Piano Sulcis. Una task force per l’emergenza formazione

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One Response to Piano Sulcis. Una task force per l’emergenza formazione

  1. admin scrive:

    Da SardegnaDemocratica (www.sardegnademocratica.it)

    Incalzare e scalzare, è il ruolo della politica per lo sviluppo
    di Fabrizio Barca | tutti gli articoli dell’autore

    Ripubblichiamo il discorso di Fabrizio Barca in occasione del Premio Francesco Saverio Nitti ricevuto da ministro il 23 ottobre 2012 a Napoli, presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e pubblicato in Notizie del Ministero della Coesione Territoriale il 29 ottobre 2012. Il titolo lo abbiamo dato noi estrapolando una frase tra le più significative. E’ di evidenza per chi legga che molte delle soluzioni proposte dal ministro sono state attivate e praticate dal precedente governo di centro sinistra che ha governato la Sardegna e che Ugo Cappellacci e tutto il centro destra che lo sostiene ha smantellato o cercato di smantellare al di là della vuota retorica e degli slogans che ci propinano dalla stampa di parte che li sostiene. Sappiamo dunque da dove ripartire per il prossimo governo di centro sinistra che governerà la Sardegna.(NDR ).
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    “È con emozione che ricevo in questo prestigioso Istituto, segno forte della cultura del nostro Mezzogiorno, il premio intitolato al pioniere dello sviluppo industriale del Sud, Francesco Saverio Nitti. Il conferimento di un premio rappresenta, per ognuno, un’occasione di riflessione, da non perdere. Nel mio caso, il riconoscimento riguarda un funzionario dello Stato che negli ultimi quindici anni, insieme a una squadra di persone vicine o che talora neppure si conoscono, ha lavorato, proprio attorno al tema secolare del distacco, economico e civile, tra il Mezzogiorno e il resto d’Italia. A questo impegno non si sono associati, è un fatto, segnali di un diffuso e continuo cambiamento dello stato delle cose. Ma solo progressi in determinati luoghi, in determinati periodi, fortemente dipendenti da determinate persone.

    E dunque? Dunque, se l’Istituto non ha commesso un errore, vuol dire che avete colto una “traccia” da valorizzare. Se questa traccia esiste, essa riguarda – ho riflettuto ancora – il metodo. Il metodo che con quella squadra di persone si è portato avanti in questi anni, fatto di ostinazione e revisione. L’ostinazione di voler cogliere il distacco del Mezzogiorno prima di tutto nel divario civile, nell’incapacità di assicurare ai suoi cittadini i servizi essenziali propri di una democrazia. La revisione, alla quale ha fatto riferimento il Prof. Barucci, e alla quale abbiamo sottoposto passo passo i nostri convincimenti e le nostre azioni, man mano che esse apparivano insufficienti e che i comportamenti dei nemici del cambiamento si andavano modificando.

    L’affidamento di un incarico politico mi ha consentito in questo ultimo anno di mettere pienamente a uso le lezioni apprese e di spingere fino in fondo la revisione. Nel cambiare ci sono state ben presenti le critiche a cui il lavoro di Banca d’Italia ha dato voce limpida negli scorsi anni: eccessiva enfasi sul divario di prodotto pro-capite; debolezza del presidio nazionale della politica aggiuntiva, comunitaria e nazionale; e soprattutto il fatto che anche la migliore politica aggiuntiva nulla può se la grande massa delle risorse orientate dalla politica ordinaria – nella scuola, nella sicurezza, nella tutela del territorio, nella cultura – non è anche essa rinnovata profondamente nell’ impiego.

    Sono queste le principali cause, che aggravandosi nell’ultimo quinquennio, per di più in un quadro di grave incertezza di finanza pubblica, hanno condotto al risultato terribile di un paese che nel Sud non riesce neppure più a spendere i fondi comunitari. Ma le lezioni dell’esperienza non bastano. A orientare il lavoro di questo anno, a disegnare un nuovo metodo, sono state anche le riflessioni maturate in questi anni nel confronto serrato, europeo e internazionale, sul tema dei temi: come uscire dalle trappole del sottosviluppo.E’ apparso, proprio in una fase di crisi, più evidente che mai lo scontro fra tre diversi approcci.

