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Convegno Adriano Olivetti e la Sardegna – Dibattito

adriano-olivetti-poster-img_4780Convegno su Adriano Olivetti. Dibattito
Rileggendo Adriano Olivetti: che non era utopico ma oggi, forse, lo è.
di Gianni Loy
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Convegno su Adriano Olivetti. Dibattito

img_4337Rileggendo Adriano Olivetti: che non era utopico ma oggi, forse, lo è.
img_4989di Gianni Loy

Che l’esperienza imprenditoriale di Adriano Olivetti sia da annoverare tra i successi più esemplari dell’industria italiana è fuor di dubbio. Quella fabbrica, per altro verso, non è soltanto il luogo dove si esaltano l’innovazione, l’efficienza, l’organizzazione, ma è anche luogo di sperimentazione di un’idea, di una filosofia, direi persino di una religione, di cui egli è il fondatore.

Adriano Olivetti, sia chiaro sin dall’inizio – in quanto costituisce il presupposto di quanto mi accingo ad esporre – non elabora quella sua filosofia sulla base della propria esperienza imprenditoriale ma, proprio al contrario, prima elabora la sua teoria – altri hanno esposto il percorso e le fonti – e successivamente si trova a doverla applicare all’impresa che governa. La successione è più logica che temporale, visto che i due percorsi, in realtà, procedono in parallelo.

La fabbrica, infatti, a prima vista, potrebbe costituire un ostacolo all’affermarsi di quella filosofia che va predicando per tutto il paese, perché nella fabbrica, come sino a non troppo tempo prima predicavano i papi, la materia esce nobilitata ma l’uomo – e soprattutto la donna – possono uscirne corrotti. La fabbrica, sia che la si osservi attraverso la lente del liberismo – di quello ingentilito ed ossequioso ai comandamenti – dove il padrone, con fare paterno, dovrebbe prendersi cura filiale dei propri operai (su quello più rude non occorre spendere parole); sia che la si osservi attraverso il paradigma del marxismo, che esalta il conflitto di classe proponendosi il rovesciamento dell’ordine costituito, quella fabbrica non sembra proprio il luogo dove possano prosperare “libertà e bellezza”, la libertà e la bellezza che dovrebbero insegnarci ad essere felici.

La fabbrica, quindi, è il luogo dove sarà più difficile dimostrare la fattibilità di quell’ordine, armonico e solidale, immaginato da Adriano Olivetti.

Solo che Adriano Olivetti, da una parte è un intellettuale, un filosofo, un sacerdote che predica l’instaurazione di un nuovo mondo dove regnino l’armonia e il bene ma, per altro verso, è il padrone di un’organizzazione che, secondo i principi dell’economia capitalista, ha quale unico ideale quello di massimizzare il profitto. All’interno della fabbrica si incontrano individui, e non persone, che altro non sono che fattori della produzione, da trattare e da retribuire, in ossequio al comandamento del liberismo, con una salario di pura sussistenza. Sia Pio XII che Adriano Olivetti, in quegli anni, avanzeranno l’auspicio di riconoscere ai lavoratori un salario almeno un po’ più elevato di quanto strettamente necessario alla sopravvivenza, seppure le motivazioni che ispirano quell’auspicio non coincidano del tutto.

Nel porgere gli auguri di Natale ai propri dipendenti, nel dicembre del 1955, – ricordando e annunciando misure che oggi verrebbero rubricate con il nome di welfare aziendale – Adriano Olivetti riconosceva che tali misure, “seppur importanti, non sostituiscono né il pane, né il vino, né il combustibile e non ci sottraggono al dovere di lottare strenuamente alla ricerca di un livello salariale più alto, quello che concederà finalmente ad ognuno la propria libertà, che consiste nel poter spendere qualcosa di più del minimo di sussistenza vitale”.

Ma non del solo salario minimo si tratta: Adriano Olivetti scava più a fondo e si chiede – in occasione dell’inaugurazione del nuovo stabilimento di Pozzuoli – se la finalità dell’impresa debba essere esclusivamente la massimizzazione del profitto o se l’impresa non debba avere qualche altra funzione sociale. «Può l’industria darsi dei fini? – egli scrive – Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinate, una destinazione, una vocazione anche nella vita della fabbrica? La nostra società crede nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell’arte, crede nei valori della cultura, crede soprattutto nell’uomo, nella sua fiamma divina e nella sua possibilità di elevazione e riscatto».

È evidente che, per chi va predicando l’avvento di un mondo dove regnino “Armonia, ordine, bellezza, pace”, dirigere un’impresa in coerenza con quei principi costituisca una grande sfida.

Per meglio capire, occorre tener conto di alcuni aspetti dell’esperienza di Adriano Olivetti, non sempre sufficientemente evidenziati che tracciano uno scenario utile per gli approfondimenti. scenario che consente di per il successivo dibattito.

Innanzitutto, occorre ribadire che la sua esperienza non nasce dal nulla. Essa si muove nel solco di una tradizione familiare e di una formazione giovanile. Il padre, ebreo convertitosi da adulto ad una confessione cristiana, appassionato anticlericale, si era dedicato con cura al percorso formativo del giovane Adriano, che non includeva la formazione religiosa. E la madre, figlia di un pastore valdese. E poi i suo interessi giovanili, a cominciare dalla lettura de “I punti essenziali della questioni sociale”, di Rudolf Steiner, autore che avrebbe poi riempito gli scaffali della sua biblioteca, senza trascurare Freud.

Il padre Camillo, oltretutto, aveva un’idea precisa del rapporto da tenere con gli operai. Viene descritto come un uomo che “assumeva povera gente, facendola lavorare al mattino e insegnandole a leggere e scrivere nel pomeriggio”. Padre prodigo di consigli e di raccomandazioni per un figlio destinato alla sua successione. Padre al quale Adriano muove, però, un rimprovero: quella di averlo costretto ad intraprendere studi tecnici, mentre lo scalpitante Adriano avrebbe preferito seguire gli studi classici ed imparare il latino, a conferma di qual fosse, sin da giovane, la sua vocazione, una propensione che i suoi interessi confermeranno più avanti.

Il secondo aspetto è il rapporto con la fabbrica. Secondo un diffuso costume dell’imprenditoria familiare, anche Adriano fu mandato a fare esperienza di fabbrica ancora adolescente. Egli così descrive quell’esperienza: “Imparai così, ben presto a conoscere e odiare il lavoro in serie: una tortura per lo spirito che stava imprigionato per delle ore che non finivano mai”.

Dopo quella prima impressione, che conferma che il lavoro in fabbrica, come comunemente praticato, non coincideva con i sui istinti, ha approfondito la le proprie conoscenze nelle fabbriche degli Stati Uniti. Ha conosciuto il fordismo e il taylorismo. Da imprenditore non ha potuto che apprezzare i vantaggi derivanti dall’efficienza di quei modelli ritenendo che quella cultura potesse portare, secondo quanto aveva osservato in America, ad una situazione di piena occupazione.

Tuttavia, riteneva che, nell’importarli in Italia, andassero adattati. Occorreva conciliarli con quella sua visione, che qualcuno ancora definisce utopica, per poterli adattare alla propria visione illuministica. Per un certo verso illuministica, ma non troppo, se è vero, come spiega Geno Pampaloni, che la natura di quel pensiero era anche di carattere profetico e religioso.

Pertanto, la fabbrica, per potere essere inserita nella sua visione, per alcuni versi neo-platonica, dovrà essere capace di svolgere un ruolo funzionale all’avverarsi della visone, tutta spirituale, della società: l’armonia, l’ordine la bellezza…

Da qui, per un verso, la ricerca di una funzione della fabbrica diversa dal solo profitto, di cui ho già detto, e, per altro verso, l’introduzione di azioni concrete finalizzate ad una trasformazione della fabbrica che risulti sintonica con il suo iperuranio, nel quale la finalità della fabbrica è, anche, quello di perseguire il bene dei dipendenti e non soltanto il profitto. Fabbrica che dovrà produrre “il bene” e non semplicemente “i beni”.

Una cosa, quindi, sono le idee che stanno nell’altro mondo, altro la dura e faticosa realtà di tutti i giorni, rappresentata delle condizioni penose della classe operaia e dalle regole spietate del profitto.

La peculiarità di Adriano Olivetti è che intende provarci, con juicio, alternato a slanci volontaristici, se si vuole, ma sempre con tenacia e con perseveranza. Quindi Adriano Olivetti non è un utopista, come spesso si racconta; non lo è affatto, per la semplice ragione che di fatto ha trasformato la fabbrica in un laboratorio dove sperimentare – ed effettivamente ha sperimentato – pratiche e modelli indirizzati al superamento degli aspetti più brutali dell’organizzazione aziendale, e lo ha fatto in coerenza con i principi spirituali della verità, della giustizia, dell’amore e della bellezza. E lo ha fatto a tutto tondo, curando anche aspetti come quelli relativi all’estetica, all’architettura, al bello. Non tutti gli hanno creduto sino in fondo, se è vero, come racconta Giuseppe Lupo, che tra i “chierici”, gli intellettuali di cui si era circondato ed aveva accolto nella fabbrica, covava qualche scetticismo.

Le relazioni industriali partivano da una premessa ideologica, ovverossia dal rifiuto dei due modelli contrapposti che si contendevano la scena, quello capitalista e quello marxista, ed esploravano una terza via, collaborativa e non conflittuale. Quella scelta intaccava i territori ipotecati dalle due fazioni che si contendevano il campo, Così Adriano Olivetti si faceva nemici a destra e a manca, e si inimicava persino la Chiesa, per quanto fosse l’organizzazione più in sintonia con la sua visione. Al modello di gestione delle relazioni sindacali, si aggiungono le azioni realizzate all’interno della fabbrica e nelle sue periferie. Istruzione, edilizia, trasporti, tempo libero, conciliazione con la vita familiare e tanto altro. Alcune di queste si sono poi diffuse nella più o meno recente pratica di molte imprese, per libera scelta datoriale, o a seguito della contrattazione o perché introdotte dal legislatore.

Con riguardo a questi temi, occorre tener conto che facciamo riferimento ad un periodo assai lontano nel tempo, caratterizzato da un contesto culturale profondamente diverso. Facile, ad esempio, parlare oggi di cultura diffusa, ma quando la fabbrica di Olivetti si apriva alle biblioteche e si organizzavano eventi culturali, in Italia esisteva ancora l’avviamento professionale secondo il modello disegnato da Gentile, nella scuola si insegnava (solo alle ragazze) l’economia domestica, e l’ingresso delle donne in fabbrica non era guardato con favore. Il diritto al lavoro delle donne, proclamato nella formula costituzionale, era temperato dal richiamo al ruolo già esaltato dal regime fascista. Erano state superate (e neppure tutte) le formule giuridiche, ma quel modello era ancora radicato nella mentalità. Ciò consente di comprendere la portata delle “innovazioni” introdotte da Adriano Olivetti nella sua Fabbrica.

La puntuale ricostruzione del prof. Mastinu ha richiamato, con estrema chiarezza, le condizioni che hanno consentito “l’esperimento” di Adriano Olivetti. Ha ricordato che solo sinché la fabbrica produce profitti è consentito scongiurare i licenziamenti per riduzione di personale, mantenendo fede all’impegno che Adriano aveva ereditato dal padre Camillo. Allo stesso tempo, ha ricordato come le innovazioni in materia di welfare aziendale vengono meno via via che lo Stato sociale le fa proprie, riducendo, o annullando, quel differenziale che nella fabbrica di Adriano Olivetti era tanto evidente, per qualità e quantità, da suscitare preoccupazione presso altri imprenditori non altrettanto “illuminati”.

La successiva evoluzione della fabbrica Olivetti e l’evolversi della situazione economica del paese, in conclusione, non consentono di immaginare che quel modello, maturato in un contesto profondamente differente e in presenza di contingenze oggi non attuali, possa essere riproposto. Le circostante sono cambiate radicalmente. Non siamo più in presenza di due modelli contrapposti da superare attraverso una terza via – soluzione che, al tempo della guerra fredda, molti vagheggiavano -. Oggi governa un solo modello, che non è quello uscito vincente dal confronto con il socialismo reale, bensì una forma di capitalismo, più estremo, privo di quei temperamenti che lo avevano caratterizzato per buona parte della seconda metà del secolo scorso, probabilmente funzionali a reggere il confronto con l’altra campana. Un potere costruito sulla base di un liberismo sempre più sfrenato capace di prevalere sul potere statuale.

In più emergono fenomeni nuovi, come la tendenziale scomparsa della classe media e l’allargamento del divario tra ricchi e poveri; l’acuirsi del fenomeno migratorio che compensa il divario tra le economie ricche, con elevata percentuale di tecnologia e di lavoratori altamente qualificati, e quelle povere a livello di sussistenza.

Oggi, ripensare ad Adriano Olivetti è utile ed opportuno. Ma non può significare, sia ben chiaro, la riproposizione del modello all’epoca sperimentato nella fabbrica e nella società; un modello che, oltretutto, quando si misurò nella dimensione nazionale, non ottenne – salvo che nel proprio territorio – il successo sperato.

Ripensare, oggi, al pensiero di Adriano Olivetti, significa, piuttosto, tornare a porsi le stesse domande che egli si poneva, e che proponeva alla società tutta. Domande che, nonostante l’apparenza, non riguardavano essenzialmente la fabbrica, bensì, l’intera società ed il sistema delle relazioni umane. La fabbrica è il luogo dove Adriano Olivetti concepisce e sperimenta la propria filosofia, perché la sorte lo ha chiamato vivere tale esperienza, È per questo che si chiede, ripetutamente, se l’industria non possa darsi dei fini, se questi fini possano trovarsi semplicemente nell’indice dei profitti, se non vi sia, al di là del ritmo apparente, qualcosa di più affascinante, una vocazione anche nella vita della fabbrica. Ma non se lo chiede per soddisfare un’esigenza di filantropia, o di mecenatismo – esperienze che nella storia dell’impresa non è difficile incontrare – né per differenziarsi dal resto del mondo imprenditoriale. Quel clima che sperimenta all’interno propria fabbrica, con il suo welfare, con le sue relazioni sindacali, egli lo propone, quale modello all’intera società.

