Risultato della ricerca: agricoltura

I giovani sardi alla riscossa. Se non ora quando?

Si terrà oggi domenica 6 novembre a Sant’Anna (OR), a partire dalle ore 10, presso il Centro polivalente Padre G.Vaira, una grande assemblea politica promossa con un appello firmato da quasi 80 under 40 provenienti da tutta la Sardegna e pubblicato sul sito www.sardegnachiamasardegna.eu. Attese quasi 300 persone, registratesi in soli 10 giorni grazie al passaparola e al tam-tam sui social network. Ottima iniziativa. Seguiamo con attenzione, speranza, ottimismo della volontà!
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12bd1b8e-bbaa-41b3-af68-a660e7b919e9Il 6 novembre iniziamo a cambiare la Sardegna, insieme
6 novembre / Sant’Anna (OR) / ore 10

Centro Polivalente “Padre G. Vaira”

Piazza Verona 2

Siamo sarde e sardi come te, di nascita o per scelta. Siamo giovani sotto i 40 anni, viviamo vite precarie e non ci sentiamo rappresentati dai gruppi politici da troppo tempo al governo della nostra isola. Ereditiamo da loro una Sardegna sempre più impoverita, spopolata e depressa.

Vogliamo costruire un’alternativa a tutto questo insieme a tutti coloro che – indipendentemente da età ed esperienze pregresse – vogliono una Sardegna più giusta, generativa di opportunità, democratizzata e autodeterminata. Per questo ti chiamiamo a un incontro in cui raccontarci la Sardegna che vorresti anche tu. Perché è arrivato il momento di unirci e cambiare tutto.

Il nostro appello
Perché ti chiamiamo

Siamo sardi e sarde come te, di nascita o per scelta: lavoratrici e lavoratori autonomi o dipendenti, in cerca di occupazione, studenti e studentesse.
Siamo giovani sotto i 40 anni, viviamo vite precarie e non ci sentiamo rappresentati dai gruppi politici da troppo tempo al governo della nostra isola. Una classe politica spesso clientelare e piena di arrivisti, che ignora esigenze e aspettative delle persone, che azzera dialogo e coinvolgimento, che sacrifica a interessi lontani le risorse della Sardegna. Una classe politica in larga parte corrotta da interessi opposti a quelli della stragrande maggioranza delle persone che vivono la nostra terra, ossia quelli di multinazionali, grandi aziende predatorie, fondazioni private e massoneria che decidono le sorti della Sardegna senza mai essere stati eletti da nessuno.
La Sardegna che ereditiamo da loro è a pezzi, sempre più spopolata e depressa. Una terra che sembra essere condannata a un presente e a un futuro di lavoro precario e sfruttato, disoccupazione, difficoltà a fare buona impresa, povertà, caro energia, inquinamento, servizi inefficienti e quindi, spesso, emigrazione forzata.
Eppure, nonostante tutto, ci impegniamo tutti i giorni, con passione e competenze, per vivere dignitosamente e rendere la nostra isola un posto migliore. Perché, diversamente da chi la governa, riusciamo a intravvedere le sue immense potenzialità.
C’è chi tra noi dedica quasi tutte le sue energie a studiare, a lavorare con passione o creare nuovo lavoro. C’è chi si impegna nelle amministrazioni locali, nell’associazionismo, nel mondo della cultura e del volontariato. C’è chi invece ha animato e anima i comitati per la difesa della sanità, le lotte per un prezzo giusto del latte, per la difesa dei posti di lavoro e i diritti, le proteste per i tagli dei servizi, le battaglia per scuole e università accessibili… e tante altre lotte giuste e necessarie che riempiono le cronache dei nostri giornali.

Sei con noi?

Allora sarai d’accordo sul fatto che questo impegno non può più bastare.
Non basta più se vogliamo arrestare il collasso della nostra terra sul piano economico, sociale, ambientale e demografico.
Non basta più perché la Sardegna sia finalmente un mosaico di luoghi in cui si possa vivere dignitosamente, dalle città al più piccolo dei paesi.
Non basta più se vogliamo opporre al collasso un’idea di Sardegna che investe nei giovani e nella loro istruzione, in un nuovo modello di sviluppo giusto socialmente ed ecologicamente sostenibile che generi ricchezza per chi vive questa terra, nella valorizzazione delle sue lingue e della sua storia, nel suo protagonismo politico ed economico in ambito euromediterraneo.
Non basta più se vogliamo una Sardegna coinvolta, democratizzata, autodeterminata e generativa di opportunità.
Per provare a realizzarla dobbiamo fare quello che chi governa da troppo tempo non vorrebbe: metterci insieme, facendo rete tra noi, per costruire un grande movimento di cambiamento politico e culturale, verso e oltre le prossime scadenze elettorali regionali e amministrative. Un movimento animato da chi tiene in piedi questa terra per riconquistare la possibilità di decidere su di essa.
Per questo ti chiamiamo a un incontro per raccontarci la Sardegna che vorresti anche tu. Il collasso non è inevitabile e il cambiamento possiamo costruirlo assieme, per il nostro bene e per quello di coloro che abiteranno la Sardegna del futuro.

La Sardegna che ereditiamo
Dai governi italiani, per decenni, abbiamo ricevuto solo le briciole, in termini di strade, trasporti, servizi e – quando ci sono stati – progetti occupazionali inquinanti o insostenibili che continuano a segnare il presente della nostra isola.
Dai palazzi della Regione Sardegna non ci è andata meglio, essendo occupati da troppo tempo da persone arriviste e arroganti, motivate dal solo fine di curare, senza intralci, le loro clientele. Al di fuori di alcune stagioni positive, i governi che si susseguono in via Roma si contraddistinguono per le loro scelte sbagliate, mancate o lontane dagli interessi della maggior parte dei cittadini. Interessi di gruppi di potere che decidono tanto delle sorti della Sardegna senza mai essere stati eletti da nessuno. Un esito scontato, se si coltiva una classe “dirigente” largamente incompetente e vecchia nelle idee, prima che anagraficamente, che non fa altro che alimentare la condizione di sottosviluppo dell’isola, piuttosto che guidare il suo sviluppo sociale ed economico.
Sia chiaro: ci sono tante persone di valore che si impegnano nel quadro politico esistente, ma alla fine chi prende le decisioni importanti sono sempre i soliti noti.
Ad ogni tornata elettorale, compresa quest’ultima, assistiamo a giochi di potere e a tante promesse di progettualità e sviluppo per la nostra isola che vengono puntualmente tradite.
Così, la nostra amata terra, sembra essere condannata a un presente e un futuro di lavoro precario e sfruttamento, disoccupazione, povertà, lavoro sommerso, spopolamento e quindi, spesso, emigrazione forzata. Condannata ad avere un’economia dipendente, poco dinamica e produttiva, segnata da svantaggi infrastrutturali, mancati investimenti in innovazione di processo e prodotto, una struttura produttiva sottodimensionata e frammentata su interi settori.

La Sardegna che vorremmo
Non è più il momento di delegare a chi ci ha portato a questa situazione le sorti della nostra terra. Per questo, vorremmo immaginare insieme a te e a tutte e tutti coloro che che ce l’hanno a cuore, quale Sardegna costruire nei prossimi decenni. Ti proponiamo soltanto una cornice di valori, da arricchire con il tuo contributo, sui quali ti chiamiamo a prendere parola e ad attivarti insieme a noi.
1. Vorremmo una Sardegna capace di combattere le disuguaglianze sociali definendo un nuovo modello di sviluppo più giusto e sostenibile, che parta finalmente dalle nostre peculiarità produttive e culturali da reinventare o innovare, per creare un tessuto economico robusto, diversificato e dinamico, in grado di competere nel mondo grazie alla qualità dei prodotti e dei servizi, alla cooperazione degli attori, agli investimenti in innovazione tecnologica e digitale, al benessere economico e alla formazione delle lavoratrici e dei lavoratori, alle produzioni e ai servizi ecologicamente sostenibili e socialmente impattanti.
2. Vorremmo una Sardegna che investa sui saperi, sul diritto allo studio e sul libero accesso alla cultura lungo tutto l’arco della vita, innalzando vertiginosamente il numero di diplomati e laureati, aumentando le conoscenze e competenze decisive per rinnovare il mondo del lavoro, per costruire una democrazia compiuta e accrescere il benessere sociale.
3. Vorremmo una Sardegna dove essere donne non sia uno svantaggio nel lavoro e nella quotidianità, con politiche sul lavoro innovative, nuovi servizi all’infanzia, alla cura degli anziani e delle persone con disabilità, servizi socio-sanitari territoriali, consultori e centri antiviolenza diffusi, un’educazione alla sessualità e all’affettività nelle scuole per sradicare alla radice la violenza di genere e omolesbotransfobica.
4. Vorremmo una Sardegna plurilingue, che parli orgogliosamente la propria lingua in ogni ambito della sfera pubblica e che conosca la sua storia di popolo, smettendo di percepirsi come periferia, bensì come un centro e parte integrante della storia europea e mediterranea.
5. Vorremmo una Sardegna come un mosaico di luoghi in cui si possa vivere dignitosamente, grazie a un’occupazione di qualità, la garanzia dei servizi e dei diritti sociali e civili, dalle città al più piccolo dei paesi. Perché non esistano più territori di serie A, B e Z.
6. Vorremmo una Sardegna 100% rinnovabile ed energeticamente indipendente, non al servizio di multinazionali del vento e del sole, ma delle comunità e delle imprese dell’isola.
7. Vorremmo una Sardegna che si prenda cura del territorio e che torni a valorizzarlo attraverso l’agricoltura multifunzionale e politiche volte alla chiusura delle filiere, al sostegno alla produzione, a percorsi formativi innovativi per un ricambio generazionale che faccia battere il cuore delle nostre campagne.
8. Vorremmo una Sardegna che permetta di dare risposte ai nuovi bisogni di chi la vive, con nuove infrastrutture e una Pubblica Amministrazione efficiente e trasparente che sostiene attivamente il processo di modernizzazione economica e di rafforzamento del tessuto sociale e culturale.
9. Vorremmo una Sardegna libera da vecchi e nuovi centralismi, che proceda a grandi passi verso la propria autodeterminazione politica e istituzionale in ambito euromediterraneo e che, sin da ora, sfrutti al massimo la sua Autonomia per far valere i propri interessi verso lo Stato e per riequilibrare i poteri a livello regionale a favore degli Enti Locali.

Quale movimento vorremmo
1. Aperto, plurale e inclusivo: capace di costruire legami, diffondere conoscenza, generare fiducia nell’azione collettiva. In una società dove il tempo libero è sempre meno, vogliamo restituire la bellezza della partecipazione politica a tutte e tutti.

2. Partecipato, dinamico e costruttivo: una piattaforma civica, in presenza e online, dove discutere, decidere, mettere in connessione idee, proposte programmatiche, formative e di attività, dando voce al contempo ai tanti che stanno fuori dall’isola ma che vogliono contribuire a cambiarla.

3. Coinvolgente, diffuso e presente nelle città e nei paesi: che risponda ai bisogni reali dei territori, a partire dal protagonismo di chi li vive, con l’aiuto di organizzatori di comunità che attivino processi di consapevolezza e cooperazione per lo sviluppo locale, la rigenerazione sociale, produttiva e culturale.

4. Al servizio dell’isola che già si muove nella giusta direzione, che offre strumenti, servizi e formazione per la promozione di nuove relazioni tra professionisti, progetti mutualistici contro vecchie e nuove povertà, sinergie tra imprese sane e innovative per migliorare e costruire nuove occasioni per i propri prodotti e servizi, momenti di condivisione di saperi e professionalità tra chi è sull’isola e chi sta fuori, la costruzione di momenti di confronto con esperienze di governo innovative in giro per il mondo.

Da dove veniamo
Vogliamo far germogliare una stagione di progetti di cambiamento e impegno civico per spazzare via la rassegnazione, la paura e il risentimento. Non vogliamo testimoniare di averci provato, ma convincere la maggioranza di chi vive questa terra a scegliere di percorrere insieme questo cammino.
C’è chi, spaventato da questa proposta innovatrice, proverà a cucirci addosso etichette vecchie e desuete per depotenziarla. Ma non ci riusciranno, perché a differenza dei colpevoli del collasso economico e sociale della Sardegna, da sempre impegnati nella conservazione dei propri posti e nel servire interessi lontani che hanno storicamente sfruttato persone e risorse, e inquinato e depredato territori, noi non abbiamo interessi da salvaguardare o posizioni di rendita da conservare.
Ci sentiamo figli e figlie della gente che ha tenuto in piedi quest’isola: siamo il ritorno al futuro dell’operosità e perseveranza contadina, del sacrificio di generazioni di pastori, minatori e operai, della versatilità dei nostri artigiani, della bellezza che nasce dalle mani di Costantino Nivola o di Maria Lai, della scommessa imprenditoriale di Francesca Sanna Sulis e di Amsicora Capra, dell’animo resistente alle ingiustizie di Paskedda Zau, dell’educazione sentimentale di Peppino Mereu, Montanaru e Sergio Atzeni, dello studio che emancipa ed esplora la nostra identità di Michelangelo Pira o Nereide Rudas, dell’anelito alla libertà e alla giustizia per la nostra terra di Eleonora d’Arborea e Giovanni Maria Angioy, dell’intelligenza, della volontà e dell’esempio di Antonio Gramsci.
Noi siamo nuove e nuovi, ma siamo quelle e quelli di sempre. Apparteniamo alla storia di un popolo intraprendente, ricco di grandi valori e risorse, da sempre in cammino per la propria dignità. Con nuovi sguardi e nuovi strumenti, vogliamo proseguirlo, aprendo una nuova stagione per la democrazia sarda animata da chi la ama davvero. Una presa di parola plurale e ambiziosa, armonica e potente, come il più bel canto a tenore ancora da immaginare.

Cosa vogliamo fare il 6 novembre
Cosa? Un giorno di discussione in assemblea e in laboratori di idee e progettualità in presenza e online.
Con chi? Con chiunque voglia, indipendentemente dall’età e dalle esperienze pregresse, condividere competenze, idee ed energie per costruire un’alternativa per la Sardegna.
Come? Con tavoli di lavoro che utilizzeranno metodi di discussione e deliberazione ad alta intensità democratica, sperimentando strategie di partecipazione attiva e progettazione partecipata da replicare in tutti i territori della Sardegna, per decidere assieme lungo l’anno che verrà un programma di progetti per cambiare l’isola e, insieme, migliorare le nostre vite.
Il gruppo promotore

Riccardo Angius, 33 anni, Guspini
Massimo Angius, 27 anni, Monserrato
Francesco Ara, 26 anni, Serramanna/Roma
Francesca Atzas, 27 anni, Sedilo
Simone Azzu, 28 anni, Bologna
Valentina Bazzi, 35 anni, Osidda/Gavoi
Cristiana Cacciapaglia, 28 anni, Bosa
Salvatore Cadeddu, 27 anni, Pattada
Riccardo Caoci, 26 anni, Sestu
Mirko Casiddu, 29 anni, Putifigari
Emilia Casula, 36 anni, Cagliari
Luana Cau, 31 anni, Cagliari
Laura Celletti, 33 anni, Cabras
Sofia Cheratzu, 23 anni, Ghilarza/Milano
Paolo Cherchi, 26 anni, Olbia
Pier Michele Chessa, 40 anni, Sassari
Carlo Coni, 34 anni, Laconi
Marco Contu, 28 anni, San Vero Milis
Paolo Costa, 31 anni, Sassari/Cagliari
Ivana Cucca, 33 anni, Dorgali
Agostino D’Antonio, 29 anni, Nuoro Gianfranco Delussu, 34 anni, Gavoi Stefania Dessì, 33 anni, Guspini
Mauro Falchi, 29 anni, Bosa
Ambra Floris, 37 anni, Seneghe
Valeria Floris, 37 anni, Sini/Cagliari
Nicoletta Galisai, 31 anni, Guspini
Riccardo Lai, 27 anni, Gergei
Tommaso Lai, 27 anni, Cagliari
Enrico Lallai, 38 anni, Cagliari
Danilo Lampis, 29 anni, Ortueri
Nicola Leo, 22 anni, Guspini
Claudia Licheri, 29 anni, Abbasanta
Michela Lippi, 23 anni, Cagliari
Alessia Loi, 23 anni, Quartu Sant’Elena
Samuele Loi, 28 anni, Ussassai
Omar Ruggero Manca, 30 anni, Elmas

Marco Meloni, 33 anni, Monserrato/Madrid/Southampton
Antonio Marras, 29 anni, Sorgono
Marco Mele, 31 anni, Atzara
Francesco Mereu, 31 anni, Orgosolo/Milano
Elena Mereu, 29 anni, Dorgali/Nuoro
Silvia Mocci, 33 anni, Gonnosfanadiga Maria Luisa Mura, 28 anni, Sassari
Alessandro Murgia, 28 anni, Cagliari
Roberta Murgia, 30 anni, Seulo
Ester Napolitano, 33 anni, Guspini/Cagliari
Luca Orunesu, 29 anni, Nuoro/Cagliari
Emanuele Perra, 32 anni, Assolo
Davide Piacenza, 26 anni, Sant’Antioco/Cagliari
Josephine Pilia, 33 anni, Monserrato/Villamassargia
Marika Pinna, 26 anni, Gonnostramatza
Eleonora Piras, 32 anni, Ilbono/Olbia
Niccolò Piras, 24 anni, Assago/Cagliari
Nicola Piras, 40 anni, Iglesias
Giorgio Pirina, 33 anni, La Maddalena/Venezia
Alessandra Pisu, 28 anni, Pimentel/Cagliari
Luigi Pisu, 33 anni, Cagliari
Giada Podda, 25 anni, Gonnostramatza
Nicoletta Pucci, 27 anni, Cagliari
Claudia Puligheddu, 32 anni, Cagliari
Andrea Pusceddu, 32 anni, Bruxelles
Andrea Rizzu, 31 anni, Simaxis Stefano Saderi, 35 anni, Ruinas
Caterina Vittoria Roselli, 25 anni, Sassari
Anita Secci, 26 anni, Ruinas
Luca Solinas, 30 anni, Siniscola
Francesco Riccardo Sotgiu, 27 anni, Selargius
Carla Spanu, 28 anni, Sassari
Lorenzo Tecleme, 21 anni, Sassari/Bologna
Sabrina Tomasi, 33 anni, Gonnosfanadiga
Nicola Usai, 33 anni, Cuglieri/Siamaggiore
Martina Vincis, 27 anni, Iglesias/Cagliari
Enrico Zanda, 34 anni, Cagliari
Giuseppe Zingaro, 32 anni, Alghero/Esporlatu
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Ecco il governo

3a0be014-ca9f-4e8f-bb49-043dd2b577d0La presidente di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, presidente del Consiglio dei Ministri.
Ecco la lista dei ministri del suo governo: 9 ministri di Fratelli d’Italia, 5 della Lega, 5 di Forza Italia e 5 tecnici. Le donne, con Meloni, sono 7 in tutto.