    Il primo approccio, quello delle “agglomerazioni perfette”, utilmente sottolinea, valorizzando l’antica intuizione di Alfred Marshall, che le agglomerazioni di persone e di imprese, producendo esternalità positive, rappresentano un fattore fondamentale di sviluppo, ma sostiene che tali agglomerazioni devono essere guidate da grandi conglomerati privati di interessi, stante la limitata conoscenza delle organizzazioni statuali. Duplice è l’errore di questa tesi. Si ragiona come se le agglomerazioni possibili siano prodotte da processi naturali e siano uniche e non siano invece fortemente influenzate da fenomeni accidentali e da una determinante azione statuale. Ma soprattutto: le decisioni dei grandi conglomerati privati di interessi non costituiscono una “sintesi equilibrata della complessità” – ricordate il confronto alto dei primi anni ’60 fra i Saraceno, gli Ardigò, i Trentin? –, frutto dell’aperto confronto di una moltitudine di stakeholders, ma riflettono piuttosto limitati e particolari interessi, spesso catturati, nelle situazioni di arretratezza, dalle forze della conservazione, conservazione del sottosviluppo.

    Il secondo approccio è quello “redistributivo”. Muovendo dai possibili effetti negativi delle agglomerazioni, esso offre come rimedio il mero trasferimento di risorse finanziarie dalle aree ricche alle aree povere. E’ una strada che non può portare al superamento delle trappole, a promuovere sviluppo, per due ragioni. Perché rimuove completamente il tema della “conoscenza”, cioè di “chi sappia cosa fare e come” per promuovere lo sviluppo. E perché il mero trasferimento di risorse finanziarie crea incentivi perversi nelle aree destinatarie fino ad aggravare il sottosviluppo, rafforzando quasi sempre quelle stesse classi dirigenti che si oppongono al progresso.

    Il terzo approccio infine, , quello “comunitarista”. Esso pone finalmente l’accento sul ruolo delle conoscenze e sul fatto che la consapevolezza di queste conoscenze e le preferenze locali rappresentano un fattore primario di sviluppo, ma conclude che l’uscita dalle trappole del sottosviluppo può derivare da processi deliberativi locali, con un ruolo minimo dei soggetti esterni. Pure innovando rispetto agli approcci precedenti e avendo prodotto in particolari contesti risultati di rilievo, questo approccio è destinato in genere a effetti limitati o addirittura perversi, per due ragioni. Perché assai di rado i soggetti locali hanno da soli in mano le “chiavi del proprio futuro”, essendo invece necessario che le loro conoscenze si integrino con conoscenze esterne, di natura generale e che le loro volontà siano scosse – ci ritorno – da una azione esterna. E perché alto è il rischio di quella deriva auto-segregazionista che Amartya Sen vede nell’esclusivo affidamento sui valori locali, che è invece bene siano continuamente rimessi sempre in discussione da valori esterni.

    La strada che appare giusta è piuttosto una quarta, che in Europa abbiamo voluto chiamare dello “sviluppo rivolto ai luoghi”. Essa muove da tre presupposti. Che la conoscenza sul “che fare” sia l’essenza dello sviluppo e che larga parte di essa – non tutta – sia radicata nei luoghi. Che molta di questa conoscenza sia solo potenziale e che essa possa “liberarsi” solo attraverso il confronto fra interessi, valori, soluzioni diverse. E infine: che nelle trappole del sottosviluppo a impedire la liberazione di queste conoscenze sia la prevalenza di classi dirigenti estrattive, di vecchi e nuovi rentier.

    Classi dirigenti “estrattive”, secondo la terminologia dell’economista Daron Acemoglu, sono quelle che drenano risorse dai territori anziché rischiare e innovare. E lo fanno perché, paghe della propria fetta di torta, scelgono di conservarla anche a costo di produrre il restringimento di quella stessa torta. Sanno – a ragione! – che se accettano la concorrenza di un confronto con altri, con forte probabilità, perderanno i propri privilegi. E’ dunque è evidente che per avviare il cambiamento quelle classi dirigenti vanno “incalzate”, talora “scalzate” e che ciò può avvenire solo con un intervento esogeno, da fuori, perché non esistono endogenamente le condizioni per il rinnovamento.
    Questo, di incalzare e scalzare, è il ruolo della politica per lo sviluppo.

