Risultato della ricerca: agricoltura
Ecco il governo
La presidente di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, presidente del Consiglio dei Ministri.
Ecco la lista dei ministri del suo governo: 9 ministri di Fratelli d’Italia, 5 della Lega, 5 di Forza Italia e 5 tecnici. Le donne, con Meloni, sono 7 in tutto.
Domani sabato alle 10 il giuramento. Domenica alle 10,30 ci sarà la cerimonia della campanella tra Draghi e Meloni a palazzo Chigi. Il primo Consiglio dei Ministri sarà domenica alle 12.
I ministri
Infrastrutture (vicepremier): Matteo Salvini
Esteri (vicepremier): Antonio Tajani
Economia: Giancarlo Giorgetti
Difesa: Guido Crosetto
Interno: Matteo Piantedosi
Giustizia: Carlo Nordio
Imprese e Made In Italy (ex Sviluppo Economico): Adolfo Urso
Pubblica Amministrazione: Paolo Zangrillo
Ambiente e Sicurezza Energetica: Gilberto Pichetto Fratin
Agricoltura e Sovranità Alimentare: Francesco Lollobrigida
Riforme: Elisabetta Casellati
Affari Regionali e Autonomie: Roberto Calderoli
Rapporti con il Parlamento: Luca Ciriani
Università e Ricerca: Anna Maria Bernini
Lavoro e Politiche Sociali: Marina Calderone
Beni Culturali: Gennaro Sangiuliano
Famiglia, Natalità e Pari Opportunità: Eugenia Roccella
Disabilità: Alessandra Locatelli
Sport e Politiche Giovanili: Andrea Abodi
Salute: Orazio Schillaci
Istruzione e Merito: Giuseppe Valditara
Turismo: Daniela Santanchè
Affari Europei e Pnrr: Raffaele Fitto
Politiche del Mare e Sud: Nello Musumeci
Sottosegretario alla presidenza del Consiglio: Alfredo Mantovano
Giorgia Meloni è la prima donna presidente del Consiglio dei ministri della storia della Repubblica italiana.
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“Liaisons dangereuses: la scienza tra guerra e pace”
Discorsi di Scienza, discorsi di Pace.
La lectio magistralis del prof. Pietro Corsi all’inaugurazione del 401mo Anno Accademico dell’Università degli Studi di Cagliari.
di Pietro Corsi
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Venerdì 22 Giornata Mondiale della Terra 2022
Economia circolare
AGENDA VERDE
economia circolare e design
di Carlo Timio su Rocca.
Uno degli elementi cardine dell’ormai avviato processo di transizione economica è rappresentato dall’opportunità di dare vita a un’economia circolare in grado di conciliare sviluppo e impatto ambientale. Questo obiettivo, che costituisce una delle sfide perseguite dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), ma che si rifà anche agli Obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, agli accordi di Parigi e al Green Deal europeo, rientra nella Missione 2 del Pnrr che prevede uno stanziamento di 59,47 miliardi per dare vita alla Rivoluzione verde e la transizione ecologica, di cui 5,27 miliardi sono dedicati sia all’economia circolare che all’agricoltura sostenibile.
Quando si parla di economia circolare si fa riferimento a un modello di produzione e di consumo che implica condivisione, riutilizzo, riparazione, ricondizionamento, riciclo di materiali e prodotti esistenti per incrementarne la durata. Così facendo, si estende il ciclo di vita dei prodotti, contribuendo a ridurre i rifiuti al minimo. Ciò che accade è che una volta che il prodotto ha terminato la sua funzione, i materiali di cui è composto, vengono reintrodotti, laddove possibile, nel ciclo economico, venendo continuamente riutilizzati all’interno del sistema produttivo e generando ulteriore valore. Questi principi dell’economia circolare esprimono la soluzione alternativa al tradizionale modello economico lineare fondato sul paradigma «estrarre, produrre, utilizzare e gettare», la cui funzionalità non può prescindere dalla presenza di una vasta disponibilità di materiali ed energia facilmente reperibili e a basso prezzo. Con l’avvento della pandemia si è determinato un forte incremento della domanda di materie prime e allo stesso tempo uno scarso reperimento delle risorse, che da un lato sono sempre più essenziali – data anche la continua crescita della popolazione mondiale – e dall’altro sempre più limitate. In tutto ciò va anche ricordato l’impatto sul clima e quindi sull’ambiente provocato dai processi di estrazione e di utilizzo delle materie prime, che necessitano di un uso crescente di consumo di energia, provocando ulteriori emissioni di anidride carbonica. Si stima che la produzione dei materiali che vengono utilizzati ogni giorno è responsabile del 45% delle emissioni di Co2. Numerosi sono i vantaggi che derivano dalla transizione verso un’economia più circolare: tra questi spiccano la riduzione della pressione sull’ambiente, una maggiore disponibilità di materie prime, un incremento della competitività, un impulso all’innovazione, alla crescita economica e
un incremento dell’occupazione (che nell’Ue ammonterebbe a circa settecentomila nuovi posti di lavoro entro il 2030). Altro vantaggio è che grazie all’economia
circolare i consumatori potranno avere anche prodotti più durevoli e innovativi in grado di far risparmiare e migliorare la qualità della vita. Ad esempio, ricondizionare i veicoli commerciali leggeri anziché riciclarli porterebbe a un risparmio di materiale per 6,4 miliardi all’anno e 140 milioni in costi energetici, con una contrazione delle emissioni di gas serra pari a 6,3 milioni di tonnellate. Su questo fronte a livello europeo, il Parlamento ha chiesto l’adozione di misure che contrastino l’obsolescenza programmata dei prodotti che rappresenta una strategia propria del modello economico lineare. A marzo 2020 la Commissione europea ha presentato la proposta per la nuova strategia industriale basata sul piano di azione per un’economia circolare che include proposte sulla progettazione di prodotti più sostenibili, sulla riduzione dei rifiuti e sul «diritto alla riparazione». A febbraio 2021 il Parlamento europeo ha votato a favore, chiedendo misure aggiuntive per raggiungere un’economia a zero emissioni di carbonio, sostenibile dal punto di vista ambientale, libera dalle sostanze tossiche e completamente circolare entro il 2050. Su questo scenario, ai fini della realizzazione di una economia circolare, si inserisce in maniera significativa il design che con le sue caratteristiche e finalità incentrate sulla progettazione su scala micro, se riesce ad avere una visione non solo fondata sull’estetica e sull’orpello, ma anche capace di cogliere le esigenze su scala più ampia, può giocare un ruolo
strategico e determinante nella transizione da un’economia lineare a una circolare. Quado si parla di design che crea valore non si deve pensare soltanto al prodotto nella sua lunga fase di realizzazione dal concept alla produzione, ma anche alla distribuzione, alla comunicazione, fino all’esperienza dell’utilizzo. Sono anche progettati i servizi, le relazioni tra i marchi e il loro pubblico e persino il fine vita dei prodotti. Ma non è tutto. Oggi il design è chiamato ad assolvere un ruolo di primaria importanza in questa fase di transizione green, avendo le potenzialità per invertire quel processo fin qui adottato e concentrato sull’iperconsumo industriale – di cui lo stesso design è complice –, che per promuovere e incrementare la produzione promuove l’obsolescenza programmata (il processo che suscita nei consumatori il desiderio di sostituire beni tecnologici o appartenenti ad altre tipologie, per poter possedere oggetti di ultima generazione), contribuendo a rendere insostenibile l’attuale sistema economico. In che modo può assolvere a questa rinnovata funzione? Passando da un sistema in cui il valore era rappresentato dalla filiera estrazione materiali, lavorazione e trasformazione in prodotti, vendita e nella maggior parte dei casi deposito nella discarica, a un sistema in cui il valore rimane in circolo, rigenerandosi continuamente. Questa è l’essenza dell’economia circolare. Ma se questo nuovo approccio è encomiabile e degno di essere applicato in maniera massiccia, è altrettanto vero che non è sufficiente. Seppur è vero che l’utilizzo di alcuni materiali quali la carta e il legno piuttosto che altri sia più sostenibile così come sono più performanti e green alcuni sistemi produttivi come quelli che utilizzano materiali di recupero, è altrettanto vero che se queste attitudini non vengono inserite in un quadro più ampio, anche sicuramene culturale, serviranno a ben poco. La sostenibilità va compresa e sostenuta con un metodo multidisciplinare capace di valutare l’impatto ambientale sotto molteplici aspetti. Un sistema indispensabile cui non si può prescindere è l’analisi del ciclo di vita (in inglese life-cycle assessment), un metodo che consente di quantificare il potenziale impatto che può causare tutta la filiera della produzione sull’ambiente e sulla salute, distribuzione e utilizzo di un bene o un servizio attraverso l’analisi dell’impiego di risorse e le relative emissioni di Co2.
Due casi sono emblematici: il primo riguarda il lavaggio di una t-shirt le cui emissione di Co2 sono maggiori rispetto al suo intero processo di vita e l’altro fa
riferimento alla preparazione di un piatto di pasta che produce più inquinamento (tra coltivazione, imballaggio e trasporto) della produzione stessa. Tutto questo per dire che non basta pronunciare parole magiche quali green, sostenibilità, riuso, riciclo per avere un impatto positivo sull’ambiente. Servirebbe più che altro attivare una campagna di comunicazione in cui si spiega come poter cambiare l’uso che si fa di un certo oggetto piuttosto che riprogettarlo. La visione sistemica del design, denominata anche «System Thinking», consiste nella capacità di trovare soluzioni alternative per gestire la complessità dei processi, cercando di creare valore con qualcosa di diverso dalla produzione tradizionale. Ciò non vuol dire parlare di decrescita felice, piuttosto di un differente modo di rappresentare il
valore dei materiali che sono in circolazione mediante una progettazione strategica. Il che significa progettare dei prodotti che possano essere riparabili, ricondizionabili, riutilizzabili, condivisibili e solo in ultima istanza, riciclabili. Pertanto il design, in quanto disciplina che si interpone tra le persone e la produzione, e che crea esperienze e relazioni tra uomini, cose e servizi, deve in prima battuta innovare in modo sistemico per poi tornare a produrre beni, servizi o esperienze su scala più piccola.