Domani sabato alle 10 il giuramento. Domenica alle 10,30 ci sarà la cerimonia della campanella tra Draghi e Meloni a palazzo Chigi. Il primo Consiglio dei Ministri sarà domenica alle 12.

I ministri

Infrastrutture (vicepremier): Matteo Salvini
Esteri (vicepremier): Antonio Tajani
Economia: Giancarlo Giorgetti
Difesa: Guido Crosetto
Interno: Matteo Piantedosi
Giustizia: Carlo Nordio
Imprese e Made In Italy (ex Sviluppo Economico): Adolfo Urso
Pubblica Amministrazione: Paolo Zangrillo
Ambiente e Sicurezza Energetica: Gilberto Pichetto Fratin
Agricoltura e Sovranità Alimentare: Francesco Lollobrigida
Riforme: Elisabetta Casellati
Affari Regionali e Autonomie: Roberto Calderoli
Rapporti con il Parlamento: Luca Ciriani
Università e Ricerca: Anna Maria Bernini
Lavoro e Politiche Sociali: Marina Calderone
Beni Culturali: Gennaro Sangiuliano
Famiglia, Natalità e Pari Opportunità: Eugenia Roccella
Disabilità: Alessandra Locatelli
Sport e Politiche Giovanili: Andrea Abodi
Salute: Orazio Schillaci
Istruzione e Merito: Giuseppe Valditara
Turismo: Daniela Santanchè
Affari Europei e Pnrr: Raffaele Fitto
Politiche del Mare e Sud: Nello Musumeci
Sottosegretario alla presidenza del Consiglio: Alfredo Mantovano
Giorgia Meloni è la prima donna presidente del Consiglio dei ministri della storia della Repubblica italiana.
[segue]

“Liaisons dangereuses: la scienza tra guerra e pace”

unica-bisDiscorsi di Scienza, discorsi di Pace.
La lectio magistralis del prof. Pietro Corsi all’inaugurazione del 401mo Anno Accademico dell’Università degli Studi di Cagliari
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di Pietro Corsi
[segue]

Venerdì 22 Giornata Mondiale della Terra 2022

78ac6d2d-80fb-4a41-bd9c-3116c6993c1fCOMUNICATO STAMPA Progettiamo insieme Comunità future La Giornata della Terra 2022
22 aprile – Iglesias Piazza Sella.
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Economia circolare

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AGENDA VERDE
economia circolare e design
di Carlo Timio su Rocca.

Uno degli elementi cardine dell’ormai avviato processo di transizione economica è rappresentato dall’opportunità di dare vita a un’economia circolare in grado di conciliare sviluppo e impatto ambientale. Questo obiettivo, che costituisce una delle sfide perseguite dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), ma che si rifà anche agli Obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, agli accordi di Parigi e al Green Deal europeo, rientra nella Missione 2 del Pnrr che prevede uno stanziamento di 59,47 miliardi per dare vita alla Rivoluzione verde e la transizione ecologica, di cui 5,27 miliardi sono dedicati sia all’economia circolare che all’agricoltura sostenibile.
Quando si parla di economia circolare si fa riferimento a un modello di produzione e di consumo che implica condivisione, riutilizzo, riparazione, ricondizionamento, riciclo di materiali e prodotti esistenti per incrementarne la durata. Così facendo, si estende il ciclo di vita dei prodotti, contribuendo a ridurre i rifiuti al minimo. Ciò che accade è che una volta che il prodotto ha terminato la sua funzione, i materiali di cui è composto, vengono reintrodotti, laddove possibile, nel ciclo economico, venendo continuamente riutilizzati all’interno del sistema produttivo e generando ulteriore valore. Questi principi dell’economia circolare esprimono la soluzione alternativa al tradizionale modello economico lineare fondato sul paradigma «estrarre, produrre, utilizzare e gettare», la cui funzionalità non può prescindere dalla presenza di una vasta disponibilità di materiali ed energia facilmente reperibili e a basso prezzo. Con l’avvento della pandemia si è determinato un forte incremento della domanda di materie prime e allo stesso tempo uno scarso reperimento delle risorse, che da un lato sono sempre più essenziali – data anche la continua crescita della popolazione mondiale – e dall’altro sempre più limitate. In tutto ciò va anche ricordato l’impatto sul clima e quindi sull’ambiente provocato dai processi di estrazione e di utilizzo delle materie prime, che necessitano di un uso crescente di consumo di energia, provocando ulteriori emissioni di anidride carbonica. Si stima che la produzione dei materiali che vengono utilizzati ogni giorno è responsabile del 45% delle emissioni di Co2. Numerosi sono i vantaggi che derivano dalla transizione verso un’economia più circolare: tra questi spiccano la riduzione della pressione sull’ambiente, una maggiore disponibilità di materie prime, un incremento della competitività, un impulso all’innovazione, alla crescita economica e
un incremento dell’occupazione (che nell’Ue ammonterebbe a circa settecentomila nuovi posti di lavoro entro il 2030). Altro vantaggio è che grazie all’economia
circolare i consumatori potranno avere anche prodotti più durevoli e innovativi in grado di far risparmiare e migliorare la qualità della vita. Ad esempio, ricondizionare i veicoli commerciali leggeri anziché riciclarli porterebbe a un risparmio di materiale per 6,4 miliardi all’anno e 140 milioni in costi energetici, con una contrazione delle emissioni di gas serra pari a 6,3 milioni di tonnellate. Su questo fronte a livello europeo, il Parlamento ha chiesto l’adozione di misure che contrastino l’obsolescenza programmata dei prodotti che rappresenta una strategia propria del modello economico lineare. A marzo 2020 la Commissione europea ha presentato la proposta per la nuova strategia industriale basata sul piano di azione per un’economia circolare che include proposte sulla progettazione di prodotti più sostenibili, sulla riduzione dei rifiuti e sul «diritto alla riparazione». A febbraio 2021 il Parlamento europeo ha votato a favore, chiedendo misure aggiuntive per raggiungere un’economia a zero emissioni di carbonio, sostenibile dal punto di vista ambientale, libera dalle sostanze tossiche e completamente circolare entro il 2050. Su questo scenario, ai fini della realizzazione di una economia circolare, si inserisce in maniera significativa il design che con le sue caratteristiche e finalità incentrate sulla progettazione su scala micro, se riesce ad avere una visione non solo fondata sull’estetica e sull’orpello, ma anche capace di cogliere le esigenze su scala più ampia, può giocare un ruolo
strategico e determinante nella transizione da un’economia lineare a una circolare. Quado si parla di design che crea valore non si deve pensare soltanto al prodotto nella sua lunga fase di realizzazione dal concept alla produzione, ma anche alla distribuzione, alla comunicazione, fino all’esperienza dell’utilizzo. Sono anche progettati i servizi, le relazioni tra i marchi e il loro pubblico e persino il fine vita dei prodotti. Ma non è tutto. Oggi il design è chiamato ad assolvere un ruolo di primaria importanza in questa fase di transizione green, avendo le potenzialità per invertire quel processo fin qui adottato e concentrato sull’iperconsumo industriale – di cui lo stesso design è complice –, che per promuovere e incrementare la produzione promuove l’obsolescenza programmata (il processo che suscita nei consumatori il desiderio di sostituire beni tecnologici o appartenenti ad altre tipologie, per poter possedere oggetti di ultima generazione), contribuendo a rendere insostenibile l’attuale sistema economico. In che modo può assolvere a questa rinnovata funzione? Passando da un sistema in cui il valore era rappresentato dalla filiera estrazione materiali, lavorazione e trasformazione in prodotti, vendita e nella maggior parte dei casi deposito nella discarica, a un sistema in cui il valore rimane in circolo, rigenerandosi continuamente. Questa è l’essenza dell’economia circolare. Ma se questo nuovo approccio è encomiabile e degno di essere applicato in maniera massiccia, è altrettanto vero che non è sufficiente. Seppur è vero che l’utilizzo di alcuni materiali quali la carta e il legno piuttosto che altri sia più sostenibile così come sono più performanti e green alcuni sistemi produttivi come quelli che utilizzano materiali di recupero, è altrettanto vero che se queste attitudini non vengono inserite in un quadro più ampio, anche sicuramene culturale, serviranno a ben poco. La sostenibilità va compresa e sostenuta con un metodo multidisciplinare capace di valutare l’impatto ambientale sotto molteplici aspetti. Un sistema indispensabile cui non si può prescindere è l’analisi del ciclo di vita (in inglese life-cycle assessment), un metodo che consente di quantificare il potenziale impatto che può causare tutta la filiera della produzione sull’ambiente e sulla salute, distribuzione e utilizzo di un bene o un servizio attraverso l’analisi dell’impiego di risorse e le relative emissioni di Co2.
Due casi sono emblematici: il primo riguarda il lavaggio di una t-shirt le cui emissione di Co2 sono maggiori rispetto al suo intero processo di vita e l’altro fa
riferimento alla preparazione di un piatto di pasta che produce più inquinamento (tra coltivazione, imballaggio e trasporto) della produzione stessa. Tutto questo per dire che non basta pronunciare parole magiche quali green, sostenibilità, riuso, riciclo per avere un impatto positivo sull’ambiente. Servirebbe più che altro attivare una campagna di comunicazione in cui si spiega come poter cambiare l’uso che si fa di un certo oggetto piuttosto che riprogettarlo. La visione sistemica del design, denominata anche «System Thinking», consiste nella capacità di trovare soluzioni alternative per gestire la complessità dei processi, cercando di creare valore con qualcosa di diverso dalla produzione tradizionale. Ciò non vuol dire parlare di decrescita felice, piuttosto di un differente modo di rappresentare il
valore dei materiali che sono in circolazione mediante una progettazione strategica. Il che significa progettare dei prodotti che possano essere riparabili, ricondizionabili, riutilizzabili, condivisibili e solo in ultima istanza, riciclabili. Pertanto il design, in quanto disciplina che si interpone tra le persone e la produzione, e che crea esperienze e relazioni tra uomini, cose e servizi, deve in prima battuta innovare in modo sistemico per poi tornare a produrre beni, servizi o esperienze su scala più piccola.
Carlo Timio
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DIRITTO al LAVORO DIRITTO al REDDITO

copia-di-appello-css-sedeINAUGURAZIONE SEDE NAZIONALE DELLA CSS – Via Marche, 9 Cagliari - Il programma di oggi (col direttore di Aladinpensiero e il presidente della Casa del quartiere Is Mirrionis).cbc9ff58-f166-4e9a-9e91-a1db8dc5303f.
Ore 16.30 Conferenza/Dibattito “Reddito di cittadinanza legato all’impegno nel sociale, al lavoro utile e dignitoso nel proprio Comune e territorio”. Confronto tra sociologi ed operatori delle Comunità terapeutiche e del mondo del Volontariato. Coordinano Franco Meloni e Terenzio Calledda.
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Dal messaggio di Papa Francesco all’Incontro Mondiale dei Movimenti Popolari

2c9f46c8-fdc1-4d2f-9b06-223e283f8225 Pubblichiamo di seguito una parte del testo del Videomessaggio che il Santo Padre Francesco ha inviato ai partecipanti alla seconda Sessione del IV Incontro Mondiale dei Movimenti Popolari (EMMP), che si è svolta sabato 16 ottobre online (messaggio integrale nell’editoriale).

[…] 4. Tempo di agire

Spesso mi dicono: “Padre, siamo d’accordo, ma in concreto, che dobbiamo fare?”. Io non ho la risposta, perciò dobbiamo sognare insieme e trovarla insieme. Tuttavia, ci sono misure concrete che forse possono permettere qualche cambiamento significativo. Sono misure che si trovano nei vostri documenti, nei vostri interventi, e di cui ho tenuto molto conto, sulle quali ho meditato e ho consultato esperti. In incontri passati abbiamo parlato dell’integrazione urbana, dell’agricoltura familiare, dell’economia popolare. A queste, che ancora richiedono di continuare a lavorare insieme per concretizzarle, mi piacerebbe aggiungerne altre due: il salario universale e la riduzione della giornata lavorativa.

Un reddito minino (l’RMU) o salario universale, affinché ogni persona in questo mondo possa accedere ai beni più elementari della vita. È giusto lottare per una distribuzione umana di queste risorse. Ed è compito dei Governi stabilire schemi fiscali e redistributivi affinché la ricchezza di una parte sia condivisa con equità, senza che questo presupponga un peso insopportabile, soprattutto per la classe media – generalmente, quando ci sono questi conflitti, è quella che soffre di più –. Non dimentichiamo che le grandi fortune di oggi sono frutto del lavoro, della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnica di migliaia di uomini e donne nel corso di generazioni.

La riduzione della giornata lavorativa è un’altra possibilità. Il reddito minimo è una possibilità, l’altra è la riduzione della giornata lavorativa. E occorre analizzarla seriamente. Nel XIX secolo gli operai lavoravano dodici, quattordici, sedici ore al giorno. Quando conquistarono la giornata di otto ore non collassò nulla, come invece alcuni settori avevano previsto. Allora – insisto – lavorare meno affinché più gente abbia accesso al mercato del lavoro è un aspetto che dobbiamo esplorare con una certa urgenza. Non ci possono essere tante persone che soffrono per l’eccesso di lavoro e tante altre che soffrono per la mancanza di lavoro.

Ritengo che siano misure necessarie, ma naturalmente non sufficienti. Non risolvono il problema di fondo, e non garantiscono neppure l’accesso alla terra, alla casa e al lavoro nella quantità e qualità che i contadini senza terra, le famiglie senza una casa sicura e i lavoratori precari meritano. Non risolveranno nemmeno le enormi sfide ambientali che abbiamo davanti. Ma ho voluto menzionarle perché sono misure possibili e segnerebbero un positivo cambiamento di direzione.

