare le messe pubbliche, pur lasciando aperte le chiese – e ad alcune modalità di esercizio della stessa libertà di manifestazione del pensiero e, naturalmente, alle libertà di attività economica, al diritto al lavoro e a quello all’istruzione. Un valore superiore possiede la libertà di manifestazione del pensiero e di informazione (e ciò spiega l’esenzione dalle più rigorose preclusioni delle rivendite di giornali, riviste e periodici; ma non, malauguratamente, delle librerie…riducendo il diritto della cultura solo alla lettura dei giornali ed escludendo i libri a cui tutti siamo ricorsi nella circostanza presente: Manzoni e Camus!). Nel complesso, pur vigilando sui comportamenti incoscienti o irresponsabili di alcuni membri della cittadinanza, si può, riteniamo, dare apprezzamento dell’autoresponsabilità largamente mostrata dai cittadini, i quali, nelle attuali circostanze, sembrano – ci pare, i commenti su questo si diversificano) uniformarsi a un principio tra i più fondamentali della Costituzione: in effetti oggi essi sono più che mai tenuti, a norma dell’art. 54.1 della Costituzione, a essere fedeli alla Repubblica e osservare la Costituzione e le leggi. —————————————– Nell’illustrazione in testa: stampa del 1700 ritraente un mugnaio intento all’opera, già utilizzata per un precedente articolo su aladinpensiero online. […]