Carlo Timio
DIRITTO al LAVORO DIRITTO al REDDITO
INAUGURAZIONE SEDE NAZIONALE DELLA CSS – Via Marche, 9 Cagliari - Il programma di oggi (col direttore di Aladinpensiero e il presidente della Casa del quartiere Is Mirrionis)..
Ore 16.30 Conferenza/Dibattito “Reddito di cittadinanza legato all’impegno nel sociale, al lavoro utile e dignitoso nel proprio Comune e territorio”. Confronto tra sociologi ed operatori delle Comunità terapeutiche e del mondo del Volontariato. Coordinano Franco Meloni e Terenzio Calledda.
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Dal messaggio di Papa Francesco all’Incontro Mondiale dei Movimenti Popolari
Pubblichiamo di seguito una parte del testo del Videomessaggio che il Santo Padre Francesco ha inviato ai partecipanti alla seconda Sessione del IV Incontro Mondiale dei Movimenti Popolari (EMMP), che si è svolta sabato 16 ottobre online (messaggio integrale nell’editoriale).
[…] 4. Tempo di agire
Spesso mi dicono: “Padre, siamo d’accordo, ma in concreto, che dobbiamo fare?”. Io non ho la risposta, perciò dobbiamo sognare insieme e trovarla insieme. Tuttavia, ci sono misure concrete che forse possono permettere qualche cambiamento significativo. Sono misure che si trovano nei vostri documenti, nei vostri interventi, e di cui ho tenuto molto conto, sulle quali ho meditato e ho consultato esperti. In incontri passati abbiamo parlato dell’integrazione urbana, dell’agricoltura familiare, dell’economia popolare. A queste, che ancora richiedono di continuare a lavorare insieme per concretizzarle, mi piacerebbe aggiungerne altre due: il salario universale e la riduzione della giornata lavorativa.
Un reddito minino (l’RMU) o salario universale, affinché ogni persona in questo mondo possa accedere ai beni più elementari della vita. È giusto lottare per una distribuzione umana di queste risorse. Ed è compito dei Governi stabilire schemi fiscali e redistributivi affinché la ricchezza di una parte sia condivisa con equità, senza che questo presupponga un peso insopportabile, soprattutto per la classe media – generalmente, quando ci sono questi conflitti, è quella che soffre di più –. Non dimentichiamo che le grandi fortune di oggi sono frutto del lavoro, della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnica di migliaia di uomini e donne nel corso di generazioni.
La riduzione della giornata lavorativa è un’altra possibilità. Il reddito minimo è una possibilità, l’altra è la riduzione della giornata lavorativa. E occorre analizzarla seriamente. Nel XIX secolo gli operai lavoravano dodici, quattordici, sedici ore al giorno. Quando conquistarono la giornata di otto ore non collassò nulla, come invece alcuni settori avevano previsto. Allora – insisto – lavorare meno affinché più gente abbia accesso al mercato del lavoro è un aspetto che dobbiamo esplorare con una certa urgenza. Non ci possono essere tante persone che soffrono per l’eccesso di lavoro e tante altre che soffrono per la mancanza di lavoro.
Ritengo che siano misure necessarie, ma naturalmente non sufficienti. Non risolvono il problema di fondo, e non garantiscono neppure l’accesso alla terra, alla casa e al lavoro nella quantità e qualità che i contadini senza terra, le famiglie senza una casa sicura e i lavoratori precari meritano. Non risolveranno nemmeno le enormi sfide ambientali che abbiamo davanti. Ma ho voluto menzionarle perché sono misure possibili e segnerebbero un positivo cambiamento di direzione.
È bene sapere che in questo non siamo soli. Le Nazioni Unite hanno cercato di stabilire alcune mete attraverso i cosiddetti Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (OSS), ma purtroppo non conosciute dai nostri popoli e dalle periferie; e questo ci ricorda l’importanza di condividere e di coinvolgere tutti in questa ricerca comune.
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Oggi&Domani Che fare? “Se ne esce solo con più scienza e non con un improbabile ritorno al passato”. Ce lo dice un Nobel
La percezione della scienza nella società: intervista a Giorgio Parisi, nobel per la fisica
Alberto Silvani
Sbilanciamoci! 5 Ottobre 2021 | Sezione: Alter, Nella rete
“La scienza era associata alla garanzia di un futuro migliore. Ora non è più così, anzi spesse volte alla scienza vengono addebitate colpe e responsabilità. Se ne esce solo con più scienza e non con un improbabile ritorno al passato”. Intervista al premio Nobel per la Fisica Giorgio Parisi da Articolo33.
È passato un po’ di tempo da quando, a fine maggio il Senato ha approvato un Disegno di legge sull’Agricoltura biologica, col solo voto contrario della Sen. Elena Cattaneo, che ha equiparato – in un passaggio del testo – l’agricoltura biologica con quella biodinamica, caratterizzata da pratiche e codici di comportamento ascientifici. La questione ci fornisce lo spunto, ripresa con la giusta distanza temporale, per sviluppare alcune riflessioni sul ruolo della scienza, sul processo di avanzamento scientifico, sul rapporto tra scienza e società.
Il primo interlocutore a cui ci rivolgiamo è il Prof. Giorgio Parisi, eminente fisico della Sapienza di cui è appena terminato il mandato di Presidente dell’Accademia Nazionale dei Lincei*.
Il Prof. Parisi ha ricevuto il 5 ottobre 2021, il premio nobel per la fisica. Premiato per le sue ricerche sui sistemi complessi insieme agli studiosi del clima Syukuro Manabe e Klaus Hasselmann. Era dal 1984 con Carlo Rubbia che l’Italia non vinceva un Nobel per la fisica.
Parisi ha sempre associato l’eccellenza scientifica con la capacità di intervenire sulle problematiche della politica scientifica e non solo, come è avvenuto anche nell’ultimo anno e mezzo di pandemia. Pubblichiamo una sua intervista rilasciata per noi da Alberto Silvani.
Cosa si dovrebbe fare per aumentare la percezione del ruolo della scienza nella società e, su questa base, motivare le scelte in suo favore, approfittando del rinnovato interesse da parte dell’opinione pubblica?
La comunità scientifica tende a comunicare poco con la società perché in fondo non crede che questo sia il suo mestiere. Ciò viene confermato da come viene realizzata questa comunicazione, come abbiamo visto in questi mesi di sovraesposizione mediatica. Bisogna formare figure professionali di “comunicatori” ma anche intervenire sulla capacità di trasferire la metodologia scientifica anziché limitarsi ad accendere l’interesse sul singolo risultato. Il processo scientifico porta a realizzare un consenso a partire da ipotesi diverse, a volte contrapposte. La scienza lavora così, per avanzamenti successivi, e questo richiede tempo anche perché il processo presuppone la peer review dei diversi contributi. Il vero successo del singolo contributo dipende sia dalla rivista su cui è pubblicato ma, soprattutto, da come reagiscono i lettori, da come fanno proprio il contenuto e da come danno seguito, nel proprio lavoro e nelle citazioni, a quanto l’articolo vuole comunicare.
La sanità costituisce una realtà specifica, evidenziata dall’esperienza della pandemia. In cosa si caratterizza?
La sanità richiede “sicurezza” circa la rilevanza e il significato dei risultati e, soprattutto, una consapevolezza del rapporto tra i benefici e i rischi, in particolare sugli effetti che si generano, non necessariamente limitati a quelli auspicati o aspettati. Potrei citare vari esempi, anche come testimonianza diretta…senza dimenticare che esistono interessi che ne condizionano le scelte. Ogni risultato deve essere sempre sottoposto a commenti e validazioni che presuppongono procedure, gruppi di controllo e numerosità statisticamente significative.
La sanità è stata associata, in particolare in questo periodo, al grande tema delle fake news. Perchè il metodo scientifico non basta per sconfiggere le fake news? Che fare?
In alcuni casi vanno anche contro il senso comune: bisogna, ovviamente, smascherare le falsità. Le fake news si propagano perché spesse volte confermano le opinioni che avevano già le persone. Ad esempio il caso dei vaccini è emblematico in tal senso perché, pur di evitare il vaccino, si ipotizza l’esistenza di cure e terapie domiciliari ma non comunicate. Curare la comunicazione, e non è un gioco di parole, richiede che i comunicatori siano in grado di non attirare su di sé pregiudizi negativi che ostacolino la comprensione e la credibilità del messaggio che si vuole fornire. Non basta cioè dire le cose corrette se non si è in grado di costruire il messaggio e di veicolarlo nel modo giusto, potendo utilizzare le competenze e i contributi a supporto. Le trasmissioni televisive in particolare soffrono di due problemi: una certa tendenza a favorire gli scontri e le contrapposizioni (che fanno audience) e i tempi stretti che impediscono lo sviluppo di ragionamenti compiuti e articolati. Faccio una modesta proposta: prevedere l’obbligo di un incontro precedente alla formale messa in onda per consentire un confronto approfondito e preventivo in modo da realizzare poi, anche nei tempi ristretti delle trasmissioni, la focalizzazione delle questioni e delle opinioni.
Più conoscenza e più formazione hanno rappresentato da sempre gli obiettivi per realizzare una società più giusta e più equilibrata, indirizzata al futuro piuttosto che condizionata dal passato. La tecnologia ha spesso fornito il supporto per rendere praticabili questi obiettivi. Bisogna aggiornare la formula? Aggiungere elementi?
Uno dei problemi seri derivava dal fatto che la scienza era associata alla garanzia di un futuro migliore. Ora non è più così, anzi spesse volte alla scienza vengono addebitate colpe e responsabilità. Se ne esce solo con più scienza e non con un improbabile ritorno al passato. Ma questo non è ben percepito. La tecnologia, come applicazione della scienza, risente di avanzamenti scientifici non pensati in una mera prospettiva tecnologica. La gran parte della popolazione coglie (e usa) la tecnologia senza interrogarsi quanta e quale scienza ci sia dietro. Dai transistor, alla crittografia dei messaggi o ai led ad alta potenza.