È bene sapere che in questo non siamo soli. Le Nazioni Unite hanno cercato di stabilire alcune mete attraverso i cosiddetti Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (OSS), ma purtroppo non conosciute dai nostri popoli e dalle periferie; e questo ci ricorda l’importanza di condividere e di coinvolgere tutti in questa ricerca comune.
[segue]

Videomessaggio di Papa Francesco in occasione del IV Incontro Mondiale dei Movimenti Popolari (EMMP)

2e44801c-9d6f-4f46-9c5d-23d539e3626e“(…) mettere l’economia al servizio dei popoli per costruire una pace duratura fondata sulla giustizia sociale e sulla cura della Casa comune”.
Videomessaggio del Santo Padre in occasione del IV Incontro Mondiale dei Movimenti Popolari (EMMP), 16.10.2021
[B0669]

Originale in lingua spagnola, segue la traduzione in lingua italiana

Pubblichiamo di seguito il testo del Videomessaggio che il Santo Padre Francesco ha inviato ai partecipanti alla seconda Sessione del IV Incontro Mondiale dei Movimenti Popolari (EMMP), che si è svolta sabato 16 ottobre online:

Videomessaggio del Santo Padre

Hermanas, hermanos, queridos poetas sociales:

1. Queridos Poetas Sociales

Así me gusta llamarlos, poetas sociales, porque ustedes son poetas sociales, porque tienen la capacidad y el coraje de crear esperanza allí donde sólo aparece descarte y exclusión. Poesía quiere decir creatividad, y ustedes crean esperanza; con sus manos saben forjar la dignidad de cada uno, la de sus familias y la de la sociedad toda con tierra, techo y trabajo, cuidado, comunidad. Gracias porque la entrega de ustedes es palabra con autoridad capaz de desmentir las postergaciones silenciosas y tantas veces educadas a las que fueron sometidos —o a las que son sometidos tantos hermanos nuestros—. Pero al pensar en ustedes creo que, principalmente, su dedicación es un anuncio de esperanza. Verlos a ustedes me recuerda que no estamos condenados a repetir ni a construir un futuro basado en la exclusión y la desigualdad, el descarte o la indiferencia; donde la cultura del privilegio sea un poder invisible e insuprimible y la explotación y el abuso sea como un método habitual de sobrevivencia. ¡No! Eso ustedes lo saben anunciar muy bien. Gracias.

Gracias por el vídeo que recién compartimos. He leído las reflexiones del encuentro, el testimonio de lo que vivieron en estos tiempos de tribulación y angustia, la síntesis de sus propuestas y sus anhelos. Gracias. Gracias por hacerme parte del proceso histórico que están transitando y gracias por compartir conmigo este diálogo fraterno que busca ver lo grande en lo pequeño y lo pequeño en lo grande, un diálogo que nace en las periferias, un diálogo que llega a Roma y en el que todos podemos sentirnos invitados e interpelados. «Para encontrarnos y ayudar mutuamente necesitamos dialogar» (FT 198), ¡y cuánto!

Ustedes sintieron que la situación actual ameritaba un nuevo encuentro. Sentí lo mismo. Aunque nunca perdimos el contacto —y ya pasaron seis años, creo, del último encuentro, el encuentro general—. Durante este tiempo pasaron muchas cosas; muchas cosas han cambiado. Son cambios que marcan puntos de no retorno, puntos de inflexión, encrucijadas en las que la humanidad debe elegir. Se necesitan nuevos momentos de encuentro, discernimiento y acción conjunta. Cada persona, cada organización, cada país y el mundo entero necesita buscar estos momentos para reflexionar, discernir y elegir, porque retornar a los esquemas anteriores sería verdaderamente suicida, y si me permiten forzar un poco las palabras, ecocida y genocida. Estoy forzando, ¡eh!

En estos meses muchas cosas que ustedes denunciaban quedaron en total evidencia. La pandemia transparentó las desigualdades sociales que azotan a nuestros pueblos y expuso —sin pedir permiso ni perdón— la desgarradora situación de tantos hermanos y hermanas, esa situación que tantos mecanismos de post-verdad no pudieron ocultar.

Muchas cosas que dábamos por supuestas se cayeron como un castillo de naipes. Experimentamos cómo, de un día para otro, nuestro modo de vivir puede cambiar drásticamente impidiéndonos, por ejemplo, ver a nuestros familiares, compañeros y amigos. En muchos países los Estados reaccionaron. Escucharon a la ciencia y lograron poner límites para garantizar el bien común y frenaron al menos por un tiempo ese “mecanismo gigantesco” que opera en forma casi automática donde los pueblos y las personas son simples piezas (cf. S. Juan Pablo II, Carta enc. Sollicitudo rei socialis, 22).

Todos hemos sufrido el dolor del encierro, pero a ustedes, como siempre, les tocó la peor parte: en los barrios que carecen de infraestructura básica (en los que viven muchos de ustedes y cientos y cientos y millones de personas) es difícil quedarse en casa, no sólo por no contar con todo lo necesario para llevar adelante las mínimas medidas de cuidado y protección, sino simplemente porque la casa es el barrio. Los migrantes, los indocumentados, los trabajadores informales sin ingresos fijos se vieron privados, en muchos casos, de cualquier ayuda estatal e impedidos de realizar sus tareas habituales agravando su ya lacerante pobreza. Una de las expresiones de esta cultura de la indiferencia es que pareciera que este tercio sufriente de nuestro mundo no reviste interés suficiente para los grandes medios y los formadores de opinión, no aparece. Permanece escondido, acurrucado.

Quiero referirme también a una pandemia silenciosa que desde hace años afecta a niños, adolescentes y jóvenes de todas las clases sociales; y creo que, durante este tiempo de aislamiento, se incrementó aún más. Se trata del estrés y la ansiedad crónica, vinculada a distintos factores como la hiperconectividad, el desconcierto y la falta de perspectivas de futuro que se agrava ante el contacto real con los otros —familias, escuelas, centros deportivos, oratorios, parroquias—; en definitiva, la falta de contacto real con los amigos, porque la amistad es la forma en que el amor resurge siempre.

Es evidente que la tecnología puede ser un instrumento de bien, y es un instrumento de bien que permite diálogos como éste y tantas otras cosas, pero nunca puede suplantar el contacto entre nosotros, nunca puede suplantar una comunidad en la cual enraizarnos y hacer que nuestra vida se vuelva fecunda.

Y si de pandemia se trata, no podemos dejar de cuestionarnos por el flagelo de la crisis alimentaria. Pese a los avances de la biotecnología millones de personas fueron privadas de alimentos, aunque estos estén disponibles. Este año, 20 millones de personas más se han visto arrastradas a niveles extremos de inseguridad alimentaria, ascendiendo a [muchos] millones de personas; la indigencia grave se multiplicó, el precio de los alimentos escaló un altísimo porcentaje. Los números del hambre son horrorosos, y pienso, por ejemplo, en países como Siria, Haití, Congo, Senegal, Yemen, Sudán del Sur pero el hambre también se hace sentir en muchos otros países del mundo pobre y, no pocas veces, también en el mundo rico. Es posible que las muertes por año por causas vinculadas al hambre puedan superar a las del COVID.[1] Pero eso no es noticia, eso no genera empatía.

Quiero agradecerles porque ustedes sintieron como propio el dolor de los otros. Ustedes saben mostrar el rostro de la verdadera humanidad, esa que no se construye dando la espalda al sufrimiento del que está al lado sino en el reconocimiento paciente, comprometido y muchas veces hasta doloroso de que el otro es mi hermano (cf. Lc 10,25-37) y que sus dolores, sus alegrías y sus sufrimientos son también los míos (cf. GS 1). Ignorar al que está caído es ignorar nuestra propia humanidad que clama en cada hermano nuestro.

Cristianos o no, han respondido a Jesús, que dijo a sus discípulos frente al pueblo hambriento: «Denles ustedes de comer» (Mt 14,16). Y donde había escasez, el milagro de la multiplicación se repitió en ustedes que lucharon incansablemente para que a nadie le faltase el pan (cf. Mt 14,13-21). ¡Gracias!

Al igual que los médicos, enfermeros y el personal de salud en las trincheras sanitarias, ustedes pusieron su cuerpo en la trinchera de los barrios marginados. Tengo presente muchos, entre comillas, “mártires” de esa solidaridad sobre quienes supe por medio de muchos de ustedes. El Señor se los tendrá en cuenta.

Si todos los que por amor lucharon juntos contra la pandemia pudieran también soñar juntos un mundo nuevo, ¡qué distinto sería todo! Soñar juntos.

2. Bienaventurados

Ustedes son, como les dije en la carta que les envié el año pasado,[2] un verdadero ejército invisible, son parte fundamental de esa humanidad que lucha por la vida frente a un sistema de muerte. En esa entrega veo al Señor que se hace presente en medio nuestro para regalarnos su Reino. Jesús, cuando nos ofreció el protocolo con el cual seremos juzgados —Mateo 25—, nos dijo que la salvación estaba en cuidar de los hambrientos, los enfermos, los presos, los extranjeros, en definitiva, en reconocerlo y servirlo a Él en toda la humanidad sufriente. Por eso me animo a decirles: «Felices los que tienen hambre y sed de justicia porque serán saciados» (Mt 5,6), «felices los que trabajan por la paz, porque serán llamados hijos de Dios» (Mt 5,9).

Queremos que esa bienaventuranza se extienda, permee y unja cada rincón y cada espacio donde la vida se vea amenazada. Pero nos sucede, como pueblo, como comunidad, como familia e inclusive individualmente, tener que enfrentar situaciones que nos paralizan, donde el horizonte desaparece y el desconcierto, el temor, la impotencia y la injusticia parece que se apoderan del presente. Experimentamos también resistencias a los cambios que necesitamos y que anhelamos, resistencias que son profundas, enraizadas, que van más allá de nuestras fuerzas y decisiones. Esto es lo que la Doctrina social de la Iglesia llamó “estructuras de pecado”, que estamos llamados también nosotros a convertir y que no podemos ignorar a la hora de pensar el modo de accionar. El cambio personal es necesario, pero es imprescindible también ajustar nuestros modelos socio-económicos para que tengan rostro humano, porque tantos modelos lo han perdido. Y pensando en estas situaciones, me vuelvo pedigüeño. Y paso a pedir. A pedir a todos. Y a todos quiero pedirles en nombre de Dios.

A los grandes laboratorios, que liberen las patentes. Tengan un gesto de humanidad y permitan que cada país, cada pueblo, cada ser humano tenga acceso a las vacunas. Hay países donde sólo tres, cuatro por ciento de sus habitantes fueron vacunados.

Quiero pedirles en nombre de Dios a los grupos financieros y organismos internacionales de crédito que permitan a los países pobres garantizar las necesidades básicas de su gente y condonen esas deudas tantas veces contraídas contra los intereses de esos mismos pueblos.

Quiero pedirles en nombre de Dios a las grandes corporaciones extractivas —mineras, petroleras—, forestales, inmobiliarias, agro negocios, que dejen de destruir los bosques, humedales y montañas, dejen de contaminar los ríos y los mares, dejen de intoxicar los pueblos y los alimentos.

Quiero pedirles en nombre de Dios a las grandes corporaciones alimentarias que dejen de imponer estructuras monopólicas de producción y distribución que inflan los precios y terminan quedándose con el pan del hambriento.

Quiero pedirles en nombre de Dios a los fabricantes y traficantes de armas que cesen totalmente su actividad, una actividad que fomenta la violencia y la guerra, y muchas veces en el marco de juegos geopolíticos que cuestan millones de vidas y de desplazamientos.

Quiero pedirles en nombre de Dios a los gigantes de la tecnología que dejen de explotar la fragilidad humana, las vulnerabilidades de las personas, para obtener ganancias, sin considerar cómo aumentan los discursos de odio, el grooming, las fake news, las teorías conspirativas, la manipulación política.

Quiero pedirles en nombre de Dios a los gigantes de las telecomunicaciones que liberen el acceso a los contenidos educativos y el intercambio con los maestros por internet para que los niños pobres también puedan educarse en contextos de cuarentena.

Quiero pedirles en nombre de Dios a los medios de comunicación que terminen con la lógica de la post-verdad, la desinformación, la difamación, la calumnia y esa fascinación enfermiza por el escándalo y lo sucio, que busquen contribuir a la fraternidad humana y a la empatía con los más vulnerados.

Quiero pedirles en nombre de Dios a los países poderosos que cesen las agresiones, bloqueos, sanciones unilaterales contra cualquier país en cualquier lugar de la tierra. No al neocolonialismo. Los conflictos deben resolverse en instancias multilaterales como las Naciones Unidas. Ya hemos visto cómo terminan las intervenciones, invasiones y ocupaciones unilaterales; aunque se hagan bajo los más nobles motivos o ropajes.

Este sistema con su lógica implacable de la ganancia está escapando a todo dominio humano. Es hora de frenar la locomotora, una locomotora descontrolada que nos está llevando al abismo. Todavía estamos a tiempo.

A los gobiernos en general, a los políticos de todos los partidos quiero pedirles, junto a los pobres de la tierra, que representen a sus pueblos y trabajen por el bien común. Quiero pedirles el coraje de mirar a sus pueblos, mirar a los ojos de la gente, y la valentía de saber que el bien de un pueblo es mucho más que un consenso entre las partes (cf. Exhort. ap. Evangelii gaudium, 218); cuídense de escuchar solamente a las elites económicas tantas veces portavoces de ideologías superficiales que eluden los verdaderos dilemas de la humanidad. Sean servidores de los pueblos que claman por tierra, techo, trabajo y una vida buena. Ese “buen vivir” aborigen que no es lo mismo que la “dolce vita” o el “dolce far niente”, no. Ese buen vivir humano que nos pone en armonía con toda la humanidad, con toda la creación.

Quiero pedir también a todos los líderes religiosos que nunca usemos el nombre de Dios para fomentar guerras ni golpes de Estado. Estemos junto a los pueblos, a los trabajadores, a los humildes y luchemos junto a ellos para que el desarrollo humano integral sea una realidad. Tendamos puentes de amor para que la voz de la periferia con sus llantos, pero también con su canto y también con su alegría, no provoque miedo sino empatía en el resto de la sociedad.

Y así soy pedigüeño.

Es necesario que juntos enfrentemos los discursos populistas de intolerancia, xenofobia, aporofobia —que es el odio a los pobres—, como todos aquellos que nos lleve a la indiferencia, la meritocracia y el individualismo; estas narrativas sólo sirvieron para dividir nuestros pueblos y minar y neutralizar nuestra capacidad poética, la capacidad de soñar juntos.

3. Soñemos juntos

Hermanas y hermanos, soñemos juntos. Y así, como pido esto con ustedes, junto a ustedes, quiero también trasmitirles algunas reflexiones sobre el futuro que debemos construir y soñar. Dije reflexiones, pero tal vez cabría decir sueños, porque en este momento no alcanza el cerebro y las manos, necesitamos también el corazón y la imaginación: necesitamos soñar para no volver atrás. Necesitamos utilizar esa facultad tan excelsa del ser humano que es la imaginación, ese lugar donde la inteligencia, la intuición, la experiencia, la memoria histórica se encuentran para crear, componer, aventurar y arriesgar. Soñemos juntos, porque fueron precisamente los sueños de libertad e igualdad, de justicia y dignidad, los sueños de fraternidad los que mejoraron el mundo. Y estoy convencido de que en esos sueños se va colando el sueño de Dios para todos nosotros, que somos sus hijos.

Soñemos juntos, sueñen entre ustedes, sueñen con otros. Sepan que están llamados a participar en los grandes procesos de cambio, como les dije en Bolivia: «El futuro de la humanidad está, en gran medida, en sus manos, en su capacidad de organizarse, de promover alternativas creativas» (Discurso a los movimientos populares, Santa Cruz de la Sierra, 9 julio 2015). Está en sus manos.

“Pero esas son cosas inalcanzables”, dirá alguno. Sí. Pero tienen la capacidad de ponernos en movimiento, de ponernos en camino. Y ahí reside precisamente toda la fuerza de ustedes, todo el valor de ustedes. Porque son capaces de ir más allá de miopes autojustificaciones y convencionalismos humanos que lo único que logran es seguir justificando las cosas como están. Sueñen. Sueñen juntos. No caigan en esa resignación dura y perdedora… El tango lo expresa tan bien: “Dale que va, que todo es igual. Que allá en el horno se vamo a encontrar”. No, no, no caigan en eso por favor. Los sueños son siempre peligrosos para aquellos que defienden el statu quo porque cuestionan la parálisis que el egoísmo del fuerte o el conformismo del débil quieren imponer. Y aquí hay como un pacto no hecho, pero es inconsciente: el egoísmo del fuerte con el conformismo del débil. Esto no puede funcionar así. Los sueños desbordan los límites estrechos que se nos imponen y nos proponen nuevos mundos posibles. Y no estoy hablando de ensoñaciones rastreras que confunden el vivir bien con pasarla bien, que no es más que un pasar el rato para llenar el vacío de sentido y así quedar a merced de la primera ideología de turno. No, no es eso, sino soñar, para ese buen vivir en armonía con toda la humanidad y con la creación.