Il suo modello non è la trasformazione della fabbrica. Tale obiettivo è strumentale e necessario per il raggiungimento dell’obiettivo; ma il modello, “l’utopia”, è quella di una “nuova e autentica civiltà indirizzata a una più libera, felice, consapevole esplicazione della persona umana (Olivetti 2001, p. 102). È all’interno di tale visione che egli si impegna per “rendere la fabbrica e l’ambiente circostante economicamente solidali” (Olivetti 1952, p. 11).

Un progetto per la società, quindi, non espressione di mero volontarismo. Un progetto che richiede l’intervento dello Stato, per il raggiungimento del benessere materiale e spirituale della società, improntato all’umanesimo e alla solidarietà e finalizzato alla ricerca della felicità.

Non è facile immaginare come un tale obiettivo possa essere perseguito all’interno della fabbrica . Soprattutto se si tiene conto di quanto sia labile il collante – etico – che dovrebbe tenere assieme tutti gli elementi. Se è vero che “le forze materiali non sono mai intese da Olivetti come fini a sé stesse, ma sempre come strumento al servizio di mete spirituali” e che “l’impresa può vivere e crescere solo attraverso il proprio trascendimento spirituale indotto da una costante tensione religiosa”. (A. Peretti, in FabbricaFuturo, 25.12. 2012).

Le sue realizzazioni, il suo welfare, altro non sono che anticipazioni di un modello che dovrebbe estendersi all’intera società e quindi destinate ad essere superate. Ciò è avvenuto solo in parte. Il liberismo economico – seppure imbellettato dall’ambigua lusinga della responsabilità sociale dell’impresa – non tollera altri Dei se non il profitto, unico vero oggetto di devozione.

La comunità, piuttosto che esprimere solidarietà, si dissolve nell’individualismo.

La fabbrica, ritornando al programma di Adriano Olivetti, dovrebbe essere posta al servizio della verità, della giustizia, della bellezza, dell’amore. Verità intesa come libertà di ricerca e di progresso scientifico; giustizia, concepita come equa ridistribuzione a chi lavora della ricchezza da lui prodotta; bellezza, espressione visibile della raggiunta armonia tra esigenze materiali e spirituali; amore, rivolto all’essere umano, [alla] sua fiamma divina, [alla] sua possibilità di elevazione e di riscatto. (Olivetti 2001, p. 28).

A guardarsi intorno, oggi, rimane un dubbio: se si tratti di un reperto di archeologia rinascimentale o dell’ordito di una novella di fantascienza.

Gianni Loy

Il valore della Comunità

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Convegno di studi
ADRIANO OLIVETTI E LA SARDEGNA
Attualità di una prospettiva umanistica

Cagliari 27 e 28 ottobre 2023
Aula Bachisio Motzo – Facoltà di Studi Umanistici
dell’Università degli Studi di Cagliari, Sa Duchessa.
img_5003 La Comunità in una società individualizzata
di Remo Siza

Introduzione
Nel linguaggio corrente, in Italia, è molto ampio il richiamo alla comunità, sebbene, come ha rilevato Bagnasco (1999) l’uso del termine comunità per certi versi è problematico in quanto nella stessa parola si sovrappongono significati molto differenti. George Hillery (1955; Collins, 2010) rilevava che esistono 94 definizioni di comunità e l’unico aspetto comune a tutte queste definizioni è l’idea di un tessuto di relazioni sociali che si stabilisce tra le persone. Altre dimensioni del concetto quali la prossimità, la profondità emotiva delle relazioni non sempre sono condivise dai vari autori.
Nel dibattito politico e nei programmi dei principali partiti, il richiamo alla comunità assume differenti significati:
- la comunità locale, spesso come livello politico locale contrapposto a quello centrale
- la comunità come ambito della partecipazione diretta delle persone al governo che assicura l’efficacia e l’efficienza dell’azione pubblica
- come sistema delle autonomie locali capace di rispondere alla crisi dei partiti e della rappresentanza politica;
- come superamento dello squilibrio urbano/rurale, per riavvicinare la città alle aree interne dimenticate dal mercato e dall’attuale modello di sviluppo.
Infine, la comunità è stata riscoperta nei sistemi di welfare che intendono valorizzare il ruolo delle famiglie e le relazioni di comunità nella cura delle persone, il Servizio sociale di comunità, la comunità educativa; come iniziativa professionale di Sviluppo della comunità riconoscendone la sua rilevanza nella vita delle persone.
Nel pensiero di Adriano Olivetti tutte queste accezioni del termine comunità erano presenti: non per contrapporre comunità arcaica e città moderna, non come ritorno al passato, ma come idea-forza per una radicale riforma del sistema politico e la costruzione di una società ‘a misura d’uomo’ (Olivetti, 2001).
La comunità è vista come mediazione fra individuo e Stato, come riappropriazione inevitabilmente selettiva della tradizione, come ambito di innovazione, ambito di relazioni che rafforzano e danno sostanza umana allo sviluppo industriale. Il richiamo alla comunità era chiaramente legato alla necessità di valorizzare la comunità concreta come una forma nuova di rappresentanza più forte e più efficiente della democrazia ordinaria e ad una preoccupazione per la fragilità dei legami sociali, per i cambiamenti che travolgevano i sistemi di valore e le istituzioni in una società post-contadina.

I cambiamenti della società industriale
La comunità che Olivetti richiamava nel suo progetto di riforma era cambiata profondamente a partire dagli ultimi anni Cinquanta. Una straordinaria espansione economica e una imponente mobilità territoriale che aveva come destinazione le città del triangolo industriale contribuiva ad un cambiamento profondo della società italiana. Non cambiava soltanto l’economia, cambiavano, forse in modo più radicale, le relazioni fra le persone.
Lo sviluppo industriale incideva profondamente sull’equilibrio individuo e comunità e su un processo fondamentale della modernità: il processo di individualizzazione (Beck, 1992; Beck e Beck-Gernsheim, 2001).
Il processo di individualizzazione è il fondamento delle società occidentali e di ogni dinamica di innovazione e cambiamento. È un processo che valorizza l’autonomia individuale, che promuove il distacco dai ruoli e vincoli tradizionali, da ogni costrizione (della famiglia autoritaria tradizionale, della comunità), verso una crescita della libertà e della consapevolezza di sé dell’individuo, per costruire una vita indipendente sulla base dei valori e dei principi della nascente modernità industriale
In una fase di transizione, questi processi orientano le agenzie di socializzazione verso la costruzione di individualità che si distinguono dalle comunità di appartenenza.

Una individualizzazione parziale
Negli anni Sessanta, in particolare, i processi di individualizzazione si diffondono molto rapidamente e coinvolgono una larga parte della società italiana.
Una parte significativa della popolazione, soprattutto i più giovani, vuole realizzare il proprio progetto di vita, scegliere autonomamente il proprio destino spesso lontano dalla comunità di origine, assumere la propria indipendenza rispetto alle attese dei genitori, della rete parentale allargata, dalla comunità, dalle grandi associazioni collettive.
Le comunità tradizionali comunque non si dissolvono. In fondo, questi processi di emancipazione e di individualizzazione (cioè di distacco dai ruoli e vincoli tradizionali verso una crescita della libertà individuale) erano ancora governabili. Per certi versi era una individualizzazione contenuta e programmata secondo esigenze funzionali al nuovo sviluppo economico.
La società industriale era una società percorsa da grandi cambiamenti ma comunque solida nei suoi riferimenti culturali, era una società sostanzialmente integrata, in cui le patologie della modernità erano ancora governabili.
Il richiamo di Olivetti alla comunità aveva comunque una sua concretezza. La comunità aveva ancora la sua consistenza. Il Movimento Comunità declinò con la morte di Olivetti (1960), sebbene in quegli anni la comunità a cui Olivetti si riferiva era ancora vitale e poteva ancora contare su una larga parte delle sue risorse tradizionali di partecipazione e di relazioni sociali amichevoli. Il futuro di un movimento politico comunitario sembrò dipendere strettamente dall’iniziativa e dall’attivismo di Adriano Olivetti più che dai cambiamenti delle comunità concrete.
L’idea di comunità rimaneva comunque vitale nel linguaggio corrente, nelle iniziative sociali e culturali di associazioni, di gruppi locali molto attivi.
In fondo nella società industriale degli anni Cinquanta e Sessanta, i processi di individualizzazione si diffondono rapidamente nel tessuto sociale, ma sono ancora parziali. Gli individui sono più autonomi, ma le forme collettive di appartenenza (la comunità, la Chiesa, il sindacato, le grandi associazioni) sono ancora solide. La famiglia è diventata nucleare, ma è ancora stabile: si riduce sensibilmente il numero di figli, è ancora inserita nella rete parentale e nella rete dei diritti e dei doveri, seppure in termini meno vincolanti e più esplicitamente conflittuali. Le abitudini e le tradizioni della comunità di appartenenza ancora persistono sebbene si siano indebolite nella loro capacità di orientare i comportamenti sociali.
Gli individui sono più autonomi, ma le forme collettive di appartenenza (la comunità, il sindacato, le grandi associazioni, la Chiesa) sono ancora solide, si allentano i legami collettivi, ma non del tutto:
- la famiglia è diventata nucleare, ma è ancora stabile si riduce sensibilmente il numero di figli; ma i ruoli di genere persistono sebbene siano accettati con molte più resistenze dalla donna;
- la famiglia è ancora inserita nella rete parentale e nella rete dei diritti e dei doveri, seppure in termini meno vincolanti e più esplicitamente conflittuali;
- le abitudini e le tradizioni della comunità di appartenenza ancora persistono sebbene si siano indebolite nella loro capacità di orientare i comportamenti sociali.

Nelle società industriali, c’era ancora una continuità e un passaggio lineare tra due fasi del processo di individualizzazione
1. la fase “liberatoria” dai vincoli e costrizioni che limitano l’autonomia e la capacità di autodeterminazione delle persone e non consentono di realizzare i loro progetti di vita. Ciò che diventa importante è la raggiunta possibilità di scegliere la propria vita, senza rassegnazione e passività.
2. la successiva fase di ricomposizione di nuove forme di stare insieme, di convivenza, nuove relazioni di amicizia e di collaborazione, nuove relazioni con le istituzioni che di norma seguono questa fase liberatoria.

I cambiamenti economici e sociali travolgevano la civiltà contadina, le sue relazioni, le sue staticità, ma allo stesso tempo rivitalizzavano le istituzioni più moderne (famiglia nucleare, il ruolo della donna, i partiti, i sindacati…)
La società industriale è una società moderna che ha in mente il suo punto di arrivo:
- la famiglia nucleare (i genitori con un numero limitato di figli) modernizzata nelle sue relazioni, meno autoritaria;
- la Chiesa ha un ruolo cruciale nella vita delle persone seppure risulti indebolita da processi di secolarizzazione;
- le istituzioni politiche sono solide,
- il lavoro per una larga parte della popolazione è stabile, dignitoso, remunerato sufficientemente per partecipare a pieno titolo alla vita sociale.

I movimenti comunitari degli anni Novanta
Negli anni Novanta, cambia profondamente la relazione individuo-comunità ed emerge una radicalizzazione dei processi di individualizzazione. Le individualità che emergono sono più radicalmente indipendenti dalle comunità territoriali e i legami sociali si indeboliscono in termini molto più significativi.
In questi anni, i movimenti comunitari assumono particolarmente rilevanza in molte parti del mondo.
Così come era accaduto in Italia, in altre nazioni il movimento comunitario aveva una sua esplicita caratterizzazione politica e costituì una corrente fondamentale della Terza via il progetto politico che si proponeva di superare la tradizionale dicotomia tra destra (conservatrice o neoliberista) e la sinistra tradizionale.
Negli Stati Uniti e nel Regno Unito movimenti comunitari coinvogevano in un progetto di politica di riforma della società, politici come Bill Clinton e Tony Blair oltre che decine di altri Capi di Stato nel mondo. Il richiamo della comunità, lo ritroviamo qualche anno più tardi (nel primo decennio del duemila) nella Big Society del Governo conservatore inglese di David Cameron richiamato dal Governo Berlusconi nel Libro Bianco sul futuro del modello sociale (2009), verso un welfare community che sostituisca il welfare state.
Il Communitarian Network, fondato da Amitai Etzioni nel 1993, è il movimento più importante (Pesenti, 2002). Il movimento nasce da una forte preoccupazione sul futuro delle società contemporanee ed è fondato sulla rivitalizzazione delle comunità, sulla costruzione di valori comuni, di una cultura della coesione sociale.
Il perno di questo progetto di riforma sono gli agenti della socializzazione (famiglia, scuola, gruppo dei pari, lavoro, mass media) che orientano il comportamento individuale e collettivo e l’urgenza di un potenziamento delle loro capacità integrative:
- l’esigenza che la famiglia svolga la sua funzione educativa,
- che la scuola non si limiti a curare lo sviluppo cognitivo dei giovani senza alcuna attenzione ad aspetti morali;
- che la comunità si responsabilizzi rispetto ai problemi che sorgono nel suo ambito, sia realmente un punto d’incontro, di comunicazione, di sostegno reciproco tra le persone,
- sia responsive ‘capace di comprendere e dare risposta alle esigenze reali di tutti i membri della comunità.
- promuova il senso di responsabilità degli individui e delle collettività, un nuovo equilibrio tra diritti e doveri.
Il crescente individualismo sembrava delineare forme di vita non più socialmente ed ecologicamente percorribili (Etzioni, 1993; 1998).
Il neo comunitarismo costituiva una critica severa alla libertà del mercato, raccomandava una qualche prudenza nella libertà individuale e nelle scelte di vita, auspicava un ruolo più limitato dello stato e la necessità di un richiamo ad alcuni valori della tradizione.

