Risultato della ricerca: Rodotà

La chiamata civica alla politica (…) La malattia dei politici è una drammatica perdita del senso di realtà. [Dobbiamo] aiutare la politica a ritrovare il proprio ruolo sociale.

poverta-conv-roma-14-17-ott19Carità o diritti?
di Walter Tocci, sul suo blog

Sul tema i volontari della Caritas di Roma mi hanno chiesto di tenere una lectio magistralis in occasione della Giornata Mondiale della Lotta alla Povertà. Ne è venuta fuori una riflessione sulla relazione, in atto o in teoria, tra la politica e il volontariato. Il convegno si è svolto nei giorni 14-15 ottobre 2019 a Roma nell’Ostello di via Marsala dedicato alla memoria di don Luigi Di Liegro. Di seguito il testo del mio intervento.
Qui è disponibile il video del mio intervento
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Di seguito il testo scritto.

Carità o diritti?
di Walter Tocci
Un titolo lancinante apre la nostra sessione del convegno: Carità o diritti? Le parole vengono da antiche tradizioni culturali, ma in questo luogo di accoglienza e di fraternità indicano due esperienze di vita: la carità come un dono all’altro che è anche un dono a se stesso; i diritti come doni universali che regolano le relazioni tra le persone.
Fin qui il nostro titolo appare in tutta la sua positività. Ma interviene la parola più piccola a infrangere l’armonia, separando con la disgiunzione “o” ciò che dovrebbe andare insieme. C’è però un punto interrogativo a lenire la preoccupazione, annunciando che la questione è ancora aperta alla discussione e nulla è detto di definitivo. È appunto la discussione che la mia introduzione vorrebbe sollecitare.
È davvero scontato che ci sia un aut-aut oppure esiste uno spazio comune di relazione e anzi di interdipendenza? E quale sarebbe questo spazio comune?

Osserviamo innanzitutto gli esiti contrapposti che possono avere l’indifferenza oppure la relazione tra carità e diritti.
Quando le due esperienze rimangono indifferenti l’una all’altra non riescono a sviluppare pienamente le proprie ragioni. La carità senza i diritti non riesce a generalizzare la sua speranza di giustizia. I diritti senza la carità non riescono e personalizzare il soddisfacimento dei bisogni.
Quando invece le due esperienze sono in sintonia riescono a dare il meglio di se stesse e portano a compimento le proprie motivazioni.
Da un lato, se i diritti sono riconosciuti la carità è libera di trascenderli, perfino di tradirli, andando oltre la mera conformità alla legge per aprire il cuore delle persone e contemplare la beatitudine della misericordia. È il messaggio della lettera di Don Milani a Pipetta, il giovane comunista di S. Donato, un testo formativo per tanti della mia generazione, e a me molto caro.

Ma il giorno che avremo sfondata insieme la cancellata di qualche parco, installata insieme la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordatene Pipetta, non ti fidar di me, quel giorno io ti tradirò.
Quel giorno io non resterò là con te. Io tornerò nella tua casuccia piovosa e puzzolente a pregare per te davanti al mio Signore crocifisso. Quando tu non avrai più fame né sete, ricordatene Pipetta, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno finalmente potrò cantare l’unico grido di vittoria degno d’un sacerdote di Cristo: “Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia perché saranno saziati”.
Dall’altro lato, la carità nella misura in cui coltiva le relazioni interpersonali genera l’humus sociale da cui traggono alimento i diritti. Questi, infatti, non sono garantiti solo dalle procedure formali, anzi hanno bisogno di una democrazia viva che non cada nell’apatia, ma sappia rinnovare continuamente le sue promesse. “Rinnovare le promesse della democrazia”, questo fu l’ammonimento di Norberto Bobbio. In uno dei suoi ultimi libri sentì il bisogno di raccomandare che la democrazia non poteva divenire un costume condiviso se non avesse mantenuta la promessa del “riconoscimento della fratellanza che unisce tutti gli uomini in un comune destino”.
Due maestri così diversi tra loro ci aiutano a comprendere come la carità e i diritti, solo nella loro felice congiunzione, siano in grado di esprimere le massime potenzialità. Per Don Milani la carità trascende la giustizia sociale, a cui aveva pur dedicato la vita, educando i ragazzi di Barbiana. Per Bobbio i diritti si fondano sulla promessa di fraternità e non solo sulle procedure, alle quali aveva pur dedicato tutta la sua opera intellettuale.
È come se i due grandi maestri, venendo da percorsi opposti, indicassero uno spazio comune tra carità e diritti. Possiamo a questo punto eliminare il punto interrogativo del nostro titolo, sostituendo aut-aut con et-et, ma viene spontanea una nuova domanda: quale è la natura della congiunzione?

Il significato costituzionale della dignità
Ciò che tiene insieme carità e diritti è la dignità. Questa parola è una presenza invisibile nel titolo, non appare nel suo lessico, ma illumina il significato delle parole che lo compongono.
La dignità, infatti, è il fine supremo della carità. Quando un senza fissa dimora incontra un volontario e riceve da lui una carezza riconquista come per miracolo la dignità di persona. L’atto più disinteressato e privo di scopi è sufficiente a realizzare l’opera umana che fino a un attimo prima sembrava impossibile.
Nel contempo la dignità è anche il fondamento giuridico dei diritti poiché è scritta in Costituzione. In una delle sue ultime lezioni Stefano Rodotà ha usato la parola addirittura per scandire una terza epoca del costituzionalismo moderno. Dopo l’Homo hierarchicus dell’ancien régime e l’Homo equalis del Novecento, dal dopoguerra siamo entrati nel costituzionalismo dell’Homo dignus. La parola, infatti, si trova esplicitamente nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e nell’incipit della Costituzione tedesca – La dignità umana è intangibile – come monito per l’avvenire dopo l’orrore dell’Olocausto. Ma è interessante notare che lo stesso concetto di intangibilità umana ritorni, in condizioni storiche molto diverse, nel costituzionalismo contemporaneo, ad esempio nella Carta di Nizza, come contenimento dei poteri pervasivi della tecnica e dell’economia che tendono a invadere la vita umana. La dignità diventa il nuovo principio di resistenza della persona di fronte alle sfide del postumano.
Ma è nella Costituzione italiana che la parola dignità esprime il meglio di sé. E lo fa in un modo originale e poco celebrato, quasi senza apparire, senza prendere le sembianze di un principio assoluto, ma mettendosi al servizio di altri principi costituzionali al fine di renderli cogenti.
Per scoprire questi rimandi reconditi dovremmo riprendere in mano la Carta, rileggerla con curiosità nuova, senza la trascuratezza e la retorica degli ultimi tempi. Si dovrebbe prendere esempio dai sacerdoti che tutte le domeniche dal pulpito leggono e commentano il Vangelo di fronte all’Assemblea. I fedeli conoscono la Buona Novella, non è affatto una sorpresa, ma quella lettura suscita ogni volta nuove riflessioni spirituali e impegni sociali.
Allo stesso modo dovremmo prendere l’abitudine di iniziare ogni assemblea civile, incontro pubblico, manifestazione popolare con la lettura di un articolo della Carta. Proviamo a farlo oggi qui con uno degli articoli più dimenticati, il 36.
Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
Non si può non ammirare la chiarezza di questo testo composto di parole semplici e profonde. Nessuna legge sul lavoro degli ultimi venti anni ha cercato di raggiungere tale chiarezza e tutte si sono prodigate per indebolire quei principi. Anche da qui si vede che è la Costituzione per l’avvenire. È attuale proprio perché la sua inattualità orienta il nostro presente verso un diverso avvenire.
La nostra parola appare solo alla fine dell’articolo con l’aggettivo dignitosa, che apparentemente non aggiunge granché, poiché il senso della norma giuridica è già chiarito dalle parole precedenti. Eppure, in questo contesto l’aggettivo vuol dire che il lavoro di cui si parla non è solo un fatto economico, anzi riguarda una dimensione fondativa della società e della persona. Quindi l’articolo 36 richiama e chiarisce implicitamente l’articolo 1. È come se l’incipit costituzionale, La Repubblica fondata sul lavoro, pur non utilizzando la parola dignità, ne contenesse il significato.
E allo stesso modo opera l’articolo 41, quello che voleva cancellare il ministro Tremonti per farsi perdonare dall’establishment europeo lo sperpero nei conti pubblici. Esso stabilisce che l’iniziativa economica trova un limite nella «libertà e dignità umana». La dignità, quindi, rivela che sopra il mero interesse economico esiste una superiore sovranità, il cui primato non può che scaturire, come nel caso precedente, dall’articolo 1 della Repubblica fondata sul lavoro.
Inoltre, il mirabile articolo 3 sancisce la «pari dignità sociale» dei cittadini, senza distinzioni di razza, di censo, di genere. Questo primo comma è sempre stato considerato come il principio liberale dell’eguaglianza che nega ogni forma di discriminazione, mentre il secondo comma del «rimuovere gli ostacoli» è stato considerato il principio sociale dell’eguaglianza, che si afferma nella sostanza dei rapporti tra i cittadini. Ma è la parola dignità, non a caso accompagnata dalla denotazione «sociale», a creare un ponte tra i due principi fondamentali e a reggere l’unità costituzionale dell’articolo 3.
Da tutto ciò discende la particolare attitudine della dignità nel connettere principi costituzionali diversi – libertà, eguaglianza e sovranità – rinunciando a esprimere un proprio significato determinato.
La dignità non è né una supernorma, né un diritto fondamentale, ma è la forza connettiva della Carta. La pienezza della dignità non è in sé, ma per gli altri. Se immaginassimo la dignità come una persona sarebbe come il volontario che senza vantarsi dona un senso alla vita delle persone.