Pero, ¿cuál es uno de los peligros más grandes que enfrentamos hoy? A lo largo de mi vida —no tengo quince años, o sea, cierta experiencia tengo—, pude darme cuenta de que de una crisis nunca se sale igual. De esta crisis de la pandemia no vamos a salir igual: o se sale mejor o se sale peor, igual que antes, no. Pero nunca saldremos igual. Y hoy día tenemos que enfrentar juntos, siempre juntos, esta cuestión: ¿Cómo saldremos de estas crisis? ¿Mejores o peores? Queremos salir ciertamente mejores, pero para eso debemos romper las ataduras de lo fácil y la aceptación dócil de que no hay otra alternativa, de que “éste es el único sistema posible”, esa resignación que nos anula, de que sólo podemos refugiarnos en el “sálvese quien pueda”. Y para eso hace falta soñar. Me preocupa que mientras estamos todavía paralizados, ya hay proyectos en marcha para rearmar la misma estructura socioeconómica que teníamos antes, porque es más fácil. Elijamos el camino difícil, salgamos mejor.

En Fratelli tutti utilicé la parábola del Buen Samaritano como la representación más clara de esta opción comprometida en el Evangelio. Me decía un amigo que la figura del Buen Samaritano está asociada por cierta industria cultural a un personaje medio tonto. Es la distorsión que provoca el hedonismo depresivo con el que se pretende neutralizar la fuerza transformadora de los pueblos y en especial de la juventud.

¿Saben lo que me viene a la mente a mí ahora, junto a los movimientos populares, cuando pienso en el Buen Samaritano? ¿Saben lo que me viene a la mente? Las protestas por la muerte de George Floyd. Está claro que este tipo de reacciones contra la injusticia social, racial o machista pueden ser manipuladas o instrumentadas para maquinaciones políticas y cosas por el estilo; pero lo esencial es que ahí, en esa manifestación contra esa muerte, estaba el “samaritano colectivo” —¡que no era ningún bobeta!—. Ese movimiento no pasó de largo cuando vio la herida de la dignidad humana golpeada por semejante abuso de poder. Los movimientos populares son, además de poetas sociales, “samaritanos colectivos”.

En estos procesos hay tantos jóvenes que yo siento esperanza…; pero hay muchos otros jóvenes que están tristes, que tal vez para sentir algo en este mundo necesitan recurrir a las consolaciones baratas que ofrece el sistema consumista y narcotizante. Y otros, es triste, pero otros optan por salir del sistema. Las estadísticas de suicidios juveniles no se publican en su total realidad. Lo que ustedes realizan es muy importante, pero también es importante que logren contagiar a las generaciones presentes y futuras lo mismo que a ustedes les hace arder el corazón. Tienen en esto un doble trabajo o responsabilidad. Seguir atentos, como el buen Samaritano, a todos aquellos que están golpeados por el camino pero, a su vez, buscar que muchos más se sumen en este sentir: los pobres y oprimidos de la tierra se lo merecen, nuestra casa común nos lo reclama.

Quiero ofrecer algunas pistas. La Doctrina social de la Iglesia no tiene todas las respuestas, pero sí algunos principios que pueden ayudar a este camino a concretizar las respuestas y ayudar tanto a los cristianos como a los no cristianos. A veces me sorprende que cada vez que hablo de estos principios algunos se admiran y entonces el Papa viene catalogado con una serie de epítetos que se utilizan para reducir cualquier reflexión a la mera adjetivación degradatoria. No me enoja, me entristece. Es parte de la trama de la post-verdad que busca anular cualquier búsqueda humanista alternativa a la globalización capitalista, es parte de la cultura del descarte y es parte del paradigma tecnocrático.

Los principios que expongo son mesurados, humanos, cristianos, compilados en el Compendio elaborado por el entonces Pontificio Consejo “Justicia y Paz”.[3] Es un manualito de la Doctrina social de la Iglesia. Y a veces cuando los Papas, sea yo, o Benedicto, o Juan Pablo II decimos alguna cosa, hay gente que se extraña, ¿de dónde saca esto? Es la doctrina tradicional de la Iglesia. Hay mucha ignorancia en esto. Los principios que expongo, están en ese libro, en el capítulo cuarto. Quiero aclarar una cosa, están compilados en este Compendio y este Compendio fue encargado por san Juan Pablo ll. Les recomiendo a ustedes y a todos los líderes sociales, sindicales, religiosos, políticos y empresarios que lo lean.

En el capítulo cuarto de este documento encontramos principios como la opción preferencial por los pobres, el destino universal de los bienes, la solidaridad, la subsidiariedad, la participación, el bien común, que son mediaciones concretas para plasmar a nivel social y cultural la Buena Noticia del Evangelio. Y me entristece cuando algunos hermanos de la Iglesia se incomodan si recordamos estas orientaciones que pertenecen a toda la tradición de la Iglesia. Pero el Papa no puede dejar de recordar esta doctrina, aunque muchas veces le moleste a la gente, porque lo que está en juego no es el Papa sino el Evangelio.

Y en este contexto, quisiera rescatar brevemente algunos principios con los que contamos para llevar adelante nuestra misión. Mencionaré dos o tres, no más. Uno es el principio de solidaridad. La solidaridad no sólo como virtud moral sino como un principio social, principio que busca enfrentar los sistemas injustos con el objetivo de construir una cultura de la solidaridad que exprese —literalmente dice el Compendio— «una determinación firme y perseverante de empeñarse por el bien común» (n. 193).

Otro principio es estimular y promover la participación y la subsidiariedad entre movimientos y entre los pueblos capaz de limitar cualquier esquema autoritario, cualquier colectivismo forzado o cualquier esquema estado céntrico. El bien común no puede utilizarse como excusa para aplastar la iniciativa privada, la identidad local o los proyectos comunitarios. Por eso, estos principios promueven una economía y una política que reconozca el rol de los movimientos populares, «la familia, los grupos, las asociaciones, las realidades territoriales locales; en definitiva, aquellas expresiones agregativas de tipo económico, social, cultural, deportivo, recreativo, profesional y político, a las que las personas dan vida espontáneamente y que hacen posible su efectivo crecimiento social». Esto en el número 185 del Compendio.

Como ven, queridos hermanos, queridas hermanas, son principios equilibrados y bien establecidos en la Doctrina social de la Iglesia. Con estos dos principios creo que podemos dar el próximo paso del sueño a la acción. Porque es tiempo de actuar.

4. Tiempo de actuar

Muchas veces me dicen: “Padre, estamos de acuerdo, pero, en concreto, ¿qué debemos hacer?”. Yo no tengo la respuesta, por eso debemos soñar juntos y encontrarla entre todos. Sin embargo, hay medidas concretas que tal vez permitan algunos cambios significativos. Son medidas que están presentes en vuestros documentos, en vuestras intervenciones y que yo he tomado muy en cuenta, sobre las que medité y consulté a especialistas. En encuentros pasados hablamos de la integración urbana, la agricultura familiar, la economía popular. A estas, que todavía exigen seguir trabajando juntos para concretarlas, me gustaría sumarle dos más: el salario universal y la reducción de la jornada de trabajo.

Un ingreso básico (el IBU) o salario universal para que cada persona en este mundo pueda acceder a los más elementales bienes de la vida. Es justo luchar por una distribución humana de estos recursos. Y es tarea de los Gobiernos establecer esquemas fiscales y redistributivos para que la riqueza de una parte sea compartida con la equidad sin que esto suponga un peso insoportable, principalmente para la clase media —generalmente, cuando hay estos conflictos, es la que más sufre—. No olvidemos que las grandes fortunas de hoy son fruto del trabajo, la investigación científica y la innovación técnica de miles de hombres y mujeres a lo largo de generaciones.

La reducción de la jornada laboral es otra posibilidad, el ingreso básico uno, es una posibilidad, la otra es la reducción de la jornada laboral. Y hay que analizarla seriamente. En el siglo XIX los obreros trabajaban doce, catorce, dieciséis horas por día. Cuando conquistaron la jornada de ocho horas no colapsó nada como algunos sectores preveían. Entonces, insisto, trabajar menos para que más gente tenga acceso al mercado laboral es un aspecto que necesitamos explorar con cierta urgencia. No puede haber tantas personas agobiadas por el exceso de trabajo y tantas otras agobiadas por la falta de trabajo.

Considero que son medidas necesarias, pero desde luego no suficientes. No resuelven el problema de fondo, tampoco garantizan el acceso a la tierra, techo y trabajo en la cantidad y calidad que los campesinos sin tierras, las familias sin un techo seguro y los trabajadores precarios merecen. Tampoco van a resolver los enormes desafíos ambientales que tenemos por delante. Pero quería mencionarlas porque son medidas posibles y marcarían un cambio positivo de orientación.

Es bueno saber que en esto no estamos solos. Las Naciones Unidas intentaron establecer algunas metas a través de los llamados Objetivos de Desarrollo Sostenible (ODS), pero lamentablemente desconocidas por nuestros pueblos y las periferias; lo que nos recuerda la importancia de compartir y comprometer a todos en esta búsqueda común.

Hermanas y hermanos, estoy convencido de que el mundo se ve más claro desde las periferias. Hay que escuchar a las periferias, abrirle las puertas y permitirles participar. El sufrimiento del mundo se entiende mejor junto a los que sufren. En mi experiencia, cuando las personas, hombres y mujeres que han sufrido en carne propia la injusticia, la desigualdad, el abuso de poder, las privaciones, la xenofobia, en mi experiencia veo que comprenden mucho mejor lo que viven los demás y son capaces de ayudarlos a abrir, realísticamente, caminos de esperanza. Qué importante es que vuestra voz sea escuchada, representada en todos los lugares de toma de decisión. Ofrecerla como colaboración, ofrecerla como una certeza moral de lo que hay que hacer. Esfuércense para hacer sentir su voz y también en esos lugares, por favor, no se dejen encorsetar ni se dejen corromper. Dos palabras que tienen un significado muy grande, que yo no voy a hablar ahora.

Reafirmemos el compromiso que tomamos en Bolivia: poner la economía al servicio de los pueblos para construir una paz duradera fundada en la justicia social y el cuidado de la Casa común. Sigan impulsando su agenda de tierra, techo y trabajo. Sigan soñando juntos. Y gracias, gracias en serio, por dejarme soñar con ustedes.

Pidámosle a Dios que derrame su bendición sobre nuestros sueños. No perdamos las esperanzas. Recordemos la promesa que Jesús hizo a sus discípulos: “siempre estaré con ustedes” (cf. Mt 28,20); y recordándola, en este momento de mi vida, quiero decirles también que yo voy a estar con ustedes. También lo importante es que se den cuenta de que está Él con ustedes. Gracias.

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[1] “El virus del hambre se multiplica”, Informe de Oxfam del 9 de julio de 2021, en base al Global Report on Food Crises (GRFC) del Programa Mundial de Alimentos de las Naciones Unidas.
[2] Carta a los movimientos populares, 12 abril 2020.
[3] Dicasterio para el Servicio del Desarrollo Humano Integral, Compendio de la Doctrina Social de la Iglesia, 2004.

[01413-ES.01] [Texto original: https://movpop.org/wp-content/uploads/2021/07/IT-Comunicato-stampa-2-IV-IMMP.pdf
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Traduzione in lingua italiana

Sorelle, fratelli, cari poeti sociali!

1. Cari poeti sociali

Così mi piace chiamarvi, “poeti sociali”. Perché voi siete poeti sociali, in quanto avete la capacità e il coraggio di creare speranza laddove appaiono solo scarto ed esclusione. Poesia vuol dire creatività, e voi create speranza. Con le vostre mani sapete forgiare la dignità di ciascuno, quella delle famiglie e quella dell’intera società con la terra, la casa e il lavoro, la cura e la comunità. Grazie perché la vostra dedizione è parola autorevole, capace di smentire i rinvii silenziosi e tante volte “educati” a cui siete stati sottoposti, o a cui sono sottoposti tanti nostri fratelli. Ma pensando a voi credo che la vostra dedizione sia principalmente un annuncio di speranza. Vedervi mi ricorda che non siamo condannati a ripetere né a costruire un futuro basato sull’esclusione e la disuguaglianza, sullo scarto o sull’indifferenza; dove la cultura del privilegio sia un potere invisibile e insopprimibile e lo sfruttamento e l’abuso siano come un metodo abituale di sopravvivenza. No! Questo voi lo sapete annunciare molto bene. Grazie.
[segue]

Oggi&Domani Che fare? “Se ne esce solo con più scienza e non con un improbabile ritorno al passato”. Ce lo dice un Nobel

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La percezione della scienza nella società: intervista a Giorgio Parisi, nobel per la fisica
Alberto Silvani

Sbilanciamoci! 5 Ottobre 2021 | Sezione: Alter, Nella rete
“La scienza era associata alla garanzia di un futuro migliore. Ora non è più così, anzi spesse volte alla scienza vengono addebitate colpe e responsabilità. Se ne esce solo con più scienza e non con un improbabile ritorno al passato”. Intervista al premio Nobel per la Fisica Giorgio Parisi da Articolo33.

È passato un po’ di tempo da quando, a fine maggio il Senato ha approvato un Disegno di legge sull’Agricoltura biologica, col solo voto contrario della Sen. Elena Cattaneo, che ha equiparato – in un passaggio del testo – l’agricoltura biologica con quella biodinamica, caratterizzata da pratiche e codici di comportamento ascientifici. La questione ci fornisce lo spunto, ripresa con la giusta distanza temporale, per sviluppare alcune riflessioni sul ruolo della scienza, sul processo di avanzamento scientifico, sul rapporto tra scienza e società.

Il primo interlocutore a cui ci rivolgiamo è il Prof. Giorgio Parisi, eminente fisico della Sapienza di cui è appena terminato il mandato di Presidente dell’Accademia Nazionale dei Lincei*.

Il Prof. Parisi ha ricevuto il 5 ottobre 2021, il premio nobel per la fisica. Premiato per le sue ricerche sui sistemi complessi insieme agli studiosi del clima Syukuro Manabe e Klaus Hasselmann. Era dal 1984 con Carlo Rubbia che l’Italia non vinceva un Nobel per la fisica.

Parisi ha sempre associato l’eccellenza scientifica con la capacità di intervenire sulle problematiche della politica scientifica e non solo, come è avvenuto anche nell’ultimo anno e mezzo di pandemia. Pubblichiamo una sua intervista rilasciata per noi da Alberto Silvani.

Cosa si dovrebbe fare per aumentare la percezione del ruolo della scienza nella società e, su questa base, motivare le scelte in suo favore, approfittando del rinnovato interesse da parte dell’opinione pubblica?

La comunità scientifica tende a comunicare poco con la società perché in fondo non crede che questo sia il suo mestiere. Ciò viene confermato da come viene realizzata questa comunicazione, come abbiamo visto in questi mesi di sovraesposizione mediatica. Bisogna formare figure professionali di “comunicatori” ma anche intervenire sulla capacità di trasferire la metodologia scientifica anziché limitarsi ad accendere l’interesse sul singolo risultato. Il processo scientifico porta a realizzare un consenso a partire da ipotesi diverse, a volte contrapposte. La scienza lavora così, per avanzamenti successivi, e questo richiede tempo anche perché il processo presuppone la peer review dei diversi contributi. Il vero successo del singolo contributo dipende sia dalla rivista su cui è pubblicato ma, soprattutto, da come reagiscono i lettori, da come fanno proprio il contenuto e da come danno seguito, nel proprio lavoro e nelle citazioni, a quanto l’articolo vuole comunicare.

La sanità costituisce una realtà specifica, evidenziata dall’esperienza della pandemia. In cosa si caratterizza?

La sanità richiede “sicurezza” circa la rilevanza e il significato dei risultati e, soprattutto, una consapevolezza del rapporto tra i benefici e i rischi, in particolare sugli effetti che si generano, non necessariamente limitati a quelli auspicati o aspettati. Potrei citare vari esempi, anche come testimonianza diretta…senza dimenticare che esistono interessi che ne condizionano le scelte. Ogni risultato deve essere sempre sottoposto a commenti e validazioni che presuppongono procedure, gruppi di controllo e numerosità statisticamente significative.

La sanità è stata associata, in particolare in questo periodo, al grande tema delle fake news. Perchè il metodo scientifico non basta per sconfiggere le fake news? Che fare?

In alcuni casi vanno anche contro il senso comune: bisogna, ovviamente, smascherare le falsità. Le fake news si propagano perché spesse volte confermano le opinioni che avevano già le persone. Ad esempio il caso dei vaccini è emblematico in tal senso perché, pur di evitare il vaccino, si ipotizza l’esistenza di cure e terapie domiciliari ma non comunicate. Curare la comunicazione, e non è un gioco di parole, richiede che i comunicatori siano in grado di non attirare su di sé pregiudizi negativi che ostacolino la comprensione e la credibilità del messaggio che si vuole fornire. Non basta cioè dire le cose corrette se non si è in grado di costruire il messaggio e di veicolarlo nel modo giusto, potendo utilizzare le competenze e i contributi a supporto. Le trasmissioni televisive in particolare soffrono di due problemi: una certa tendenza a favorire gli scontri e le contrapposizioni (che fanno audience) e i tempi stretti che impediscono lo sviluppo di ragionamenti compiuti e articolati. Faccio una modesta proposta: prevedere l’obbligo di un incontro precedente alla formale messa in onda per consentire un confronto approfondito e preventivo in modo da realizzare poi, anche nei tempi ristretti delle trasmissioni, la focalizzazione delle questioni e delle opinioni.