Quanta è democratica la scienza? Qual è la tua opinione in proposito? In che misura l’opinione pubblica condiziona l’avanzamento della scienza?
La scienza deve fare i conti con le risorse. Se queste sono scarse, finiscono per condizionare le scelte, se non altro perché bisogna convincere i cittadini/elettori/contribuenti che i soldi sono ben spesi. E la ricerca non è democratica non perché “non si può votare”, ma perché richiede che ci sia un riconoscimento reciproco che deriva da un bagaglio conoscitivo condiviso anche se non necessariamente convergente.
Questo però implica un rischio di conservazione ovvero di ostacolo e freno al nuovo, già a partire dalle valutazioni di peer review.
Le nuove idee si affermano non perché si convincono gli oppositori ma perché i portatori di quelle precedenti muoiono, come diceva Planck. Per le idee estremamente nuove ci vuole tempo per il consenso.
Un’ultima domanda sul caso italiano e sul peculiare momento che stiamo vivendo. Conosciamo l’appello per le risorse, noto come Piano Amaldi, e la tua convinta adesione. Ma accanto alle risorse ci sono altre priorità concretamente spendibili nello scenario che si prospetta nei prossimi anni?
Ci sono tanti problemi. La ricerca è a macchia di leopardo: accanto ad eccellenze ci sono inefficienze. Alcuni poi hanno utilizzato la propria influenza come effettivo centro di potere, senza bilanciamenti adeguati. E questo ha dato luogo a scandali (certamente da non sottovalutare) ma quando va male si finisce sui giornali, quando va bene questo non ha visibilità. Da molti anni si cerca di realizzare un punto di riflessione con scienziati di ottimo livello in grado di costituire un interlocutore per le scelte governative ma anche quando un tale organo viene istituito non se ne tiene conto nell’operatività. La stessa Agenzia Nazionale, oltre a non essere decollata, richiede tempi lunghi e consensi politici. Ha senso solo se raccoglie risorse distribuite oggi in altre sedi, se resta “leggera” e se impiega il tutto in una logica competitiva e verso obiettivi chiari ed espliciti. Non che di ripensamenti organizzativi non ci sia bisogno ma questi hanno molto faticato a tenere insieme dichiarazioni e scelte e, soprattutto, a consolidarsi nel tempo.
Siamo ora in presenza della grande opportunità del PNRR ma questo non può essere l’unica scelta, se non altro perché tocca una parte dei problemi ed è a scadenza. L’importante è già porsi oggi il disegno complessivo ed accompagnare il sostegno delle risorse addizionali con nuove risorse “stabili”, ovvero a valere sul bilancio ordinario. Registro una nuova sensibilità su questi temi ma la conferma non può che essere a breve termine. La legge di bilancio del prossimo anno sarà una cartina di tornasole tra dichiarazioni, volontà e comportamenti.
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L’INTERVISTA SU ARTICOLO 33
05 OTTOBRE 2021
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NEWS CNR
A Giorgio Parisi il Wolf Prize per la Fisica 2021
10/02/2021 (2 ottobre 2021)
Giorgio Parisi
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Nobel per la fisica a Giorgio Parisi
Ott 2021
“L’assegnazione del premio Nobel al fisico Giorgio Parisi inorgoglisce tutta l’Italia e anche il Consiglio nazionale delle ricerche, con il quale il fisico ha sempre intrattenuto stretti rapporti di collaborazione proseguiti ancora di recente con le attività svolte in associatura al nostro Istituto Nanotec”, ha dichiarato Maria Chiara Carrozza, presidente del Cnr. “Oltre a compiacerci per questo straordinario risultato – che segue di poco quello del *Clarivate Citation Laureates 2021 che lo riconosce studioso più citato al mondo per le pubblicazioni scientifiche – *la nostra comunità scientifica lo ringrazia sentitamente per il contributo fondamentale nello studio dei sistemi complessi disordinati alla base di tante linee di ricerca del Cnr, dallo studio dei sistemi vetrosi, ai sistemi di lasing e trasmissione della luce in mezzi random, dalle reti neurali e IA, alle reti metaboliche e alla biofisica. Lamentiamo spesso, e purtroppo a ragione, le molte difficoltà nelle quali si dibatte la ricerca italiana, dalla scarsità di risorse umane e finanziarie alla burocratizzazione, ma questo premio è solo l’ultima e straordinaria conferma dell’eccellenza della ricerca scientifica italiana”.
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Il Nobel segue un altro prestigioso premio
Il fisico teorico Giorgio Parisi, attuale presidente dell’Accademia Nazionale dei Lincei, ricercatore dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e professore alla Sapienza Università di Roma, è stato insignito del prestigioso Wolf Prize per la Fisica 2021 “per le sue scoperte pionieristiche nella teoria quantistica dei campi, in meccanica statistica e nei sistemi complessi”.
Il riconoscimento, istituito dalla Fondazione Wolf di Israele nel 1978 per gli scienziati e gli artisti che hanno prodotto “risultati nell’interesse dell’umanità e relazioni amichevoli tra le persone, indipendentemente dalla nazionalità, razza, colore, religione, sesso o opinioni politiche”, è stato attribuito, in passato, a personalità come Giuseppe Occhialini, Bruno Rossi, Riccardo Giacconi, Leon Lederman, Roger Penrose, Stephen Hawking, Peter Higgs, per citare solo alcuni degli scienziati più noti.
“Sono estremamente contento ed onorato per aver ricevuto questo premio prestigioso non solo per essere stato inserito in una compagnia molto prestigiosa, nella quale ritrovo con molti amici, ma anche per essere stato messo in relazione diretta con Riccardo Wolf, persona che ammiro moltissimo per le sue capacità scientifiche e il grande impegno civile. Il merito di questo premio va anche a tantissimi collaboratori che ho avuto, con i quali ci siamo divertiti nel cercare di svelare quelli che una volta si chiamavano i “misteri della natura”, ha affermato lo studioso.
Laureato in fisica nel 1970 presso la Sapienza Università di Roma sotto la guida di Nicola Cabibbo, Giorgio Parisi collabora da molti anni con il Consiglio nazionale delle ricerche: è associato all’Istituto di nanotecnologia (Nanotec) e ha contribuito alla nascita e allo sviluppo, all’inizio del 2000, del centro “Statistical Mechanics and Complexity” dedicato allo studio di concetti come i sistemi disordinati, il caos e la complessità, poi confluito nell’Istituto dei sistemi complessi (Isc) del Cnr di Roma.
Nella sua lunga carriera scientifica, in parte svolta presso istituzioni estere come la Columbia University di New York (1973-1974), l’Institut des Hautes Etudes Scientifiques a Bures-sur-Yvettes (1976-1977), l’Ecole Normale Superieure di Parigi (1977-1978), Parisi ha dato contributi determinanti e ampiamente riconosciuti anche in altre aree della fisica: fisica delle particelle, meccanica statistica, fluidodinamica, materia condensata, supercomputer.
È stato vincitore di due advanced grant dell’ERC European Reasearch Council, nel 2010 e nel 2016, e ha ricevuto numerosi premi nazionali e internazionali, tra i quali la Medaglia Boltzmann della International Union of Pure and Applied Physics (1992), la Medaglia Max Planck (2011), la Medaglia Dirac per la fisica teorica (1999), il Nature Award Mentoring in Science (2013), l’High Energy and Particle Physics dell’EPS European Physical Society (2015).
È membro dell’Accademia dei Quaranta, dell’Académie des Sciences, dell’Accademia Nazionale delle Scienze degli Stati Uniti, dell’Accademia Europea, dell’Academia Europea e dell’American Philosophical Society, ed è autore di oltre seicento articoli e contributi a conferenze scientifiche e quattro libri
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Le immagini di Giorgio Parisi e la sua biografia sono tratte dal sito del CNR: https://www.cnr.it/it/news/10006/a-giorgio-parisi-il-wolf-prize-per-la-fisica-2021
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Giorgio Parisi, un manifesto per la giustizia climatica
Il discorso. La critica del premio Nobel per la fisica alla Pre-Cop26 in Parlamento: “Governi inadeguati sulla crisi”. «il Pil non è una buona misura per economia e clima». E poi un nuovo appello per l’istruzione e la ricerca pubblica: “Dare ai bambini un’educazione scientifica a partire dalla scuola materna”
di Roberto Ciccarelli
il manifesto
EDIZIONE DEL 09.10.2021 – PUBBLICATO 8.10.2021, 23:59
Gino Strada
«Frequento luoghi di guerra»
13-08-2021 – di: Gino Strada
Su Volerelaluna
È morto Gino Strada, medico, fondatore di Emergency, da sempre impegnato, in Italia e nel mondo, sui temi dei diritti, della salute, dell’accoglienza e contro ogni guerra e uso delle armi. Molti anni fa gli chiesi un contributo per l’agenda di Magistratura democratica del 2006, dedicata al tema della legalità. Mi mandò uno scritto molto intenso per spiegare la sua difficoltà a parlare di diritto e di diritti in un contesto di conflitti e di guerre. La situazione, da allora, non è mutata, e credo che ripubblicare oggi le sue parole sia il modo migliore non solo per ricordarlo ma anche per tener dritta la barra contro chi ogni giorno parla di legalità e di diritti e, contemporaneamente, promuove guerre e discriminazione (l.p.)
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Frequento luoghi di guerra, e parlare di diritto in contesti di guerra mi pare, sinceramente, un ossimoro.
Non l’ho pensato da sempre. Appartiene alla mia preistoria una non breve stagione di collaborazioni con il Comitato Internazionale della Croce Rossa e per dovere d’ufficio, non foss’altro, mi sono trovato in qualche contiguità – non dirò confidenza – con le Convenzioni di Ginevra, con il «diritto umanitario». Seguo anche – con minor coinvolgimento, confesso – il gioco del calcio. E mi sono fatto l’idea che il rispetto delle regole non avvenga per qualche slancio di civiltà, sia pure una «civiltà del gioco». Il calciatore rispetta regolamenti e arbitri per la ragione che dopo questa partita ne seguirà un’altra; che fuori dal campo ci sono altri scopi e fini (anche molto materiali) desiderabili, che violando le regole si metterebbero a rischio. Ecco, questo mi pare d’aver capito: che la guerra mette in gioco tutto; talmente tutto che in gioco sono la vita e la morte; talmente tutto da non consentire nessuna certezza sulla disponibilità di un «dopo-partita» e di un «fuori campo».