In questa natura connettiva la dignità rivela anche la sua dimensione politica. Se ne avverte una eco nel dibattito pubblico, seppure in forma distorta. Di fronte ai fallimenti, alla volgarità, al malaffare, di partiti e di correnti emerge sempre più accorato l’appello dell’opinione pubblica a ritrovare la Dignità della Politica. Leggiamo questa espressione nei titoli dei giornali e nei messaggi dei social, la sentiamo ripetere nei talk-show e anche nelle discussioni in famiglia o tra amici. Viene ripetuta distrattamente e di conseguenza si smarriscono le differenze tra due diversi significati.
Nel primo la politica costituisce l’oggetto ed è una sorta di scatola vuota che occorre riempire apportando dall’esterno il contenuto di valore. Tale accezione ha motivato tutti i tentativi di immettere la dignità nella politica mediante le leggi, le riforme istituzionali e le norme di comportamento e di finanziamento. Sono stati scarsi gli obiettivi raggiunti perché l’approvazione e soprattutto l’attuazione di tali provvedimenti dipendeva comunque dagli stessi politici di cui si voleva innalzare la qualità. Neppure il barone di Münchhausen è riuscito ad innalzarsi tirandosi per il codino.
È più ambizioso l’altro significato, nel quale la politica è il soggetto e assume la dignità come propria dimensione interiore. Intesa così l’espressione Dignità della Politica svela che le due parole sono in una relazione profonda e si valorizzano a vicenda.
Un esempio viene da Giuseppe Di Vittorio. Quando gli chiesero di parlare dei risultati raggiunti dal sindacato italiano disse: “nel mio paese di Cerignola abbiamo insegnato ai braccianti a non inchinarsi più di fronte al padrone delle terre, ma a guardare avanti a testa alta con la dignità di chi è consapevole dei propri diritti.
Con il linguaggio di oggi diremmo che il bracciante di Cerignola è un caso di empowerment, di presa di consapevolezza dei propri diritti. Sappiamo dirlo in modo più sofisticato rispetto alle parole semplici di Di Vittorio, ma molto meno siamo in grado di metterlo in pratica. E la difficoltà riguarda non solo la politica generale, ma anche le politiche sociali. La deriva prestazionale delle amministrazioni pubbliche trasforma i servizi in numeri di interventi che spesso prescindono dai risultati umani. Nei casi migliori si punta a soddisfare bisogni, molto spesso con risposte settoriali che non colgono la dimensione esistenziale del disagio.
[segue]

La Democrazia in declino. Ma la buona politica la può e deve salvare.

3e51bee4-a6f4-46f5-800f-7d2678127789Così muore una democrazia. Italia prima in Europa per distanza tra percezione e realtà.
di Francesco Nasi su The VISION.
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BY RAIAWADUNIA · SET 24, 2019
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30 ottobre 1938. Stati Uniti. Orson Welles, attore e pietra miliare del cinema americano, conduce una puntata del programma radiofonico The Mercury Theatre On Air destinata a entrare nei manuali di storia. Welles interrompe più volte il normale corso della trasmissione con breaking news di un fantomatico attacco alieno avvenuto sul suolo americano. Ovviamente non è vero, è puro intrattenimento: l’attore infatti segue la trama di un libro di fantascienza, The War of the Worlds. Non la pensano così però i milioni di cittadini che, credendo reale l’attacco alieno, vengono presi dal panico. Secondo le stime del professor Hadley Cantril, furono 1,7 milioni gli americani che dettero per vera l’invasione, e 1,2 milioni furono profondamente disturbati o terrorizzati. Anche se ad alcuni poté apparire come un semplice scherzo, non era così per Welles, che nel 1941 con Citizien Kane, il suo massimo capolavoro, aveva indagato i rapporti tra mass media e il vero sovrano del secolo a venire: l’opinione pubblica.

Il due volte premio Pulitzer Walter Lippmann, nel suo storico saggio del 1922 Public Opinion, aveva già studiato la facilità con la quale le idee dell’opinione pubblica potessero essere distorte. Egli sosteneva che l’opinione il più delle volte non rispecchia la realtà, troppo complessa per essere realmente capita: l’opinione dipende dallo pseudo-ambiente esterno che ogni individuo si costruisce in base a pregiudizi e visioni stereotipate della realtà, in maniera più emotiva che razionale. Nonostante la sua malleabilità, negli anni però l’opinione pubblica diventa sempre più importante. Stefano Rodotà ha definito “sondocrazia” i regimi democratici attuali, dove a contare sono più i sondaggi d’opinione che le elezioni. Nella sondocrazia le classi dirigenti abdicano al compito di guidare il cambiamento nella società e tentano di sopravvivere inseguendo i volatili bisogni dell’opinione pubblica espressi nei sondaggi settimanali.

In una società globalizzata, liquida e complessa, la realtà diventa sempre più difficile da comprendere, e quindi la percezione dall’opinione pubblica rischia di allontanarsi sempre di più dai dati reali, fino al punto in cui si va a formare un vero e proprio abisso tra ciò che è vero e ciò che è ritenuto vero. Secondo uno studio dell’istituto di ricerca Ipsos, tra 15 paesi dell’Ocse l’Italia è prima per distanza tra percezione e realtà. Nando Pagnoncelli, professore, sondaggista e presidente di Ipsos Italia, ha descritto questo fenomeno nel suo ultimo libro La penisola che non c’è. I dati riportati da Pagnoncelli sono a dir poco allarmanti e spaziano per tutti i settori della vita pubblica del Paese. Riguardo ad esempio all’economia: nel 2014, a fronte di un tasso reale di disoccupazione del 12%, gli italiani credevano che nel loro paese ci fossero il 49% di disoccupati, come se un italiano su due stesse cercando lavoro senza trovarlo. Gli italiani credono di avere un’economia simile alla Grecia, quando in realtà quest’ultima ha un Pil equivalente più o meno alla sola Lombardia. L’Italia è la seconda manifattura d’Europa e una delle prime dieci economie mondiali, ma più di un italiano su 7 non lo sa. Rispetto alla popolazione: gli over 65 attualmente rappresentano il 22% della popolazione totale, ma per l’opinione pubblica italiana corrispondono al 48% del totale. L’età media è 45 anni, ma gli italiani pensano che sia di 59. La distorsione nell’ambito economico e demografico si può in parte spiegare come esagerazione di fatti reali come la crisi economica, la precarizzazione del lavoro e l’invecchiamento della popolazione. Ma ciò che lascia profondamente perplessi è invece la differenza tra realtà e percezione nell’ambito della sicurezza.

Secondo il 64% degli italiani, dal 2000 a oggi gli omicidi sono aumentati, quando in realtà hanno visto un calo vertiginoso e sono diminuiti del 47%: solo l’8% della popolazione però ne è consapevole. Basti pensare che nel 2016, in tutta Italia, ci sono stati la metà degli omicidi che nella sola città di Chicago: 397 contro 762. Come riporta uno studio dell’Istituto Cattaneo, l’Italia è il Paese con la più forte distorsione della realtà anche per quanto riguarda l’immigrazione con una differenza di ben 17,4 punti percentuali: gli immigrati extraeuropei rappresentano nel nostro paese il 7% della popolazione totale, ma per la nostra opinione pubblica sono il 25%, ovvero uno su quattro. Il 47% degli italiani crede che ci siano più clandestini che migranti regolari, mentre gli irregolari rappresentano circa il 10% del totale dei migranti.

Lo pseudo-ambiente cognitivo in cui si sviluppa l’opinione pubblica italiana ci presenta un Paese povero, vecchio, invaso da stranieri, senza alcuna possibilità per il futuro. La distorsione è più accentuata al Sud che al Nord, e tra le persone meno abbienti rispetto a quelle appartenenti alle classi agiate. La deformazione della realtà avviene quasi sempre in negativo, e a volte è anche peggiore di quella che pensiamo. I dati sopra riportati sono infatti spesso medie: ciò significa che se gli italiani credono che un carcerato su due sia straniero, a fronte di un dato reale del 33%, alcuni penseranno che addirittura il 60 o il 70% dei carcerati sia di origine non italiana.

Pagnoncelli indaga anche le motivazioni che stanno sotto questo pressoché totale scollamento tra realtà e opinione pubblica. Innanzitutto, c’è il problema dell’istruzione. In Italia solo il 14% dei maggiorenni vanta una laurea, e metà della popolazione adulta non va oltre la licenza media. E se è vero che lo studio non è sinonimo o garanzia di una piena e razionale comprensione del mondo intorno a sé, è altrettanto vero che l’istruzione rimane lo strumento più adatto a fornire gli strumenti e le competenze per analizzare criticamente la realtà. Il dato più preoccupante è allora quello dell’analfabetismo funzionale: secondo lo studio Piaac, in Italia il 28% della popolazione adulta è “incapace di comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere da testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità”, come riporta la definizione dell’Ocse.

La seconda motivazione è da ricercare nel mondo dei media, vecchi e nuovi: essi contribuiscono enormemente a creare uno pseudo-ambiente insicuro, catastrofistico e noncurante della realtà fattuale per avere più ascolti o mi piace. Secondo l’istituto Demos, con più del 20% di notizie “ansiogene”, i telegiornali italiani trattano la cronaca nera più del triplo rispetto ai colleghi britannici e spagnoli. Questo dato è particolarmente rilevante in un Paese in cui metà dei cittadini reperisce le informazioni ancora esclusivamente o principalmente dalla televisione.

I social vanno a peggiorare il fenomeno essenzialmente per due motivi. In primis, sono il principale mezzo di diffusione di bufale e fake news, come dimostra la campagna elettorale americana. Secondo BuzzFeed, notizie create ad hoc come l’endorsement di Papa Francesco a Donald Trump superarono come diffusione ed engagement notizie reali di giornali autorevoli come Washington Post e The New York Times. C’è poi la questione della filter bubble e dell’omofilia: i social media, tramite i loro algoritmi, ci mostrano quasi esclusivamente contenuti che potrebbero piacerci, e che quindi confermano le nostre opinioni. In questo modo si crea un mondo parallelo completamente distante dalla realtà che delimita noncurante i confini di quello che sappiamo sul mondo intorno a noi.