Più conoscenza e più formazione hanno rappresentato da sempre gli obiettivi per realizzare una società più giusta e più equilibrata, indirizzata al futuro piuttosto che condizionata dal passato. La tecnologia ha spesso fornito il supporto per rendere praticabili questi obiettivi. Bisogna aggiornare la formula? Aggiungere elementi?

Uno dei problemi seri derivava dal fatto che la scienza era associata alla garanzia di un futuro migliore. Ora non è più così, anzi spesse volte alla scienza vengono addebitate colpe e responsabilità. Se ne esce solo con più scienza e non con un improbabile ritorno al passato. Ma questo non è ben percepito. La tecnologia, come applicazione della scienza, risente di avanzamenti scientifici non pensati in una mera prospettiva tecnologica. La gran parte della popolazione coglie (e usa) la tecnologia senza interrogarsi quanta e quale scienza ci sia dietro. Dai transistor, alla crittografia dei messaggi o ai led ad alta potenza.

Quanta è democratica la scienza? Qual è la tua opinione in proposito? In che misura l’opinione pubblica condiziona l’avanzamento della scienza?

La scienza deve fare i conti con le risorse. Se queste sono scarse, finiscono per condizionare le scelte, se non altro perché bisogna convincere i cittadini/elettori/contribuenti che i soldi sono ben spesi. E la ricerca non è democratica non perché “non si può votare”, ma perché richiede che ci sia un riconoscimento reciproco che deriva da un bagaglio conoscitivo condiviso anche se non necessariamente convergente.

Questo però implica un rischio di conservazione ovvero di ostacolo e freno al nuovo, già a partire dalle valutazioni di peer review.

Le nuove idee si affermano non perché si convincono gli oppositori ma perché i portatori di quelle precedenti muoiono, come diceva Planck. Per le idee estremamente nuove ci vuole tempo per il consenso.

Un’ultima domanda sul caso italiano e sul peculiare momento che stiamo vivendo. Conosciamo l’appello per le risorse, noto come Piano Amaldi, e la tua convinta adesione. Ma accanto alle risorse ci sono altre priorità concretamente spendibili nello scenario che si prospetta nei prossimi anni?

Ci sono tanti problemi. La ricerca è a macchia di leopardo: accanto ad eccellenze ci sono inefficienze. Alcuni poi hanno utilizzato la propria influenza come effettivo centro di potere, senza bilanciamenti adeguati. E questo ha dato luogo a scandali (certamente da non sottovalutare) ma quando va male si finisce sui giornali, quando va bene questo non ha visibilità. Da molti anni si cerca di realizzare un punto di riflessione con scienziati di ottimo livello in grado di costituire un interlocutore per le scelte governative ma anche quando un tale organo viene istituito non se ne tiene conto nell’operatività. La stessa Agenzia Nazionale, oltre a non essere decollata, richiede tempi lunghi e consensi politici. Ha senso solo se raccoglie risorse distribuite oggi in altre sedi, se resta “leggera” e se impiega il tutto in una logica competitiva e verso obiettivi chiari ed espliciti. Non che di ripensamenti organizzativi non ci sia bisogno ma questi hanno molto faticato a tenere insieme dichiarazioni e scelte e, soprattutto, a consolidarsi nel tempo.

Siamo ora in presenza della grande opportunità del PNRR ma questo non può essere l’unica scelta, se non altro perché tocca una parte dei problemi ed è a scadenza. L’importante è già porsi oggi il disegno complessivo ed accompagnare il sostegno delle risorse addizionali con nuove risorse “stabili”, ovvero a valere sul bilancio ordinario. Registro una nuova sensibilità su questi temi ma la conferma non può che essere a breve termine. La legge di bilancio del prossimo anno sarà una cartina di tornasole tra dichiarazioni, volontà e comportamenti.
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L’INTERVISTA SU ARTICOLO 33
05 OTTOBRE 2021
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NEWS CNR
gp-2A Giorgio Parisi il Wolf Prize per la Fisica 2021
10/02/2021 (2 ottobre 2021)
Giorgio Parisi
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Nobel per la fisica a Giorgio Parisi
Ott 2021
“L’assegnazione del premio Nobel al fisico Giorgio Parisi inorgoglisce tutta l’Italia e anche il Consiglio nazionale delle ricerche, con il quale il fisico ha sempre intrattenuto stretti rapporti di collaborazione proseguiti ancora di recente con le attività svolte in associatura al nostro Istituto Nanotec”, ha dichiarato Maria Chiara Carrozza, presidente del Cnr. “Oltre a compiacerci per questo straordinario risultato – che segue di poco quello del *Clarivate Citation Laureates 2021 che lo riconosce studioso più citato al mondo per le pubblicazioni scientifiche – *la nostra comunità scientifica lo ringrazia sentitamente per il contributo fondamentale nello studio dei sistemi complessi disordinati alla base di tante linee di ricerca del Cnr, dallo studio dei sistemi vetrosi, ai sistemi di lasing e trasmissione della luce in mezzi random, dalle reti neurali e IA, alle reti metaboliche e alla biofisica. Lamentiamo spesso, e purtroppo a ragione, le molte difficoltà nelle quali si dibatte la ricerca italiana, dalla scarsità di risorse umane e finanziarie alla burocratizzazione, ma questo premio è solo l’ultima e straordinaria conferma dell’eccellenza della ricerca scientifica italiana”.
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Il Nobel segue un altro prestigioso premio
Il fisico teorico Giorgio Parisi, attuale presidente dell’Accademia Nazionale dei Lincei, ricercatore dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e professore alla Sapienza Università di Roma, è stato insignito del prestigioso Wolf Prize per la Fisica 2021 “per le sue scoperte pionieristiche nella teoria quantistica dei campi, in meccanica statistica e nei sistemi complessi”.

Il riconoscimento, istituito dalla Fondazione Wolf di Israele nel 1978 per gli scienziati e gli artisti che hanno prodotto “risultati nell’interesse dell’umanità e relazioni amichevoli tra le persone, indipendentemente dalla nazionalità, razza, colore, religione, sesso o opinioni politiche”, è stato attribuito, in passato, a personalità come Giuseppe Occhialini, Bruno Rossi, Riccardo Giacconi, Leon Lederman, Roger Penrose, Stephen Hawking, Peter Higgs, per citare solo alcuni degli scienziati più noti.

“Sono estremamente contento ed onorato per aver ricevuto questo premio prestigioso non solo per essere stato inserito in una compagnia molto prestigiosa, nella quale ritrovo con molti amici, ma anche per essere stato messo in relazione diretta con Riccardo Wolf, persona che ammiro moltissimo per le sue capacità scientifiche e il grande impegno civile. Il merito di questo premio va anche a tantissimi collaboratori che ho avuto, con i quali ci siamo divertiti nel cercare di svelare quelli che una volta si chiamavano i “misteri della natura”, ha affermato lo studioso.

Laureato in fisica nel 1970 presso la Sapienza Università di Roma sotto la guida di Nicola Cabibbo, Giorgio Parisi collabora da molti anni con il Consiglio nazionale delle ricerche: è associato all’Istituto di nanotecnologia (Nanotec) e ha contribuito alla nascita e allo sviluppo, all’inizio del 2000, del centro “Statistical Mechanics and Complexity” dedicato allo studio di concetti come i sistemi disordinati, il caos e la complessità, poi confluito nell’Istituto dei sistemi complessi (Isc) del Cnr di Roma.

Nella sua lunga carriera scientifica, in parte svolta presso istituzioni estere come la Columbia University di New York (1973-1974), l’Institut des Hautes Etudes Scientifiques a Bures-sur-Yvettes (1976-1977), l’Ecole Normale Superieure di Parigi (1977-1978), Parisi ha dato contributi determinanti e ampiamente riconosciuti anche in altre aree della fisica: fisica delle particelle, meccanica statistica, fluidodinamica, materia condensata, supercomputer.

È stato vincitore di due advanced grant dell’ERC European Reasearch Council, nel 2010 e nel 2016, e ha ricevuto numerosi premi nazionali e internazionali, tra i quali la Medaglia Boltzmann della International Union of Pure and Applied Physics (1992), la Medaglia Max Planck (2011), la Medaglia Dirac per la fisica teorica (1999), il Nature Award Mentoring in Science (2013), l’High Energy and Particle Physics dell’EPS European Physical Society (2015).

È membro dell’Accademia dei Quaranta, dell’Académie des Sciences, dell’Accademia Nazionale delle Scienze degli Stati Uniti, dell’Accademia Europea, dell’Academia Europea e dell’American Philosophical Society, ed è autore di oltre seicento articoli e contributi a conferenze scientifiche e quattro libri
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Le immagini di Giorgio Parisi e la sua biografia sono tratte dal sito del CNR: https://www.cnr.it/it/news/10006/a-giorgio-parisi-il-wolf-prize-per-la-fisica-2021
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gp-titolo
Giorgio Parisi, un manifesto per la giustizia climatica
Il discorso. La critica del premio Nobel per la fisica alla Pre-Cop26 in Parlamento: “Governi inadeguati sulla crisi”. «il Pil non è una buona misura per economia e clima». E poi un nuovo appello per l’istruzione e la ricerca pubblica: “Dare ai bambini un’educazione scientifica a partire dalla scuola materna”
di Roberto Ciccarelli
il manifesto
EDIZIONE DEL 09.10.2021 – PUBBLICATO 8.10.2021, 23:59

Gino Strada

8927ef11-8367-4eab-857e-13ae8f9e24cf«Frequento luoghi di guerra»
13-08-2021 – di: Gino Strada
Su Volerelaluna

È morto Gino Strada, medico, fondatore di Emergency, da sempre impegnato, in Italia e nel mondo, sui temi dei diritti, della salute, dell’accoglienza e contro ogni guerra e uso delle armi. Molti anni fa gli chiesi un contributo per l’agenda di Magistratura democratica del 2006, dedicata al tema della legalità. Mi mandò uno scritto molto intenso per spiegare la sua difficoltà a parlare di diritto e di diritti in un contesto di conflitti e di guerre. La situazione, da allora, non è mutata, e credo che ripubblicare oggi le sue parole sia il modo migliore non solo per ricordarlo ma anche per tener dritta la barra contro chi ogni giorno parla di legalità e di diritti e, contemporaneamente, promuove guerre e discriminazione (l.p.)
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Frequento luoghi di guerra, e parlare di diritto in contesti di guerra mi pare, sinceramente, un ossimoro.

Non l’ho pensato da sempre. Appartiene alla mia preistoria una non breve stagione di collaborazioni con il Comitato Internazionale della Croce Rossa e per dovere d’ufficio, non foss’altro, mi sono trovato in qualche contiguità – non dirò confidenza – con le Convenzioni di Ginevra, con il «diritto umanitario». Seguo anche – con minor coinvolgimento, confesso – il gioco del calcio. E mi sono fatto l’idea che il rispetto delle regole non avvenga per qualche slancio di civiltà, sia pure una «civiltà del gioco». Il calciatore rispetta regolamenti e arbitri per la ragione che dopo questa partita ne seguirà un’altra; che fuori dal campo ci sono altri scopi e fini (anche molto materiali) desiderabili, che violando le regole si metterebbero a rischio. Ecco, questo mi pare d’aver capito: che la guerra mette in gioco tutto; talmente tutto che in gioco sono la vita e la morte; talmente tutto da non consentire nessuna certezza sulla disponibilità di un «dopo-partita» e di un «fuori campo».

Vengono meno, così, in guerra, gli spazi e i tempi nei quali trova ragione e fondamento il rispetto delle regole. E un comportamento basato esclusivamente sulla dedizione alla lealtà verso un valore, non sono cinico abbastanza da escluderlo a priori. Potrà darsene il caso, e ne avremmo qualche figura esemplare sotto il profilo estetico e morale. Se m’interrogo con sincerità, tuttavia, non riesco a pensare che quella totale, gratuita, disinteressata dedizione ai valori possa costituire l’universalità dei casi, una motivazione diffusa e generalizzata di comportamenti diffusi e generalizzati. Un domani, un «oltre» in guerra non ha nessuna certezza, nessuna solidità. Non ha perciò un ragionevole fondamento l’aspettativa di un sistematico rispetto delle regole. Temo che le vecchie, care Convenzioni di Ginevra possano essere, al più, un fondamento della punizione: una punizione iniqua se destinata, com’è spesso e prevedibilmente, a raggiungere soltanto gli sconfitti. Temo che l’efficacia di queste norme nel regolare – diciamo almeno nel moderare ‒ i comportamenti sia più nulla che scarsa.

Ho pensato un tempo che chi è certo della vittoria è anche certo di avere a disposizione quel «poi» e quell’«altrove» cui mi sono riferito. Ho dunque immaginato qualche corrispondenza ai fatti della colpevolezza sistematicamente riscontrata nei soccombenti, essi soli, nelle guerre degli ultimi decenni, privi della prospettiva di un «oltre» che fornisca un motivo al rispetto delle regole. Essi soli, dunque, portati all’infrazione. Ho tentato, insomma, di chiedermi se non ci fosse qualche frammento di verità nel riscontrare colpe soprattutto nei soccombenti. Ho abbandonato questa lettura dei fatti, che a suo modo aspirava ad essere comprensiva, se non generosa, verso i «trionfanti», che d’istinto non amo. Guantanamo e Abu Ghraib sono il nome di questo abbandono. Anche i vincitori certi a priori infrangono le regole. Dall’essere vincitori certi a priori traggono motivo, pare, per rivendicare la facoltà di infrangerle.

Ho chiacchierato – potrebbe mancare il latino? – solamente di ius in bello. Il resto – lo ius ad bellum ‒ no, è davvero troppo. Certo per la mia incompetenza. Ma non solo. Avete mai provato a chiudere gli occhi – se gli occhi fanno parte di quel che ne resta – a un bambino, a una donna, a un vecchio… a qualcuno distrutto da un’esplosione? Per me «la guerra» è questo. E il «diritto a far guerra» si traduce, senza ipocrite omissioni, nel diritto a produrre questi effetti che mille volte ho conosciuto. Questi ricordi non possono convivere con le distinzioni tra «guerra giusta», «guerra legittima», guerra non so che altro.

Non riesco a seguire e capire parole che per me sistematicamente, univocamente significano corpi distrutti, esseri umani cancellati, esistenze che potrebbero essermi contemporanee e sono invece passate. Il mio mestiere mi fa conoscere anche la sofferenza e la morte: sono frequentazioni inevitabili. Ma possono avere dentro di sé ‒ la sofferenza e la morte ‒ qualche umana intensità, forse anche qualche “dolcezza”, quando sono accompagnate da uno sgomento e da un sentimento di sconfitta che accomuna chi resta, che riguarda l’umanità tutta, la percezione di una condivisa, tragica «fatica di vivere». Ma in guerra un corpo inerte, un soggetto diventato «cosa» non è una riprova dolorosa della condizione umana: è l’equivalente di un trofeo, il successo raggiunto nell’applicazione di un «diritto internazionale»…

Non so bene che cosa sia questo diritto, sono però certo che mi è estraneo, che mi rifiuto di capirlo. Se si tratta di ciò che a me pare, spero che i miei simili tutti lo trovino, come me, ripugnante.
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— Su Avvenire.
Right Livelihood Award”. Gino Strada: aboliamo insieme la guerra
Gino Strada martedì 1 dicembre 2015
Gino Strada: aboliamo insieme la guerra
L’articolo di questa pagina, affidato in esclusiva ad “Avvenire” nella sua versione integrale, è il discorso pronunciato ieri dal fondatore di “Emergency”, Gino Strada, ricevendo al Parlamento svedese il “Right Livelihood Award”, considerato il premio per la pace alternativo al Nobel. Il premio è stato conferito a Strada, 67 anni, chirurgo, nato a Sesto San Giovanni, «per la sua grande umanità e la sua capacità di offrire assistenza medica e chirurgica di eccellenza alle vittime della guerra e dell’ingiustizia, continuando a denunciare senza paura le cause della guerra». Il “Rla” mira a «onorare e sostenere coloro che offrono risposte pratiche ed esemplari alle maggiori sfide del nostro tempo», ed è la prima volta che viene dato a un italiano. Emergency è un’associazione fondata nel 1994 per offrire cure medico-chirurgiche gratuite e di qualità alle vittime di guerre, mine antiuomo e povertà. Dalla sua nascita ha curato oltre 6 milioni di persone in 16 Paesi.
[segue]
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Che succede?
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FINE VITA. NO VAX. MAGGIANI E PAPA FRANCESCO. CRISTIANESIMO. IUS SOLI. REDDITO DI CITTADINANZA. MEDITERRANEO…
12 Agosto 2021 by Giampiero Forcesi | su C3dem.