Il richiamo alla comunità nella società individualizzata
In molte nazioni il pensiero comunitario ha costituito una delle radici culturali della Terza via: ha avuto capacità di mobilitazione nel primo decennio del nuovo millennio, ma negli anni successivi ha perso la capacità di affrontare le criticità che emergevano.
Dopo i primi anni di crescita, il pensiero comunitario non è emerso come sfida culturale credibile ai due principali sviluppi del liberalismo classico (espressione dominante dell’ideologia occidentale) analizzati da Fukuyama in un suo recente saggio (2022). L’idea centrale del liberalismo classico è la valorizzazione e la protezione della autonomia individuale, come libertà di parola, di associazione, di fede e di vita politica. Fukuyama, rileva che in questi ultimi due decenni il liberalismo ha avuto due sviluppi radicali:
- il neoliberismo nell’economia come libertà del mercato senza interferenze dello stato,
- il liberalismo come costante rivendicazione dell’autonomia individuale nella scelta dello stile di vita e dei valori, che valorizza l’autonomia delle persone nella vita quotidiana (p. 17).

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Il neoliberismo nell’economia ha travolto il conservatorismo delle destre tradizionali, sollecitato il cambiamento, l’innovazione, la conquista di nuovi mercati, la competizione, la liberazione dai vincoli e dalle costrizioni che limitano l’iniziativa individuale.
Il liberalismo negli stili di vita ha costituito il naturale compimento dell’affermata libertà individuale anche nella vita privata, sul piano culturale, piuttosto che il conservatorismo delle tradizioni, come espressione di una emancipazione e di una liberazione che finalmente era possibile assicurare a tutti, come espressione della modernità avanzata che il capitalismo intendeva rappresentare.
Queste due sviluppi del liberalismo hanno costituito i riferimenti fondamentali dello Spirito del nuovo capitalismo (Boltanski e Chiapello, 2014), di un capitalismo altamente tecnologico che si riappropria delle istanze di cambiamento, di modernità degli stili di vita, di diritti di libertà individuali negli stili di vita.
In nuovo capitalismo che emerge nella modernità avanzata si rivolge verso le azioni che concorrono alla realizzazione del profitto. Allo stesso tempo, in armonia con i valori e le preoccupazioni di coloro che sono coinvolti nei processi di produzione, si appoggia su un impianto culturale giustificatorio adeguato ad una società individualizzata che valorizza il cambiamento, la realizzazione individuale, il rischio e la mobilità (Boltanski e Chiapello, 2014: 76-84).
Nei primi due decenni del nuovo millennio il neoliberismo nell’economia e il liberalismo come costante rivendicazione dell’autonomia individuale hanno assunto un ruolo cruciale nella trasformazione dell’economia e delle relazioni fra le persone, hanno inciso significativamente sui processi di individualizzazione e sugli agenti di socializzazione (la famiglia, la scuola, il gruppo dei pari, i mass media) che ne orientano l’evoluzione, radicalizzandone le dimensioni liberatorie rispetto alle regole, ai legami e alle tradizioni.
Queste due versioni del liberalismo hanno sostituito, solo parzialmente, e in parte marginalizzato, il conservatorismo dei movimenti tradizionali di destra, legato ai valori e ai principi morali del passato, alla continuità e il compromesso socialdemocratico tra capitale e lavoro che per circa tre decenni ha assicurato ad una parte considerevole della popolazione estesi sistemi di welfare e alti salari, stabilità e crescita.

La crisi dei processi di individualizzazione
Il mix di cambiamenti radicali del lavoro, delle condizioni economiche e delle relazioni nella vita privata creano instabilità e insicurezze insostenibili per molti gruppi sociali. Cresce la capacità di mobilitazione di movimenti che coinvolgono gruppi sociali travolti dall’apertura dei mercati, dalla globalizzazione e resi incerti e insicuri nella sfera di vita. In molte parti del mondo i movimenti populisti si rivolgono al popolo che lavora duramente contro l’establishment politico, economico culturale, scientifico (le “élite corrotte”), che ha creato insicurezza, impoverimento diffuso, disuguaglianze. Questi movimenti intendono valorizzare lo stato nazionale come risposta al mercato globalizzato, con un costante richiamo alla famiglia tradizionale, alla comunità tradizionale e a principi conservatori nelle relazioni private; alla politica come espressione della volontà della maggioranza del popolo (general will) e non come espressione di minoranze etniche o religiose.
Nei movimenti populisti il richiamo alle comunità perde i suoi significati innovativi. Si assume come riferimento la comunità tradizionali del passato, le relazioni tradizionali nella scuola, in famiglia, le gerarchie e le distinzioni di una volta. Ma per realizzare questo ritorno al passato non dovremmo soltanto cercare di sollecitare relazioni tradizionali di fiducia e rispetto, ma dovremmo ricostruire anche le istituzioni che rendevano possibile e funzionali queste relazioni umane: il lavoro di una volta, la famiglia tradizionale, la comunità come ambito di relazioni territoriali, l’assenza di tecnologie, le concezioni tradizionali del tempo e dello spazio. Certe disposizioni interiore alla collaborazione e alle relazioni amichevoli tipiche di una comunità tradizionale nascono in un contesto oggettivo ben definito, con molte difficoltà possono essere riproposte in contesti che hanno opportunità di relazione e difficoltà oggettive molto differenti.
Il richiamo alla comunità del passato rischia in molti casi di trasformarsi in un impegno attivo per una comunità chiusa di persone uguali, di minoranze etniche, religiose che non intendono confrontarsi e trovare punti di contatto con altre culture oppure in una autosegregazione delle persone con alti livelli di reddito, le cosiddette gated community, residenze separate vigilate e presidiate da operatori di polizia privata, con sistemi di recinzione e di controllo tecnologico sofisticati.

Una lunga transizione
Una rilettura degli scritti del movimento comunitario di Adriano Olivetti e una valutazione più attenta del neo comunitarismo possono esserci utili per promuovere un dibattito pubblico più articolato sulla relazione individuo-comunità:
- sul ruolo che svolgono le principali istituzioni (la famiglia, la scuola, il gruppo dei pari, l’ambiente di lavoro)
- sulla loro capacità di promuovere il senso di responsabilità degli individui e delle collettività;
- sui processi di socializzazione, cioè, sui processi di interazione, di sviluppo e di formazione della personalità umana;
- sull’equilibrio che intendiamo stabilire tra comunità, mercato e Stato
Ciò che sembra delinearsi è una lunga transizione tra la società industriale del secolo scorso, sostanzialmente stabile, prevedibile e lineare nel suo sviluppo e nelle sue frequenti conflittualità collettive e una modernità molto avanzata di cui ancora non riusciamo a cogliere e a definire a grandi linee il punto di arrivo, le istituzioni che possono rappresentarlo, i suoi riferimenti culturali, le forme di convivenza civile che possiamo condividere, i comportamenti che possiamo tollerare.
La normalità è sempre più estesa, comprende scelte e stili di vita che pochi anni fa la maggioranza delle persone marginalizzava; in fondo siamo disponibili a ritenere normale qualsiasi comportamento.
In una larga parte delle società occidentali contemporanee, non sappiamo più come governare l’autonomia e l’attivismo delle persone nella vita reale (Siza, 2022). Nelle relazioni virtuali queste difficoltà sono ancora più evidenti. Ciò che noi osserviamo nella nostra vita sociale:
- è la crescita di moltitudini di individui con deboli legami collettivi,
- attivi nel senso che con loro impegno radicale intendono cambiare e semplificare le regole della democrazia e della convivenza civile,
- riflessivi nel senso che valutano individualmente ogni sollecitazione, ogni richiesta delle istituzioni anche in ambiti che richiedono specifiche competenze (dal vaccino alle reazioni al riscaldamento globale) (Siza, 2022).
In società globalizzate, caratterizzate da rapide innovazioni tecnologiche, l’attivismo radicale delle persone che intendono promuovere un cambiamento profondo nell’ambito dei sistemi pubblici e nella vita ordinaria, crea una generale instabilità nella vita quotidiana e nella vita di ogni istituzione (la famiglia, la scuola, il sistema politico).
In molti contesti, i processi di individualizzazione sono diventati disfunzionali, tendono a produrre estesi conflitti sociali, nuove divisioni sociali nuove, chiare e distinte, nuove e competitive identità sociali in termini di valori e modelli comportamentali, nella vita pubblica e privata.
Dobbiamo chiederci, quali siano i valori interiorizzati nel nostro passato oppure presenti e attivi nel nostro vivere quotidiano che promuovono l’integrazione, una convivenza civile più amichevole; i valori che ci impediscono o limitano significativamente la discriminazione di alcuni gruppi sociali, le relazioni di sopraffazione.

L’emergere di individualità collaborative
Allo stesso tempo, però, emergono sistemi di valore, azioni individuali e collettive molto differenti dall’individualismo strumentale. In molti contesti i processi di individualizzazione contribuiscono alla creazione di individualità collaborative, creano individui che riconoscono il valore e l’autonomia degli altri; costruiscono nuovi rapporti di collaborazione e di innovazione; valorizzano la comunità in cui vivono e operano non come fonte di norme e controllo stabilizzati, ma come contesto relazionale in cui creare risposte collettive ai bisogni delle persone.
Il nostro impegno può essere indirizzato all’osservazione di contesti, di condizioni, di sistemi di valore che favoriscono questi processi di crescita delle persone; alle iniziative delle istituzioni, delle famiglie, delle comunità che creano disponibilità umane, gli atti concreti che creano individualità attive capaci non soltanto di inserirsi attivamente nel mercato del lavoro, ma anche di creare relazioni collaborative, iniziative collettive, costruire attivamente una convivenza civile più soddisfacente,
Forse dobbiamo incominciare a riflettere su una visione di una società differente, in qualche modo alternativa al neoliberismo e alla costante rivendicazione dell’autonomia individuale nella vita quotidiana. Non un modello da generalizzare e neanche una normalità stringente e ben definita da assumere come riferimento in ogni contesto di vita.
È necessario, invece, incominciare ad immaginare una società che valorizzi le iniziative autonome che danno concretezza a principi come l’uguaglianza, la dignità delle persone, la giustizia sociale, l’inclusione e la sicurezza fondate comunque su principi e un tessuto di valori che progressivamente, con i tempi del cambiamento culturale, diventino largamente condivisi alle individualità e alle collettività capaci di curare le relazioni con le persone
Così come in questi ultimi decenni abbiamo fatto per le relazioni uomo-natura, i cambiamenti climatici, il degrado ambientale, abbiamo bisogno di riprendere il discorso pubblico sulla fragilità dei legami sociali, sulla crescente frammentazione sociale, sulla esigenza di costruire relazioni sociali caratterizzate da profondità emotiva, impegno morale e continuità nel tempo (Nisbet, 1977: 68), dimensioni di vita che sono alla base di rapporti amichevoli e di una comunità concreta. Il miglioramento delle nostre relazioni fra le persone può essere generato da un discorso pubblico ricorrente sulla insostenibile fragilità dei legami sociali, avviare una riflessione pubblica sulla nostra convivenza civile, per quali motivi il tessuto di relazioni che sta emergendo crea troppo frequentemente insicurezza e inquietudine.
Il pensiero di Adriano Olivetti, sulla comunità, sul lavoro, sui rapporti fra istituzioni politiche rappresentative, sul ruolo della famiglia e della scuola, del gruppo dei pari, ci sarà sicuramente molto utile in queste riflessioni.

Riferimenti bibliografici
Hillery, G. (1955) Definitions of Community: Areas of Agreement. Rural Sociology, 20, pp. 111-123.
Bagnasco, A. (1999) Tracce di comunità, Bologna: il Mulino.
Beck U. (1992) La società del rischio, Roma: Carocci.
Beck U. and Beck-Gernsheim E. (2001) Individualisation, London: Sage.
Collins, P.H. (2010) The New Politics of Community, American Sociological Review, 1(75), pp. 7-30.
Etzioni, A. (1993) The Spirit of Community: Rights, Responsibilities and the Communitarian Agenda, New York: Crown Publishers.
Etzioni, A. (a cura di) (1998) Nuovi Comunitari, Castelvecchio (Bologna): Arianna Editrice.
Fukuyama, F. (2023) Liberalism and Its Discontents, London: Profile Book.
Nisbet, R.A. (1977) La tradizione sociologica, Firenze: la Nuova Italia.
Olivetti, A. (2001) Città dell’uomo, Torino: Edizioni di Comunità, Torino
Olivetti, A. (20013) Il cammino della Comunità, Torino: Edizioni di Comunità.
Pesenti, L. (2002) Comunitarismo-Comunitarismi: una tipologia essenziale, in I. Colozzi (a cura di) Varianti di comunitarismo, in Sociologia e Politiche Sociali, 2(5), pp. 9-38
Siza, R. (2022) The Welfare of the Middle Class. Changing Relations in European Welfare States, Bristol: Policy Press.
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The day after. Riflessioni (e proposte) personali del “dopo Convegno”