Vi è poi la questione della scarsa credibilità delle istituzioni e di un individualismo sempre più accentuato. La crisi delle istituzioni è stata letta particolarmente bene dal sociologo polacco Zygmunt Bauman: egli descriveva la contemporaneità come società liquida, un mondo in cui l’unico senso è il consumo e in cui tutte le solide e collettive certezze del passato – credo religiosi, stati, partiti – sono crollati lasciando l’individuo sperduto tra caos e incertezza. In questa confusione è facile che emerga l’egoismo del singolo: come scrive Giovanni Orsina nel suo libro La democrazia del narcisismo, il cittadino moderno è un uomo-massa egoista che ha perso ogni fiducia negli altri e che si ritiene unica misura della realtà intorno a lui. Per questo si sente legittimato a credere a quello che vuole e non accetta nessuna opinione diversa dalla sua, come vediamo nella crescente polarizzazione della politica e dall’imbarbarimento del dibattito pubblico. L’uomo-massa diffida istituzioni ormai liquefatte, dei dati e degli esperti, perché si fida solo di se stesso.

Nel mondo politico e mediatico è facile sfruttare il pessimismo degli italiani, inseguire il facile consenso dei sondaggi e speculare sulle paure dei cittadini. Così è stato fatto in questi anni, come testimoniato egregiamente della vita politica di Matteo Salvini, un camaleonte che ha cambiato più volte fede politica seguendo i sondaggi per racimolare facili consensi. In questo modo si crea però un circolo vizioso di maliziose semplificazioni della realtà che rischia di far affogare il Paese nel suo stesso pessimismo, distraendo le persone dai problemi reali e impedendo così che vengano affrontati. Senza una base comune fattuale condivisa, non può esistere davvero una democrazia, poiché mancano i fondamenti di un serio dibattito pubblico che metta al centro i veri bisogni del Paese.

A una certa politica finora è convenuto sfruttare e nutrire l’ignoranza delle persone e il loro utilizzo inconsapevole dei media: ciò gli ha permesso di fomentare l’odio sociale e di sfruttarlo in termini di consenso elettorale. Ma la buona politica dovrebbe fare esattamente il contrario. La politica può e deve fare molto, agendo sulle motivazioni che abbiamo precedentemente analizzato: investire in modo massiccio sull’istruzione, promuovere campagne d’informazione sui dati reali e combattere la disuguaglianza sociale. Come scrive Pagnoncelli nel finale del suo libro, c’è bisogno di un’alleanza tra politica, media e società civile. Solo attraverso la partecipazione di tutte le forze sociali sarebbe possibile promuovere una narrazione diversa e veritiera della realtà, stimolando una presa di coscienza collettiva che faccia venire a galla un senso di identità e di responsabilità condivisa, unico possibile rimedio all’ormai perduta credibilità delle istituzioni e all’egocentrismo malato del ventunesimo secolo.

Francesco Nasi per VISION

Segnalazioni, a cura di Sergio Falcone

Beni comuni

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Il governo razionale dei beni comuni e il problema della scarsità
di Gianfranco Sabattini

Il continuo dibattito sulla natura e l’uso dei beni comuni è condizionato dall’incertezza che pesa sulla loro definizione; da esso tuttavia sembra “emergere” una definizione che considera beni comuni tutte quelle risorse che risultano necessarie alla vita (perché preordinate a soddisfare stati di bisogno di particolare rilevanza per gli individui) e che, investendo i diritti fondamentali delle persone, si caratterizzano per la non esclusione dall’uso generale, con conseguente non assoggettabilità ad un prezzo, quale corrispettivo per il loro uso.
In tempi di crisi economica persistente, il dibattito pubblico in corso in Italia tende a porre la gestione dei beni comuni in controtendenza rispetto all’assoggettamento delle risorse alle logiche del mercato. Tuttavia, le incertezze persistenti sulla definizione di bene comune impediscono che dal dibattito emergano le linee di una politica di riforma istituzionale utile a prefigurare una loro razionale gestione; ciò, al fine di sottrarre i beni comuni alla cosiddetta “tragedia dei commons” che, in considerazione della loro non esclusione dall’uso generale, potrebbe condurre alla loro totale “distruzione”.
Il governo razionale dei beni comuni può essere infatti prefigurato solo tenendo conto, al pari di tutte le risorse economiche, della loro scarsità. Ciò perché, il fatto d’essere di proprietà comune comporta che all’intera platea dei proprietari sia assegnato a titolo individuale il diritto d’uso, mentre a nessuno di essi è concessa la facoltà di escludere gli altri. Se i proprietari che dispongono del diritto d’uso sono troppi, le risorse di proprietà comune potrebbero essere esposte al rischio della sovrautilizzazione; le stesse risorse, potrebbero essere esposte anche al rischio della sottoutilizzazione, a causa, ad esempio, di una definizione del diritto di proprietà dei beni comuni che potrebbe “margini” di interferenza nelle modalità del loro uso (come accade, per esempio, in Italia, nell’uso di ciò che resta dei cosiddetti “usi civici”, la cui utilizzazione da parte dell’operatore pubblico – di solito i comuni – è spesso contestata dall’intera comunità municipale, titolare del diritto di proprietà). In entrambi i casi, i proprietari dei beni comuni sarebbero “condannati” a subire gli esiti negativi della “tragedia dei commons”.
La “tragedia” è connessa al rischio che i beni comuni possano essere gestiti, come sostengono i “benecomunisti”, da operatori diversi dai loro legittimi proprietari, in quanto fruitori; i titolari della proprietà indivisa di beni devono infatti sostituirsi direttamente a qualsiasi forma di potere, privato o pubblico, nel determinare come gestire la conservazione e le forme di fruizione di tali beni. Tuttavia, perdurando lo stato di scarsità, la loro gestione di questi beni non può prescindere dalle leggi economiche tradizionali che indicano le modalità ottimali, sia per la loro conservazione, che per il loro uso.
La proprietà comune, in quanto riferita all’insieme dei soggetti che compongono una determinata comunità, è diversa dalla proprietà pubblica. A differenza dei beni comuni, quelli di proprietà pubblica possono essere gestiti direttamente dagli enti pubblici proprietari, sulla base di processi decisionali maggioritari (cioè sulla base delle maggioranze politiche pro-tempore esistenti). Poiché l’insieme dei proprietari-fruitori dei beni comuni non dispone di autonomi meccanismi decisionali, l’esercizio del diritto di proprietà comune e la gestione dei beni cui tale forma di proprietà si riferisce devono essere delegati alla responsabilità di un “soggetto operante” (quale, ad esempio, una cooperativa) che deve esercitarli in nome e per conto del delegante, la comunità, in funzione della volontà collettiva che essa esprime.
Con riferimento al governo e all’uso dei beni comuni, sorgono perciò gli stessi problemi presenti ancora oggi in Italia in molte realtà territoriali, con riferimento agli antichi “usi civici”, dove gli enti locali, sulla base di decisioni maggioritarie, amministrano risorse che, in quanto beni comuni, possono essere gestite solo dalla comunità olisticamente intesa come “un tutto”.
Il suggerimento di Elinor Ostrom, l’economista premio Nobel che ha approfondito il tema dei beni comuni, si presta poco ad essere utilizzato per realizzare in termini efficienti il governo della proprietà di tali beni, secondo forme cooperative. L’intento del suo contributo è stato quello di pervenire ad una teoria adeguatamente specificata delle azioni collettive, mediante le quali un gruppo di operatori può organizzarsi volontariamente per utilizzare il frutto del suo stesso lavoro, o dei suoi beni di proprietà indivisa.
La Ostrom non crede nei risultati delle analisi teoriche condotte a livello di intero sistema sociale, ma solo nelle spiegazioni empiricamente confermate del funzionamento delle organizzazioni umane relative a specifiche e particolari realtà. Ciò perché, secondo la Ostrom, le analisi teoriche condotte a livello di intero sistema sociale comportano l’astrazione dalla complessità dei contesti concreti, per cui diventa probabile il rischio di rimanere “intrappolati” in una “rete concettuale” che astrae dalle realtà particolari.
Molte analisi condotte a livello di intero sistema sociale sarebbero perciò niente di più che metafore; ma affidarsi a metafore per gestire specifiche realtà può portare a risultati sostanzialmente diversi da quelli attesi. Un conto è spiegare come possono essere gestite in modo efficiente le risorse scarse di proprietà comune di una comunità di pescatori, oppure quelle di una comunità di allevatori; altro conto è spiegare come può essere realizzato, in condizioni di equità e di giustizia distributiva, il governo di tutte le risorse di proprietà comune di una determinata comunità nazionale.
In Italia il dibattito su come affrontare i problemi connessi alla realizzazione di uno stato del mondo più confacente alla gestione dei beni comuni si è svolto sinora prevalentemente con riferimento alla struttura istituzionale esistente. Questa, a causa dell’egemonia della logica capitalistica, secondo i “benecomunisti” avrebbe subito trasformazioni tali da determinare la crescente privatizzazione delle risorse disponibili. A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, infatti, all’insegna del “terribile diritto” della proprietà privata e del misconoscimento di alcuni dettati costituzionali che ne salvaguardavano la funzione sociale, è stata realizzata la distruzione dell’economia pubblica e la privatizzazione di buona parte del patrimonio pubblico; processo, questo, che, non essendo ancora ultimato, è giusto motivo di preoccupazione per i “benecomunisti”.
Il movimento “benecomunista”, dotato prevalentemente di un’anima giuridica, considera i beni comuni, non già come beni economici aventi caratteri peculiari, ma come dei diritti universali, la cui definizione non può essere “appiattita” su considerazioni esclusivamente derivanti dalla teoria economica. Per dirla con le parole di Stefano Rodotà, il giurista che è stato tra i primi ad introdurre la questione dei beni comuni in Italia, “se la categoria dei beni comuni rimane nebulosa, e in essa si include tutto e il contrario di tutto, [...] allora può ben accadere che si perda la capacità di individuare proprio le situazioni nelle quali la qualità ‘comune’ di un bene può sprigionare tutta la sua forza», in funzione della soddisfazione dei diritti universali corrispondenti ai bisogni esistenziali incomprimibili degli esseri umani.
I “benecomunisti” sostengono che, per evitare lo smarrimento della loro vera qualità comune, i beni comuni devono essere tolti dal mercato e salvaguardati giuridicamente per garantire a tutti la loro fruibilità. Ma come? Rodotà manca di dirlo; mentre è ineludibile, considerata la loro natura di risorse scarse, la necessità che siano stabilite le procedure da istituzionalizzate per governare la proprietà e la gestione dei beni comuni. Ciò al fine di evitare che la sola definizione dal lato del consumo di tali beni (intesi come fonte di soddisfazione di diritti universali) li esponga al rischio di un loro possibile spreco.
Tra l’altro, è necessario pervenire a una precisa definizione dei beni comuni, anche per stabilire quali dovrebbero essere realmente, tra le risorse disponibili, quelle da sottrarre alle leggi di mercato; se ci si riferisce, ad esempio, al trasporto pubblico locale, la mobilità delle persone nel territorio è un bene comune o è solo, tra gli altri, un bene il cui governo deve essere lasciato alle leggi di mercato? L’interrogativo potrebbe essere esteso ad una molteplicità di situazioni, sino ad includere nella classe dei beni comuni la maggior parte di tutto ciò che di momento in momento viene prodotto ed utilizzato all’interno del sistema sociale.
L’incertezza nella definizione dei beni comuni causa l’impossibilità di fare appropriati passi in avanti nella riflessione sulla riorganizzazione del quadro istituzionale che sarebbe necessario per una loro razionale gestione. I “benecomunisti”, mancando perciò di uscire dalla vaghezza definitoria su cosa sia un bene pubblico e quali siano le condizioni che valgono a trasformare una data risorsa in bene comune, “soffrono” dell’atteggiamento di chi è sempre propenso a valutare ex ante le proposte destinate a fare fronte a specifiche emergenze, senza il conforto di una valutazione sia pure potenziale ex post della loro desiderabilità ed attuabilità. Essi, infatti, trascurano che le proposte formulate in sede preventiva, senza un confronto con la modalità necessarie alla loro attuazione, corrono il rischio di rivelarsi fallimentari a posteriori.
Inoltre, le critiche che i “benecomunisti” rivolgono alla situazione istituzionale esistente mancano di prefigurare una struttura istituzionale alternativa, idonea ad esprimere “una progettualità di lungo periodo”. Tali critiche, infatti, si limitano ad affermare, in astratto, gli ostacoli che si oppongono al rispetto del mandato costituzionale che coniuga l’equità distributiva con l’efficienza economica e gestionale delle risorse delle quali dispone il Paese, mancando di considerare i problemi connessi con la forte territorializzazione che caratterizza di solito i beni comuni; nessun cenno viene fatto, inoltre, alle “politiche di infrastrutturazione” necessarie per garantire, a livello nazionale, l’accesso all’uso dei beni comuni localizzati solo in un dato territorio.
Per queste ragioni, le critiche dei “benecomunisti” tendono a risultare, dal punto di vista economico, quasi delle “scatole vuote”, utili solo a mobilitare sul piano ideologico l’opinione pubblica contro gli esiti della logica capitalistica; si tratta di critiche del tutto prive di ogni riferimento alla struttura istituzionale che dovrebbe essere realizzata, per garantire, a livello di intero sistema sociale ed economico, un razionale soddisfacimento dei diritti universali cui si fa riferimento. In altri termini, i “benecomunisti” mettono il carro davanti ai buoi, nel senso che la loro progettualità risulta finalizzata, non a prefigurare un possibile riformismo istituzionale, utile a consentire una gestione razionale dei beni comuni di proprietà collettiva, ma solo a correggere e contenere gli esiti indesiderati del funzionamento dei sistemi sociali capitalistici attuali; tutto ciò senza preoccuparsi di evitare gli esiti negativi dell’eccessiva propensione a rifiutare quanto dell’economia standard può risultare ancora idoneo a governare e salvaguardare i beni comuni.
Ciò sarebbe invece necessario, al fine di evitare che il rischio connesso al rifiuto ideologico delle leggi dell’economia standard possa causare anche inintenzionalmente la formulazione di strategie riformiste di lungo periodo svincolate dalla realtà. Uno dei peggiori sbagli che si possa commettere, nelle condizioni in cui versa attualmente l’Italia sul piano sociale ed economico, è pensare che una proposta astratta possa essere realmente attuata; sarebbe il peggior servizio reso al Paese, per via del fatto che esso finirebbe con l’essere ulteriormente penalizzato sovrastato dal funzionamento del proprio sistema economico in assenza di regole certe e concrete.