Vengono meno, così, in guerra, gli spazi e i tempi nei quali trova ragione e fondamento il rispetto delle regole. E un comportamento basato esclusivamente sulla dedizione alla lealtà verso un valore, non sono cinico abbastanza da escluderlo a priori. Potrà darsene il caso, e ne avremmo qualche figura esemplare sotto il profilo estetico e morale. Se m’interrogo con sincerità, tuttavia, non riesco a pensare che quella totale, gratuita, disinteressata dedizione ai valori possa costituire l’universalità dei casi, una motivazione diffusa e generalizzata di comportamenti diffusi e generalizzati. Un domani, un «oltre» in guerra non ha nessuna certezza, nessuna solidità. Non ha perciò un ragionevole fondamento l’aspettativa di un sistematico rispetto delle regole. Temo che le vecchie, care Convenzioni di Ginevra possano essere, al più, un fondamento della punizione: una punizione iniqua se destinata, com’è spesso e prevedibilmente, a raggiungere soltanto gli sconfitti. Temo che l’efficacia di queste norme nel regolare – diciamo almeno nel moderare ‒ i comportamenti sia più nulla che scarsa.
Ho pensato un tempo che chi è certo della vittoria è anche certo di avere a disposizione quel «poi» e quell’«altrove» cui mi sono riferito. Ho dunque immaginato qualche corrispondenza ai fatti della colpevolezza sistematicamente riscontrata nei soccombenti, essi soli, nelle guerre degli ultimi decenni, privi della prospettiva di un «oltre» che fornisca un motivo al rispetto delle regole. Essi soli, dunque, portati all’infrazione. Ho tentato, insomma, di chiedermi se non ci fosse qualche frammento di verità nel riscontrare colpe soprattutto nei soccombenti. Ho abbandonato questa lettura dei fatti, che a suo modo aspirava ad essere comprensiva, se non generosa, verso i «trionfanti», che d’istinto non amo. Guantanamo e Abu Ghraib sono il nome di questo abbandono. Anche i vincitori certi a priori infrangono le regole. Dall’essere vincitori certi a priori traggono motivo, pare, per rivendicare la facoltà di infrangerle.
Ho chiacchierato – potrebbe mancare il latino? – solamente di ius in bello. Il resto – lo ius ad bellum ‒ no, è davvero troppo. Certo per la mia incompetenza. Ma non solo. Avete mai provato a chiudere gli occhi – se gli occhi fanno parte di quel che ne resta – a un bambino, a una donna, a un vecchio… a qualcuno distrutto da un’esplosione? Per me «la guerra» è questo. E il «diritto a far guerra» si traduce, senza ipocrite omissioni, nel diritto a produrre questi effetti che mille volte ho conosciuto. Questi ricordi non possono convivere con le distinzioni tra «guerra giusta», «guerra legittima», guerra non so che altro.
Non riesco a seguire e capire parole che per me sistematicamente, univocamente significano corpi distrutti, esseri umani cancellati, esistenze che potrebbero essermi contemporanee e sono invece passate. Il mio mestiere mi fa conoscere anche la sofferenza e la morte: sono frequentazioni inevitabili. Ma possono avere dentro di sé ‒ la sofferenza e la morte ‒ qualche umana intensità, forse anche qualche “dolcezza”, quando sono accompagnate da uno sgomento e da un sentimento di sconfitta che accomuna chi resta, che riguarda l’umanità tutta, la percezione di una condivisa, tragica «fatica di vivere». Ma in guerra un corpo inerte, un soggetto diventato «cosa» non è una riprova dolorosa della condizione umana: è l’equivalente di un trofeo, il successo raggiunto nell’applicazione di un «diritto internazionale»…
Non so bene che cosa sia questo diritto, sono però certo che mi è estraneo, che mi rifiuto di capirlo. Se si tratta di ciò che a me pare, spero che i miei simili tutti lo trovino, come me, ripugnante.
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— Su Avvenire.
“Right Livelihood Award”. Gino Strada: aboliamo insieme la guerra
Gino Strada martedì 1 dicembre 2015
Gino Strada: aboliamo insieme la guerra
L’articolo di questa pagina, affidato in esclusiva ad “Avvenire” nella sua versione integrale, è il discorso pronunciato ieri dal fondatore di “Emergency”, Gino Strada, ricevendo al Parlamento svedese il “Right Livelihood Award”, considerato il premio per la pace alternativo al Nobel. Il premio è stato conferito a Strada, 67 anni, chirurgo, nato a Sesto San Giovanni, «per la sua grande umanità e la sua capacità di offrire assistenza medica e chirurgica di eccellenza alle vittime della guerra e dell’ingiustizia, continuando a denunciare senza paura le cause della guerra». Il “Rla” mira a «onorare e sostenere coloro che offrono risposte pratiche ed esemplari alle maggiori sfide del nostro tempo», ed è la prima volta che viene dato a un italiano. Emergency è un’associazione fondata nel 1994 per offrire cure medico-chirurgiche gratuite e di qualità alle vittime di guerre, mine antiuomo e povertà. Dalla sua nascita ha curato oltre 6 milioni di persone in 16 Paesi.
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Che succede?
FINE VITA. NO VAX. MAGGIANI E PAPA FRANCESCO. CRISTIANESIMO. IUS SOLI. REDDITO DI CITTADINANZA. MEDITERRANEO…
12 Agosto 2021 by Giampiero Forcesi | su C3dem.
Roberto Speranza, “Caro Mario, sostengo la tua battaglia. Le Asl garantiscano il suicidio assistito” (La Stampa). Mauro Magatti, “Serve un salto oltre le piccole logiche” (Avvenire). Paolo Pombeni, “Le lungaggini che rischiano di farci perdere il treno Ue” (Messaggero). Monica Guerzoni, “La partita del Quirinale e il fattore Recovery” (Corriere della sera). Piero Bevilacqua, “Senza l’economia agricola l’Italia va in fumo” (Manifesto). Antonio Preiti, “La guerra asimmetrica con i no vax” (Corriere). Claudio Cerasa, “La buona stella d’Europa” (Foglio). Stefano Ceccanti, “Anniversario con profezia (Zaccagnini e il Muro di Berlino)” (blog). Luca Diotallevi, “Il cristianesimo che cambia nella società occidentale” (Messaggero). Tommaso Montanari, “La Madonna prima marxista ante litteram” (Il Fatto). MAGGIANI E PAPA FRANCESCO: Maurizio Maggiani, “La bellezza e le catene possono stare insieme?” (Secolo XIX). Il papa risponde allo scrittore: Francesco, “No al lavoro schiavo, la cultura non si pieghi al dio mercato” (La Stampa). PD: Valerio Valentini, “Agora, e poi? Il cammino del Pd” (Foglio). Stefano Folli, “Bettini, la giustizia e il segnale al Pd” (Repubblica). AMBIENTE: Ursula von der Leyen, “Faremo dell’Europa il primo continente a emissioni zero” (intervista a Avvenire). Franco Prodi, “Contro il catastrofismo dell’Onu” (intervista al Foglio). IUS SOLI: Giovanni Moro, “Quei figli del paese multicolore” (Repubblica). Fabio Martini, “Letta: Salvini offende il paese. Lo ius soli è una legge urgente” (La Stampa). Elena Bonetti, “Una legge è possibile anche in questo parlamento. E il premier può mediare” (intervista a Repubblica). Nicola Molteni (Lega, sottosegretario agli Interni), “Iter più veloce per i 18enni, ma la legge attuale non va cambiata” (intervista al Corriere). MIGRANTI E MEDITERRANEO: Matteo Salvini, “Sbarchi, pochi rimpatri e tante vittime. Ecco perché Lamorgese ha fallito” (intervista a La Stampa). Renato Mannheimer, “L’azzardo di Salvini è un rischio calcolato” (Il Riformista). Ilario Lombardo, “Migranti. Draghi vuole una cabina di regia e blinda Lamorgese” (La Stampa). Michela Murgia, “Governo in fuga dal Mediterraneo” (La Stampa). Marco Minniti, “Mediterraneo. Ci sono mutamenti epocali. L’Europa deve agire subito” (intervista a La Stampa). Francesco Viviano, “L’unico modo di fermare i migranti è dare all’Africa pane e libertà” (Manifesto). REDDITO DI CITTADINANZA: Enzo Marro, “Reddito di cittadinanza: il 36% va a famiglie sopra la soglia di povertà” (Corriere della sera). Il Rapporto della Caritas italiana, “Lotta alla povertà. Imparare dall’esperienza, migliorare le risposte”. Carlo Borgomeo, “Il nuovo reddito con più buonsenso” (Mattino). Veronica De Romanis, “Posti non sussidi per una vera ripresa” (La Stampa). Mario Giro, “Alla politica i poveri danno molto fastidio” (Domani).
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Clima
CONTROCANTO
La falsa lotta per il clima di politici, finanzieri e grandi industriali
20-07-2021 – di: Guido Viale su Volerelaluna*
Greta Thumberg è tornata a dare il meglio di sé al vertice austriaco sul mondo promosso da Arnold Schwarzenegger, con Frau Merkel, Antonio Guterres ed altri. Rivolgendosi ancora una volta a tutti i potenti del mondo, ma per farsi ascoltare da tutti coloro che potenti non sono, ha spiattellato che nei sei anni che ci separano dal vertice di Parigi, politici, finanzieri e grandi industriali (la crème di Davos) ci hanno riempiti di parole, ma non hanno fatto niente per avvicinarci agli obiettivi di decarbonizzazione fissati. Anzi, hanno fatto, stanno facendo e si apprestano a fare esattamente l’opposto: la loro “lotta per il clima” serve solo a mascherare e giustificare la continuazione di una politica fondata sui fossili, cercando nuove occasioni di business.