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di Franco Meloni
Il convegno su “Adriano Olivetti e la Sardegna. Attualità di una prospettiva umanistica” che si è concluso sabato 28 mattina ha sollecitato una grande quantità di approfondimenti su tematiche che si possono riproporre e su altre ulteriori, che richiedono una serie di nuove auspicabili iniziative.
Io provo ad avanzare qualche riflessione, si tratta per ora solo di suggestioni.
Innanzitutto una premessa che traggo dalla relazione del cardinale Arrigo Miglio: ci ha detto che Adriano Olivetti nella sua incessante e innovativa attività imprenditoriale, sociale e politica incontrò molti ostacoli e decisi oppositori, tra questi anche la Chiesa di Ivrea, che mal sopportava il suo intervento nel campo sociale (similmente i Sindacati, specie la Cisl, che lo vedevano invadere il proprio ambito, per non dire dei grandi partiti). Ma mons. Miglio, originario del Canavese e, in tempi più recenti del periodo di A. Olivetti, Vescovo di Ivrea, ha parlato soprattutto del rapporto con la Chiesa eporediese. Ebbene, nel tempo, i rapporti di ostilità si convertirono in collaborazione, sia con Adriano Olivetti in vita (che si convertì al cattolicesimo, non certo per convenienza, rimanendo profondamente laico), sia dopo la sua morte (1960), quando, sei anni dopo, divenne Vescovo di Ivrea mons. Luigi Bettazzi e, successivamente, mons. Arrigo Miglio. Una evoluzione analoga ha avuto in generale, in Italia, il mondo della Cultura laica, da una parte, e della Chiesa conciliare dall’altra, e non solo, dove da una contrapposizione tra laici e cattolici si è passati a un fecondo rapporto di dialogo. Ovviamente sono consapevole che il discorso è complesso e che sto ragionando per semplificazioni, che comunque mi consentono di affermare che il nostro convegno ne è una prova. Infatti, semplificando, in questo convegno si sono incontrati sostanzialmente due mondi, quello laico e quello cattolico. Gli intellettuali che hanno partecipato e animato il Convegno (relatori e no) appartengono a uno dei due mondi o a entrambi, ma, in questo ragionamento mi piace così schematizzare: Il mondo laico rappresentato dai diversi apporti dell’Università di Cagliari e di Sassari, il mondo cattolico rappresentato dagli esponenti della Facoltà teologica della Sardegna, presente sia nel comitato scientifico sia attraverso padre gesuita Giuseppe Riggio, che ha proposto – seppur costretto dalla tirannia del tempo – significative conclusioni. Lo ha fatto in una forma davvero intelligente, in quanto è riuscito a coinvolgere tutte le (poche) coraggiose persone che hanno resistito, sabato, fino alla fine del convegno, in tutto una ventina. Nel breve dibattito finale si sono registrati dieci interventi, che hanno proposto interessanti riflessioni. Io ne ho avanzate due: la prima riguarda la tematica del lavoro, molto spinosa, anzi drammatica, pensando soprattutto ai giovani e agli espulsi di ogni età dal mondo del lavoro. Il Mondo, e, in Italia, il Sud e la Sardegna in modo particolare, è afflitto dalla mancanza di lavoro, dal precariato, da compensi ai lavoratori non dignitosi, in presenza di vergognose discriminazioni e ingiustificate ineguaglianze. E, giustamente, al contrario, il Papa e la Chiesa sostengono il «lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale» (cfr Papa Francesco, Esort. apost. Evangelii gaudium, 192), concetto riproposto come titolo della 48ª Settimana Sociale dei Cattolici Italiani, tenutasi a Cagliari nei gg. 26-29 ottobre 2017, che non si discosta, anzi completa, uno dei motti programmatici, laici, del mondo del lavoro: “lavorare tutti, lavorare meno, lavorare meglio“. Adriano Olivetti praticava questi concetti, come abbiamo sentito in diverse relazioni del convegno, in modo anticipatorio rispetto alle normative attuali sul lavoro che attengono alla responsabilità sociale dell’impresa e al welfare aziendale.
Ne vogliamo riparlare e costruire qualche iniziativa?
La seconda suggestione riguarda il concetto di sussidiarietà, anche esso praticato – sebbene non chiamato nello stesso modo da Adriano Olivetti. Ricordo che il principio di sussidiarietà fu per primo introdotto dalla chiesa cattolica, precisamente nella Rerum Novarum di Leone XIII (1891). Il principio è stato “costituzionalizzato” dalla riforma costituzionale del 2001, articolo 118, laddove si parla sia di sussidiarietà verticale, che riguarda i vari livelli istituzionali: Stato, Regioni, Città metropolitane, Province, Comuni e di sussidiarietà orizzontale che attiene alla partecipazione dei cittadini alla vita sociale per il raggiungimento degli interessi di carattere generale (*) Proprio basandoci su questo principio, su cui si fonda l’attività del Terzo Settore, possiamo pensare di riformare la politica, oggi tanto estranea al comune cittadino. Oggi la “Teoria di Comunità” elaborata e in certa parte sperimentata da Adriano Olivetti e dai suoi collaboratori, anche scontando dolorosi insuccessi, come il deludente risultato dell’avventura elettorale nelle Politiche del 1958, nella quale fu coinvolto il Psdaz. Proprio da quella sconfitta, superandone il trauma, poteva nascere un robusto movimento popolare sardo (ce n’è da dire e da fare!). Purtroppo la morte di Adriano Olivetti chiuse ogni possibilità per una prospettiva virtuosamente percorribile. Che il nostro Convegno ha l’ardire di rilanciare!
Ne vogliamo riparlare e costruire qualche iniziativa?
Lancio infine una proposta, che mi sembra abbiamo praticato in questa “due giorni convegnistica”, cioè una chiamata all’impegno di tutti noi (gli organizzatori), con il coinvolgimento di altri che vogliano aggiungersi, per l’istituzione anche nella nostra città di una “cattedra dei non credenti“ sul modello che tanto avuto successo e utilità, pensato e realizzato anni fa dal cardinale Carlo Maria Martini, nel suo mandato di arcivescovo di Milano. Evidentemente, mutando ciò che c’è da mutare, tenendo conto delle persone e delle risorse di cui disponiamo. L’iniziativa si iscriverebbe nei percorsi sinodali della Chiesa universale e di quella italiana e sarda.

Voglio concludere con una celebre frase, a me tanto cara, del credente cardinale Martini, in totale sintonia con il non credente filosofo Norberto Bobbio: «La differenza più importante non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa ai grandi interrogativi dell’esistenza»

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(*) Cost., art.118 ult. comma (…) Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà.
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Articolo pubblicato in contemporanea su Aladinpensiero e su il manifesto sardo: media partner del Convegno.
Su il manifesto sardo:
https://www.manifestosardo.org/riflessioni-del-dopo-convegno-su-adriano-olivetti-e-la-sardegna/
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Per rilanciare i contenuti del Convegno

[pagina in costruzione] Dopo i saluti istituzionali,
img_4922ha introdotto i lavori Francesca Crasta, proponendo una prospettiva filosofica alla base del pensiero olivettiano, img_4920
mentre Beniamino de’Liguori Carino, Segretario generale della Fondazione Olivetti ha parlato dell’eredità culturale di Adriano Olivetti img_4941.

Si conclude stamattina il Convegno “Adriano Olivetti e la Sardegna”

Si conclude oggi un ottimo Convegno che richiede tanti necessari approfondimenti, a partire dalla documentazione e dalle relazioni personali dei due giorni di lavori.
La III sessione riprenderà oggi, sabato 28 ottobre 2023 (mattina) con le relazioni di Antonella Camarda (Olivetti va in America. Italianità e internazionalismo negli show-room d’oltreoceano), Aldo Lino (Gli architetti di Adriano), Stefania Lucamante (Il ritratto di Adriano Olivetti nel “Lessico famigliare” di Natalia Ginzburg). Dopo uno spazio dedicato agli interventi del pubblico, le conclusioni saranno svolte a cura di Giuseppe Riggio s.j. e del Comitato scientifico composto da Duilio Caocci; Salvatore Cubeddu; Gianni Loy; Franco Meloni; Cardinale Arrigo Miglio; Giulio Parnofiello s.j. La conclusione dei lavori è prevista alle ore 13.30. I media partner sono Aladinpensiero News e il manifesto sardo.
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Convegno “Adriano Olivetti e la Sardegna. Attualità di una prospettiva umanistica”.
Cagliari, 27 e 28 ottobre 2023
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Gli intellettuali sardi chiedono un aiuto per la Sardegna ad Adriano Olivetti

img_4337Adriano Olivetti e la Sardegna

Nei giorni venerdì 27 (mattina e sera) e sabato 28 ottobre (solo mattina) si terrà nell’Aula Motzo della Facoltà di Studi Umanistici dell’Università di Cagliari un Convegno su “Adriano Olivetti e la Sardegna. Attualità di una prospettiva umanistica”.

Il Convegno è organizzato dalla Fondazione Sardinia, Università degli Studi di Cagliari: Dipartimento di Lettere, Lingue e Beni culturali – Gruppo di ricerca Comunità e lavoro del Dipartimento di Lettere, Lingue e Beni culturali dell’Università di Cagliari – Dipartimento di Giurisprudenza, dalla Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna, con il patrocinio della Fondazione Adriano Olivetti.

Adriano Olivetti (1901-1960) “è tra le figure più influenti e singolari del Novecento. Imprenditore straordinario, eminente uomo di cultura, politico, innovatore delle scienze sociali e precursore dell’urbanistica e dell’architettura, tra il 1930 e il 1960 ha condotto la fabbrica di macchine per scrivere del padre e dei primi computer, ai vertici del successo mondiale e dell’innovazione tecnologica. Il suo progetto di riforma sociale in senso comunitario è oggi riconosciuto come una tra le realizzazioni più attuali e avanzate di sostenibilità”.

Dopo i saluti istituzionali, introdurrà i lavori Francesca Crasta, proponendo una prospettiva filosofica alla base del pensiero olivettiano, mentre Beniamino de’Liguori Carino, Segretario generale della Fondazione Olivetti parlerà dell’eredità culturale di Adriano Olivetti. Con il coordinamento di Salvatore Cubeddu, la prima sessione sarà dedicata all’esperienza di Adriano Olivetti in Sardegna, quando stipulò un accordo elettorale con il Psd’az. Le relazioni saranno tenute da Luca Lecis (Aspetti del dibattito sulla Rinascita), Stella Barbarossa (L’attività politica di Adriano Olivetti in Sardegna), Nicolò Migheli (L’esperienza comunitaria a Santu Lussurgiu), Duilio Caocci (Antonio Cossu: uno scrittore olivettiano in Sardegna), Franciscu Sedda (La simbologia comunicativa di Adriano Olivetti).

Nella II Sessione, pomeridiana, coordinata da Gianni Loy, sarà trattato il tema del lavoro e relazioni industriali nella fabbrica di Adriano Olivetti. Le relazioni saranno tenute da Enrico Mastinu (Le relazioni industriali nella “fabbrica” di Adriano Olivetti), Piera Loi (La responsabilità sociale dell’impresa), Sonia Fernandez Sanchez (Il welfare aziendale). La III Sessione, ultima della sera, coordinata da Duilio Caocci, tratterà la teoria della comunità. Le relazioni saranno tenute dal Card. Arrigo Miglio (Cattolici politica DC e Comunità-partito di Olivetti), Remo Siza (La Comunità in una società individualizzata), Simona Campus (Sinisgalli, Nivola, Pintori e l’umanismo pubblicitario di Olivetti), Mauro Pala (Ancestors: le radici britanniche del pensiero di Adriano Olivetti).

La III sessione riprenderà sabato mattina 28 ottobre 2023 con le relazioni di Antonella Camarda (Olivetti va in America. Italianità e internazionalismo negli show-room d’oltreoceano), Aldo Lino (Gli architetti di Adriano), Stefania Lucamante (Il ritratto di Adriano Olivetti nel “Lessico famigliare” di Natalia Ginzburg). Dopo uno spazio dedicato agli interventi del pubblico, le conclusioni saranno svolte a cura di Giuseppe Riggio s.j. e del Comitato scientifico composto da Duilio Caocci; Salvatore Cubeddu; Gianni Loy e Franco Meloni; Cardinale Arrigo Miglio; Giulio Parnofiello s.j. La conclusione dei lavori è prevista alle ore 13.30. I media partner sono Aladinpensiero News e il manifesto sardo.
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Convegno “Adriano Olivetti e la Sardegna. Attualità di una prospettiva umanistica”.
Cagliari, 27 e 28 ottobre 2023
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Comitato scientifico e Relatori
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Comitato Scientifico

Duilio Caocci

img_4708Duilio Caocci insegna Letteratura italiana e Letteratura sarda presso la Facoltà di Studi Umanistici di Cagliari. Tra il 2009 e il 2011 è stato componente del Comitato Nazionale per le Celebrazioni del centenario della nascita di Giuseppe Dessì e dal 2016 è segretario della Commissione Nazionale per l’opera omnia di Grazia Deledda istituita presso il Ministero per i beni e le attività culturali. È inoltre condirettore del Seminario internazionale sull’opera di Andrea Camilleri e redattore dei Quaderni camilleriani.
Ha pubblicato numerosi saggi sulla letteratura italiana medievale e sulla letteratura sarda tra Cinque e Novecento.
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Salvatore Cubeddu

img_4698Salvatore Cubeddu. Sociologo, già dirigente sindacale e politico. Giornalista pubblicista. Autore di saggi sulla politica e sulla società sarda contemporanea. Già Sindaco di Seneghe. Direttore della Fondazione Sardinia.
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Gianni Loy

img_4878Gianni Loy. Scrittore e poeta. Già professore ordinario di Diritto del Lavoro nell’Università di Cagliari.
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Franco Meloni

img_3744Franco Meloni, laureato in Economia e commercio, già dirigente dell’Università degli Studi di Cagliari, esperto di formazione degli adulti in ambito organizzativo. Giornalista pubblicista, direttore della news online Aladinpensiero.
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Card. Arrigo Miglio

img_4821Il card. Arrigo Miglio è Arcivescovo emerito di Cagliari. Presbitero dal 1967, Vescovo di Iglesias 1992, Vescovo di Ivrea 1999, Arcivescovo di Cagliari 2012, Cardinale dal 2022.
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Giulio Parnofiello sj

img_4703Giulio Parnofiello, dopo la laurea in Lingue e Letterature Straniere Moderne presso l’Istituto Universitario Orientale di Napoli, è entrato nella Compagnia di Gesù e ha completato la sua formazione con la licenza e il dottorato in teologia morale presso la Pontificia Università Gregoriana. È stato docente a Roma, Cagliari e Napoli, dove attualmente insegna presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale – Sez. S. Luigi.