ARRIVA SETTEMBRE, FIRMA! per i beni comuni per le generazioni future

racc-rodota-2
[Comunicato del Comitato] Decine di migliaia di persone hanno già firmato, ma sono ancora centinaia le richieste di poter firmare a sostegno della legge di iniziativa popolare sui beni comuni, e di poter aderire, che giungono da tutta Italia: una sensibilità e una consapevolezza che unisce territori e comunità per una grande sfida culturale, politica, giuridica e sociale, la tutela e la valorizzazione di beni, materiali e immateriali, che sono direttamente connessi alla soddisfazione dei diritti fondamentali della persona. [segue]

Beni Comuni Firma Day – Venerdì 26 luglio 2019

anci-e-beni-comuniComitato Popolare Difesa Beni Pubblici e Comuni “Stefano Rodotà”
LETTERA APERTA ALL’ANCI
E A TUTTI I SINDACI D’ITALIA
Beni Comuni Firma Day – Venerdì 26 luglio 2019
Il Comitato Popolare per la difesa dei beni pubblici e comuni “Stefano Rodotà” ha promosso la campagna www.generazionifuture.org al fine di portare alla discussione parlamentare, tramite Legge di Iniziativa Popolare, il testo del DDL Rodotà del 2008: una proposta di riforma del Codice Civile in sintonia con la Costituzione, che offrirebbe, fra l’altro, un riferimento normativo primario ai Regolamenti per i beni comuni che tanti Comuni italiani hanno già approvato.
[segue]

Verso Camaldoli/2

40711aladin-logo-lampadaSi terrà dal 26 al 30 agosto a Camaldoli la Settimana teologica 2019, intitolata “Fede e politica. Un dialogo da ricominciare”, organizzata al MEIC, Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale. Per l’importanza e la ricchezza dei contenuti abbiamo ripreso dal sito del Meic su Aladinpensiero una parte dei lavori preparatori, ripubblicandoli integralmente o riportando i relativi link. Contiamo ora questa attività. Daremo ovviamente conto dei lavori della Settimana e delle conclusioni.
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VERSO CAMALDOLI/1 Fede e politica: un servizio di cultura
13 Giugno 2019

di RICCARDO SACCENTI
ricercatore della Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII
delegato Meic Toscana

Il passaggio storico che ci troviamo ad attraversare viene descritto, sul piano politico, da un lessico dominato dal binomio sovranismo/populismo, con il quale si cerca di significare un mutamento radicale negli equilibri e nelle dinamiche con cui si costruisce la decisione politica, soprattutto all’interno di sistemi istituzionali democratici e liberali. Tuttavia, questa scelta semantica, che assume come tratto qualificante l’accentuazione posta sul primato assoluto dell’interesse del popolo sovrano, ricorre a concetti che appartengono oramai alla storia del secolo precedente e che non sono in grado di restituire fino in fondo la radicalità di un mutamento storico nel quale siamo direttamente coinvolti.

Sotto la superficie estremamente sottile di queste espressioni si cela infatti un movimento magmatico nel quale ad essere messi in discussione, fin nelle loro radici, sono i concetti di democrazia, di libertà, di giustizia, che hanno segnato il Novecento. Il terreno della politica, che oggi mostra tensioni e conflitti, è il precipitato di tutto questo: rappresenta cioè l’esito di una faglia che si è creata e si è allargata essenzialmente sul terreno della cultura e che dunque richiede di essere presa in considerazione con gli strumenti propri della cultura.

E come tutte le realtà umane e storiche, anche questo cambio d’epoca cela rischi e opportunità che una lettura teologica è in grado di mettere in luce. Lo sforzo di far sì che la Parola di Dio interroghi anche questa stagione di “crisi” delle culture politiche e della politica stessa, cela potenzialità di speranza non ancora colte e del tutto inespresse. Si tratta di un impegno che richiedere una profonda maturità spirituale e teologica e al tempo stesso un’apertura al mondo e alla storia all’insegna di una misericordia intellettuale radicata nella convinzione che ogni frammento della vicenda umana è destinatario dell’annuncio del Vangelo. Per realtà ecclesiali che come il Meic hanno nell’apostolato della cultura il loro proprium vi è qui la consapevolezza di un’urgenza a cui rispondere: andare, in questo nostro tempo, alle radici di una lettura sapienziale della politica e restituire alla cultura quella funzione pubblica di strumento per dare alla politica un senso profondo della storia e dell’umanità.
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VERSO CAMALDOLI/2 Delegare non basta, servono cittadini protagonisti
21 Giugno 2019

di PAOLO DACCO’
delegato regionale Meic Lombardia

Lo spazio politico e del dibattito culturale è dominato da chi pensa di potersela cavare con poco: frasi e annunci ad effetto, promesse a getto continuo – non importa se contraddittorie e senza verifica successiva, capitani e caporali più o meno carismatici e zero idee complesse, ragionamenti e argomentazioni.