Questa accusa coglie in pieno anche il PNRR italiano, il suo padre, il RRF della Commissione europea, e la sua madre, il programma NextgenerationEU, che altro non sono che armi di distrazione di massa, finalizzate a bloccare l’attenzione – e il confronto, dove c’è – intorno a misure e progetti assolutamente inconsistenti, se non controproducenti, mentre il pianeta va a fuoco. A fuoco: nello stesso giorno in cui si registravano a Vancouver 50 °C, il Parlamento italiano ha votato, alla Camera, il ponte sullo stretto di Messina (da finanziare non con il PNRR, bensì con un fondo, detto “fondone”, che Draghi ha fatto aggiungere, a debito, ai fondi, anch’essi a debito, del PNRR, per «non lasciare indietro nessuno»: in questo caso le lobby del cemento). D’altronde, non è stato forse il Senato italiano, forte delle sue competenze, a votare, anni fa, che il cambiamento climatico non esiste?
Tra le parole senza fatti o, meglio, con fatti che le contraddicono, di cui parla Greta, spicca l’istituzione in Italia di un Ministero della Transizione ecologica. Ora, se transizione ecologica significa – e non può significare altro; se no, verso che cosa mai si transita? – un cambiamento radicale, a partire dall’abbandono del presupposto su cui si basa tutto lo stato di cose attuale, cioè il mito fasullo e letale della “crescita” (che altro non è che accumulazione del capitale), è evidente che essa non può non coinvolgere profondamente comportamenti, stili di vita e assetti sociali di tutta la popolazione; oltre, ovviamente, alla determinazione di che cosa, con che cosa, per chi e come si produce. Il primo compito di un Ministero della Transizione ecologica (e del Governo che ne fa proprie le finalità) avrebbe dovuto essere, quindi, il lancio di una grande campagna di informazione: sul perché di questa svolta, sui rischi che corrono il pianeta, il paese e la vita di ciascuno; e la conseguente apertura di un confronto generale (non era certo tale la kermesse organizzata a suo tempo dal secondo Governo Conte a villa Pamphili), coinvolgendo tutte le istanze della “società civile” – associazioni, comitati, sindacati, scuole e Università, centri di ricerca, mondo della cultura – sulle alternative che ci troviamo di fronte: sia a livello planetario che a livello locale; ciascuno a fare i conti nel proprio territorio con la realtà in cui è inserito e in cui può operare. Le dimensioni del problema sono d’altronde tali che non si può sperare di ottenere dei risultati – se si vogliono veramente ottenere – che procedendo così. E se il Governo non lo fa, la prima conseguenza da trarre è che di promuovere quel confronto dobbiamo farci carico noi. Chi? Tutti, dove e come si può. Mettendo al centro non la crescita ma la cura delle persone, del vivente e della Terra.
Ma invece di una campagna di informazione e di un grande confronto ci siamo ritrovati le continue esternazioni del ministro Cingolani, peraltro in frequente contraddizione tra loro, ma che, sostanzialmente, mirano a rassicurare che non c’è da cambiare gran che: il gas sostituirà – un po’ per volta – il petrolio come “combustibile di transizione” (verso che?), costruendo nuovi impianti e pipeline la cui vita utile va ben al di là del 2050, anno in cui il gas dovrebbe scomparire; l’idrogeno verde deve aspettare (non è ancora maturo); con le rinnovabili non c’è fretta, tanto arriverà la fusione nucleare, o anche la fissione in “piccoli impianti” distribuiti sul territorio; la dieta proteica è essenziale, quindi largo agli allevamenti industriali; l’agricoltura sostenibile si fa con l’agrofotovoltaico (pannelli in alto e ortaggi sotto) ecc.
Ma se il ministro della Transizione sembra sensibile soprattutto alla lobby del gas (Eni ed Enel), il PNRR, nel suo insieme, destina il giusto tributo anche a quella del cemento e delle Grandi opere: il piano pullula di autostrade, aeroporti e treni ad Alta velocità, chiamati infrastrutture, tutti finanziati a spese del trasporto locale (compreso il TAV Torino-Lione, ricompreso nel PNRR, senza nominarlo, nelle vesti del fallito Ten-T).
E qui, anche senza entrare nei dettagli (che peraltro il PNRR evita accuratamente), la prima e fondamentale domanda da fare, se si aprisse, come si dovrà aprire, ma da basso, un dibattito sulla transizione ecologica è: ma serve un treno ad alta velocità, o un ponte di quattro chilometri per collegare regioni devastate dagli incendi, dove, di questo passo, si dovrà reggere a temperature di 50°C come a Vancouver (che è molto più a nord), per fare arrivare dei turisti su spiagge ormai sommerse dall’innalzamento del livello del mare? O serve portare altro gas in Italia cercando di seppellirne le emissioni sottoterra in una regione già sconvolta da un terremoto di dubbia origine, lasciando in eredità alle future generazioni, ma forse anche a questa, una bomba di CO2 sotto pressione, pronta ad aprirsi un varco verso la superficie per restituire all’atmosfera tutta la CO2 fittiziamente sottrattale? Ma domande come queste chi ci governa se le è mai fatte?
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*L’articolo è tratto dal sito Comune-info in forza di un accordo di collaborazione con Volerelaluna.
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Clima e Green Deal, la Commissione accelera a metà
Monica Frassoni
Sbilanciamoci! 16 Luglio 2021 | Sezione: Ambiente, primo piano
Rischi e omissioni nelle 12 proposte legislative chiamate “Fit for 55” con cui Ursula von del Leyen e la Commissione europea hanno aggiornato gli obiettivi del Green Deal per ridurre le emissioni del 55% entro il 2030 istituendo un Fondo sociale per ridurre l’impatto della transizione.
La presidente della Commissione europea Ursula Von Der Leyen insieme ai Commissari Timmermans, Gentiloni, Simson, Aldean, Wojciechowski ha presentato il 14 luglio quello che è uno dei più consistenti pacchetti legislativi mai completati nella sua storia. Il pacchetto di proposte legislative si chiama “Fit for 55”. Si tratta di 8 proposte di revisione di direttive e regolamenti esistenti e di 4 nuove iniziative in materia soprattutto energetica che rappresentano un pezzo centrale del Green Deal europeo, il programma partito due anni fa per portare la UE a essere il primo continente a emissioni zero nel 2050 attraverso una lunga lista di norme in tutti i settori dell’economia, industria, ambiente, accompagnate dal riorientamento e dall’aumento delle risorse a disposizione della UE. Il Green Deal è un elemento chiave di Next Generation EU ed è quindi integrato anche nello sforzo di uscita dalla crisi pandemica intrapreso a livello europeo.
La decisione di aumentare dal 40% al 55% gli obiettivi di riduzione delle emissioni al 2030 e di raggiungere la neutralità climatica nel 2050, racchiusi nella Legge sul Clima che entra in vigore questo mese, sono una conseguenza diretta dei richiami incessanti di scienziati ed esperti, delle grandi mobilitazioni dei “Friday for Future” e della crescente consapevolezza dell’estrema minaccia rappresentata dai cambiamenti climatici non solo per l’ambiente, ma anche per l’economia e la vita tout court. L’idea è cioè che il Green deal sia una “strategia per la crescita” alternativa a quella attuale ancora fondata sui combustibili fossili. Il piano ha anche l’obbiettivo di portarci fuori dalla crisi, di dare nuove prospettive di lavoro e di inclusione sociale, di ridisegnare il nostro modo di muoverci, di abitare, di consumare, il tutto riducendo le diseguaglianze e il nostro impatto su risorse e ambiente.
Un sogno? Forse, e come vedremo i problemi non mancano. Bisogna però riconoscere che al di là del merito, il grande lavoro fatto dalla Commissione europea, con il suo scarso (in termini numerici) e spesso criticato staff, è stato davvero straordinario e rappresenta il senso e l’utilità del progetto europeo. In questi mesi c’è stato anche uno sforzo reale di ascolto dei vari attori in campo, dalle ONG all’industria, anche se ovviamente alcune voci sono forse state più ascoltate di altre.
Citiamo per capi. Le proposte di direttive, regolamenti e altre iniziative riguardano l’aumento degli obbiettivi per rinnovabili, efficienza energetica, la riorganizzazione del sistema di scambio delle emissioni (ETS) e la sua controversa estensione al settore degli edifici e dei trasporti, il regolamento detto di “condivisione dello sforzo” per l’abbattimento delle emissioni nei settori finora non coperti dall’Ets, la tassazione energetica, che prevedeva finora stimoli ai combustibili fossili, l’uso del suolo, le misure a tutela della silvicultura, la strategia forestale, le norme più stringenti per ridurre le emissioni di automobili e furgoni, le regole per le infrastrutture per i carburanti alternativi (leggi ricariche per mobilità elettrica) e per i carburanti per aviazione e navigazione, le misure per imporre dazi ad importazioni ad alto contenuto di CO2 (misure di adeguamento del carbonio alle frontiere). E infine la proposta di un Fondo Sociale per il Clima con l’obiettivo di attenuare il rischio del riproporsi di contestazioni come quelle dei “gilets jaunes” come reazione di rigetto di queste misure da parte dei settori sociali più in difficoltà. Il Fondo verrebbe finanziato con 72,2 miliardi di risorse europee provenienti per il 25% dai proventi del sistema di scambio di emissioni e potenzialmente da altrettante nazionali nei prossimi 7 anni.
Nei prossimi mesi il pacchetto sarà completato dalle linee guida per l’applicazione concreta del principio “Energy efficiency first”, il super controverso pacchetto sul gas, la direttiva sugli edifici e le nuove linee guida sugli aiuti di Stato, tutti aspetti molto importanti dell’agenda sul Green deal. Ora la parola passa al Parlamento Europeo e al Consiglio dei rappresentanti degli Stati, che sono co-legislatori a pari livello. Si prevede che i negoziati dureranno per tutto il 2022.
La proposta della Commissione è un insieme di migliaia di pagine di norme e articoli e ci vorrà un po’ per digerirli tutti, ma già possiamo fare alcune considerazioni generali.