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Relatori e Coordinatori

Francesca Crasta
Beniamino de’ Liguori Carino
Salvatore Cubeddu
Luca Lecis
Stella Barbarossa 
Nicolò Migheli
Duilio Caocci
Franciscu Sedda
Gianni Loy
Enrico Mastinu
Piera Loi
Sonia Fernandez Sanchez
Card. Arrigo Miglio
Antonella Camarda
Remo Siza
Simona Campus
Mauro Pala
Stefania Lucamante
Aldo Lino
Giuseppe Riggio sj
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Francesca Crasta

img_4819Francesca Maria Crasta è Professoressa ordinaria di Storia della Filosofia presso l’Università degli Studi di Cagliari. Nell’ambito dei suoi studi si è occupata di metafisica e di cosmologia in età medievale e moderna; della filosofia della natura; della diffusione del razionalismo cartesiano; dei rapporti fra erudizione, filosofia e scienza; della tradizione neoplatonica in età moderna. Tra le sue pubblicazioni figurano: La filosofia della natura di Emanuel Swedenborg, L’eloquenza dei fatti. Filosofia, erudizione e scienze della natura nel Settecento veneto. Geografia celeste e Mundus imaginalis da Swedenborg a Strindberg.
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Beniamino de’ Liguori Carino

img_4827 Beniamino de’ Liguori Carino è Segretario Generale della Fondazione Adriano Olivetti e Vicepresidente dell’Associazione Archivio Storico Olivetti. La Fondazione nasce nel 1962, due anni dopo la sua morte, e nel primo articolo del suo statuto ha il mandato di “promuovere l’opera culturale e sociale suscitata da Adriano Olivetti”. Questo è l’obiettivo che la Fondazione cerca tuttora di perseguire, in risposta all’interesse che la storia imprenditoriale e intellettuale di Olivetti continua a suscitare.

Luca Lecis

img_4828Luca Lecis è professore associato di Storia contemporanea nel Dipartimento di Lettere, Lingue e Beni culturali, dove svolge anche la sua attività di ricerca.
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Stella Barbarossa

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Stella Barbarossa. 2 Novembre 2022 – in corso – Ammissione presso Scuola di Archivistica, Paleografia e
Diplomatica presso l’Archivio di Stato di Cagliari.
18 Febbraio 2022 Conseguimento Dottorato in Storia, Beni culturali e Studi internazionali presso l’Università degli Studi di Cagliari, con un progetto dal titolo “Per una rigenerazione totale dell’isola: il Partito Sardo d’Azione e la sua ripresa politica e organizzativa.
Settembre 2018 – Febbraio 2022 Dottorato in Storia, Beni culturali e Studi internazionali presso l’Università degli Studi di Cagliari, con un progetto dal titolo “Per una rigenerazione totaledell’isola: il Partito Sardo d’Azione e la sua ripresa politica e organizzativa”.
20 Aprile 1018 – Conseguimento della Laurea magistrale in Storia e società presso l’Università degli Studi di Cagliari, con votazione 110/110 e lode e dignità di stampa; tesi in Storia e Società sulla nascita e lo sviluppo della Facoltà di Filosofia e Lettere presso l’Università di Cagliari dal 1764 al 1900. [titolo: Il Collegio e la Facoltà di Filosofia e Arti presso la Regia Università di Cagliari (1764- 1900). (Relatore: Professoressa Cecilia Tasca]
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Nicolò Migheli

img_4831Sociologo, si occupa di sviluppo rurale e di comportamento organizzativo. Ha al suo attivo diverse pubblicazioni di carattere scientifico, molte delle quali dedicate alla cultura, alla storia, alla tradizione di vari territori e comunità sarde. È anche autore di numerosi interventi e articoli su agricoltura, pastorizia, cibo e altre tematiche collegate alla conservazione e gestione dei saperi e peculiarità dell’isola. Esordisce nella narrativa nel 2011 con il fortunato romanzo Hidalgos (Arkadia Editore), con il quale è finalista al Premio Alziator 2012, al Premio Chambery 2013 e al Premio Cuneo, pubblicato anche in Bulgaria. Sempre per Arkadia Editore, nel 2013, partecipa all’antologia La cella di Gaudì e pubblica il romanzo La storia vera di Diego Henares de Astorga. Ultimo libro, 2023: Il cavaliere senza onore (Arkadia Editore).
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Franciscu Sedda

img_4706Franciscu Sedda è professore associato presso l’Università degli Studi di Cagliari, dove insegna Semiotica delle lingue e dei linguaggi, Semiotica della comunicazione contemporanea, Semiotica Culturale. È stato visiting professor presso la Harvard University e la Pontificia Universidade di São Paulo.

 

Enrico Mastinu

img_4823Enrico Maria Mastinu è professore associato di diritto del lavoro nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Cagliari in seno ai cui corsi di studio insegna Diritto del lavoro e Diritto della previdenza sociale.
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Piera Loi

img_4822Piera Loi è professoressa ordinaria di Diritto del lavoro presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Cagliari. È componente di gruppi di ricerca sia a livello internazionale che nazionale; oltre ai temi del diritto comparato del lavoro e del diritto del lavoro dell’Unione Europea, in questi ultimi anni si è dedicata allo studio dei cambiamenti del diritto del lavoro causati dall’uso delle tecnologie digitali e dell’intelligenza artificiale.
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Sonia Fernandez Sanchez

img_4800 Sonia Fernandez Sanchez è professoressa Associata in Diritto del lavoro presso l’Università degli Studi di Cagliari.
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Remo Siza

img_4710Remo Siza. Collabora con riviste di politiche sociali in Italia e nel Regno Unito. È componente dell’Editorial Board del Journal of International and Comparative Social Policy (Cambridge University Press) e consulente scientifico dell’Osservatorio nazionale e delle politiche sociali. Docente di Politiche sociali e progettazione dei servizi presso l’Università di Sassari.

 

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Antonella Camarda

antonella-camarda-ftAntonella Camarda è ricercatrice RTDB in Museologia, Storia della Critica d’Arte e del Restauro presso l’Università di Sassari. Dal 2015 al 2022 è stata direttrice del Museo Nivola di Orani, con cui continua a collaborare come curatrice aggiunta. I suoi interessi di ricerca includono la scultura, la storia transculturale del Modernismo e il rapporto tra arte, artigianato, design e architettura.

 
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Simona Campus

img_4903 Simona Campus. È curatrice del MUACC Museo universitario delle arti e delle culture contemporanee, recentemente fondato in seno all’Università di Cagliari, e referente responsabile per il Sistema museale d’Ateneo. Il suo lavoro curatoriale muove dall’idea di mostra come luogo di ricerca, rivolgendosi alle istanze dell’epoca contemporanea.
All’Università di Cagliari ha, inoltre, l’incarico per gli insegnamenti di Museologia e Storia delle esposizioni e delle pratiche curatoriali. I suoi interessi si rivolgono, in particolare, alla pluralità e interazione tra differenti codici espressivi, alla restituzione e alla rilettura dell’opera delle artiste tra XX e XXI secolo, all’arte come possibilità di impegno, partecipazione, inclusione.

Mauro Pala

img_4817Mauro Pala è Professore Ordinario di Letterature Comparate presso il Dipartimento di Lingue, Lettere e Beni Culturali dell’Università di Cagliari; dal 2018 coordina il Dottorato Internazionale in Studi Filologici- Letterari e Storico-Culturali. I suoi interessi di ricerca comprendono la teoria critica, la letteratura postcoloniale, i Cultural Studies. Ha insegnato e tenuto conferenze presso università americane, statunitensi ed europee, tra le sue pubblicazioni recenti figurano saggi su John Steinbeck, Edward Said, Siegfried Kracauer, James Joyce, Stendhal, il concetto di intertestualità. Nel semestre in corso tiene un corso di Laurea Magistrale su letteratura e lavoro.

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Stefania Lucamante

img_4697Stefania Lucamante. Ha insegnato per circa trent’anni negli Stati Uniti e da quattro ha preso servizio all’Università di Cagliari dove insegna letteratura italiana contemporanea.
Ha pubblicato sulla scrittrice Elsa Morante, Primo Levi, Carlo Levi, Natalia Ginzburg e altri autori. In particolare si occupa della narrativa di donne e della narrazione della Shoah.

Aldo Lino

img_4829Aldo Lino, architetto per esclusione (di matematica, lettere e filosofia), professore per combinazione (architettonica e urbana), ai tempi giovane promessa nel paesaggio locale (degli architetti (eh…), insulari e peninsulari).
Il suo lavoro è stato pubblicato su diverse riviste e settimanali (Panorama, L’Europeo, Ottagono, Domus, L’industria delle Costruzioni, Vita Nostra, Archivi di Architettura, Quaderni oristanesi, D’Architettura, Quaderni del Corso di Progettazione della Facoltà di Ingegneria di Cagliari… ) e diversi libri (Muratore, Italia gli ultimi trent’anni; Masala, Architettura del Novecento in Sardegna; Lucchini, L’identità molteplice; Scaglione, Oltre i maestri; Atzeni, Sardinian young Architecture, …). Tra le varie attività di progetto e costruzione si possono citare le case popolari a Solarussa e Oristano, il Centro sociale a Palmas Arborea, le torri campanarie a Nurachi e Villasimius, il Municipio di Ollastra, la palestra a Solarussa, il Parco termale a Sardara, il restauro di numerose chiese tra cui la Basilica di Santa Giusta, la Chiesa cattedrale di Bosa, il Duomo di Oristano e diversi oggetti di arredo domestico (una culla, un seggiolino, un appendiabiti, una sedia, una panchina, un tavolo, una cassetta per le lettere, un lume, …).
Dopo aver infruttuosamente portato borse nelle università di Cagliari e di Sassari e aver cercato di essere all’altezza dell’Istituto Europeo del Design di Cagliari, luogo scomodo dove bisognava pensare in grande, attualmente insegna Progettazione architettonica, urbana e varie altre amenità al Dipartimento di Architettura di Alghero, raccontando degli altri ma non di se’.
Di scrittura avaro (Attorno alla storia, alla geografia, all’architettura; Le città di fondazione in Sardegna; La città ricostruita; Praga memories 1977), di parola scorrevole (numerose conferenze in diverse sedi universitarie sugli anni Cinquanta e i suoi protagonisti), instancabile animatore (Circolo di architettura, Aperitivi di architettura, Attività culturali del Dipartimento di Alghero, …), armatore fallito, marinaio disponibile, pittore e fotografo a tempo perso per guadagnare tempo e qualche sorriso. Coltiva l’ambizione di imparare a suonare la tromba.

Giuseppe Riggio sj

img_4810Giuseppe Riggio SJ è direttore di Aggiornamenti Sociali dal 2022. È autore di una monografia teologica sul gesuita francese Michel de Certeau (storico, antropologo e studioso dei mistici del Seicento) ed è coautore di Il nome giusto delle cose, pubblicato nel 2018, un volume sul discernimento ignaziano rivolto ai giovani e a quanti li accompagnano. Nel novembre 2021 è stato nominato Consulente ecclesiastico nazionale dell’UCSI, l’associazione dei giornalisti cattolici.

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Domani il Convegno su Adriano Olivetti e la Sardegna

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Verso il Convegno su Adriano Olivetti e la Sardegna – Documentazione

img_4862img_4876Verso il Convegno di Cagliari del 27 e 28 ottobre 2023. ADRIANO OLIVETTI E LA SARDEGNA, quando il comunitarismo incontrò il sardismo.
di Salvatore Cubeddu, sul sito della Fondazione Sardinia.
La storia del rapporto tra Adriano Olivetti e il partito sardo nelle elezioni politiche del 1958. Il racconto dell’intellettuale lussurgese Antonio Cossu inviato da Ivrea in Sardegna. Il testo dell’accordo elettorale tra Adriano Olivetti e Titino Melis, segretario del PSd’A(z) (i due nelle foto). Il programma politico-economico-culturale (stralcio). Le elezioni politiche del 1958 in Sardegna.
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Convegno di studi. ADRIANO OLIVETTI E LA SARDEGNA. Attualità di una prospettiva umanistica.

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    Fondazione Sardinia
    Università degli Studi di Cagliari: Dipartimento di Lettere, Lingue e Beni culturali – Gruppo di
    ricerca Comunità e lavoro del Dipartimento di Lettere, Lingue e Beni culturali dell’Università di Cagliari – Dipartimento di Giurisprudenza.
    Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna

    con il patrocinio della
    Fondazione Adriano Olivetti
    Convegno di studi
    ADRIANO OLIVETTI E LA SARDEGNA
    Attualità di una prospettiva umanistica

Comitato scientifico: Duilio CaocciSalvatore CubedduGianni LoyFranco MeloniCard. Arrigo MiglioGiulio Parnofiello s.j.

Cagliari 27 e 28 ottobre 2023
Aula Bachisio Motzo – Facoltà di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Cagliari
Sa Duchessa, Cagliari

    Programma

Convegno di studi ADRIANO OLIVETTI E LA SARDEGNA Attualità di una prospettiva umanistica – Documentazione.

img_4780La Comunità in una società individualizzata
di Remo Siza

Introduzione
In Italia nel linguaggio corrente il richiamo alla comunità e alla sua rilevanza nella vita delle persone è stato molto ampio, sebbene, come ha rilevato Bagnasco (1999) l’uso del termine comunità per certi versi è problematico in quanto nella stessa parola si sovrappongono significati molto differenti.
George Hillery (1955; Collins, 2010) rilevava che esistono 94 definizioni di comunità e l’unico aspetto comune a tutte queste definizioni è l’idea di un tessuto di relazioni sociali che connette le persone fra di loro. Altre dimensioni del concetto quali la prossimità, la profondità emotiva delle relazioni non sono sempre condivise.
Nel dibattito politico e nei programmi dei principali partiti, il riferimento è diventato:
- la comunità locale, spesso come livello politico locale contrapposto a quello centrale.
- la comunità come ambito della partecipazione diretta delle persone al governo che assicura l’efficacia e l’efficienza dell’azione pubblica
- come sistema delle autonomie locali capace di rispondere alla crisi dei partiti e della rappresentanza politica;
- per riavvicinare città alle aree interne dimenticate dal mercato e dall’attuale modello di sviluppo.