I cittadini meno attrezzati, oppure preparati ma animati da poca tensione verso un esercizio pieno dei diritti e dei doveri che la cittadinanza porta con sé, trovano decisamente più semplice delegare ogni decisione al leader di turno, senza assumere in prima persona posizioni o ruoli che esigerebbero poi impegni ed azioni conseguenti.

Sgombrando subito il campo da illusioni di facile cambiamento, va detto che un antidoto ad effetto rapido non esiste. Il lavoro – anzitutto culturale – che la situazione ci richiede, per quanto sia da attivare prima possibile, prevede tempi di efficacia medio-lunghi.

Non per questo, per il fatto cioè di non vedere nessuna luce in fondo al tunnel (del divertimento, soprattutto altrui), possiamo sentirci autorizzati al disimpegno o a cedere il passo alla sensazione di inutilità che spesso pervade chi si trova a remare contro una corrente contraria e impetuosa.

Credo invece che sia più che urgente ed opportuno non mollare la presa, da un lato assumendo l’atteggiamento e lo stile della “cittadinanza attiva”, dall’altro individuando nel grande filone dei “beni comuni” un campo di azione e di elaborazione di una nuova cultura politica capace di superare lo sfilacciamento dell’ampio fronte democratico-costituzionale, andando oltre sigle, partiti e partitini ormai specializzati in “teoria e tecnica della gestione del proprio ombelico”, per ridare respiro e un nuovo orizzonte ideale ad azioni capaci di coinvolgere i cittadini nuovamente come parte di una comunità e non solo come individui.

Il quadro è così complesso e frastagliato che sembra impossibile trovare un punto da cui partire. Credo che la visione complessiva sulla nostra realtà espressa nella Laudato Si’ e i temi in essa contenuti possano rappresentare un terreno comune a tante espressioni – non necessariamente ispirate da una prospettiva credente – di una nuova cultura di promozione di ciò che è comune ed essenziale per la vita di tutti.

Questo a tutela dei diritti di chi vive oggi, ma allo stesso tempo di quelli delle generazioni future.

In questa direzione si collocano i movimenti sociali e popolari (non a caso convocati più volte da Papa Francesco) che muovendo da una critica ai dogmi della globalizzazione ci hanno accompagnato e sollecitato negli ultimi decenni.

Da Seattle a Genova, al Forum dei Movimenti per l’Acqua con la grandissima vittoria referendaria del 2011 resa finora inefficace da scelte di segno opposto da parte di tutti i governi che da allora si sono succeduti, fino alla campagna in corso in questi mesi, promossa in tutta Italia dai Comitati per i beni pubblici e comuni “Stefano Rodotà” (www.generazionifuture.org), che propone una raccolta di firme per una Legge di iniziativa popolare che vuole l’inserimento esplicito nel Codice civile dei beni comuni e della loro tutela.

Insomma, per chi lo vuole c’è già da subito modo e spazio per essere attivi, iniziando a ridare senso e sostanza al nostro comune essere cittadini.
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VERSO CAMALDOLI/3 Nell’epoca dei populismi, investire in formazione
27 Giugno 2019

di MARCO FORNASIERO

“Fede e politica. Un dialogo da ricominciare”. Questo il titolo della Settimana teologica del Meic 2019. Probabilmente un dialogo che non si è mai interrotto perché cos’è la politica se non un atto di fede verso il prossimo, un prendersi cura dell’altro? Il mondo culturale dal quale proveniamo ha fatto da principe nel rapporto con la politica. Un ponte tra la formazione delle coscienze, tema tanto caro a chi come me ha vissuto l’esperienza della Fuci, e le esperienze a servizio del Paese a tutti i livelli. Potrà sembrare banale, ma il tema oggi è: vale la pena investire sulla formazione alla politica nell’epoca dei populismi? La risposta può essere solo che affermativa. Potrà sembrare scontato ma comporta un atto di responsabilità. Desiderare di percorrere questa strada significa decidere di mettersi in dialogo soprattutto con persone che possono sembrare distanti, che provengono da realtà differenti. È in questi momenti che prende corpo l’espressione “essere Chiesa”. Nel rapporto tra fede e politica, un aspetto dal quale oggi non è possibile esimersi è la comunicazione. Possiamo dire che fare politica oggi significa anzitutto saper comunicare, è difficile essere generativi se non si è in grado di comunicare le proprie idee all’esterno.

Una realtà che negli anni ha incarnato questa essenza è Connessioni, una comunità di giovani che da dieci anni dibattono e si formano sui grandi temi del Paese a partire dalla dottrina sociale della Chiesa. È bene ricordare come questa realtà sia nata dall’impulso del mondo associativo cattolico (Fuci, Azione cattolica, Agesci, Mcl, Gioventù Francescana ecc.), dalla volontà delle singole dirigenze nazionali di mettersi in rete, connettere i virtuosismi. Ed è proprio questo a mio avviso il punto di forza, a Connessioni non si frequenta una scuola di formazione politica ma si vive un’esperienza di fede declinata in tutti i suoi aspetti. Viene proposto un metodo che scandisce i lavori degli incontri in cinque momenti. Il primo è dedicato all’introduzione spirituale che seppur breve, costituisce il fondamento dell’agire politico e la base di partenza per ogni nostro incontro. Il secondo momento è dedicato all’ascolto e al dialogo con uno o più relatori sul tema della giornata. Il terzo è dedicato ai lavori di gruppo che si ispirano al metodo della casistica gesuitica, in cui dal caso concreto si risale al principio generale. Questo momento è fondamentale perché è durante la divisione in lavori di gruppo che si cerca di trasmettere il metodo proprio della democrazia deliberativa. L’esito dei lavori di gruppo sfocia nel quarto punto, la condivisione in plenaria del lavoro svolto. Last but not least, l’ultimo momento è rappresentato dal pranzo comunitario in cui ognuno è chiamato in base alle proprie disponibilità, a contribuire a questo momento di condivisione e amicizia.

Credo che ci sia ampio spazio di dialogo nel rapporto tra fede e politica e credo anche che le singole associazioni possano giocare un ruolo fondamentale nella formazione alla politica delle nuove generazioni, ma per farlo dovranno passare a mio avviso da due capisaldi: il fare rete per evidenziare gli aspetti virtuosi di ciascuna realtà nel rispetto delle singole autonomie, così da generare comunità; la comunicazione per dare corpo e ali ai contenuti.
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VERSO CAMALDOLI/4 “La fede ha una parola da dire su tutto”
03 Luglio 2019

di ROCCO D’AMBROSIO
ordinario di Filosofia politica, Pontificia Università Gregoriana

Sono passati cento anni da quel gennaio del 1919, quando i cattolici italiani, guidati da Luigi Sturzo, sono ritornati ad impegnarsi direttamente in politica. Dei tanti nobili profili e alti contenuti, è impossibile fare sintesi, eppure solo la loro storia può illuminare e guidare il presente dei cattolici italiani. Consci che, come scriveva Pietro Scoppola, “la storia in contrasto con l’opinione corrente non dà lezioni, non detta comportamenti, non dice a nessuno cosa deve fare; ma solo aiuta, un poco, a capire che cosa siamo, lasciandoci tutta intera la responsabilità di scegliere, dopo averci messo in una posizione un poco più elevata, con la possibilità di un orizzonte più aperto”. Questa storia, oggi, non può prescindere dall’indicazione di Paolo VI: “Una medesima fede cristiana può condurre a impegni diversi”. L’invito papale e conciliare ad impegnarsi in politica non contiene mai un’indicazione di schieramento e di partito. Per questo motivo il magistero si limita a ricordare solo le esigenze etiche fondamentali e irrinunciabili nell’azione politica dei cattolici, che sono: il rifiuto dell’aborto e dell’eutanasia; la tutela dei diritti dell’embrione umano, della famiglia, della libertà di educazione e la tutela sociale dei minori; la liberazione delle vittime dalle moderne forme di schiavitù; la libertà religiosa; lo sviluppo per un’economia al servizio della persona e del bene comune; la giustizia sociale; la solidarietà umana; la sussidiarietà; la promozione della pace. Questi principi morali non ammettono deroghe, eccezioni o compromesso alcuno e sollecitano una forte responsabilità personale nel realizzarli (cfr. Nota della CDF, 2002). Quindi, tutti i cattolici, a prescindere dalla loro collocazione politica e sociale, sono tenuti a seguire fedelmente tutte, nessuna esclusa, queste indicazioni etiche.

Eppure una frattura esiste tra i cattolici italiani e non è quella dello schieramento: è quella della coerenza. Ci sono coloro che vivono in politica servendo il Vangelo per il bene comune e, purtroppo, ci sono anche quelli (di destra, sinistra e centro) che vivono servendosi del Vangelo per accrescere interessi e potere. La frattura esiste non per carenze magisteriali, ma per deficienze formative, sia a livello di autoformazione che di itinerari in parrocchie e diocesi. Sono pochi i cattolici che giungono all’impegno politico con una robusta formazione intellettuale, un cuore grande e una fede solida. Chi è seriamente formato sa bene che non si può restare in silenzio quando sono in gioco i cardini della democrazia: solidarietà, unità dei popoli, pace, rispetto della dignità di tutti, accoglienza, rispetto delle istituzioni e della fede religiosa, giustizia e così via. Principi anche cristiani.

La proposta lanciata da papa Francesco di indire un sinodo della Chiesa italiana sembra essere quanto mai attuale: è innegabile una sorta di “scisma sommerso” tra i cattolici italiani, specie sui temi sociali e politici. Abbiamo bisogno di riflettere tutti insieme sulla nostra testimonianza di fede nel mondo. Non basta essere contro aborto, eutanasia e altri temi di etica personale; accanto a questi deve essere della stessa forza il No a razzismo, xenofobia, corruzione, mafie, guerre e traffico di armi, egoismi nazionali e discriminazioni. Niente deve fermare o compromettere la testimonianza di pastori e laici credenti. Il buon Dio ci invita a essere forti e liberi da ogni compromesso con chi vuole comprare, magari con privilegi o leggi, o strumentalizzare, in tanti modi, il consenso dei credenti.