Roberto Speranza, “Caro Mario, sostengo la tua battaglia. Le Asl garantiscano il suicidio assistito” (La Stampa). Mauro Magatti, “Serve un salto oltre le piccole logiche” (Avvenire). Paolo Pombeni, “Le lungaggini che rischiano di farci perdere il treno Ue” (Messaggero). Monica Guerzoni, “La partita del Quirinale e il fattore Recovery” (Corriere della sera). Piero Bevilacqua, “Senza l’economia agricola l’Italia va in fumo” (Manifesto). Antonio Preiti, “La guerra asimmetrica con i no vax” (Corriere). Claudio Cerasa, “La buona stella d’Europa” (Foglio). Stefano Ceccanti, “Anniversario con profezia (Zaccagnini e il Muro di Berlino)” (blog). Luca Diotallevi, “Il cristianesimo che cambia nella società occidentale” (Messaggero). Tommaso Montanari, “La Madonna prima marxista ante litteram” (Il Fatto). MAGGIANI E PAPA FRANCESCO: Maurizio Maggiani, “La bellezza e le catene possono stare insieme?” (Secolo XIX). Il papa risponde allo scrittore: Francesco, “No al lavoro schiavo, la cultura non si pieghi al dio mercato” (La Stampa). PD: Valerio Valentini, “Agora, e poi? Il cammino del Pd” (Foglio). Stefano Folli, “Bettini, la giustizia e il segnale al Pd” (Repubblica). AMBIENTE: Ursula von der Leyen, “Faremo dell’Europa il primo continente a emissioni zero” (intervista a Avvenire). Franco Prodi, “Contro il catastrofismo dell’Onu” (intervista al Foglio). IUS SOLI: Giovanni Moro, “Quei figli del paese multicolore” (Repubblica). Fabio Martini, “Letta: Salvini offende il paese. Lo ius soli è una legge urgente” (La Stampa). Elena Bonetti, “Una legge è possibile anche in questo parlamento. E il premier può mediare” (intervista a Repubblica). Nicola Molteni (Lega, sottosegretario agli Interni), “Iter più veloce per i 18enni, ma la legge attuale non va cambiata” (intervista al Corriere). MIGRANTI E MEDITERRANEO: Matteo Salvini, “Sbarchi, pochi rimpatri e tante vittime. Ecco perché Lamorgese ha fallito” (intervista a La Stampa). Renato Mannheimer, “L’azzardo di Salvini è un rischio calcolato” (Il Riformista). Ilario Lombardo, “Migranti. Draghi vuole una cabina di regia e blinda Lamorgese” (La Stampa). Michela Murgia, “Governo in fuga dal Mediterraneo” (La Stampa). Marco Minniti, “Mediterraneo. Ci sono mutamenti epocali. L’Europa deve agire subito” (intervista a La Stampa). Francesco Viviano, “L’unico modo di fermare i migranti è dare all’Africa pane e libertà” (Manifesto). REDDITO DI CITTADINANZA: Enzo Marro, “Reddito di cittadinanza: il 36% va a famiglie sopra la soglia di povertà” (Corriere della sera). Il Rapporto della Caritas italiana, “Lotta alla povertà. Imparare dall’esperienza, migliorare le risposte”. Carlo Borgomeo, “Il nuovo reddito con più buonsenso” (Mattino). Veronica De Romanis, “Posti non sussidi per una vera ripresa” (La Stampa). Mario Giro, “Alla politica i poveri danno molto fastidio” (Domani).

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L’innovazione nella politica ritrovata nel passato.

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Il partito sociale. Un’idea sempre attuale
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23 Luglio 2021 by c3dem_admin | Su C3dem.
di Sandro Antoniazzi.
E’ un vero peccato e una grande perdita per la coscienza collettiva del paese che la rigida separazione tra ideologie contrapposte abbia a lungo impedito di apprezzare adeguatamente l’apporto culturale di persone appartenenti a file avverse.
Molte prevenzioni sembrano oggi cadute congiuntamente al parallelo venir meno delle ideologie.
In questo spirito vorrei richiamare l’attenzione sull’esperienza di Osvaldo Gnocchi Viani, socialista umanitario vissuto a Milano nella seconda metà dell’ottocento e nei primi anni del novecento, il cui rilevante contributo di pensiero merita di essere conosciuto e valorizzato ancora oggi.
Gnocchi Viani (Viani è il cognome della madre che Gnocchi, femminista ante-litteram, aveva aggiunto a quello del padre) non è certo una figura di secondo piano: è stato il fondatore della Camera del Lavoro di Milano, della Società Umanitaria, delle Università Popolari e del Partito Operaio Italiano (predecessore del Partito Socialista).
Aveva una visione molto ampia del socialismo, che considerava rivolto all’intera umanità; era in questo un socialista integrale (integralista, nel linguaggio del tempo): lo era innanzitutto sul piano delle diverse correnti, che lui chiamava scuole, e che, a suo parere, potevano tutte concorrere democraticamente alla comune battaglia (era però critico della corrente “autoritaria” – quella marxista – perché temeva la centralizzazione e analogamente, dopo aver visitato la Germania, diffidava del socialismo tedesco, rigido e gerarchico, mentre le sue preferenze andavano a un socialismo articolato e decentrato).
Era poi socialista integrale perché pensava che il socialismo riguardasse ogni aspetto della vita umana (filosofia, religione, diritto, economia, arte, politica) e per realizzare tale progetto riteneva che non fosse sufficiente la classe lavoratrice; un obiettivo così grande richiedeva il concorso di una pluralità di forze.
Comprendeva l’importanza del fattore economico, ma era reticente ad attribuirgli un ruolo preminente e considerava un pericoloso errore motivare l’iniziativa delle masse con la leva degli interessi materiali.
Per lui la questione operaia era solo una parte della più ampia questione sociale: le classi lavoratici non sono tutto il consorzio umano e non solo i lavoratori sono “irredenti”.
Il fine ultimo era quello, enunciato dall’Internazionale, della realizzazione di un’unica Grande Famiglia Umana, una visione ottimistica di affratellamento e di cooperazione, che confliggeva con la tesi darwiniana della lotta permanente fra gli uomini per la loro sopravvivenza.
Per perseguire questo scopo era importante partire dal basso, trasformando la coscienza dei lavoratori e dei cittadini.
Non si trattava solo di elevare il livello di istruzione, ma di dotare i lavoratori di una capacità critica, per essere in grado di comprendere il funzionamento della società, resistere all’ambiente intellettuale dominante e non essere subalterni ai capi politici, compresi quelli socialisti.
Occorreva contrastare un ambiente sociale che condiziona le persone e che forma la “sedicente opinione pubblica”, vero ostacolo al rinnovamento sociale.
Per essere un soggetto attivo la classe lavoratrice aveva bisogno di una cultura alternativa e anche di una morale che non fosse quella individualistica imperante.
La borghesia si era affermata perché era riuscita a imporre la propria cultura; per cambiare la società era necessario affermare una moralità diversa, perché solo un’umanità migliore avrebbe potuto realizzare una società migliore.
Così Gnocchi Viani non teme di sostenere che è necessario un rinnovamento interiore (pensiero tanto caro ai cattolici) e dimostrare una coerenza di vita: gratuità, disinteresse, sobrietà, sacrificio.
E’ decisamente contrario alla scuola autoritaria perché, con una visione lungimirante del futuro, riteneva che la dittatura di una classe tendeva sempre a risolversi nella dittatura di pochi, se non di uno solo.
Ma era anche critico della visione, propria dei parlamentari socialisti, della conquista del potere, perché essa limita l’orizzonte ideale e politico a ciò che si riesce a ottenere in sede parlamentare, facendo venir meno la forza insostituibile del movimento, cioè l’iniziativa e la volontà di riscatto dei lavoratori.
La sua concezione dei partiti politici (partito socialista compreso) è del tutto concorde con le critiche odierne: formano una casta (usa proprio questo termine), sono separati dalla base, limitano l’intera azione politica alle sole manovre parlamentari.
I partiti hanno una logica gerarchica, perché il governo è sempre governo di pochi.
Il partito politico soprattutto è lontano dalla questione sociale, non è in grado di gestirla, mentre la questione sociale è il fondamento della politica della classe lavoratrice.
Per questo Gnocchi Viani oppone al partito politico, il partito sociale, che ha alla sua base il principio associativo, il quale è orizzontale, solidaristico, cooperativo, federativo.
Il partito sociale è quello che ha il popolo come fine e dunque è per il potere diffuso e opera nella vita “pubblica”, non in quella “politica”, che è propria dei partiti politici e del loro modo di agire verticistico.
E ancora: i partiti politici pensano alla demolizione della vecchia società, sostenendo i principi liberali e individualisti propri dell’illuminismo, mentre i partiti sociali si dedicano a un’opera innovativa, la costruzione della società di domani.
E poiché l’alienazione economica e quella politica e culturale dei lavoratori vanno tutte assieme, altrettanto devono andare assieme la liberazione economica, l’autogoverno e l’arricchimento delle idee proprie.
La sua visione ideale rifuggiva pertanto dalle visioni governative e stataliste (considerava lo Stato “una bottiglia di vino cattivo”) per preferire, in alternativa, un sistema federativo di Amministrazioni comunali, nelle quali sarebbe stata possibile una partecipazione attiva dei cittadini.
Sarebbero molte le considerazioni che si potrebbero fare sulla nostra realtà attuale, stimolati dalle idee di Gnocchi Viani. In questa sede mi limito a due.
Innanzitutto, mi sembra che siamo troppo succubi di come funziona il sistema attuale: globalizzazione, comunicazioni di massa, multinazionali, Google, Amazon, ecc…; diamo tutto per scontato e rischiamo così di perdere la grande tradizione delle nostre municipalità.
Se è giusto accogliere e affrontare la dimensione mondiale come componente ormai normale della nostra vita, questo non deve avvenire negando e distruggendo la realtà umana, civile e culturale delle nostre città e dei nostri territori.
In secondo luogo, mi sembra che ci sia troppa arrendevolezza sul piano culturale e dei valori, quasi ormai rassegnati, per la sproporzione di forze, ad accettare di tutto.
Forse Gnocchi Viani era troppo idealista e viveva in una società più semplice.
Ma non è ora di riprendere una battaglia culturale più critica rispetto a tante tendenze che si diffondono?
Quando in Francia, all’inizio dell’ottocento, Pierre Leroux coniava la parola “socialista” non aveva in mente un partito, ma semplicemente un termine che era il contrario di “individualista”.
Si trattava di due parole equivalenti: l’individualista è colui che guarda all’interesse proprio, il socialista colui che guarda all’interesse comune, collettivo.
Non si potrebbe ritornare oggi all’uso originale e vedere di formare più “socialisti” e meno “individualisti”?

Sandro Antoniazzi
luglio 2021
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Sulla figura di Osvaldo Gnocchi Viani ha molto indagato Pino Ferraris. Di queste ricerche diamo conto in diversi articoli del nostro periodico: http://www.aladinpensiero.it/?s=Pino+Ferraris
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Contributi al dibattito su “Crisi del Welfare ed economia civile”. Il pensiero di Pino Ferraris
ferraris pino LIBROape-innovativa Proseguiamo nel riproporre le riflessioni di Pino Ferraris (anche con la mediazione di altri che ne hanno studiato il pensiero), utilizzando la documentazione pubblicata dalla news online “Controlacrisi” per ricordarne la figura all’indomani della sua morte avvenuta il 2 febbraio 2012. I contributi teorici di Pino Ferraris mantengono una straordinaria validità per affrontare oggi la crisi che attraversiamo drammaticamente e che è crisi insanabile del capitalismo, indirizzandoci nella ricerca di soluzioni diverse anche da quelle in buona parte fallimentari dei modelli storicamente attuati del socialismo reale. Pino Ferraris negli anni 70 frequentava spesso la Sardegna, spendendosi generosamente nei movimenti della sinistra alternativa, apportando la sua capacità di teorico e ricercatore appassionato e rigoroso, maestro per molti di noi giovani (allora) militanti della nuova sinistra sarda.
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PINO FERRARIS SULLE PRATICHE DI NEO MUTUALISMO E AUTORGANIZZAZIONE

Pino Ferraris fto microConclusione di Pino Ferraris al Convegno sulla Mutualità promosso dalla Società di Mutuo Soccorso d’Ambo i Sessi “Edmondo De Amicis” di Torino –

L’ultimo intervento del rappresentante della Società Operaia di Orbassano ha portato un importante contributo di chiarezza nel dibattito in corso. Evitiamo – egli ha affermato – di identificare le Società di Mutuo Soccorso con le “mutue”.
In questo caso, di fronte alla realizzazione della riforma sanitaria come diritto dei cittadini alla salute, il loro compito sarebbe residuale, modestamente integrativo o pericolosamente sostitutivo di diritti fondamentali.
Nel corso della prima sessione del convegno intitolata “Che cosa ci insegna la storia della mutualità”, Marco Revelli ha parlato di questa esperienza come di una grande scuola di auto-organizzazione e come anello di congiunzione tra la cultura dei mestieri e i problemi degli ambiti di vita e infine come uno storico movimento di costruzione di nuove relazioni sociali basate sul principio di solidarietà. Occorre non perdere mai il senso di questa profonda ed ampia ispirazione delle società di mutuo soccorso.
Nella seconda sessione del convegno dedicata a “Crisi del Welfare ed economia civile” è stata sollevata una domanda molto pertinente: perché oggi c’è una ripresa del mutualismo? Quarant’anni fa si parlava di altre cose. Questo ritorno rappresenta soltanto un tentativo di risposta alla crisi del welfare oppure ha una valenza politica?
Revelli ha affermato che il movimento operaio del 900 ha vissuto di rendita sulla grande ondata istituente di nuove forme associative suscitate nella seconda metà dell’800: il mutuo soccorso, le leghe di resistenza, la cooperazione, le case del popolo, il partito di massa.
Il 900 non ha solo ereditato la rendita di queste risorse associative, ma a partire dalla tragica esperienza della Prima guerra mondiale esso ha anche operato una torsione burocratica, politicista e statalista del patrimonio del movimento operaio ottocentesco.
Qui sta la ragione principale del mancato riconoscimento storiografico del mutualismo: con esso si è rimossa la sua ispirazione autogestionaria, il suo radicalismo democratico, la sua affermazione delle autonomie del sociale.
Il ritorno del mutualismo significa anche e soprattutto ricerca di nuove vie della politica dopo la crisi di socialismi autoritari, di sistemi politici oligarchici e autoreferenziali, dopo le deviazioni del welfare verso forme di paternalismo statale selettivo e clientelare.
Dentro lo sviluppo del volontariato, di movimenti di cittadinanza attiva, di buone pratiche di cittadinanza negli anni 80 e nei primi anni 90, si aprivano possibilità di sussidiarietà circolare (Cotturri) tra istituzioni e associazioni in grado di far emergere una sfera pubblica sociale (che non è il cosiddetto privato-sociale). La stagione dei “nuovi sindaci” prometteva l’articolazione di un welfare locale. Tutto ciò sembrava rompere la rigidità, la selettività, la freddezza burocratica dell’offerta di welfare e aprire varchi all’intervento attivo, competente e propositivo della domanda sociale, rendendo visibili ed esigibili diritti negati o elusi dei cittadini.
E’ possibile rompere il nesso assistenza-dipendenza? E’ possibile che i “destinatari” dell’offerta di welfare diventino anche attori proponenti di una domanda sociale nuova e appropriata? E’ possibile che l’”oggetto” delle pratiche di tutela politica e amministrativa possa entrare sulla scena pubblica come “soggetto”?
E’ in questa ottica che per anni con altri amici e compagni abbiamo lavorato non per tamponare una “crisi” del welfare ma per realizzare un nesso tra “riforma” ed “estensione” del welfare e i valori di autonomia sociale, le pratiche di partecipazione e di solidarietà di un neo-mutualismo.
Oggi sono più prudente nel privilegiare questo rapporto neo-mutualismo e welfare. Non solo perché questo riferimento al welfare mi pare riduttivo, ma anche perché su questo terreno le strade si sono fatte oggi più strette e i percorsi quasi impraticabili.
Come si colloca il neo-mutualismo dentro quell’insieme di pratiche sociali che vengono sommariamente riassunte nella definizione del “terzo settore”?