    Ogni progetto di rilancio del Sud deve necessariamente prendere atto del carattere di persistenza del suo sottosviluppo, e del fatto che esso è perpetuato dal prevalere di classi dirigenti contrarie a tradurre in pratica il cambiamento. I luoghi del Sud dove il cambiamento è avvenuto confermano, a contrario, questa valutazione. Teoria e pratica ci insegnano che qualsiasi tentativo di indurre un processo di crescita che si basi unicamente sul disegno di particolari regole, sulla ridefinizione dell’infrastruttura giuridica, su reingegnerizzazioni procedurali è ineludibilmente destinato a fallire, perché le nuove regole finiranno per essere ritagliate intorno agli interessi dei rentier, e dunque lo sforzo di imprimere una traiettoria di crescita sarà riassorbito in quell’intreccio di equilibri e poteri che rappresenta esso stesso la trappola del sottosviluppo. Il problema dello sviluppo, è dunque anche e soprattutto politico. Può essere superato a partire dalla rottura degli equilibri su cui il sottosviluppo si è reso persistente. Quegli equilibri nascono e si rafforzano nel vuoto lasciato da uno Stato incapace di offrire, nel Mezzogiorno, gli stessi servizi essenziali garantiti ai cittadini che vivono nel resto del Paese. Nell’indurre così i cittadini a una domanda di “privilegi”, di “esenzioni”, di beni particolari, che sostituisce la domanda di beni pubblici. Al tempo stesso, la fitta rete di relazioni informali su cui quegli equilibri sono intessuti, la diffusione di quelle “intermediazioni improprie” di cui scrisse alcuni anni fa Piero Barucci, ostacolano le dinamiche competitive, impedendo il cambiamento.

    Solo il conflitto portato direttamente dentro le modalità di realizzazione delle politiche, può dare l’opportunità di rompere questi equilibri. L’approccio rivolto a luoghi suggerisce dunque non solo di tenere conto dei contesti, non solo di disegnare interventi integrati e non mono-settoriali, ma di fare ciò attraverso una combinazione di forze endogene e esogene. Le forze esogene sono necessarie per portare all’attenzione di un territorio conoscenze e valori esterni e per destabilizzare gli equilibri del territorio che bloccano lo sviluppo. Nascerà, inevitabilmente fra forze endogene e esogene un “conflitto”. Se governato esso porterà il cambiamento. Questo è il “più” di questi mesi di lavoro anche rispetto alla diagnosi precedente. Che si traduce in una parola: voce. Certo una parola non nuova nel dibattito sullo sviluppo, ma declinata con grammatica e sintassi moderne.

    E’ necessario che l’azione pubblica aggiuntiva introduca informazioni, controlli, sopralluoghi, luoghi di confronto, comunicazione che spiazzino il vecchio e diano fiducia e possibilità al nuovo. Questo metodo è forte di alcuni esempi, che trovo nelle “cose” messe in piedi in questi mesi.
    Prima di tutto, la scuola. Qui si partiva assai meglio che per altri servizi. Grazie al lavoro fatto dalla rete importante di scuole messa con ostinazione in piedi negli scorsi anni in tutto il Sud da bravi amministratori, talora nonostante la trascuratezza dei vertici politici e amministrativi. E’ una rete che ha già dato frutti, come si coglie nel miglioramento, assai significativo in alcuni casi, dei dati che misurano la competenza dei nostri studenti del Sud.

    Ma si poteva fare e si è deciso di fare di più, soprattutto per togliere il fiato ai “progettifici” che già nel Sud vedevano affacciarsi nuovi e vecchi rentier, pronti a calare sui fondi. E così abbiamo concentrato gli interventi su pochi obiettivi misurabili in termini concreti, indicando con chiarezza risultati attesi verificabili. Abbiamo legato con più forza la domanda di interventi a una ricognizione dei punti di debolezza alla quale partecipano task force esterne di supporto alle competenze. Abbiamo innovato radicalmente l’intervento contro la dispersione scolastica, legandolo all’azione di associazioni attive nei territori.