Infine, la comunità è stata riscoperta nei sistemi di welfare che intendevano valorizzare il Servizio sociale di comunità, i servizi per l’infanzia, il ruolo delle famiglie e le relazioni di comunità nella cura delle persone.
Nel pensiero di Adriano Olivetti tutte queste accezioni del termine comunità erano presenti.
- non per contrapporre comunità arcaica e città moderna, non come ritorno al passato;
- la comunità è vista come mediazione fra individuo e Stato;
- come ambito di innovazione, ambito di relazioni che rafforzano e danno sostanza umana allo sviluppo industriale e contribuiscono alla costruzione di una società ‘a misura d’uomo’;
- come idea-forza per una radicale riforma del sistema politico.

Il richiamo alla comunità era chiaramente legato ad una preoccupazione per la fragilità dei legami sociali, per i cambiamenti che travolgevano sistemi di valore e istituzioni.

I cambiamenti della società industriale
La comunità che Olivetti richiamava nel suo progetto di riforma era cambiata profondamente a partire dagli ultimi anni Cinquanta.
Una straordinaria espansione economica e una imponente mobilità territoriale che aveva come destinazione le città del triangolo industriale contribuiva ad un cambiamento profondo della società italiana.
Non cambiava soltanto l’economia, cambiavano, forse in modo più radicale, le relazioni fra le persone.
Lo sviluppo industriale incideva profondamente sull’equilibrio individuo e comunità e su un processo fondamentale della modernità: il processo di individualizzazione (Beck, 1992; Beck U and Beck-Gernsheim, 2001).
Il processo di individualizzazione è il fondamento delle società occidentali e di ogni dinamica di innovazione e cambiamento.
Sono processi che promuovono il distacco dai ruoli e vincoli tradizionali costrizioni (della famiglia autoritaria tradizionale, della comunità), che valorizzano l’autonomia individuale verso una crescita della libertà e della consapevolezza di sé dell’individuo, per costruire una vita indipendente sulla base dei valori e dei principi della nascente modernità industriale. Io posso aderire ad un gruppo ma deve essere una scelta personale.
Sono processi che orientano le agenzie di socializzazione verso la costruzione di individualità che inevitabilmente si distinguono dalle comunità di appartenenza.

Una individualizzazione parziale
In quegli anni questi processi definiti di individualizzazione si diffondono molto rapidamente e coinvolgono una larga parte della società italiana. Una parte significativa della popolazione, soprattutto i più giovani, vuole realizzare il proprio progetto di vita e scegliere autonomamente il proprio destino anche lontano dalla comunità di origine, assumere la propria indipendenza rispetto alle attese dei genitori, della rete parentale allargata, dalla comunità, dalle grandi associazioni collettive.
Le comunità tradizionali non si sono comunque dissolte. In fondo, questi processi di emancipazione e di individualizzazione (cioè di distacco dai ruoli e vincoli tradizionali verso una crescita della libertà individuale) erano ancora governabili e funzionali al nuovo sviluppo economico.
La società industriale era una società percorsa da grandi cambiamenti ma comunque solida nei suoi riferimenti culturali, era una società sostanzialmente integrata, in cui le patologie della modernità erano ancora governabili.
Le condizioni per uno sviluppo della comunità erano ancora presenti, ma il futuro di un discorso comunitario sembrò dipendere strettamente dall’iniziativa e dall’attivismo di Adriano Olivetti più che dai cambiamenti delle comunità concrete.
Il Movimento Comunità declinò con la morte di Olivetti (1960), sebbene in quegli anni la comunità a cui si riferiva Olivetti era ancora vitale e poteva ancora contare su una larga parte delle sue risorse tradizionali di partecipazione e di coesione sociale, di relazioni sociali amichevoli.
Nella società industriale degli anni Cinquanta e Sessanta, i processi di individualizzazione si diffondono rapidamente nel tessuto sociale ma sono ancora parziali, non si sono ancora radicalizzati:
- gli individui sono più autonomi, ma le forme collettive di appartenenza (la comunità, il sindacato, grandi associazioni, la Chiesa) sono ancora solide;
- si allentano i legami collettivi ma non del tutto
- la famiglia è diventata nucleare, ma è ancora stabile si riduce sensibilmente il numero di figli; ma i ruoli di genere persistono sebbene siano accettati con molte più resistenze dalla donna;
- la famiglia è ancora inserita nella rete parentale e nella rete dei diritti e dei doveri, seppure in termini meno vincolanti e più esplicitamente conflittuali;
- le abitudini e le tradizioni della comunità di appartenenza ancora persistono sebbene si siano indebolite nella loro capacità di orientare i comportamenti sociali.

Nelle società industriali, c’era ancora una continuità un passaggio lineare tra due fasi del processo di individualizzazione
1. la fase “liberatoria” dai vincoli e costrizioni che limitano l’autonomia e la capacità di autodeterminazione delle persone e non consentono di realizzare i loro progetti di vita. Ciò che diventa importante è la raggiunta possibilità di scegliere la propria vita, senza rassegnazione e passività.
2. la successiva fase di ricomposizione di nuove forme di stare insieme, di convivenza, nuove relazioni di amicizia e di collaborazione, nuove relazioni con le istituzioni che di norma seguono questa fase liberatoria.

I cambiamenti economici e sociali travolgevano la civiltà contadina, le sue relazioni, le sue staticità, ma allo stesso tempo rivitalizzavano le istituzioni più moderne (famiglia nucleare e il ruolo della donna, i partiti, i sindacati…)
La società industriale è una società moderna che ha in mente il suo punto di arrivo:
- la famiglia nucleare (i genitori con un numero limitato di figli) modernizzata nelle sue relazioni, meno autoritaria;
- la Chiesa ha un ruolo cruciale nella vita delle persone seppure risulti indebolita da processi di secolarizzazione
- le istituzioni politiche sono solide,
- il lavoro è stabile, dignitoso, remunerato sufficientemente per partecipare a pieno titolo alla vita sociale.

I movimenti comunitari degli anni Novanta
A partire, dagli anni Novanta in molte parti del mondo, i movimenti comunitari assumono particolarmente rilevanza come progetto di riforma complessiva della società post-industriale, per affrontare la crisi delle sue principali istituzioni, l’individualismo che sembra delineare forme di vita non più socialmente ed ecologicamente percorribili (Etzioni, 1993; 1998).
Negli Stati Uniti e nel Regno Unito movimenti comunitari coinvolgono in un progetto di politica di riforma della società, politici come Bill Clinton e Tony Blair oltre che decine di altri Capi di Stato nel mondo.
Il Communitarian Network, fondato da Amitai Etzioni nel 1993, è il movimento più importante (Pesenti, 2002). Il movimento nasce da una forte preoccupazione sul futuro delle società contemporanee ed è fondato sulla rivitalizzazione delle comunità, sulla costruzione di valori comuni, di una cultura della coesione sociale.
Il perno di questo progetto di riforma sono le istituzioni agenti della socializzazione (famiglia, scuola, gruppo dei pari, lavoro, mass media) che orientano il comportamento individuale e collettivo
Possiamo non condividere l’appello alla moral voice della comunità, per certi versi averne timore nei suoi effetti di controllo, ma i problemi che il movimento evidenzia sono ineludibili:
- l’esigenza che la famiglia svolga la sua funzione educativa,
- che la scuola non si limiti a curare lo sviluppo cognitivo dei giovani senza alcuna attenzione ad aspetti morali;
- che la comunità si responsabilizzi rispetto ai problemi che sorgono nel suo ambito, sia realmente un punto d’incontro, di comunicazione, di sostegno reciproco tra le persone,
- sia responsive ‘capace di comprendere e dare risposta alle esigenze reali di tutti i membri della comunità, con un appropriato equilibrio tra ordine e autonomia.
- Si condivida un nuovo equilibrio tra diritti e doveri, una democrazia fondata sulla costruzione di valori e regole condivise, che promuova il senso di responsabilità degli individui e delle collettività,

Fukuyama nel suo più recente saggio (2022) sintetizza gli sviluppi del liberalismo classico. L’idea centrale del liberalismo è la valorizzazione e la protezione della autonomia individuale, come libertà di parola, di associazione, di fede e di vita politica. In questi ultimi due decenni il liberalismo ha avuto due sviluppi radicali: il neoliberismo nell’economia come libertà del mercato senza interferenze dello stato, e un secondo sviluppo che valorizza l’autonomia delle persone relativamente alla scelta dello stile di vita e dei valori, come costante rivendicazione dell’autonomia individuale nella vita quotidiana (p. 17).
Queste due versioni del liberalismo hanno sostituito, solo parzialmente, e in parte marginalizzato, il conservatorismo dei movimenti tradizionali di destra, legato ai valori e ai principi morali del passato, alla continuità e il compromesso socialdemocratico tra capitale e lavoro che per circa tre decenni ha assicurato ad una parte considerevole della popolazione estesi sistemi di welfare e alti salari, stabilità e crescita alle società europee.
Il neo comunitarismo costituiva una critica severa alla libertà del mercato, raccomandava una qualche prudenza nella libertà individuale e nelle scelte di vita, auspicava un ruolo più limitato dello stato e la necessità di un richiamo ad alcuni valori della tradizione. Questo movimento influenzò significativamente e l’iniziativa politica della sinistra in tutta Europa e La Terza Via nel Regno Unito come progetto politico che si proponeva di superare la tradizionale dicotomia tra destra e sinistra.
Ma questi tentativi di ricomporre le grandi tradizioni delle società Occidentali non sono riusciti a trovare un equilibrio soddisfacente e stabile tra le esigenze e le logiche di ogni sfera di vita (mercato, stato, società civile, famiglia).

L’influenza del pensiero comunitario in Italia
In Italia il pensiero comunitario non è emerso come sfida culturale agli sviluppi radicali del liberalismo classico, il movimento di pensiero e di azione politica che ha avuto un ruolo fondativo del pensiero politico occidentale.
In Italia, il richiamo alla comunità è molto poco presente nel dibattito pubblico e il pensiero di Adriano Olivetti, sui rapporti fra istituzioni politiche rappresentative, lavoro, comunità è ben poco presente nella letteratura italiana sui movimenti comunitari in Europa.
Le forze politiche e sociali riprendono alcune proposte dei movimenti comunitari, quali la promozione di una transizione dal welfare state fondato su interventi pubblici ad un welfare community che valorizza le risorse di volontariato, le relazioni informali e le famiglie nella promozione del benessere e della salute delle persone; una transizione dalla scuola come soggetto esclusivo alla comunità educante come rete di attori territoriali che si impegnano a garantire il benessere e la crescita di ragazze e ragazzi.
Così come aveva previsto il governo inglese di David Cameron, il governo italiano riprende, nel suo Libro Bianco sul futuro del modello sociale (2009), l’idea di una Big society un modello di governo della società in cui lo Stato si fa da parte, e alle comunità locali e alla partecipazione dei cittadini comuni più intraprendenti è affidata la gestione dei servizi pubblici locali: il welfare state è inefficiente, crea dipendenza, assistenzialismo, non aiuta la crescita delle persone, non alimenta il senso di responsabilità. Libro Bianco si fondava su un nuovo modello delle opportunità e delle responsabilità:
- riformare l’apparato pubblico, trasferendo maggior potere alle comunità locali;
- incoraggiare le persone a svolgere un ruolo attivo, di gestione comunitaria di servizi collettivi;
- promuovere l’azione volontaria delle associazioni senza fini di lucro e delle fondazioni.