Innanzitutto, il pacchetto è al centro dell’attenzione di due forti tendenze, che vanno in senso diametralmente opposto, come è evidente da alcune delle primissime reazioni. Da un lato ci sono le voci di coloro che pur non potendo più negare che i cambiamenti climatici esistono e vadano governati, dopo avere per anni impedito di agire per tempo, oggi continuano a spingere per ritardare, fare distinguo, chiedere prudenza, usando l’argomento sicuramente importante della salvaguardia dei posti di lavoro per non attrezzarsi a cambiare e soprattutto pretendono il privilegio di continuare ad essere esentati dai costi reali della transizione, che anche in questo pacchetto continuano ad essere in buona misura scaricati su cittadini e finanze pubbliche. Parliamo di una parte ancora troppo importante dell’industria automobilistica ed energivora che soprattutto in Germania (e quindi in Commissione), ma anche in Italia, ha un impatto davvero sproporzionato data la sua capacità di influenza e la sua disponibilità economica nel fare lobby a tutti i livelli (vedi le dichiarazioni di Cingolani sul “bagno di sangue” rappresentato dalla transizione ecologica).
Dall’altro lato della barricata c’è invece l’evidenza dell’accelerazione dei fenomeni distruttivi e di grande e negativo impatto dei cambiamenti climatici, dello sfruttamento eccessivo delle risorse e dell’inquinamento, fenomeni che non permettono di perdere tempo. Bisogna liberarsi al più presto della dipendenza dai fossili, gas incluso. L’attivista Greta Thunberg in un recente intervento, durissimo e lucidissimo, denuncia come le azioni intraprese potrebbero essere molto positive perché siamo ancora in tempo per invertire la marcia. Ci sono però ancora troppe scappatoie e ambiguità. Ad esempio continuano investimenti e sussidi miliardari ai fossili e le politiche in atto non sono assolutamente abbastanza radicali mentre i governi si danno a un green-washing continuo e irresponsabile. È chiaro che la trasformazione necessaria sarà difficile e dura.
La drammaticità e la necessità di accelerare gli interventi è la conseguenza del grande ritardo accumulato e più tempo si perde facendo scelte a metà e peggio sarà anche dal punto di vista della sostenibilità e del consenso sociale. L’alternativa di frenare in ogni caso lo sarebbe ancora di più.
Se scegliamo il secondo punto di vista, è chiaro che il pacchetto presenta molti punti deboli e che bisognerà mettere in atto una mobilitazione notevole in Italia e in Europa per poterlo migliorare. Peraltro, se in Europa esistono gli strumenti di relativa trasparenza per capire chi dice cosa e chi preme in quale direzione, è molto più difficile vedere come si forma la posizione che l’Italia rappresenta in Europa su questi temi, data l’assenza di dibattito pubblico, il disinteresse dei media e l’opacità dei meccanismi di controllo.
Il macroscopico punto debole del pacchetto sta nel tentativo della Commissione di trovare una impossibile ed inefficace mezza via tra i due orientamenti spiegati più sopra. Questo tentativo rischia di mettere in pericolo l’essenza stessa del Green Deal, come denunciano da tempo le associazioni ambientaliste europee riunite in “Climate Action Network” o EEB, ma anche diverse associazioni dell’industria più consapevole dei rischi e anche delle enormi opportunità che esistono in termini di business, competitività e lavoro.
L’origine della debolezza del pacchetto sta nel target insufficiente di riduzione delle emissioni del 55% per il 2030 inserito dalla Legge sul Clima dopo una battaglia furibonda. La scienza considera necessario che l’UE contribuisca con una riduzione di emissioni del 65% entro il 2030 al raggiungimento dell’obbiettivo globale di 1,5° massimo di riscaldamento del pianeta entro la fine del secolo. Dunque ci vorrebbe un aumento delle rinnovabili e dell’efficienza rispettivamente del 50% e del 45% . Gli obbiettivi proposti di aumento di rinnovabili (40%) e di efficienza energetica (36%) sono pertanto insufficienti ad avvicinarci alla neutralità climatica nei limiti stabiliti dagli scienziati.
[segue su Sbilanciamoci!]
Agenda Onu 2030 in Italia
La spesa dello Stato secondo l’Agenda 2030
Maria Letizia D’Autilia
Su Sbilanciamoci! 15 Luglio 2021 | Sezione: Apertura, Economia e finanza
Un ottimo studio sperimentale pubblicato dalla Corte dei conti riclassifica il bilancio dello Stato in funzione degli obiettivi e dei target dell’Agenda 2030 dell’Onu. Nel 2020 segnato dalla pandemia, molta la spesa pubblica su disuguaglianze e povertà, poca quella su ambiente, clima e sostenibilità.
La pandemia e gli Obiettivi dell’Agenda 2030
Nel preambolo dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, l’Organizzazione delle Nazioni Unite dichiara che il programma d’azione universale tracciato nei 17 Obiettivi e 169 traguardi mira a “fare passi audaci e trasformativi”, necessari a “portare il mondo sulla strada della sostenibilità e della resilienza”. L’Agenda si presenta quindi come lo strumento per qualificare in modo immediato obiettivi di policy interconnessi e indivisibili che, declinati in azioni più specifiche, possano bilanciare le tre dimensioni dello sviluppo sostenibile: quella economica, sociale e ambientale.
La Corte dei conti, nell’ambito della Relazione sul Rendiconto generale dello Stato 2020, ha individuato nell’Agenda 2030 una nuova chiave di lettura per rappresentare la varietà dei fenomeni che incidono sulle decisioni di bilancio dell’operatore pubblico. Il bilancio dello Stato riclassificato per Obiettivi/target dell’Agenda potrebbe consentire, in prospettiva, di interpretare – come si rileva nella presentazione del lavoro – i risultati delle politiche di spesa adottate dal legislatore anche alla luce dell’incidenza che queste avranno sul conseguimento degli stessi target e obiettivi dell’Agenda 2030. Anche per questo motivo, lo studio sperimentale avviato dalla Corte nell’ambito della programmazione dei controlli per il 2021, apre una prospettiva nuova, sotto il profilo metodologico, a tutti quegli enti delle amministrazioni pubbliche, soprattutto Regioni ed enti locali, che hanno inserito l’Agenda nella loro attività di programmazione finanziaria.
L’impiego di classificazioni condivise permette, del resto, di rendere confrontabili i risultati delle politiche di bilancio adottate sia dalle diverse istituzioni pubbliche che operano sul territorio e a livello centrale, sia tra i diversi Paesi che hanno scelto di riconoscersi negli obiettivi dell’Agenda. Si tratta di un confronto ancora più necessario in questa particolare fase della crisi determinata dalla pandemia.
Va segnalato, in tal senso, che secondo le Nazioni Unite impegnate nel monitoraggio dell’Agenda 2030, sarà proprio la strategia scelta da ciascun Paese per superare la crisi a determinare le politiche di bilancio dei prossimi anni nel segno della sostenibilità. Gli Stati avranno la possibilità di superare gli effetti sociali ed economici della pandemia se sapranno individuare una via d’uscita fondata su interventi rivolti soprattutto a incrementare e rendere accessibili i sistemi sanitari nazionali a tutti (Goal 3), a predisporre misure coordinate di politica monetaria e finanziaria a sostegno del lavoro (Goal 8), a rafforzare i sistemi nazionali di protezione sociale (Goal 10).
In perfetta sintonia con le Nazioni Unite, l’atto appena assunto (il 22 giugno scorso) dal Consiglio dell’Unione Europea afferma che la crisi generata dal Covid-19 non permette più di scegliere se perseguire gli Obiettivi dell’Agenda 2030, ma rende necessaria un’accelerazione delle politiche di investimento verso il loro raggiungimento anche attraverso il varo di riforme strutturali urgenti.
Cresce, pertanto, il livello di responsabilità degli Stati membri per l’attuazione dell’Agenda e aumenta contestualmente – come auspicato dal Consiglio europeo – la necessità di integrarla negli strumenti di pianificazione nazionale, nelle strategie di sviluppo, nonché nei quadri di bilancio.
Classificare e misurare per riconoscere le politiche
Entrando nel merito del lavoro della Corte dei conti si rileva che l’esercizio di riclassificazione è stato svolto sui dati di spesa (stanziamenti definitivi) del Rendiconto generale dello Stato per il 2020. Le linee guida del metodo utilizzato possono essere riepilogate in pochi punti.
Va detto, in premessa, che lo schema classificatorio dell’Agenda 2030 per Obiettivi/target è stato utilizzato per individuare specifiche aree di policy al primo livello (Obiettivi) e puntuali azioni di policy al secondo livello (Target). Trattandosi di una prima sperimentazione, il metodo utilizzato ha “filtrato” la descrizione degli Obiettivi/target da specifici riferimenti a misurazioni, scadenze e target finalizzando l’operazione a individuare esclusivamente l’area di policy.
Le questioni connesse alla misurazione e valutazione delle politiche da realizzare con l’attuazione degli Obiettivi/target saranno affrontate – come viene spiegato nel lavoro – solo in una fase successiva, con la messa a punto di metodologie, strumenti e indicatori specifici di carattere sia quantitativo che qualitativo.
La Spesa primaria finale del Rendiconto 2020 ha costituito il campo di osservazione per la riclassificazione, che ha tuttavia riguardato soltanto le funzioni cosiddette istituzionali delle amministrazioni, ossia quelle relative alla loro attività caratteristica, mentre le spese per il personale e il funzionamento degli uffici (escluse, quindi, dalla spesa primaria finale) saranno analizzate e attribuite nella seconda fase della sperimentazione una volta consolidato il metodo.
Le spese del bilancio dello Stato secondo l’Agenda 2030
Il primo risultato che emerge dalla riclassificazione secondo l’Agenda 2030 mostra che il metodo utilizzato ha consentito di intercettare circa il 60 per cento della spesa primaria finale impiegata per la realizzazione delle attività caratteristiche dei Ministeri.