Recentemente a Roma si è tenuto un convegno dal titolo significativo: Terzo settore, fine di un ciclo. La relazione era di don Vinicio Albanesi, fondatore della Comunità di Capo d’Arco, altre relazioni erano di Giovanni Nervo, di Giuseppe De Rita, di Carniti. Concludeva Giulio Marcon.
De Rita in poche parole ha fissato la situazione: “Oggi il volontariato è in qualche modo uno spazio per anziani generosi, mentre la dimensione più giovanile e anche quella più settorializzata va verso un’altra direzione che approda alla cooperazione di servizi, alle imprese sociali, che sono una cosa molto diversa dal volontariato.”
Una riforma del Welfare richiede non solo la capacità di dare rilevanza sociale e politica al lato attivo, competente e propositivo della domanda sociale, come avvenne con il volontariato degli anni 80 e primi anni 90, ma esige in primo luogo un forte impegno politico generale nel rendere giusta la solidarietà fiscale, nel rendere equa la solidarietà assicurativa. Solo così la solidarietà quotidiana può evitare il pericolo di decadere in una supplenza di diritti negati.
[segue]

Clima

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CONTROCANTO
La falsa lotta per il clima di politici, finanzieri e grandi industriali
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20-07-2021 – di: Guido Viale su Volerelaluna*

Greta Thumberg è tornata a dare il meglio di sé al vertice austriaco sul mondo promosso da Arnold Schwarzenegger, con Frau Merkel, Antonio Guterres ed altri. Rivolgendosi ancora una volta a tutti i potenti del mondo, ma per farsi ascoltare da tutti coloro che potenti non sono, ha spiattellato che nei sei anni che ci separano dal vertice di Parigi, politici, finanzieri e grandi industriali (la crème di Davos) ci hanno riempiti di parole, ma non hanno fatto niente per avvicinarci agli obiettivi di decarbonizzazione fissati. Anzi, hanno fatto, stanno facendo e si apprestano a fare esattamente l’opposto: la loro “lotta per il clima” serve solo a mascherare e giustificare la continuazione di una politica fondata sui fossili, cercando nuove occasioni di business.

Questa accusa coglie in pieno anche il PNRR italiano, il suo padre, il RRF della Commissione europea, e la sua madre, il programma NextgenerationEU, che altro non sono che armi di distrazione di massa, finalizzate a bloccare l’attenzione – e il confronto, dove c’è – intorno a misure e progetti assolutamente inconsistenti, se non controproducenti, mentre il pianeta va a fuoco. A fuoco: nello stesso giorno in cui si registravano a Vancouver 50 °C, il Parlamento italiano ha votato, alla Camera, il ponte sullo stretto di Messina (da finanziare non con il PNRR, bensì con un fondo, detto “fondone”, che Draghi ha fatto aggiungere, a debito, ai fondi, anch’essi a debito, del PNRR, per «non lasciare indietro nessuno»: in questo caso le lobby del cemento). D’altronde, non è stato forse il Senato italiano, forte delle sue competenze, a votare, anni fa, che il cambiamento climatico non esiste?

Tra le parole senza fatti o, meglio, con fatti che le contraddicono, di cui parla Greta, spicca l’istituzione in Italia di un Ministero della Transizione ecologica. Ora, se transizione ecologica significa – e non può significare altro; se no, verso che cosa mai si transita? – un cambiamento radicale, a partire dall’abbandono del presupposto su cui si basa tutto lo stato di cose attuale, cioè il mito fasullo e letale della “crescita” (che altro non è che accumulazione del capitale), è evidente che essa non può non coinvolgere profondamente comportamenti, stili di vita e assetti sociali di tutta la popolazione; oltre, ovviamente, alla determinazione di che cosa, con che cosa, per chi e come si produce. Il primo compito di un Ministero della Transizione ecologica (e del Governo che ne fa proprie le finalità) avrebbe dovuto essere, quindi, il lancio di una grande campagna di informazione: sul perché di questa svolta, sui rischi che corrono il pianeta, il paese e la vita di ciascuno; e la conseguente apertura di un confronto generale (non era certo tale la kermesse organizzata a suo tempo dal secondo Governo Conte a villa Pamphili), coinvolgendo tutte le istanze della “società civile” – associazioni, comitati, sindacati, scuole e Università, centri di ricerca, mondo della cultura – sulle alternative che ci troviamo di fronte: sia a livello planetario che a livello locale; ciascuno a fare i conti nel proprio territorio con la realtà in cui è inserito e in cui può operare. Le dimensioni del problema sono d’altronde tali che non si può sperare di ottenere dei risultati – se si vogliono veramente ottenere – che procedendo così. E se il Governo non lo fa, la prima conseguenza da trarre è che di promuovere quel confronto dobbiamo farci carico noi. Chi? Tutti, dove e come si può. Mettendo al centro non la crescita ma la cura delle persone, del vivente e della Terra.

Ma invece di una campagna di informazione e di un grande confronto ci siamo ritrovati le continue esternazioni del ministro Cingolani, peraltro in frequente contraddizione tra loro, ma che, sostanzialmente, mirano a rassicurare che non c’è da cambiare gran che: il gas sostituirà – un po’ per volta – il petrolio come “combustibile di transizione” (verso che?), costruendo nuovi impianti e pipeline la cui vita utile va ben al di là del 2050, anno in cui il gas dovrebbe scomparire; l’idrogeno verde deve aspettare (non è ancora maturo); con le rinnovabili non c’è fretta, tanto arriverà la fusione nucleare, o anche la fissione in “piccoli impianti” distribuiti sul territorio; la dieta proteica è essenziale, quindi largo agli allevamenti industriali; l’agricoltura sostenibile si fa con l’agrofotovoltaico (pannelli in alto e ortaggi sotto) ecc.

Ma se il ministro della Transizione sembra sensibile soprattutto alla lobby del gas (Eni ed Enel), il PNRR, nel suo insieme, destina il giusto tributo anche a quella del cemento e delle Grandi opere: il piano pullula di autostrade, aeroporti e treni ad Alta velocità, chiamati infrastrutture, tutti finanziati a spese del trasporto locale (compreso il TAV Torino-Lione, ricompreso nel PNRR, senza nominarlo, nelle vesti del fallito Ten-T).

E qui, anche senza entrare nei dettagli (che peraltro il PNRR evita accuratamente), la prima e fondamentale domanda da fare, se si aprisse, come si dovrà aprire, ma da basso, un dibattito sulla transizione ecologica è: ma serve un treno ad alta velocità, o un ponte di quattro chilometri per collegare regioni devastate dagli incendi, dove, di questo passo, si dovrà reggere a temperature di 50°C come a Vancouver (che è molto più a nord), per fare arrivare dei turisti su spiagge ormai sommerse dall’innalzamento del livello del mare? O serve portare altro gas in Italia cercando di seppellirne le emissioni sottoterra in una regione già sconvolta da un terremoto di dubbia origine, lasciando in eredità alle future generazioni, ma forse anche a questa, una bomba di CO2 sotto pressione, pronta ad aprirsi un varco verso la superficie per restituire all’atmosfera tutta la CO2 fittiziamente sottrattale? Ma domande come queste chi ci governa se le è mai fatte?

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*L’articolo è tratto dal sito Comune-info in forza di un accordo di collaborazione con Volerelaluna.
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Clima e Green Deal, la Commissione accelera a metà
Monica Frassoni

Sbilanciamoci! 16 Luglio 2021 | Sezione: Ambiente, primo piano
Rischi e omissioni nelle 12 proposte legislative chiamate “Fit for 55” con cui Ursula von del Leyen e la Commissione europea hanno aggiornato gli obiettivi del Green Deal per ridurre le emissioni del 55% entro il 2030 istituendo un Fondo sociale per ridurre l’impatto della transizione.

La presidente della Commissione europea Ursula Von Der Leyen insieme ai Commissari Timmermans, Gentiloni, Simson, Aldean, Wojciechowski ha presentato il 14 luglio quello che è uno dei più consistenti pacchetti legislativi mai completati nella sua storia. Il pacchetto di proposte legislative si chiama “Fit for 55”. Si tratta di 8 proposte di revisione di direttive e regolamenti esistenti e di 4 nuove iniziative in materia soprattutto energetica che rappresentano un pezzo centrale del Green Deal europeo, il programma partito due anni fa per portare la UE a essere il primo continente a emissioni zero nel 2050 attraverso una lunga lista di norme in tutti i settori dell’economia, industria, ambiente, accompagnate dal riorientamento e dall’aumento delle risorse a disposizione della UE. Il Green Deal è un elemento chiave di Next Generation EU ed è quindi integrato anche nello sforzo di uscita dalla crisi pandemica intrapreso a livello europeo.

La decisione di aumentare dal 40% al 55% gli obiettivi di riduzione delle emissioni al 2030 e di raggiungere la neutralità climatica nel 2050, racchiusi nella Legge sul Clima che entra in vigore questo mese, sono una conseguenza diretta dei richiami incessanti di scienziati ed esperti, delle grandi mobilitazioni dei “Friday for Future” e della crescente consapevolezza dell’estrema minaccia rappresentata dai cambiamenti climatici non solo per l’ambiente, ma anche per l’economia e la vita tout court. L’idea è cioè che il Green deal sia una “strategia per la crescita” alternativa a quella attuale ancora fondata sui combustibili fossili. Il piano ha anche l’obbiettivo di portarci fuori dalla crisi, di dare nuove prospettive di lavoro e di inclusione sociale, di ridisegnare il nostro modo di muoverci, di abitare, di consumare, il tutto riducendo le diseguaglianze e il nostro impatto su risorse e ambiente.

Un sogno? Forse, e come vedremo i problemi non mancano. Bisogna però riconoscere che al di là del merito, il grande lavoro fatto dalla Commissione europea, con il suo scarso (in termini numerici) e spesso criticato staff, è stato davvero straordinario e rappresenta il senso e l’utilità del progetto europeo. In questi mesi c’è stato anche uno sforzo reale di ascolto dei vari attori in campo, dalle ONG all’industria, anche se ovviamente alcune voci sono forse state più ascoltate di altre.

Citiamo per capi. Le proposte di direttive, regolamenti e altre iniziative riguardano l’aumento degli obbiettivi per rinnovabili, efficienza energetica, la riorganizzazione del sistema di scambio delle emissioni (ETS) e la sua controversa estensione al settore degli edifici e dei trasporti, il regolamento detto di “condivisione dello sforzo” per l’abbattimento delle emissioni nei settori finora non coperti dall’Ets, la tassazione energetica, che prevedeva finora stimoli ai combustibili fossili, l’uso del suolo, le misure a tutela della silvicultura, la strategia forestale, le norme più stringenti per ridurre le emissioni di automobili e furgoni, le regole per le infrastrutture per i carburanti alternativi (leggi ricariche per mobilità elettrica) e per i carburanti per aviazione e navigazione, le misure per imporre dazi ad importazioni ad alto contenuto di CO2 (misure di adeguamento del carbonio alle frontiere). E infine la proposta di un Fondo Sociale per il Clima con l’obiettivo di attenuare il rischio del riproporsi di contestazioni come quelle dei “gilets jaunes” come reazione di rigetto di queste misure da parte dei settori sociali più in difficoltà. Il Fondo verrebbe finanziato con 72,2 miliardi di risorse europee provenienti per il 25% dai proventi del sistema di scambio di emissioni e potenzialmente da altrettante nazionali nei prossimi 7 anni.

Nei prossimi mesi il pacchetto sarà completato dalle linee guida per l’applicazione concreta del principio “Energy efficiency first”, il super controverso pacchetto sul gas, la direttiva sugli edifici e le nuove linee guida sugli aiuti di Stato, tutti aspetti molto importanti dell’agenda sul Green deal. Ora la parola passa al Parlamento Europeo e al Consiglio dei rappresentanti degli Stati, che sono co-legislatori a pari livello. Si prevede che i negoziati dureranno per tutto il 2022.

La proposta della Commissione è un insieme di migliaia di pagine di norme e articoli e ci vorrà un po’ per digerirli tutti, ma già possiamo fare alcune considerazioni generali.

Innanzitutto, il pacchetto è al centro dell’attenzione di due forti tendenze, che vanno in senso diametralmente opposto, come è evidente da alcune delle primissime reazioni. Da un lato ci sono le voci di coloro che pur non potendo più negare che i cambiamenti climatici esistono e vadano governati, dopo avere per anni impedito di agire per tempo, oggi continuano a spingere per ritardare, fare distinguo, chiedere prudenza, usando l’argomento sicuramente importante della salvaguardia dei posti di lavoro per non attrezzarsi a cambiare e soprattutto pretendono il privilegio di continuare ad essere esentati dai costi reali della transizione, che anche in questo pacchetto continuano ad essere in buona misura scaricati su cittadini e finanze pubbliche. Parliamo di una parte ancora troppo importante dell’industria automobilistica ed energivora che soprattutto in Germania (e quindi in Commissione), ma anche in Italia, ha un impatto davvero sproporzionato data la sua capacità di influenza e la sua disponibilità economica nel fare lobby a tutti i livelli (vedi le dichiarazioni di Cingolani sul “bagno di sangue” rappresentato dalla transizione ecologica).

Dall’altro lato della barricata c’è invece l’evidenza dell’accelerazione dei fenomeni distruttivi e di grande e negativo impatto dei cambiamenti climatici, dello sfruttamento eccessivo delle risorse e dell’inquinamento, fenomeni che non permettono di perdere tempo. Bisogna liberarsi al più presto della dipendenza dai fossili, gas incluso. L’attivista Greta Thunberg in un recente intervento, durissimo e lucidissimo, denuncia come le azioni intraprese potrebbero essere molto positive perché siamo ancora in tempo per invertire la marcia. Ci sono però ancora troppe scappatoie e ambiguità. Ad esempio continuano investimenti e sussidi miliardari ai fossili e le politiche in atto non sono assolutamente abbastanza radicali mentre i governi si danno a un green-washing continuo e irresponsabile. È chiaro che la trasformazione necessaria sarà difficile e dura.

La drammaticità e la necessità di accelerare gli interventi è la conseguenza del grande ritardo accumulato e più tempo si perde facendo scelte a metà e peggio sarà anche dal punto di vista della sostenibilità e del consenso sociale. L’alternativa di frenare in ogni caso lo sarebbe ancora di più.

Se scegliamo il secondo punto di vista, è chiaro che il pacchetto presenta molti punti deboli e che bisognerà mettere in atto una mobilitazione notevole in Italia e in Europa per poterlo migliorare. Peraltro, se in Europa esistono gli strumenti di relativa trasparenza per capire chi dice cosa e chi preme in quale direzione, è molto più difficile vedere come si forma la posizione che l’Italia rappresenta in Europa su questi temi, data l’assenza di dibattito pubblico, il disinteresse dei media e l’opacità dei meccanismi di controllo.

Il macroscopico punto debole del pacchetto sta nel tentativo della Commissione di trovare una impossibile ed inefficace mezza via tra i due orientamenti spiegati più sopra. Questo tentativo rischia di mettere in pericolo l’essenza stessa del Green Deal, come denunciano da tempo le associazioni ambientaliste europee riunite in “Climate Action Network” o EEB, ma anche diverse associazioni dell’industria più consapevole dei rischi e anche delle enormi opportunità che esistono in termini di business, competitività e lavoro.

L’origine della debolezza del pacchetto sta nel target insufficiente di riduzione delle emissioni del 55% per il 2030 inserito dalla Legge sul Clima dopo una battaglia furibonda. La scienza considera necessario che l’UE contribuisca con una riduzione di emissioni del 65% entro il 2030 al raggiungimento dell’obbiettivo globale di 1,5° massimo di riscaldamento del pianeta entro la fine del secolo. Dunque ci vorrebbe un aumento delle rinnovabili e dell’efficienza rispettivamente del 50% e del 45% . Gli obbiettivi proposti di aumento di rinnovabili (40%) e di efficienza energetica (36%) sono pertanto insufficienti ad avvicinarci alla neutralità climatica nei limiti stabiliti dagli scienziati.
[segue su Sbilanciamoci!]

Scelte energetiche per la Sardegna con (pretendiamo) o senza (disgraziatamente ma non lo consentiremo) i sardi.