Insieme a Scoppola potremmo indicare altri cristiani coerenti e significativi: Sturzo, De Gasperi, La Pira, Dossetti, Moro, Bonhoeffer, Lazzati, Rodano, La Valle, Romero e altri ancora. Sono convinto che ad accomunarli è quanto Scoppola scriveva: “La fede ha una parola da dire su tutto! È che tocca a ognuno dei credenti di far sentire questa parola. A tutti i livelli. In tutti gli ambienti. Con umiltà. Senza arroganza. Ma con la consapevolezza di una grande responsabilità e di un momento decisivo per la storia del mondo”.
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Firmate per la tutela dei beni comuni!

comitato-bc-rodota-a-romaComitato beni pubblici e comuni Stefano Rodotà

Il Comitato di Difesa dei Beni Pubblici e Comuni “Stefano Rodotà” si pone l’obiettivo di riportare al centro del dibattito Nazionale la questione dei “BENI COMUNI”, attraverso il progetto di legge di iniziativa popolare, depositato in Cassazione il 18 Dicembre 2018, riprendendo il testo originale del disegno di legge Rodotà.
E’ in quest’ottica che invitiamo tutti i cittadini ad aderire all’iniziativa e a promuovere la raccolta firme. Per i residenti nel Comune di Cagliari i moduli per la raccolta delle firme sono disponibili presso le sedi comunali decentrate sul territorio (ex circoscrizioni comunali), che rimangono aperte al pubblico nei giorni e negli orari più avanti segnalati.
L’iniziativa a Cagliari è sostenuta dalle riviste online Aladinpensiero, Democraziaoggi, il manifesto sardo.
Documentazione pertinente:
il testo di legge d’iniziativa popolare
I materiali informativi, sono disponibili al seguente link: http://www.aladinpensiero.it/?p=95675;
La data per la pubblicazione all’albo pretorio del Comune è (fino al) 30/07/2019;
La data di scadenza per la raccolta firme è 30/07/2019.
CAGLIARI: orari apertura uffici per la raccolta delle firme. [segue]

Dibattito sulla democrazia oggi e sul dialogo tra fede e politica.

aladin-logo-lampadaSi terrà dal 26 al 30 agosto a Camaldoli la Settimana teologica 2019, intitolata “Fede e politica. Un dialogo da ricominciare”, organizzata al MEIC, Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale. Per l’importanza e la ricchezza dei contenuti riprendiamo dal sito del Meic su Aladinpensiero una parte dei lavori preparatori, ripubblicandoli integralmente o riportando i relativi link. Daremo ovviamente conto dei lavori della Settimana e delle conclusioni.
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Camaldoli 2019
VERSO CAMALDOLI/6 Per città dell’uomo a misura d’uomo
19 Luglio 2019

di FEDERICO MANZONI
L’esperienza dell’amministrazione locale, e cioè quella di un impegno politico declinato nella propria comunità territoriale, è oggi, ancor più che in passato, un banco di prova – impegnativo, esigente ma anche di soddisfazione – per provare, da cristiani, a “costruire la Città dell’uomo a misura d’uomo”.
Anche i temi amministrativi apparentemente più “laici” sono infatti l’occasione per apportare un proprio contributo di competenza e di idee ispirato al concetto di Bene comune, nella consapevolezza che, come afferma la Dottrina sociale della Chiesa, esso non è la semplice sommatoria dei beni individuali.
Tanto più in un contesto generale progressivamente improntato ai canoni dell’individualismo, l’impegno politico per costruire comunità coese al proprio interno e aperte verso l’esterno, che facciano delle inevitabili differenze non un limite ma un’opportunità, che mettano al centro una visione d’insieme coraggiosa e lungimirante potrebbe apparire un’impresa improba.
Non mancano le contraddizioni e le difficoltà, che talora conducono a un disincantato scoramento, ma lo sprone – come ha insegnato il fondatore dello scoutismo lord Baden Powell – a “fare del proprio meglio” per “lasciare il mondo un po’ migliore di come lo si è trovato” costituisce ragione motivante di un impegno. E quale via più immediata e concreta per tentare di “lasciare il mondo un po’ migliore di come lo si è trovato” nel dedicarsi alla cura della propria comunità locale?
Un impegno, questo, che deve basarsi su almeno due caratteristiche di fondo: lo studio e l’ascolto.
Lo studio, perché ogni provvedimento che si va ad assumere deve essere preceduto da un approfondimento e da un approccio rigoroso.
In questo senso, non si può non andare con la mente allo splendido invito che Benigno Zaccagnini, di cui quest’anno ricorre il trentesimo anniversario della morte, rivolgeva ai giovani democristiani nella accesa dialettica con i comunisti: “se essi studiano, noi dobbiamo studiare di più; se essi sono seri, noi dobbiamo essere più seri di loro…”.
E l’ascolto, anzitutto per rispondere a un’istanza sempre più diffusa da parte dei cittadini (singoli più che associati), che reclamano tempi e spazi di un confronto, che prima era mediato dai “corpi intermedi” e che oggi (complici i nuovi sistemi di comunicazione nell’era dei social network, ma anche talune infelici riforme legislative, come l’abolizione delle circoscrizioni nei Comuni con popolazione inferiore ai 250 mila abitanti) è sempre più diretto e privo di filtri. Un ascolto, tuttavia, non dettato semplicemente da una necessità, ma anche da una opportunità: quella di costruire processi e progetti significativamente migliori nel proprio contenuto e più condivisi sul piano sociale e politico, se fatti oggetto di seri percorsi partecipativi.
Tutto questo richiede una grande dose di pazienza e molto equilibrio nel non farsi schiacciare dal governo della quotidianità e dell’emergenza rispetto alla costruzione di percorsi di più ampio respiro, che pure si deve avere il coraggio e la capacità di spiegare e, quanto più possibile, far comprendere. Così come l’attenzione a una visione “alta” e prospettica nel disegnare le strategie politico-amministrative non deve cadere in un’astratta teoria, ma va accompagnata a una sana concretezza e allo sforzo di fornire risposte in tempi accettabili.
C’è poi una terza caratteristica che l’amministrazione locale richiede oggi, molto più che in passato. Una sistematica attenzione, capacità e fantasia nel saper ricercare fonti di finanziamento esterne al bilancio del proprio Ente, senza dunque trincerarsi dietro lo stato di necessità – che talvolta diventa alibi – dell’assenza di risorse per perseguire determinate politiche.
In questi ultimi anni, anche grazie ai Fondi europei, numerose opportunità di cofinanziamento sono state messe a disposizione da parte dello Stato a favore degli Enti locali (non solo grandi città ma anche piccoli comuni) sul fronte dell’edilizia scolastica, della mobilità sostenibile, della riqualificazione urbana, delle politiche sociali. Si tratta, sia detto per inciso, di investimenti i cui benefici solo in parte sono già oggi visibili e apprezzabili e che certamente produrranno frutti positivi anche nei prossimi anni.
In conclusione, l’impegno per costruire la Città dell’uomo a misura d’uomo richiede dunque una profonda idealità ma anche una cura e una dedizione molto concreta e intraprendente. E le comunità cristiane possono certamente contribuire positivamente a creare un terreno fertile per formare persone che vogliano mettersi in gioco anche nella dimensione dell’impegno pubblico, a partire dal proprio territorio.
(L’autore, avvocato, dottore di ricerca in Diritto pubblico e socio Meic, è assessore alle politiche della mobilità e ai servizi istituzionali del Comune di Brescia)
#camaldoli2019
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VERSO CAMALDOLI/5 Democrazia deliberativa, per rigenerare la partecipazione
11 Luglio 2019