Fonte: Corte dei conti, Relazione sul Rendiconto generale dello Stato 2020
Si tratta di oltre 470 miliardi di euro di stanziamenti definitivi di spesa che si concentrano (circa 153 miliardi, come si vede nel grafico qui sopra) in particolare nell’Obiettivo 10-Ridurre le disuguaglianze. Guardando, poi, al livello dei target, emerge che il 90 per cento della somma è stata destinata a finanziare “Politiche salariali e di protezione sociale” (target 10-4).
In un anno caratterizzato da interventi di sostegno a gran parte dei settori economici e di aiuti alle famiglie, gli Obiettivi dell’Agenda hanno permesso di rappresentare in modo particolarmente efficace l’orientamento della spesa pubblica. I riflessi finanziari dei provvedimenti adottati dal legislatore per fronteggiare, con misure straordinarie di spesa, l’emergenza sociale ed economica generata dalla crisi, si possono cogliere infatti in modo immediato attraverso lo schema di classificazione dell’Agenda 2030 così fortemente caratterizzato da traguardi di sostenibilità, inclusione, protezione sociale.
Le diverse misure varate per attenuare gli effetti determinati dal blocco delle attività produttive hanno, del resto, modificato in modo profondo, nel 2020, il Bilancio dello Stato nel corso della sua gestione. L’emanazione di numerosi e specifici provvedimenti legislativi emergenziali (dl 18/2020 “Cura Italia”, dl 23/2020 “Liquidità, dl 34/2020 “Rilancio”, dl 104/2020 “Agosto”, dl 137/2020 “Ristori”) hanno comportato, infatti, l’individuazione di nuovi capitoli o piani gestionali, nonché l’introduzione di variazioni, anche significative, sulle dotazioni già previste.
Si è trattato di interventi che hanno inciso in modo significativo sulla distribuzione della spesa corrente e di quella in conto capitale, sottolineando il carattere assolutamente straordinario dell’esercizio finanziario, nonché lo sforzo effettuato dalle amministrazioni centrali per dare effettività e concretezza alle notevoli risorse stanziate.
Lo sforzo finanziario, nel complesso, si è concentrato in poche missioni di spesa riconducibili ad alcuni Obiettivi “Pilastro” dell’Agenda. Come la riclassificazione mette bene in evidenza, oltre a concentrarsi nell’Obiettivo 10 mirato alla riduzione delle disuguaglianze (con il 32,6% di risorse stanziate), le risorse statali hanno alimentato con ulteriori 180 miliardi di euro i target relativi all’Obiettivo 3 “Assicurare la salute e il benessere per tutti e per tutte le età” (19,1%) e 8 “Incentivare una crescita economica, duratura, inclusiva e sostenibile, un’occupazione piena e produttiva ed un lavoro dignitoso per tutti” (18,9%).
La straordinarietà della crisi pandemica, a cui è stata data risposta con misure altrettanto straordinarie, ha pertanto fortemente indirizzato l’esercizio di riclassificazione verso tali Obiettivi, influenzando di conseguenza anche il punto di osservazione iniziale. Sarà pertanto necessario continuare a svolgere l’esercizio anche per gli anni successivi per verificare l’effettivo orientamento dei governi verso gli Obiettivi di sostenibilità.
Sul versante opposto, la residualità che si osserva per gli stanziamenti nel settore della sostenibilità climatica e ambientale (Goal 14) e di gestione delle acque e delle strutture igienico-sanitarie (Goal 6), oltre a mettere in evidenza quali siano state le priorità assegnate alle politiche nel 2020, segnala quanto sia importante provare a individuare nell’orizzonte del legislatore i legami e le strette interconnessioni tra le dimensioni economiche, ambientali e sociali delle misure di policy emanate.
Un’angolazione, questa, che potrebbe essere introdotta, in prospettiva, anche allo scopo di individuare, nelle politiche di spesa attuate dalle amministrazioni, le trasversalità e le interconnessioni tra le dimensioni citate. Ricostruire il quadro sistemico sottostante a tali decisioni permetterebbe infatti di interpretare in modo più approfondito gli obiettivi di policy collegati all’Agenda 2030 e consentirebbe di corredare i dati di bilancio anche con gli indicatori per la misurazione dello sviluppo sostenibile e il monitoraggio dei suoi obiettivi prodotti dall’Istat (in coerenza con l’Inter-agency and Expert Group on SDG Indicators, IAEG-SDGs).
Il quadro fornito dall’Istat, nel maggio 2020, nel momento più drammatico della pandemia, era riuscito in tal senso a descrivere – seppure sulla base delle prime informazioni disponibili a quella data – le interconnessioni tra gli Obiettivi dell’Agenda 2030 e la pandemia. Gli indicatori statistici facevano emergere i forti i legami tra gli Obiettivi economici e ambientali: a partire dalla Salute e benessere (Obiettivo 3), le interconnessioni osservate mostravano che gli effetti della pandemia si iniziavano a osservare soprattutto nell’aumento della Povertà (Obiettivo 1) e delle Disuguaglianze (Obiettivo 10). Gli stessi Obiettivi su cui si rilevano, nella sperimentazione svolta dalla Corte dei conti sul Rendiconto dello Stato, gli interventi di spesa più consistenti attuati nel 2020. Gli stanziamenti di bilancio riconducono, infatti, alle “Politiche di protezione sociale” (10.4) gran parte dei provvedimenti, varati nel corso del 2020, finalizzati a trasferire le risorse per finanziare misure previdenziali e di protezione speciale “straordinarie” per mitigare gli effetti della crisi sui lavoratori.
La classificazione proposta dalla Corte dei conti segnala, in conclusione, che è stato individuato un metodo da cui si potrebbe partire per integrare gli Obiettivi dell’Agenda 2030 nelle diverse fasi del ciclo del bilancio, a partire dal momento della programmazione fino alla fase della rendicontazione.
Riconoscere in modo immediato con quali priorità le risorse pubbliche vengono destinate a realizzare politiche sostenibili e orientate al benessere collettivo, permette di comprendere i processi decisionali di bilancio e di svolgere monitoraggi trasparenti e accessibili anche in vista dell’avvio del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. L’invito della Commissione Europea a integrare gli Obiettivi dell’Agenda 2030 nel semestre europeo, nel quadro finanziario pluriennale (QFP) e nello strumento per la ripresa Next Generation EU potrebbe rappresentare l’occasione per consolidare un metodo di monitoraggio.
* Maria Letizia D’Autilia, ricercatrice Istat distaccata presso la Corte dei conti.
** Il lavoro riflette esclusivamente le opinioni dell’autrice, senza impegnare la responsabilità delle istituzioni di appartenenza.
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Clima e Green Deal, la Commissione accelera a metà
Monica Frassoni
Su Sbilanciamoci! 16 Luglio 2021 | Sezione: Ambiente, Apertura
Rischi e omissioni nelle 12 proposte legislative chiamate “Fit for 55” con cui Ursula von del Leyen e la Commissione europea hanno aggiornato gli obiettivi del Green Deal per ridurre le emissioni del 55% entro il 2030 istituendo un Fondo sociale per ridurre l’impatto della transizione.
La presidente della Commissione europea Ursula Von Der Leyen insieme ai Commissari Timmermans, Gentiloni, Simson, Aldean, Wojciechowski ha presentato il 14 luglio quello che è uno dei più consistenti pacchetti legislativi mai completati nella sua storia. Il pacchetto di proposte legislative si chiama “Fit for 55”. Si tratta di 8 proposte di revisione di direttive e regolamenti esistenti e di 4 nuove iniziative in materia soprattutto energetica che rappresentano un pezzo centrale del Green Deal europeo, il programma partito due anni fa per portare la UE a essere il primo continente a emissioni zero nel 2050 attraverso una lunga lista di norme in tutti i settori dell’economia, industria, ambiente, accompagnate dal riorientamento e dall’aumento delle risorse a disposizione della UE. Il Green Deal è un elemento chiave di Next Generation EU ed è quindi integrato anche nello sforzo di uscita dalla crisi pandemica intrapreso a livello europeo.
La decisione di aumentare dal 40% al 55% gli obiettivi di riduzione delle emissioni al 2030 e di raggiungere la neutralità climatica nel 2050, racchiusi nella Legge sul Clima che entra in vigore questo mese, sono una conseguenza diretta dei richiami incessanti di scienziati ed esperti, delle grandi mobilitazioni dei “Friday for Future” e della crescente consapevolezza dell’estrema minaccia rappresentata dai cambiamenti climatici non solo per l’ambiente, ma anche per l’economia e la vita tout court. L’idea è cioè che il Green deal sia una “strategia per la crescita” alternativa a quella attuale ancora fondata sui combustibili fossili. Il piano ha anche l’obbiettivo di portarci fuori dalla crisi, di dare nuove prospettive di lavoro e di inclusione sociale, di ridisegnare il nostro modo di muoverci, di abitare, di consumare, il tutto riducendo le diseguaglianze e il nostro impatto su risorse e ambiente.
Un sogno? Forse, e come vedremo i problemi non mancano. Bisogna però riconoscere che al di là del merito, il grande lavoro fatto dalla Commissione europea, con il suo scarso (in termini numerici) e spesso criticato staff, è stato davvero straordinario e rappresenta il senso e l’utilità del progetto europeo. In questi mesi c’è stato anche uno sforzo reale di ascolto dei vari attori in campo, dalle ONG all’industria, anche se ovviamente alcune voci sono forse state più ascoltate di altre.
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Lavoro
di Fiorella Farinelli, su Rocca.
Luana D’Orazio, apprendista di 22 anni, ingoiata il 4 maggio da un macchinario in una fabbrica de distretto tessile di Prato. La sua fresca bellezza postata su Facebook, la ragazza-madre di una bambina di 5 anni, il fratello gravemente disabile, un salario di 980 Euro (ma qualche volta, ha raccontato sua mamma, capitava che fossero 1000 e allora era una piccola festa).