La crisi dei processi di individualizzazione
L’emergere del neo comunitarismo così come la rilettura degli scritti del movimento comunitario di Adriano Olivetti possono essere l’occasione per promuovere un dibattito pubblico sul ruolo che svolgono le principali istituzioni (la famiglia, la scuola, il gruppo dei pari, l’ambiente di lavoro) sulla loro capacità di promuovere il senso di responsabilità degli individui e delle collettività; sui processi di socializzazione, cioè, sui processi di interazione, di sviluppo e di formazione della personalità umana in una determinata società.
In una larga parte della società, la fragilità dei legami sociali, la crisi delle appartenenze collettive sono state per lo più interpretate come effetto del neoliberismo, del crescente individualismo, dello sviluppo delle relazioni di mercato alle quali è necessario contrapporre un’alternativa sostanzialmente socialdemocratica e un rafforzamento delle risorse pubbliche
In poco più di un decennio, la società italiana è cambiata in tutti i suoi ambiti di vita, sono cambiate le condizioni economiche delle famiglie italiane, le relazioni fra le persone e con le istituzioni, con la politica, le relazioni di cura, i valori che abbiamo condiviso per decenni e che abbiamo percepito come naturali e ormai acquisiti.
Ciò che sembra delinearsi è una lunga transizione tra la società industriale del secolo scorso, sostanzialmente stabile, prevedibile e lineare nel suo sviluppo e nelle sue frequenti conflittualità collettive e una modernità molto avanzata di cui ancora non riusciamo a cogliere il punto di arrivo, le istituzioni che possono rappresentarlo, i suoi riferimenti culturali, le forme di convivenza civile che possiamo condividere, i comportamenti che possiamo tollerare.
Negli ultimi due decenni e in una larga parte delle società occidentali contemporanee, non sappiamo più come governare l’autonomia e l’attivismo delle persone nella vita reale e virtuale (Siza, 2022). In società globalizzate, caratterizzate da rapide innovazioni tecnologiche, l’attivismo radicale delle persone crea molto frequentemente instabilità nella vita quotidiana e nella vita di ogni istituzione (la famiglia, la scuola, il sistema politico).
Ciò che noi osserviamo nella nostra vita sociale è la crescita di moltitudini di individui con deboli legami collettivi, attivi nel senso che con loro impegno radicale intendono cambiare e semplificare le regole della democrazia e della convivenza civile, riflessivi nel senso che valutano individualmente ogni sollecitazione, ogni richiesta delle istituzioni anche in ambiti che richiedono specifiche competenze (dal vaccino alle reazioni al riscaldamento globale).
La normalità è sempre più estesa, comprende scelte e stili di vita che pochi anni fa la maggioranza delle persone marginalizzava; in fondo siamo disponibili a ritenere normale qualsiasi comportamento.
Il problema diventa come orientare l’autonomia degli individui senza co-stringerli con regole di vita che incombono in ogni sfera di attività, senza disperdere la capacità di innovazione di individui attivi. Quali sono i valori interiorizzati nel nostro passato oppure presenti e attivi nel nostro vivere quotidiano che ci impediscono o limitano significativamente le relazioni di sopraffazione.
Nell’attuale dibattito pubblico emergono posizioni molto semplificate. In molti casi emerge l’illusione di riuscire ad individuare pochi atti risolutivi (per esempio, punizioni esemplari, norme severe) che in una comunità degradata avviino un processo virtuoso. In questo modo non consideriamo che interazioni e atti successivi che non progettiamo di governare possono invertire anche rapidamente gli esiti di ogni azione esemplare.
In altri casi emerge il richiamo alle comunità tradizionali del passato, a relazioni tradizionali nella scuola, in famiglia, alle gerarchie e alle distinzioni di una volta. Il problema è che per realizzare questo progetto non dovremmo soltanto cercare di sollecitare relazioni tradizionali di fiducia e rispetto, ma dovremmo ricostruire anche le istituzioni (il lavoro di una volta, la famiglia tradizionale, la comunità come ambito di relazioni territoriali, l’assenza di tecnologie, le concezioni tradizionali del tempo e dello spazio) che rendevano possibile e funzionali queste relazioni umane. Certe disposizioni interiore alla collaborazione tipiche di una comunità tradizionale in un contesto oggettivo molto differente non orientano i comportamenti concreti con la stessa frequenza.
Nella vita economica leggi e sanzioni (amministrative, penali) limitano la capacità d’iniziativa degli individui e l’orientano verso alcuni obiettivi condivisi. Nelle relazioni intersoggettive contano soprattutto i processi di socializzazione (nella famiglia, nella scuola, nelle relazioni di amicizia, nell’ambiente di lavoro) per costruire individualità collaborative.
In molti contesti, i processi di socializzazione sono diventati disfunzionali, creano molto frequentemente instabilità nella nostra vita quotidiana, tendono a produrre conflitti sociali, nuove divisioni sociali nuove, chiare e distinte, nuove e competitive identità sociali in termini di valori e modelli comportamentali, nella vita pubblica e privata.
In altri contesti i processi di socializzazione contribuiscono alla creazione di individualità molto differenti, creano individui che riconoscono il valore e l’autonomia degli altri; costruiscono nuovi rapporti di collaborazione e di innovazione; iniziative collettive attraverso l’impegno individuale; valorizzano la comunità in cui operano non come fonte di norme e controllo stabilizzati, ma come contesto relazionale in cui creare risposte collettive ai bisogni delle persone.
Il nostro impegno può essere indirizzato ad individuare i contesti, le condizioni, i sistemi di valore che favoriscono questi processi di crescita delle persone; le disponibilità umane e gli atti concreti che creano individualità attive capaci non soltanto di inserirsi attivamente nel mercato del lavoro ma anche di creare relazioni collaborative, iniziative collettive, curare le relazioni con le persone, costruire attivamente una convivenza civile più soddisfacente, legami collettivi meno costrittivi con la propria comunità.
Per queste ragioni può essere utile riprendere i principi e i valori dei movimenti comunitari e su questa base avviare una riflessione pubblica sulla nostra convivenza civile, sui nostri sistemi di valori, sulle istituzioni, sulle relazioni tra città e piccoli centri urbani, per quali motivi il tessuto di relazioni che sta emergendo crea in molti contesti insicurezza e inquietudine
Insomma abbiamo bisogno di riprendere il discorso pubblico sulla fragilità dei legami sociali, sulla crescente frammentazione sociale e sulla esigenza di costruire relazioni sociali caratterizzati da profondità emotiva, impegno morale, coesione sociale e continuità nel tempo (Nisbet, 1977: 68).
Il pensiero di Adriano Olivetti, sulla comunità, sul ruolo della famiglia, della scuola, del gruppo dei pari, sui rapporti fra istituzioni politiche rappresentative, sul lavoro ci sarà sicuramente molto utili in queste riflessioni.

Riferimenti bibliografici
Hillery, G. (1955) Definitions of Community: Areas of Agreement. Rural Sociology, 20, pp. 111-123.
Bagnasco, A. (1999) Tracce di comunità, Bologna: il Mulino.
Beck U. (1992) La società del rischio, Roma: Carocci.
Beck U. and Beck-Gernsheim E. (2001) Individualisation, London: Sage.
Collins, P.H. (2010) The New Politics of Community, American Sociological Review, 1(75), pp. 7-30.
Etzioni, A. (1993) The Spirit of Community: Rights, Responsibilities and the Communitarian Agenda, New York: Crown Publishers.
Etzioni, A. (a cura di) (1998) Nuovi Comunitari, Castelvecchio (Bologna): Arianna Editrice.
Fukuyama, F. (2023) Liberalism and Its Discontents, London: Profile Book.
Nisbet, R.A. (1977) La tradizione sociologica, Firenze: la Nuova Italia.
Pesenti, L. (2002) Comunitarismo-Comunitarismi: una tipologia essenziale, in I. Colozzi (a cura di) Varianti di comunitarismo, in Sociologia e Politiche Sociali, 2(5), pp. 9-38
Siza R. (2022) The Welfare of the Middle Class. Changing Relations in European Welfare States, Bristol: Policy Press.

Che cosa succede e cosa succederà?

b8d4f079-0a9d-4306-b131-9b630a570a4ecostituente-terra-logo Costituente Terra Newsletter n. 135 del 19 ottobre 2023 – Chiesadituttichiesadeipoveri Newsletter n. 316 del 19 ottobre 2023

QUALE FUTURO

Cari amici,
Dopo la Shoà inflitta dall’Europa del Novecento al popolo ebreo, il mondo ha detto “Mai più!” e stabilito che i popoli non devono uccidersi l’un l’altro ma farsi concittadini e fratelli. Con la fondazione dell’ONU il mondo si è poi chiarito le idee sul delitto di genocidio e la sua singolarità rispetto a ogni altra forma di carneficina, eccidio o strage: una differenza tanto forte da inventargli un nome nuovo, dato che non esisteva la parola né la fattispecie del crimine di genocidio prima della risoluzione delle Nazioni Unite dell’11 dicembre 1946 seguita poi dalla Convenzione internazionale del 1948. Questa definiva il genocidio, indipendentemente dal fatto che fosse perpetrato in tempo di pace o in tempo di guerra, come ciascuno degli atti che venisse commesso “con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso come tale”. Tra questi atti era esplicitamente citato “il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale”. Crimine veniva considerato anche “il tentativo di genocidio” e non venivano chiamati “scudi umani”, quali vittime dell’attacco, i membri del gruppo uccisi o esposti a “lesioni gravi alla loro integrità fisica o mentale”.
Istruiti da tale statuizione, possiamo chiamare per nome gli avvenimenti che stanno dilaniando Israele e Gaza, dalla turpe carneficina di Hamas alla terra bruciata frutto della punizione collettiva di Israele, fino alla strage degli innocenti malati e feriti nell’ospedale di Gaza.
In piena guerra è impossibile fare un bilancio complessivo delle vittime; si sa per certo che 1200 israeliani sono stati uccisi nel raid di Hamas e circa 200 sono gli ostaggi. Quanto ai palestinesi, l’intera popolazione di Gaza, fatta oggetto della ritorsione israeliana, assomma a 2.200.000 persone, di cui più della metà sono minori e non hanno alcuna responsabilità per le gesta di Hamas, essendo nati dopo che questa nel 2006 aveva vinto le elezioni.
Purtroppo né l’Europa, né l’Occidente sono in grado di fare alcunché per alleviare le sofferenze in atto e promuovere la riconciliazione e la pace. Da noi non c’è che una rissa per demonizzare gli uni o gli altri, non c’è una visione capace di prospettare un diverso futuro. È chiaro invece che, fallita la soluzione dei due popoli in due Stati, inutilmente perseguita nei passati decenni, occorrerà mettere in campo nuove idee e proporre nuovi ordinamenti anche al di là dei modelli esistenti. Non è detto che la sovranità degli Stati debba continuare ad essere quella incondizionata del modello hobbesiano, né che i conflitti identitari si possano risolvere solo nella perdita delle rispettive peculiarità religiose e culturali secondo il modello della laicizzazione occidentale. E se da un lato l’identificazione di Israele come Stato ebraico potrebbe volgere a una interpretazione più magnanima e anche più fedele al cuore delle Scritture di quanto sia l’attuale forma dello Stato di Israele, nell’Islam può diventare cultura comune e immune dalle sacche di estremismi violenti la visione di recente enunciata nel documento islamo-cristiano di Abu Dhabi e nella lettera che 126 leaders e sapienti musulmani nel 2014 inviarono ad Al-Baghdadi e all’Isis, rivendicando il primato delle misericordia nel Corano e una lettura storicizzata delle passate guerre religiose con l’affermazione che l’Islam non avanza con la spada: “È proibito accomunare la “spada”, e quindi la collera e il rigore, alla “misericordia” – diceva la lettera – “Non è altresì lecito subordinare l’idea di “misericordia per tutti i mondi” (attribuita a Maometto) “all’espressione “inviato con la spada”, perché ciò sarebbe come dire che la grazia è subordinata alla spada, cosa che è evidentemente falsa. .. La Misericordia che Muhammad rappresenta per tutti i mondi non può essere condizionata al fatto che egli abbia impugnato la spada (in un tempo, un contesto e per una ragione specifici). Non si tratta qui soltanto di una sottigliezza accademica…”.
Non c’è dunque nulla che si deve fare che sia fuori della cultura ebraica e di quella musulmana; al contrario c’è scritto in Isaia 61, lo ha riproposto Gesù nella sinagoga di Nazaret, ed è affermato nella teologia islamica. E anche il Papa è d’accordo contro tutta la tradizione della Cristianità armata, “da Costantino ad Hitler”, come dice lo storico Heer ben noto a papa Francesco.
Se non si mettono in campo queste alternative, nemmeno noi ci salviamo. Perché tutti siamo responsabili, “Sono tutti traviati, tutti corrotti, non c’è chi agisca bene, neppure uno” (Salmi), “tutti hanno smarrito la via, insieme si sono corrotti, non c’è chi compia il bene, neppure uno) (Paolo). Sono detti sapienziali, laici, non confessionali.
Nel sito pubblichiamo un articolo di Maria Paola Patuelli sul ripudio della guerra e un commento sulla visita di Ursula Von der Leyen in Israele.
Con i più cordiali saluti, con la preghiera di un vescovo, don Pino Caiazzo, “Sconfitti nel Sangue Innocente”.

Costituente Terra (Raniero La Valle)
Chiesadituttichiesadeipoveri
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La preghiera di un vescovo
SCONFITTI NEL SANGUE INNOCENTE

I fiumi di Babilonia, Ninive, Samaria, Kfar Aza, Gaza

Ieri lungo i fiumi di Babilonia (Sl 137,9; Is 13,16)
i tuoi piccoli sfracellati contro la pietra!
A Ninive lungo le strade (Naum 3,10)
i suoi bambini furono sfracellati!
Samaria sconta la sua pena (Os 14,1)
e i suoi piccoli saranno sfracellati!

Oggi Kfar Aza, kibbutz insanguinato
da grida sgomente!
A Gaza scorre copioso il sangue
di bambini senza colpa.

Orrore scorre dalla vendetta
ruscello cruento irriga una terra
senza più vita
arida e senza Dio.
Chi tornerà a seminarla?

Quale immensa sconfitta
in una vittoria dal sapore aspro
nello scempio di volti innocenti!
Quanto dovrà piangere Dio
sulla nuova Gerusalemme?

E’ questo il prezzo della guerra:
sconfitta di tutti!
Dalla morte resta
terrore e dolore
su volti impietriti.

Non siamo ideologie ma vita!

Uomini impastati di terra
ma plasmati d’eterno
soffio divino
che si espande nei respiri.

Fratelli non bestie!
Abbattiamo ogni spirale di guerra
in Israele come in Palestina
torniamo a seminare giustizia
e pur nelle doglie partoriamo pace.

Don Pino Caiazzo, arcivescovo di Matera-Irsina e vescovo di Tricarico.
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Convegno Adriano Olivetti e la Sardegna 27/28 ottobre 2023
PARTECIPATE

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ADRIANO OLIVETTI e LA SARDEGNA

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    Fondazione Sardinia
    Università degli Studi di Cagliari: Dipartimento di Lettere, Lingue e Beni culturali – Gruppo di
    ricerca Comunità e lavoro del Dipartimento di Lettere, Lingue e Beni culturali dell’Università di Cagliari – Dipartimento di Giurisprudenza.
    Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna

    con il patrocinio della
    Fondazione Adriano Olivetti
    Convegno di studi
    ADRIANO OLIVETTI E LA SARDEGNA
    Attualità di una prospettiva umanistica

Comitato scientifico: Duilio CaocciSalvatore CubedduGianni LoyFranco MeloniCard. Arrigo MiglioGiulio Parnofiello s.j.