di GIANDIEGO CÀRASTRO
“La politica si fonda sul dato di fatto della pluralità degli uomini… tratta della convivenza dei diversi… nasce tra gli uomini… nasce nell’infra e si afferma come relazione”. Luciano Manicardi cita H. Arendt nelle pagine iniziali di “Spiritualità e politica”, aggiungendo che “nello spazio vuoto tra gli uomini, tra me e l’altro, tra me, l’altro e il terzo, tra noi e gli altri, dunque nello spazio interpersonale e sociale, la politica incontra anche la dimensione spirituale”.
La convivenza politica tra diversi in Europa è stata per decenni garantita dalla forma della democrazia rappresentativa e dallo Stato di diritto. Oggi questo assetto è scosso dalla diffusione di nuove diseguaglianze su scala globale, dagli effetti sociali del cambiamento climatico, dal fenomeno delle grandi migrazioni, dal radicarsi del paradigma dell’”intelligenza artificiale”. Dinanzi a queste novità epocali, siamo tentati di arroccarci in un pensiero neo-autoritario, populista, nostalgico e pre-conciliare, in fondo ostile verso le libertà ed il pluralismo. Oppure possiamo innescare insieme nuovi scenari civili, facendo leva sulla facoltà di cui scrive sempre Manicardi: la immaginazione.
Occorre, allora, immaginare nuovi orizzonti democratici. In realtà, non occorre “scervellarsi “troppo, perché basterebbe mettere a fattor comune le tante prese di posizioni che, in modo sinora isolato, si sono susseguite a favore della cosiddetta democrazia deliberativa. Proprio su questo tema, il MEIC ha avviato una riflessione nel 2018 con l’intervento di Rosy Bindi alla Settimana di Camaldoli. Anche altri soggetti culturali hanno iniziato a dare attenzione a queste tematiche: ACI, ACLI, Argomenti 2000 (gruppo Democrazia di prossimità di Argomenti2000 Senigallia), Bene Comune, C3dem, Connessioni, Tuttavia…
La democrazia deliberativa si caratterizza per essere basata su percorsi partecipativi strutturati in cui ogni persona può vedere riconosciuto il proprio punto di vista e può essere messa nelle condizioni di ascoltare i punti di vista degli altri. I percorsi partecipativi sono condotti, per un periodo di due-tre mesi, da un coordinatore distinto dal decisore pubblico e che sia esperto nella facilitazione ed equidistante dalle parti in causa che, nel processo, si incontrano, confrontano ed a volte si scontrano. I partecipanti non votano, ma si ascoltano. La democrazia deliberativa “esalta” il contributo degli esperti (docenti universitari, tecnici, etc), ma anche dei contro-esperti, senza dimenticare il “sapere comune” che proviene dai cittadini. La democrazia deliberativa, infine, prevede che i decisori pubblici prendano sul serio gli argomenti dei partecipanti, assumendosi l’impegno di specificare in pubblico quali proposte emerse dal processo saranno accolte e quali rifiutate, indicandone le motivazioni.
Sembra fantademocrazia: eppure il nostro Paese da decenni è attraversato, benché in sordina, da esperimenti di innovazione democratica sulla scia deliberativa! Qui ricordo i dibattiti pubblici svolti sulla Gronda di Genova (2009), sul porto di Livorno (2016) e sull’utilizzo dei gessi rossi per il ripristino di una cava a Gavorrano, nel grossetano (2017). In questi ultimi due casi, i processi sono stati agevolati grazie alla presenza di una specifica legge regionale toscana (la n. 46 del 2013). Anche la Regione Emilia-Romagna, la Provincia di Trento, la Regione Puglia si sono recentemente dotate di strumenti legislativi capaci di innescare nuovi processi partecipativi.
Nel confronto che si è aperto verso Camaldoli 2019 Paolo Daccò ha chiesto di sostenere la proposta di legge sui beni comuni. Ecco, io vorrei collegarmi a questa idea, proponendo di dar vita ad una coalizione plurale (tra MEIC, Argomenti2000, Acli, Aci, Tuttavia, Bene Comune, C3dem, Connessioni etc) sia sulla proposta promossa dal giurista Rodotà, sia sulla immaginazione di nuovi incubatori di processi partecipativi inclusivi, deliberativi, capaci di influenzare le politiche pubbliche, dimostrando così la plausibilità della rigenerazione della nostra partecipazione democratica e repubblicana. #camaldoli2019
(L’autore è impegnato nell’associazione di amicizia politica Argomenti2000 ed è dottorando all’Università Politecnica delle Marche in Scienze della vita, curriculum in Protezione civile e ambientale, con un progetto di ricerca sul dibattito pubblico prima di una grande opera)
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VERSO CAMALDOLI/2 Delegare non basta, servono cittadini protagonisti

21 Giugno 2019
di PAOLO DACCO’
delegato regionale Meic Lombardia
Lo spazio politico e del dibattito culturale è dominato da chi pensa di potersela cavare con poco: frasi e annunci ad effetto, promesse a getto continuo – non importa se contraddittorie e senza verifica successiva, capitani e caporali più o meno carismatici e zero idee complesse, ragionamenti e argomentazioni.
I cittadini meno attrezzati, oppure preparati ma animati da poca tensione verso un esercizio pieno dei diritti e dei doveri che la cittadinanza porta con sé, trovano decisamente più semplice delegare ogni decisione al leader di turno, senza assumere in prima persona posizioni o ruoli che esigerebbero poi impegni ed azioni conseguenti.
Sgombrando subito il campo da illusioni di facile cambiamento, va detto che un antidoto ad effetto rapido non esiste. Il lavoro – anzitutto culturale – che la situazione ci richiede, per quanto sia da attivare prima possibile, prevede tempi di efficacia medio-lunghi.
Non per questo, per il fatto cioè di non vedere nessuna luce in fondo al tunnel (del divertimento, soprattutto altrui), possiamo sentirci autorizzati al disimpegno o a cedere il passo alla sensazione di inutilità che spesso pervade chi si trova a remare contro una corrente contraria e impetuosa.
Credo invece che sia più che urgente ed opportuno non mollare la presa, da un lato assumendo l’atteggiamento e lo stile della “cittadinanza attiva”, dall’altro individuando nel grande filone dei “beni comuni” un campo di azione e di elaborazione di una nuova cultura politica capace di superare lo sfilacciamento dell’ampio fronte democratico-costituzionale, andando oltre sigle, partiti e partitini ormai specializzati in “teoria e tecnica della gestione del proprio ombelico”, per ridare respiro e un nuovo orizzonte ideale ad azioni capaci di coinvolgere i cittadini nuovamente come parte di una comunità e non solo come individui.
Il quadro è così complesso e frastagliato che sembra impossibile trovare un punto da cui partire. Credo che la visione complessiva sulla nostra realtà espressa nella Laudato Si’ e i temi in essa contenuti possano rappresentare un terreno comune a tante espressioni – non necessariamente ispirate da una prospettiva credente – di una nuova cultura di promozione di ciò che è comune ed essenziale per la vita di tutti.
Questo a tutela dei diritti di chi vive oggi, ma allo stesso tempo di quelli delle generazioni future.
In questa direzione si collocano i movimenti sociali e popolari (non a caso convocati più volte da Papa Francesco) che muovendo da una critica ai dogmi della globalizzazione ci hanno accompagnato e sollecitato negli ultimi decenni.
Da Seattle a Genova, al Forum dei Movimenti per l’Acqua con la grandissima vittoria referendaria del 2011 resa finora inefficace da scelte di segno opposto da parte di tutti i governi che da allora si sono succeduti, fino alla campagna in corso in questi mesi, promossa in tutta Italia dai Comitati per i beni pubblici e comuni “Stefano Rodotà” (www.generazionifuture.org), che propone una raccolta di firme per una Legge di iniziativa popolare che vuole l’inserimento esplicito nel Codice civile dei beni comuni e della loro tutela.
Insomma, per chi lo vuole c’è già da subito modo e spazio per essere attivi, iniziando a ridare senso e sostanza al nostro comune essere cittadini.
#camaldoli2019

http://www.meic.net/index.php?id=4104

La ricerca di un’economia al servizio delle persone e delle comunità

«Tra Stato e mercato salviamo i beni comuni»
intervista a Johnny Dotti, a cura di Lorenzo Fazzini
in “Avvenire” del 14 luglio 2019, ripreso da C3dem.
dotti-beni-comuni
«Jyrki Katainen, finlandese, vicepresidente della Commissione europea, durante la crisi greca se ne uscì con una proposta che fa bene capire una certa logica: a garanzia del debito pubblico chiese al governo di Atene nientemeno che il Partenone». Questa non è una delle sue tante e vibranti provocazioni: Johnny Dotti, imprenditore sociale, conferenziere e docente alla Cattolica di Milano, la riporta nel suo nuovo libro, scritto insieme ad Andrea Rapaccini, L’Italia di tutti. Per una nuova politica dei beni comuni (Vita e Pensiero, pagine 160, euro 14), in cui analizza questa nuova frontiera dell’azione amministrativa e dell’impegno sociale. Infatti è in corso anche una campagna di firme, curata dal Comitato popolare di difesa dei beni comuni, sociali e sovrani, per una legge di iniziativa popolare sul tema.

Beni comuni, questi sconosciuti, pare di leggere tra le righe del suo libro. Eppure mai come negli ultimi anni questa espressione è risuonata nel dibattito pubblico. Perché se ne è occupato?
Perché sotto diversi aspetti – giuridico, accademico, economico – ci siamo infilati in un’alternativa che non lascia molto spazio: o il monopolio dello Stato (che però non è in grado di universalizzare i beni comuni) oppure lo stress economico del mercato. E quindi i beni comuni, stritolati da queste due forze opposte, sono a rischio. Il caso del Partenone di Atene rivendicato dal politico Ue è lampante. Domandiamoci: di chi è il Partenone? Dei greci? Solo dei greci? Nella logica capitalista si tende a massimizzare il profitto di ogni realtà. Oggi, nella crisi dell’Occidente, ci troviamo in una traiettoria di ristrettezza, sia politica che economica: i beni comuni possono diventare una leva che ci può sollevare dalla strettoia Stato/mercato in cui siamo ingabbiati. Possono trasferire all’economia e alla politica nuovi slanci nonché dare nuova linfa alla democrazia, se non si intende questa semplicemente come la legge della maggioranza. Del resto, il pensiero religioso degli ultimi anni – dalla Caritas in veritate di Benedetto XVI alla Laudato si’ di Francesco – ci ha fornito molti spunti su questi temi. I beni comuni sono un elemento politico, economico e spirituale che si ribella sia al freddo statalismo sia al troppo liberismo del mercatismo globalizzato.

I beni comuni come la riproposizione di quella “terza via” che aveva fatto la fortuna di una certa sinistra?
Beh, quella proposta restava prigioniera – anche nel caso di governi socialdemocratici – della proposta binaria che si può riassumere, appunto, nell’alternativa Stato/mercato. Mentre invece la nostra Costituzione (con gli articoli 2, 41, 43, 45, 118, solo per citarne alcuni), attraverso il principio di sussidiarietà, ci parla di ben altro. Già Stefano Rodotà aveva cercato, con la Commissione sui beni comuni, di inserirli nel nostro Codice civile, purtroppo senza successo. Parlare dunque di beni comuni oggi non significa ripresentare qualcosa di vecchio e stantio, bensì riattualizzare qualcosa di antico che ha ancora molto da dire oggi. Esiste un campo di valore che non sta dentro la costruzione binaria tra Stato e mercato – per dirla con Max Weber, dentro il “formale” – e che corrisponde a tutto quello che viene prodotto e vissuto con un significato da parte di una comunità. Anche sull’emergenza ecologica, se ben guardiamo, qualcosa si può fare solo quando si interviene pensando al mondo e in termini di beni comuni. Altrimenti, se affidiamo alla tecnica la domanda di risolvere quei problemi che lei stessa ha causato (vedi il “progresso” tecnologico), restiamo intrappolati in una non soluzione.