Luana
E poi il sospetto, terribile, che come nell’orditoio gemello sequestrato dalla magistratura, anche in quello che l’ha uccisa fossero stati disattivati i dispositivi automatici di sicurezza. Intenzionalmente, per permetterne la massima velocità operativa, contando magari sul fatto che gli operai più giovani di sicurezza non ne sanno abbastanza, e sul clima di condivisione che c’è di solito nelle piccole aziende dove il sindacato non c’è e il delegato alla sicurezza neppure. Una tempesta perfetta, dunque, con gli ingredienti giusti per sollevare un’ondata di dolore e indignazione nell’opinione pubblica. E per tornare ancora una volta a interrogarsi, chi solo retoricamente e chi sul serio, sulle «morti bianche», quante, dove, perché. Ma c’è da scommettere che le reazioni solo emotive non dureranno a lungo. Le morti sul lavoro, una media nel 2019 di 3 al giorno festività comprese, di solito non fanno granché notizia. Per tanti motivi, tra conformismi e convenienze, sono tra le meno visibili. Tanto più oggi, anestetizzati come siamo da mesi e mesi di centinaia di morti quotidiane per pandemia. E tutti o quasi con la tentazione di giustificare ogni semplificazione o ogni deroga che faciliti l’agognata ripresa produttiva (nella funivia del Mottarone finalmente riaperta, non è stata la disattivazione dei freni automatici la causa principale della tragedia del 23 maggio, lo schianto al suolo della cabina con 14 vite perdute e un bambino gravemente ferito?).
sulla sicurezza si fa troppo poco
Sul rischio di un rapido ritorno al silenzio, e su quello assai più grave che sulla sicurezza nei luoghi di lavoro si continui a fare troppo poco, e che quel che si fa non si faccia come si dovrebbe, è tornato il 12 maggio, in un question time rivolto al presidente Draghi, il deputato Guglielmo Epifani. Diceva, l’ex segretario generale della Cgil nel suo penultimo intervento in aula prima di morire, che la pur positiva decisione del governo, assunta già prima della morte di Luana, di rafforzare le attività dell’Ispettorato nazionale del lavoro con 1000 nuove assunzioni – e poi forse altre 1000 – in aggiunta a un organico attuale di circa 4.500 addetti, non può bastare da sola a contenere drasticamente i rischi di gravi incidenti, più alti da noi rispetto alla media europea, e a paesi manifatturieri come
e più del nostro, per esempio la Germania. Una media di 1200 l’anno solo le morti, la punta dell’iceberg di centinaia di migliaia di incidenti sul lavoro, 369.290 gli infortuni accertati nel 2019, il 65,8% delle denunce presentate (molte di più quelle degli ultimi quindici mesi, ma i numeri più recenti sono meno attendibili per via degli infortuni dovuti a Covid 19 che sono un terzo del totale, delle tante attività rimaste chiuse e della riduzione per effetto dello smartworking degli incidenti «in itinere»).
È però fin troppo pacifico che una parte degli infortuni da noi non vengano censiti, sia oggi che prima della pandemia, perché molto lavoro è in nero e allora le denunce non ci sono o vengono occultate da ricoveri in ospedale attribuiti ad altre cause. Ma perché aumentare gli organici dedicati alle ispezioni potrebbe non bastare? Perché, argomentava Epifani, è altrettanto importante superare la frammentazione degli interventi di controllo e di ispezione, riconducibile al fatto che sono affidati sia al Ministero del lavoro che a quello della sanità, quindi sia allo Stato che alle Regioni (e ogni Regione sempre un pò a modo suo, nonostante il solenne accordo di qualche anno fa in Conferenza Unificata). L’Istituto nazionale del lavoro è nato, nel 2015, proprio per coordinare quello che oggi soffre di interventi scoordinati, di interferenze, sovrapposizioni, perfino rivalità e concorrenze tra i vari enti. Per questo ha un profilo istituzionale e organizzativo che lo rende «terzo», e autonomo da altri attori e autorità. Ma è stato finora poco finanziato, ha un organico insufficiente non solo per quantità ma anche per qualità tecnica e professionale. E il problema dei problemi è che dispone di una banca-dati non ancora integrata ed interoperativa con quelle delle Regioni, delle Asl, di Inps, Inail, e di altri enti con funzioni analoghe o connesse che però operano ciascuno per conto proprio, non di rado pestandosi i piedi. Ecco anche qui, e sulla pelle di chi lavora, gli irrisolti problemi del nostro scombinato regionalismo, dei ritardi nella modernizzazione digitale, delle contrarietà o resistenze istituzionali, politiche, corporative a un funzionamento efficiente, integrato, trasparente, socialmente controllabile delle attività e dei servizi pubblici. Ci vorrà tempo, e molto lavoro, per venirne a capo. Nel frattempo, era il suggerimento di Epifani, la garanzia del coordinamento delle attività ispettive dovrebbe essere assunta direttamente dalla Presidenza del Consiglio. Bisogna prepararsi, da subito, ai maggiori rischi che potrebbero determinarsi sotto la pressione della ripresa produttiva e del recupero affannoso di ciò che è andato perduto.
la vita e la salute non ammettono deroghe
I question time, si sa, si devono fare in pochi minuti. Ma chi di sicurezza del lavoro si occupa, non solo nel sindacato ma anche nei tribunali, nelle università, tra gli avvocati e i medici del lavoro, sa che i problemi sono anche altri, non meno inquietanti dell’inefficienza del pubblico e della sua non infrequente arrendevolezza agli interessi delle imprese (con la cattiva abitudine, che si mormora essere assai diffusa e facilitata da troppo laschi regolamenti regionali, di anticipare informalmente ai datori di lavoro le date delle ispezioni). Se è certo che di ispezioni bisogna farne di più (nel 2020 l’Istituto nazionale ne ha fatte solo 10.179, una media di neanche 2 per ogni addetto) e se, come ha denunciato il sindaco di Prato, nella sua città non ci sono più di 4-5 ispettori a fronte di oltre 4.000 aziende del suo distretto tessile, è certissimo che una migliore «cultura della sicurezza» richiede la costruzione di un triangolo virtuoso tra innovazione tecnologica e manutenzione dei macchinari, intese più stringenti tra le parti sociali, e tanta formazione e qualificazione professionale del personale, non solo degli operatori esecutivi ma anche di chi dirige, proprietari e management.
Rischi e guai, infatti, vengono da più parti. Innanzitutto da un sistema produttivo fatto per il 92% di piccole e piccolissime imprese poco in grado di investire economicamente in tecnologie sofisticate ad alto profilo di sicurezza (macchinari obsoleti e maltenuti sono frequentissimi anche in agricoltura, costruzioni, logistica), e abituate da tempo a giocare la partita della competitività principalmente
sulla riduzione dei costi, quelli del lavoro, delle attrezzature, della formazione.
Occorrono interventi pubblici mirati, una contrattazione nazionale e decentrata più esigente, una presenza più attiva delle rappresentanze sindacali nelle singole aziende e anche in ambiti settoriali e territoriali. Ma è decisivo anche che i lavoratori – tutti, anche i precari e stagionali, anche i collaboratori familiari, anche i tanti di provenienza straniera che conoscono poco l’italiano – siano più informati, consapevoli, responsabili. In grado, anche se condizionati dalla disparità rispetto al potere aziendale, anche se con la paura di perdere il lavoro, anche se non sempre supportati dalla presenza in azienda del sindacato, di rendersi conto dell’entità del rischio, di denunciare il mancato rispetto delle regole, in proprio o rivolgendosi a chi può aiutarli. In grado anche di utilizzare correttamente, senza disattenzioni e approssimazioni, i dispositivi personali di tutela e sicurezza. La vita e la salute di ciascuno e di tutti non ammettono deroghe.
formazione, vertenze, controllo
Ma è una sfida, quella della formazione obbligatoria dei lavoratori nel campo della sicurezza, tanto strategica quanto trascurata. In Italia non mancano, s’intende, le situazioni di eccellenza, per lo più in aziende di grande e media dimensione. Ma in moltissimi altri casi, dove le aziende vedono nella formazione solo un costo, una perdita dannosa di tempo di lavoro, un potenziale ostacolo alla produttività e alla disciplina di fabbrica, le attività formative vengono dilazionate, ridotte al minimo, realizzate in modalità prevalentemente astratte e teoriche (sempre più spesso on line), spesso affidate a formatori esterni che sanno poco o niente delle caratteristiche delle macchine e delle prestazioni di quella determinata unità operativa, dell’organizzazione del lavoro, dei livelli di istruzione e della qualità professionale degli addetti. Una formalità banalizzata, e inadatta allo scopo. Nell’ultimo contratto nazionale dei metalmeccanici, si prevede correttamente che la formazione comprenda anche l’analisi degli infortuni che si sono verificati, la simulazione degli incidenti possibili, lo scambio informativo e formativo tra lavoratori più esperti e meno esperti nello specifico contesto operativo, tra le macchine e sulle linee di produzione. È un’indicazione appropriata, ma sarà possibile attuarla, e svilupparla anche in altri contratti di lavoro? Sono stati gli stessi sindacalisti che l’hanno firmato a proporre, in queste settimane di allarme e di emozione per la morte di Luana, che in ogni azienda si tengano incontri straordinari tra direzioni e organismi sindacali per
analizzare i rischi connessi a questa fase di ripresa a pieno regime della produzione. A sollecitare a tutto il mondo sindacale la costruzione di vertenze unitarie sui temi della sicurezza e della prevenzione, e per il rilancio di una formazione continua non finalizzata unicamente all’addestramento alla prestazione o all’aggiornamento delle competenze finalizzato all’innovazione tecnologica ma anche allo sviluppo della qualità professionale. È infatti anche da qui che passa la dignità del lavoro operaio, la riconquista del suo assai logorato valore sociale. Soprattutto per i più giovani per cui il lavoro in fabbrica è spesso oggi solo il segno di un cattivo destino o del fallimento di altri più attraenti progetti di vita, una condizione da cui scappare il prima possibile, una realtà senza alcuna possibilità individuale e collettiva di crescita e di emancipazione. Non era così una volta, ma oggi bisogna tenerne conto, anche con la formazione.
Fiorella Farinelli
ROCCA 1 LUGLIO 2021
tanta strada nei miei sandali
tanta voglia di futuro
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Infortuni sul lavoro. Le relazioni del dottor Kafka
07-06-2021 – di: Vincenzo Cottinelli su Volerelaluna.
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