Cagliari 27 e 28 ottobre 2023
Aula Bachisio Motzo – Facoltà di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Cagliari
Sa Duchessa, Cagliari

    Programma

Convegno “Adriano Olivetti e la Sardegna. Attualità di una prospettiva umanistica”. Comitato scientifico e Relatori

img_4780Convegno “Adriano Olivetti e la Sardegna. Attualità di una prospettiva umanistica”.
Cagliari, 27 e 28 ottobre 2023
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Comitato scientifico e Relatori
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Il pensiero di Adriano Olivetti per il superamento della crisi della Sardegna

img_4771Adriano Olivetti 1 Nei giorni 27 e 28 ottobre prossimo si terrà a Cagliari un importante Convegno sulla figura di Adriano Olivetti – intitolato “Adriano Olivetti e la Sardegna – Attualità di una prospettiva umanistica” – che ne riproporrà a tutto tondo il pensiero, soffermandosi specificamente su “teorie e pratiche di comunità”, che lo caratterizzano e informarono la sua prassi politica, purtroppo interrottasi con la sua morte improvvisa e prematura, impedendone una diffusione nel paese. Olivetti trovò felice corrispondenza del suo pensiero anche in Sardegna,
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- Foto: Archivi Fondazione Sardinia e Fondazione Adriano Olivetti
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dove strinse fecondi rapporti di collaborazione culturale e politica con il Partito Sardo d’Azione e con diversi esponenti della cultura operanti in Sardegna, come appunto Antonio Cossu, sul quale è incentrato il saggio del prof. Duilio Caocci. In particolare l’esperienza di Olivetti in Sardegna sarà approfondita nella ricerca degli elementi utili per proporre oggi una possibile alternativa all’attuale modello sociale, politico, culturale, nonché istituzionale, o, perlomeno, migliorare la situazione di crisi che attraversa la nostra Regione. Oltre l’autonomia verso un federalismo solidale? Il Convegno è organizzato dalla Fondazione Sardinia, dall’Università di Cagliari, dalla Pontificia Facoltà Teologica, con il patrocinio della Fondazione Adriano Olivetti. Aladinpensiero e il manifesto sardo assicurano la funzione di media partner della manifestazione. Proprio in questa veste, assumiamo l’impegno di pubblicizzare al massimo la meritoria iniziativa, prima, durante e successivamente. In questo contesto rilanciamo qui (e rilanceremo nei prossimi giorni/mesi) materiali di approfondimento a cura della Fondazione Sardinia, tratti dal suo sito web. Non ripetiamo quanto ben spiegato nelle premesse.
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Antonio Cossu, uno scrittore olivettiano in Sardegna
di Duilio Caocci su Fondazione Sardinia.

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Antonio Cossu, uno scrittore olivettiano in Sardegna
di Duilio Caocci su Fondazione Sardinia.

“Il primo contatto tra Antonio Cossu e Adriano Olivetti è decisivo”. Questo importante saggio di Duilio Caocci – professore ordinario di letteratura italiana presso l’Università di Cagliari – sull’intellettuale lussurgese Antonio Cossu (nella foto) rappresenta la ripresa delle tematiche “comunitarie” poste dal pensiero e dall’azione di Adriano Olivetti ed il loro importante passaggio in Sardegna a partire dagli anni Cinquanta dello scorso secolo. Un discorso che continueremo.

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All’interno della cosiddetta letteratura olivettiana, porzione minima e però importante della letteratura industriale, Antonio Cossu – per la quantità e per la qualità delle opere schiettamente olivettiane – dovrebbe occupare una posizione di primo piano. Se si conviene su una definizione ampia (1), ovvero sul fatto che con l’aggettivo derivato dal cognome del grande industriale si possa definire un gruppo ampio ed eterogeneo di prodotti letterari – poesie, saggi, romanzi, diari – che si ispirano alle idee di Adriano Olivetti (o evocano l’ingegnere, o rappresentano la vita nelle fabbriche di Ivrea e Pozzuoli, oppure ancora discutono i grandi temi dell’illuminato imprenditore), allora l’intera produzione dello scrittore sardo di cui vorremmo ora scrivere rientrerebbe pienamente in questo campo molto popolato. Anche quando – come accade nella più gran parte dell’opera – Antonio Cossu non parla affatto di fabbriche. Anzi, proprio perché riflette sul futuro dell’isola senza industria, in una fase storica in cui, dopo il fecondo dibattito sulle ragioni dell’autonomia, si pianifica l’attuazione dell’articolo 13 dello Statuto, quello che afferma che lo Stato col concorso della Regione dispone un piano organico per favorire la rinascita economica e sociale dell’Isola. Tale ‘rinascita’, secondo un’idea di sviluppo condivisa nel clima politico degli anni Cinquanta e Sessanta, doveva prevedere una radicale trasformazione delle dinamiche sociali e un rapido passaggio dall’economia rurale a quella industriale.

Tra i quattro romanzi di Cossu – I figli di Pietro Paolo, Il riscatto, Mannigos de memoria, Il sogno svanito – la Sardegna evoluta in senso industriale compare solo nel Sogno svanito, perché lo scrittore quando si dispone a fare letteratura non è tanto interessato al lavoro nella catena di montaggio, ma a questioni che riguardano più direttamente la sua terra: la modernizzazione dei processi economici in campo agropastorale in relazione al miglioramento della qualità di vita delle comunità, il perfezionamento dei rapporti di potere tra centri decisionali e periferie. Tutti nodi che Cossu aveva imparato a considerare con attenzione dalle letture dei filosofi personalisti francesi prima e da Adriano Olivetti poi.

Il primo contatto tra Antonio Cossu e Adriano Olivetti è precoce e decisivo. Risale al tempo immediatamente successivo alla Laurea conseguita presso la Statale di Milano2 e fu favorito da Diego Are (Santu Lussurgiu, 1914-2000), un intellettuale compaesano di Cossu che aveva fondato nella capitale il Movimento internazionale di unione e fraternità3 e si era presto avvicinato al Movimento Comunità. Nel 1954 si tiene a Roma un convegno organizzato dal Movimento di Are e dalla sede romana del Movimento Comunità, intitolato Abolire la miseria. Per un fronte di riforme e di lotta popolare contro il bisogno. È in quel contesto che Antonio Cossu, allora ventisettenne, viene reclutato dall’ingegnere per una collaborazione con il settimanale «La via del Piemonte» allora diretto da Geno Pampaloni4 e pubblicato a Ivrea dalle Edizioni di Comunità. A partire da quel momento il giovane lussurgese diventa protagonista di un grande progetto politico e culturale e ha la possibilità di lavorare accanto a una schiera di intellettuali composita e valorosa.
Nel settembre 1955 appare su «Comunità» (a. XI, n. 32) un racconto ibrido di Cossu, Sardegna a passo di carro e di cavallo, di quelli che si posizionano sulle zone di confine tra generi: reportage giornalistico, riflessione sociale e racconto finzionale, collocabile perciò tra quei non pochi scritti letterari olivettiani «che camuffano il rapporto tra narrativa e sociologia sotto la falsariga di una letteratura a carattere documentario perché oscillano tra scrittura d’invenzione e di testimonianza»5.

Il protagonista racconta in prima persona l’esperienza di un viaggio compiuto con suo padre in un’ampia area tra i paesi dell’oristanese, sino a Macomer, insistendo sulle condizioni arretrate del territorio e su una lentezza – quella appunto del carro – incompatibile con la modernità dei mezzi di trasporto a motore. Le descrizioni si accreditano come ‘oggettive’ per lo stile asciutto che caratterizza l’intera narrazione e per il corredo di fotografie scattate dall’autore al fine di documentare con maggiore evidenza i fenomeni tipici di un ritardo economico e culturale dell’Isola rispetto allo sviluppo frenetico di altre aree d’Italia. Ma le finalità documentarie del reportage non bastavano a Cossu neppure in quella fase di esordio e di formazione. Esse dovevano considerarsi – secondo un modello che l’autore aveva appreso dai personalisti francesi e che si era rafforzato e ‘aggiornato’ nel contatto con Adriano Olivetti e con l’ambiente olivettiano – un passo preliminare, una presa di coscienza e di conoscenza delle condizioni di una comunità, cui avrebbe necessariamente fatto seguito il momento dell’individuazione delle responsabilità prima e quello dell’azione individuale e collettiva poi, assieme all’impegno per la rimozione dei problemi. Il viaggio consente al protagonista di descrivere una serie di caratteristiche del paesaggio fisico e socio-antropologico di una parte della Sardegna e di esaltare la vocazione peculiare, l’irriducibile specificità di ciascuna comunità. È questo un modo di presentare l’Isola molto diverso rispetto a quello praticato da molta pubblicistica politica e da altrettanta produzione letteraria: qui la ‘frammentazione’ e la differenza sono considerate un valore e un punto di partenza per il riscatto collettivo; nelle negoziazioni tra Stato e Regione e nel dibattito politico interno, a pochissimi anni (sette per la precisione) dalla promulgazione dello Statuto Speciale per la Sardegna (26 febbraio 1948) e in un momento di grande entusiasmo per i poderosi investimenti promessi dallo Stato per la Rinascita, si preferiva confezionare discorsi identitari che puntavano sui tratti comuni più che su quelli divisivi.

A Cossu e all’intero gruppo di cui faceva parte interessava invece mostrare come si sviluppano nel tempo lungo le relazioni tra un paese e quello vicino. Il cosiddetto ‘campanilismo’, cioè il municipalismo, il provincialismo, è certamente un sentimento negativo se porta il cittadino alla chiusura nel piccolo spazio e al disprezzo per l’altro, ma nell’ottica personalistica e olivettiana il paese è il luogo in cui inizia la promozione dell’individuo a ‘persona’ capace di agire verso il prossimo e con il prossimo, a vantaggio di collettività sempre più ampie. Bisognava dunque senza timore restituire valore alle caratteristiche di ogni individuo, famiglia, quartiere, paese, regione e fare in modo che tale valore si aprisse verso lo spazio esterno. È per questa ragione che il racconto passa da Milis, paese di commercianti scialacquatori e pigri, a Macomer, cittadina industriosa, ricca di bestiame di qualità e capace di produrre ricchezza con i suoi caseifici e con la lavorazione della lana e attraversa la superba Ghilarza fino alla Cuglieri spagnolesca e esterofila. In quell’arcipelago ben delimitato di paesi ben delimitato era necessario anzitutto – secondo la prospettiva di Cossu – compiere un’indagine seria e capace di mettere in evidenza vizi e virtù di ciascuna comunità e di restituire la giusta dignità a ogni campanile. Con la giusta coscienza identitaria, si sarebbe dovuto incentivare e favorire il moto solidale di un paese verso l’altro, per il progresso dell’intera area.

Il campanile, o meglio, la campana è proprio il simbolo che salda istituzionalmente la più olivettiana delle imprese di Antonio Cossu al Movimento Comunità: la fondazione del «Montiferru. Periodico della Comunità del Montiferru». A partire dal primo numero – il numero unico provvisorio in attesa di registrazione del 20 febbraio 1955 – il periodico assume il logo della campana con il cartiglio su cui è incisa la locuzione humana civilitas, un’immagine che Leonardo Sinisgalli aveva trovato tra alcune carte cinquecentesche e che Giovanni Pintori6 aveva ridisegnato come logo per le Edizioni di Comunità e per la rivista «Comunità»7.

Si tratta dunque di un progetto che si inscrive all’interno del reticolo di pubblicazioni promosse dalle Edizioni di Comunità e che rappresenta uno degli ideologemi personalisti di Adriano Olivetti, il quale spiegherà così le ragioni di quell’invocazione umanistica e le finalità che tengono insieme, come un tutto omogeneo, le molte attività industriali e culturali:

Noi guardiamo all’uomo, sappiamo che nessuno sforzo sarà valido e durerà nel tempo se non saprà educare ed elevare l’animo umano, che tutto sarà inutile se il tesoro insostituibile della cultura, luce dell’intelletto e lume dell’intelligenza, non sarà dato ad ognuno con estrema abbondanza e con amorosa sollecitudine8.

Con la sua rivista Antonio Cossu intendeva portare nel suo paese le buone pratiche che si sperimentavano a Ivrea. Si trattava di favorire la costruzione di una comunità vera e solidale in un piccolo paese periferico, Santu Lussurgiu, ma evitando che la stessa si concepisse irrelata, autosufficiente. È infatti a un’area antropologicamente omogenea che si rivolge la testata, il Montiferru appunto, una sub-regione della Sardegna centro-occidentale caratterizzata da un’economia prevalentemente agro-pastorale. Il primo editoriale di Cossu, intitolato Oltre il campanilismo, colloca l’intera operazione tra due tendenze insidiose della modernità politica, il centralismo e l’individualismo, e chiarisce il senso dell’impegno coesivo e solidaristico in chiave federalista. Se la stampa e la politica ignorano e sottovalutano gli interessi dei piccoli paesi, è necessario avere una rivista che ne accolga e amplifichi le istanze, al fine di dotare le piccole patrie comunali di una forza contrattuale maggiore nei confronti delle istituzioni centrali. A supporto degli argomenti esposti, Cossu chiude l’editoriale con la citazione di un brano tratto da un libro di Luigi Einaudi e con un Appello del Consiglio dei Comuni d’Europa. Il brano di Einaudi – che avrebbe terminato il suo mandato da Presidente della Repubblica nel maggio di quello stesso anno 1955 – è particolarmente incisivo per il modo in cui connette il tema del federalismo a quello della libertà:

Federalismo è il contrario di assoggettamento dei vari stati e delle varie regioni ad un unico centro. Il pericolo del concentramento della cultura in un solo luogo si ha negli stati altamente accentrati, dove la vita fluisce da un solo centro politico verso la periferia, dall’alto verso il basso. Ma federazione vuol dire invece liberazione degli stati dalle funzioni accentratrici.9

La questione del rapporto tra il centro del potere e le periferie è – come dicevamo – una costante olivettiana nella rivista, sino all’ultimo numero del luglio-settembre 1957, dove Antonio Cossu presenta un intervento intitolato La Regione e i comuni, per dare conto della terza edizione del Convegno Sardegna d’oggi tenutosi nell’agosto del medesimo anno. La questione del decentramento si pone in relazione al compimento dell’Autonomia regionale e alla pianificazione della rinascita della Sardegna garantita dall’articolo 13 dello Statuto. Per una vera rinascita – sostiene Cossu – occorre creare un reticolo di comuni dotati di sufficiente autonomia, ma saldati l’uno all’altro dagli interessi condivisi e da un progetto più grande, di respiro almeno regionale.

Non si può tuttavia pensare di giungere a un impegno corale di tante comunità verso il bene comune se non si agisce correttamente sui presupposti di ogni relazione, cioè sulla formazione dei singoli cittadini, per fare in modo che ogni individuo acquisti la dignità e la consapevolezza di persona. A questo tema è dedicato il fascicolo che raccoglie i numeri 7-8-9 dell’ottobre-novembre-dicembre 1955. Più precisamente il tema centrale del fascicolo è quello dell’istruzione nella scuola e l’epigrafe viene da Manlio Rossi Doria, politico ed economista di primissimo piano:
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