Nel suo libro lei fa diversi esempi di pratiche positive dei beni comuni. Prende in analisi il Fai, Fondo per l’ambiente italiano, il referendum sull’acqua bene comune, l’esperienza amministrativa di Barcellona, e altre realtà. Poi però succede che spesso la politica blocca iniziative che in nome dei beni comuni partono dal basso, vedi le scelte politiche sull’acqua in
Italia. Come se ne esce?

In effetti, il libro si chiude con un grande appello alla politica di oggi. C’è bisogno di politica, oggigiorno, non di meno politica. Il principio sussidiarietà, per esempio, è una roba seria, mentre spesso è stato inteso come un semplice “dare i soldi agli amici”. Quello su cui vorrei esser chiaro è che non esiste una società se non esiste una comunità. Servono affezione e partecipazione, non legalismo. I beni comuni richiamano, appunto, una stagione di diritti, di doveri e di responsabilità. Esperienze di questo tipo puntellano l’Italia di oggi: penso alla rinascita di un castello come quello di Padernello, in provincia di Brescia, fatto rivivere proprio come bene comune non incasellabile dentro la dicotomia pubblico/ privato. Nei beni comuni risiede un gran pezzo del futuro che ci è rimasto per il nostro Paese.

I beni comuni vengono spesso intesi come un presidio della democrazia. Ma le tendenze che vogliono far superare il processo democratico non mancano, oggi, anche tra chi ha difeso i beni comuni stessi…
La questione dei beni comuni richiede un passaggio avanti nella democrazia. Quest’ultima si è sempre basata sul triplice valore del voto, della fiscalità e della pubblica amministrazione. Ma ora c’è bisogno di qualcosa in più e di un salto in avanti, perché quelle dimensioni hanno fatto il loro tempo. Seguendo le intuizioni del sociologo Mauro Magatti, penso che si debba uscire dal pensiero binario che vede accoppiati consumatore e produttore, Stato e mercato, governanti e governati. Oggi serve che si partecipi al bene della libertà degli altri. Prendiamo un caso concreto, sollevato da Andrea Rapaccini nel nostro libro. Nei prossimi anni avremo bisogno di 60 miliardi per mantenere operativi i nostri acquedotti. Una cifra impossibile per uno Stato privo di quel denaro. Privatizzare vuol dire relegare in una zona perversa l’uso di un bene comune come l’acqua. A questo punto si capisce che una logica feconda e generativa non è quella che pone in alternativa mercato e Stato, ovvero la logica dell’aut aut, ma quella più giusta è l’et et, che mette insieme le due forze in un campo ulteriore che è, appunto, quello dei beni comuni. Personalmente, non sono una persona che vuole stravolgere il sistema capitalista. Mi basterebbe che venissero autorizzate, ovvero potessero essere messe in campo e lasciate lavorare, delle esperienze – prendiamo il Terzo settore – che, appunto, in nome di un valore condiviso superano l’alternativa pubblico/privato. Si può fare.

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LE ATTIVITA’ E LE PROPOSTE DEL COMITATO RODOTA’
La legge di iniziativa popolare sui beni comuni e la Società Cooperativa di mutuo soccorso

Dopo oltre 10 anni dal disegno di legge delega, frutto del lavoro della Commissione Rodotà e dopo oltre 7 anni dal referendum del 2011, meglio conosciuto come “referendum per l’acqua pubblica”, la situazione che viviamo è quella di un Paese che continua ad essere sempre di più esposto al rischio che il neoliberismo, con i suoi strumenti di privatizzazione selvaggia di ogni bene e servizio pubblico, affondi il colpo finale.
Possiamo quindi dirci consapevoli che l’azione popolare, quella che in attuazione della Costituzione ci chiama ad esercitare la nostra sovranità, sia quanto mai urgente; e che si è accumulato certamente un ritardo che va recuperato. In questo contesto si inquadra l’iniziativa promossa dai componenti della Commissione Rodotà che viene portata avanti da un Comitato popolare per la difesa dei beni pubblici e comuni.
Un’iniziativa che si prefigge tre importanti obiettivi, il raggiungimento dei quali è unicamente nelle mani di ogni persona ed organizzazione che riterrà, condividendoli, di farli propri:
1) Riportare al centro del dibattito nazionale l’intera questione dei “Beni Comuni”, riprendendo il testo originale del disegno di legge Rodotà e trasformandolo in un’iniziativa di legge popolare: un testo storico cui la società civile e la giurisprudenza stessa devono molto.
2) Raccogliere perlomeno un milione di firme, e non solo le 50.000 necessarie per legge, perché il messaggio popolare sia coraggioso e forte aprendo una nuova stagione in cui al centro non vi siano solo numeri e contabilità, ma la persona, l’ambiente, il lavoro, in una sola parola l’attuazione del disegno costituzionale, di tutto ciò che sta nei suoi valori fondamentali e nell’indispensabile esigenza ecologista.
3) Costruire una rete permanente ad azionariato diffuso, una Società Cooperativa di Mutuo Soccorso fra generazioni presenti e future: per l’esercizio della sovranità popolare, per unire lotte e comunità, con strumenti di democrazia diretta (Referendum, Legge di Iniziativa Popolare, Petizione), di azione giudiziaria, d’informazione e di formazione ecologica e in difesa dei beni comuni. Azioni da 1 Euro, acquisibili una tantum da ogni persona fisica o giuridica durante e dopo la raccolta firme. Una rete solida e duratura pensata per rafforzare i legami e rendere più efficace l’azione comune. Un obiettivo di grande respiro, sfida per il presente e promessa responsabile per il futuro, da perseguire a partire dalla seconda metà del mese di febbraio.
Il successo di questa iniziativa non sarà decretato solamente dagli esperti e dagli attivisti dei “beni comuni”, ma anche dalla nostra capacità di far sentire l’importanza del coinvolgimento di ogni cittadino e cittadina, in Italia e non solo, nella costruzione di un ponte solido e duraturo verso il futuro.
Chi desidera fare propria questa sfida non avrà che da impegnarsi, come molti stanno facendo, sul proprio territorio e ovunque ne abbia la possibilità. Tutte e tutti potranno mettere a disposizione di questa causa la loro competenza, facendo valere le proprie ragioni e contribuendo concretamente, durante e dopo i sei mesi della raccolta firme, affinché il disegno di legge Rodotà diventi la migliore legge possibile.
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Comitato Popolare di Difesa dei Beni Pubblici e Comuni “Stefano Rodotà”
Via Giuseppe Avezzana, 51 – 00195 ROMA / C.F. 97996090581 comitatorodota@gmail.com
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www.benipubbliciecomuni.it

Aladinpensiero sostiene la raccolta di firme per la legge di iniziativa popolare “Disegno legge delega commissione Rodotà beni comuni, sociali e sovrani” promossa dal Comitato Popolare di Difesa dei Beni Pubblici e Comuni “Stefano Rodotà”

lampada aladin micromicroAbbiamo invitato i Sindaci dei Comuni sardi a pubblicizzare la raccolta di firme presso i rispettivi Municipi. Ecco il testo della lettera inviata al Commissario straordinario del Comune di Cagliari, identica nel testo a quella inviata a tutti i Sindaci e per conoscenza all’ANCI Sardegna. comitato-bc-rodota-a-romaEgr. Signor Commissario straordinario del Comune di Cagliari, dott. Bruno Carcangiu.
In qualità di direttore responsabile della News online Aladinpensiero, che sostiene la raccolta di firme per la legge di iniziativa popolare “Disegno legge delega commissione Rodotà beni comuni, sociali e sovrani” promossa dal Comitato Popolare di Difesa dei Beni Pubblici e Comuni “Stefano Rodotà”, richiedo cortesemente che il Comune di Cagliari pubblicizzi la disponibilità dei moduli per la raccolta firme presso i propri uffici, così come stanno facendo molti Comuni italiani. Al riguardo mi permetto di segnalare, come esempio, quanto hanno fatto altri Comuni italiani, inviando a parte copie dei relativi comunicati stampa.
La ringrazio per l’attenzione e Le porgo i miei più cordiali saluti. Franco Meloni, direttore Aladinpensiero News.
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Dibattito

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LA VERA NATURA DEL REDDITO DI CITTADINANZA

Il suo scopo non è di far sopravvivere una platea più o meno ristretta di persone che cercano e non trovano lavoro, ma di garantire il diritto all’esistenza di tutti, e la loro autodeterminazione, come prima responsabilità di uno Stato sociale, quando milioni di persone sono in povertà assoluta.
di Giuseppe Bronzini
(da “Volere la luna”)

Finalmente ha visto la luce il decreto legge istitutivo di un “reddito di cittadinanza” voluto dal Movimento 5Stelle come elemento “identitario” della sua partecipazione all’attuale governo.
[segue]

Consiglio direttivo del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale

coordinamento-democraziaSintesi della discussione e delle conclusioni del Consiglio direttivo del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale
Roma 26/1/2019
[segue]

AladiNewsEditoriali

lampada aladin micromicrod232b811-6c5b-43f8-805c-97f7498fbecepensatoreReddito di base universale e incondizionato: un’idea radicale per affrontare l’insicurezza economica e l’esclusione sociale del nostro tempo di Gianfranco Sabattini su AladinewsEditoriali.
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beni-comuni-postAl via il Comitato promotore per la proposta di legge di iniziativa popolare per i beni comuni: l’assemblea di Roma del 19 gennaio presso la Casa internazionale delle donne (a proposito di beni comuni…). I prossimi sei mesi utili per la raccolta delle firme potranno costituire prima di tutto l’occasione per tornare a parlare di una diversa idea di società Una sfida alla mercificazione Paolo Cacciari, su ComuneInfo. – Su Aladinews.
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fatto-24-01-2019
- Approfondimenti.
- Commissione Rodotà – per la modifica delle norme del codice civile in materia di beni pubblici (14 giugno 2007) – Proposta di articolato.