    Poi c’è l’esempio della ferrovia, un mezzo che ha avuto un ruolo decisivo nel primo sviluppo del Mezzogiorno, e che può tonare ad averlo. Si è cominciato dall’alta capacità sull’asse ferroviario Napoli Bari, che mette in collegamento due poli industriali che da soli rappresentano il 55% della produzione meccanica del Mezzogiorno, e che costituisce l’asse portante dei traffici del Sud verso i Balcani, attraverso il corridoio transeuropeo VIII. Abbiamo utilizzato un nuovo strumento, il contratto di sviluppo, per scandire le responsabilità di tutte le parti facendo prevalere l’interesse collettivo su logiche iperlocali che finiscono per penalizzare ogni volta nel Sud “ciò che serve a tutti”. E al tempo stesso, a cominciare dalla questione dell’attraversamento o meno di Acerra, decisiva per i suoi cittadini, abbiamo affrontato in modo trasparente e aperto, con Regione, Comune e Ferrovie dello Stato il tema dell’impatto dell’opera sul micro-territorio, sottraendo la valutazione dei pro e dei contro al chiuso delle stanze e portandola sul web, dove le soluzioni gareggiano sotto gli occhi di tutti. Verificare per credere.

    E poi abbiamo lanciato il progetto Messaggeri, con il quale si promuove nelle Università del Mezzogiorno, un confronto tra il patrimonio di conoscenze degli atenei e le energie innovative dei nostri giovani ricercatori all’estero. A questi ultimi si offre l’opportunità di insegnare agli studenti del nostro paese i loro metodi, le loro “scoperte”, per poi offrire ad alcuni di quegli stessi studenti l’opportunità di un periodo di studio all’estero, tutorato nei centri di ricerca dove essi operano. A due settimane dalla scadenza del bando, già 50 ricercatori hanno presentato progetti didattici, e 160 dipartimenti delle regioni del Sud si sono accreditati per ospitare Messaggeri. Questo meccanismo, costruendo rapporti nuovi per i nostri atenei, sarà di sprone a nostri giovani a sapere di più, a pretendere di più. E ha un grande potenziale di contaminazione.

    E’ infine c’è “Open Coesione”. Un metodo fondato sulla continua alimentazione di un conflitto costruttivo tra preferenze e priorità, nei territori e con il centro, può divenire sistemico solo se l’intervento pubblico è sottoposto ad un controllo democratico diffuso. Ecco perché più di 500mila interventi di investimento pubblico – caso unico in Europa – sono ora in rete attraverso il portale opencoesione.gov.it. Conoscendo i progetti finanziati, i luoghi, le risorse assegnate, lo stato di avanzamento, i tempi previsti e i soggetti coinvolti nella loro realizzazione i cittadini organizzati o singoli hanno la spinta e il mezzo per esprimere la propria voce, chiedere conto dell’operato delle Amministrazioni, e restaurare così la fiducia verso le Istituzioni. Gli amministratori, responsabili, territorio per territorio, di caricare quei dati ne vedono finalmente l’uso e sono spronati a documentare meglio. I buoni amministratori vengono alla luce rispetto a cattivi amministratori, gli innovatori rispetto ai rentier.

    Ogni operazione realizzata in questi mesi, dal bando per i progetti del terzo settore – discusso in questa città con gli interessati, in un grande e utile incontro, prima di essere chiuso – alla introduzione del processo telematico in oltre 20 tribunali, al progetto di bandi pre-commerciali per beni pubblici innovativi, al grande progetto Pompei, porta il segno del nuovo metodo oggetto dell’ostinazione e della revisione di tanti. Se la voce – quella informata, diretta al bersaglio, pungente davvero – salirà, se coprirà il rumore che ancora sovrasta la comunicazione di massa, se sarà raccolta da partiti capaci di ridisegnarsi, allora il nuovo metodo reggerà e potrà iniziare a intaccare il gesso che blocca il Sud.”

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