294f7eb6-67ee-406a-9442-0058c855972c1925cdb5-9028-42c2-b2d1-5fa37eabad7f Ma lo vogliamo dire – senza ipocrisie, greenwashing e fumo negli occhi che la Sardegna (con la Sicilia) sarà il prossimo “hub energetico del Mediterraneo”? Ma stavolta qualcuno s’è almeno degnato di informare i cittadini sardi (e siciliani) e di chiedere il loro parere?” [S.D.]. lampadadialadmicromicro132 Riportiamo integrale l’intervento di Stefano Deliperi, autorevole esperto e militante ambientale, sulla questione delle scelte energetiche sarde, pubblicato oggi su il manifesto sardo. Come sempre documentato e approfondito. Condividiamo tutte le sue preoccupazioni e l’esortazione al governo sardo e alla classe dirigente sarda (e a tutti i sardi) di non restare a guardare, di non consentire che le scelte passino sopra le loro teste. Tuttavia l’intervento di Stefano appare non solo prudente, come è giusto, ma eccessivamente attendista e timoroso di schierarsi sulle scelte di fondo (le rinnovabili, per semplificare) sulle quali rammentiamo che si è sempre espresso chiaramente, personalmente e a nome del GIG*, quando forse la compagnia che le condivideva non comprendeva adesioni sospette (?). Per quanto ci riguarda, con tutte le precisazioni del caso, abbiamo espresso una nostra chiara opinione a favore delle rinnovabili e delle scelte energetiche del Governo (e di Terna/Enel) che riguardano la Sardegna (e non solo), pur con tutte le richiamate cautele e condizioni – peraltro in sintonia con le associazioni ambientaliste sarde riunite nell’alleanza “Sardegna rinnovabile” – alla quale rinviamo. A proposito della posizione della citata alleanza, contrariamente a quanto sostiene Deliperi (“Alcune di quest’ultime già arruolate per sostenere la Sardegna green senza se e senza ma”) ne apprezziamo la tempestività e la chiarezza, che non esclude la vigilanza e l’esercizio della critica. Lo verificheremo nel tempo che viene. Intanto registriamo una presa di posizione di comitati e amministratori , dando informazione di una “nota stampa che riporta le conclusioni dell’assemblea dei comitati, degli amministratori locali, delle associazioni e formazioni politiche, dei sindacati di base e identitari, riunita a Bauladu il giorno 4 luglio 2021”. Si richiede una “moratoria contro tutti i nuovi progetti per la realizzazione di grandi impianti fotovoltaici ed eolici previsti in aree agricole e contro la realizzazione delle infrastrutture per l’approvvigionamento, il trasporto e la distribuzione del gas”. Ma ci torneremo. Una cosa è certa: il dibattito va portato avanti con determinazione e senza infingimenti. Nel nostro piccolo noi ci siamo e ci impegnamo.
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La Sardegna sta per essere assoggettata alla servitù energetica fra silenzi, greenwashing e fumo negli occhi
16 Luglio 2021 su il manifesto sardo.
[Stefano Deliperi]
[segue]

Agenda Onu 2030 in Italia

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La spesa dello Stato secondo l’Agenda 2030
Maria Letizia D’Autilia

sbilanciamoci-20Su Sbilanciamoci! 15 Luglio 2021 | Sezione: Apertura, Economia e finanza
Un ottimo studio sperimentale pubblicato dalla Corte dei conti riclassifica il bilancio dello Stato in funzione degli obiettivi e dei target dell’Agenda 2030 dell’Onu. Nel 2020 segnato dalla pandemia, molta la spesa pubblica su disuguaglianze e povertà, poca quella su ambiente, clima e sostenibilità.

La pandemia e gli Obiettivi dell’Agenda 2030

Nel preambolo dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, l’Organizzazione delle Nazioni Unite dichiara che il programma d’azione universale tracciato nei 17 Obiettivi e 169 traguardi mira a “fare passi audaci e trasformativi”, necessari a “portare il mondo sulla strada della sostenibilità e della resilienza”. L’Agenda si presenta quindi come lo strumento per qualificare in modo immediato obiettivi di policy interconnessi e indivisibili che, declinati in azioni più specifiche, possano bilanciare le tre dimensioni dello sviluppo sostenibile: quella economica, sociale e ambientale.

La Corte dei conti, nell’ambito della Relazione sul Rendiconto generale dello Stato 2020, ha individuato nell’Agenda 2030 una nuova chiave di lettura per rappresentare la varietà dei fenomeni che incidono sulle decisioni di bilancio dell’operatore pubblico. Il bilancio dello Stato riclassificato per Obiettivi/target dell’Agenda potrebbe consentire, in prospettiva, di interpretare – come si rileva nella presentazione del lavoro – i risultati delle politiche di spesa adottate dal legislatore anche alla luce dell’incidenza che queste avranno sul conseguimento degli stessi target e obiettivi dell’Agenda 2030. Anche per questo motivo, lo studio sperimentale avviato dalla Corte nell’ambito della programmazione dei controlli per il 2021, apre una prospettiva nuova, sotto il profilo metodologico, a tutti quegli enti delle amministrazioni pubbliche, soprattutto Regioni ed enti locali, che hanno inserito l’Agenda nella loro attività di programmazione finanziaria.

L’impiego di classificazioni condivise permette, del resto, di rendere confrontabili i risultati delle politiche di bilancio adottate sia dalle diverse istituzioni pubbliche che operano sul territorio e a livello centrale, sia tra i diversi Paesi che hanno scelto di riconoscersi negli obiettivi dell’Agenda. Si tratta di un confronto ancora più necessario in questa particolare fase della crisi determinata dalla pandemia.

Va segnalato, in tal senso, che secondo le Nazioni Unite impegnate nel monitoraggio dell’Agenda 2030, sarà proprio la strategia scelta da ciascun Paese per superare la crisi a determinare le politiche di bilancio dei prossimi anni nel segno della sostenibilità. Gli Stati avranno la possibilità di superare gli effetti sociali ed economici della pandemia se sapranno individuare una via d’uscita fondata su interventi rivolti soprattutto a incrementare e rendere accessibili i sistemi sanitari nazionali a tutti (Goal 3), a predisporre misure coordinate di politica monetaria e finanziaria a sostegno del lavoro (Goal 8), a rafforzare i sistemi nazionali di protezione sociale (Goal 10).

In perfetta sintonia con le Nazioni Unite, l’atto appena assunto (il 22 giugno scorso) dal Consiglio dell’Unione Europea afferma che la crisi generata dal Covid-19 non permette più di scegliere se perseguire gli Obiettivi dell’Agenda 2030, ma rende necessaria un’accelerazione delle politiche di investimento verso il loro raggiungimento anche attraverso il varo di riforme strutturali urgenti.

Cresce, pertanto, il livello di responsabilità degli Stati membri per l’attuazione dell’Agenda e aumenta contestualmente – come auspicato dal Consiglio europeo – la necessità di integrarla negli strumenti di pianificazione nazionale, nelle strategie di sviluppo, nonché nei quadri di bilancio.

Classificare e misurare per riconoscere le politiche

Entrando nel merito del lavoro della Corte dei conti si rileva che l’esercizio di riclassificazione è stato svolto sui dati di spesa (stanziamenti definitivi) del Rendiconto generale dello Stato per il 2020. Le linee guida del metodo utilizzato possono essere riepilogate in pochi punti.

Va detto, in premessa, che lo schema classificatorio dell’Agenda 2030 per Obiettivi/target è stato utilizzato per individuare specifiche aree di policy al primo livello (Obiettivi) e puntuali azioni di policy al secondo livello (Target). Trattandosi di una prima sperimentazione, il metodo utilizzato ha “filtrato” la descrizione degli Obiettivi/target da specifici riferimenti a misurazioni, scadenze e target finalizzando l’operazione a individuare esclusivamente l’area di policy.

Le questioni connesse alla misurazione e valutazione delle politiche da realizzare con l’attuazione degli Obiettivi/target saranno affrontate – come viene spiegato nel lavoro – solo in una fase successiva, con la messa a punto di metodologie, strumenti e indicatori specifici di carattere sia quantitativo che qualitativo.

La Spesa primaria finale del Rendiconto 2020 ha costituito il campo di osservazione per la riclassificazione, che ha tuttavia riguardato soltanto le funzioni cosiddette istituzionali delle amministrazioni, ossia quelle relative alla loro attività caratteristica, mentre le spese per il personale e il funzionamento degli uffici (escluse, quindi, dalla spesa primaria finale) saranno analizzate e attribuite nella seconda fase della sperimentazione una volta consolidato il metodo.

Le spese del bilancio dello Stato secondo l’Agenda 2030

Il primo risultato che emerge dalla riclassificazione secondo l’Agenda 2030 mostra che il metodo utilizzato ha consentito di intercettare circa il 60 per cento della spesa primaria finale impiegata per la realizzazione delle attività caratteristiche dei Ministeri.

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Fonte: Corte dei conti, Relazione sul Rendiconto generale dello Stato 2020

Si tratta di oltre 470 miliardi di euro di stanziamenti definitivi di spesa che si concentrano (circa 153 miliardi, come si vede nel grafico qui sopra) in particolare nell’Obiettivo 10-Ridurre le disuguaglianze. Guardando, poi, al livello dei target, emerge che il 90 per cento della somma è stata destinata a finanziare “Politiche salariali e di protezione sociale” (target 10-4).

In un anno caratterizzato da interventi di sostegno a gran parte dei settori economici e di aiuti alle famiglie, gli Obiettivi dell’Agenda hanno permesso di rappresentare in modo particolarmente efficace l’orientamento della spesa pubblica. I riflessi finanziari dei provvedimenti adottati dal legislatore per fronteggiare, con misure straordinarie di spesa, l’emergenza sociale ed economica generata dalla crisi, si possono cogliere infatti in modo immediato attraverso lo schema di classificazione dell’Agenda 2030 così fortemente caratterizzato da traguardi di sostenibilità, inclusione, protezione sociale.

Le diverse misure varate per attenuare gli effetti determinati dal blocco delle attività produttive hanno, del resto, modificato in modo profondo, nel 2020, il Bilancio dello Stato nel corso della sua gestione. L’emanazione di numerosi e specifici provvedimenti legislativi emergenziali (dl 18/2020 “Cura Italia”, dl 23/2020 “Liquidità, dl 34/2020 “Rilancio”, dl 104/2020 “Agosto”, dl 137/2020 “Ristori”) hanno comportato, infatti, l’individuazione di nuovi capitoli o piani gestionali, nonché l’introduzione di variazioni, anche significative, sulle dotazioni già previste.

Si è trattato di interventi che hanno inciso in modo significativo sulla distribuzione della spesa corrente e di quella in conto capitale, sottolineando il carattere assolutamente straordinario dell’esercizio finanziario, nonché lo sforzo effettuato dalle amministrazioni centrali per dare effettività e concretezza alle notevoli risorse stanziate.

Lo sforzo finanziario, nel complesso, si è concentrato in poche missioni di spesa riconducibili ad alcuni Obiettivi “Pilastro” dell’Agenda. Come la riclassificazione mette bene in evidenza, oltre a concentrarsi nell’Obiettivo 10 mirato alla riduzione delle disuguaglianze (con il 32,6% di risorse stanziate), le risorse statali hanno alimentato con ulteriori 180 miliardi di euro i target relativi all’Obiettivo 3 “Assicurare la salute e il benessere per tutti e per tutte le età” (19,1%) e 8 “Incentivare una crescita economica, duratura, inclusiva e sostenibile, un’occupazione piena e produttiva ed un lavoro dignitoso per tutti” (18,9%).

La straordinarietà della crisi pandemica, a cui è stata data risposta con misure altrettanto straordinarie, ha pertanto fortemente indirizzato l’esercizio di riclassificazione verso tali Obiettivi, influenzando di conseguenza anche il punto di osservazione iniziale. Sarà pertanto necessario continuare a svolgere l’esercizio anche per gli anni successivi per verificare l’effettivo orientamento dei governi verso gli Obiettivi di sostenibilità.

Sul versante opposto, la residualità che si osserva per gli stanziamenti nel settore della sostenibilità climatica e ambientale (Goal 14) e di gestione delle acque e delle strutture igienico-sanitarie (Goal 6), oltre a mettere in evidenza quali siano state le priorità assegnate alle politiche nel 2020, segnala quanto sia importante provare a individuare nell’orizzonte del legislatore i legami e le strette interconnessioni tra le dimensioni economiche, ambientali e sociali delle misure di policy emanate.

Un’angolazione, questa, che potrebbe essere introdotta, in prospettiva, anche allo scopo di individuare, nelle politiche di spesa attuate dalle amministrazioni, le trasversalità e le interconnessioni tra le dimensioni citate. Ricostruire il quadro sistemico sottostante a tali decisioni permetterebbe infatti di interpretare in modo più approfondito gli obiettivi di policy collegati all’Agenda 2030 e consentirebbe di corredare i dati di bilancio anche con gli indicatori per la misurazione dello sviluppo sostenibile e il monitoraggio dei suoi obiettivi prodotti dall’Istat (in coerenza con l’Inter-agency and Expert Group on SDG Indicators, IAEG-SDGs).

Il quadro fornito dall’Istat, nel maggio 2020, nel momento più drammatico della pandemia, era riuscito in tal senso a descrivere – seppure sulla base delle prime informazioni disponibili a quella data – le interconnessioni tra gli Obiettivi dell’Agenda 2030 e la pandemia. Gli indicatori statistici facevano emergere i forti i legami tra gli Obiettivi economici e ambientali: a partire dalla Salute e benessere (Obiettivo 3), le interconnessioni osservate mostravano che gli effetti della pandemia si iniziavano a osservare soprattutto nell’aumento della Povertà (Obiettivo 1) e delle Disuguaglianze (Obiettivo 10). Gli stessi Obiettivi su cui si rilevano, nella sperimentazione svolta dalla Corte dei conti sul Rendiconto dello Stato, gli interventi di spesa più consistenti attuati nel 2020. Gli stanziamenti di bilancio riconducono, infatti, alle “Politiche di protezione sociale” (10.4) gran parte dei provvedimenti, varati nel corso del 2020, finalizzati a trasferire le risorse per finanziare misure previdenziali e di protezione speciale “straordinarie” per mitigare gli effetti della crisi sui lavoratori.

La classificazione proposta dalla Corte dei conti segnala, in conclusione, che è stato individuato un metodo da cui si potrebbe partire per integrare gli Obiettivi dell’Agenda 2030 nelle diverse fasi del ciclo del bilancio, a partire dal momento della programmazione fino alla fase della rendicontazione.

Riconoscere in modo immediato con quali priorità le risorse pubbliche vengono destinate a realizzare politiche sostenibili e orientate al benessere collettivo, permette di comprendere i processi decisionali di bilancio e di svolgere monitoraggi trasparenti e accessibili anche in vista dell’avvio del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. L’invito della Commissione Europea a integrare gli Obiettivi dell’Agenda 2030 nel semestre europeo, nel quadro finanziario pluriennale (QFP) e nello strumento per la ripresa Next Generation EU potrebbe rappresentare l’occasione per consolidare un metodo di monitoraggio.

* Maria Letizia D’Autilia, ricercatrice Istat distaccata presso la Corte dei conti.
** Il lavoro riflette esclusivamente le opinioni dell’autrice, senza impegnare la responsabilità delle istituzioni di appartenenza.
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Clima e Green Deal, la Commissione accelera a metà
Monica Frassoni

Su Sbilanciamoci! 16 Luglio 2021 | Sezione: Ambiente, Apertura
Rischi e omissioni nelle 12 proposte legislative chiamate “Fit for 55” con cui Ursula von del Leyen e la Commissione europea hanno aggiornato gli obiettivi del Green Deal per ridurre le emissioni del 55% entro il 2030 istituendo un Fondo sociale per ridurre l’impatto della transizione.

La presidente della Commissione europea Ursula Von Der Leyen insieme ai Commissari Timmermans, Gentiloni, Simson, Aldean, Wojciechowski ha presentato il 14 luglio quello che è uno dei più consistenti pacchetti legislativi mai completati nella sua storia. Il pacchetto di proposte legislative si chiama “Fit for 55”. Si tratta di 8 proposte di revisione di direttive e regolamenti esistenti e di 4 nuove iniziative in materia soprattutto energetica che rappresentano un pezzo centrale del Green Deal europeo, il programma partito due anni fa per portare la UE a essere il primo continente a emissioni zero nel 2050 attraverso una lunga lista di norme in tutti i settori dell’economia, industria, ambiente, accompagnate dal riorientamento e dall’aumento delle risorse a disposizione della UE. Il Green Deal è un elemento chiave di Next Generation EU ed è quindi integrato anche nello sforzo di uscita dalla crisi pandemica intrapreso a livello europeo.

La decisione di aumentare dal 40% al 55% gli obiettivi di riduzione delle emissioni al 2030 e di raggiungere la neutralità climatica nel 2050, racchiusi nella Legge sul Clima che entra in vigore questo mese, sono una conseguenza diretta dei richiami incessanti di scienziati ed esperti, delle grandi mobilitazioni dei “Friday for Future” e della crescente consapevolezza dell’estrema minaccia rappresentata dai cambiamenti climatici non solo per l’ambiente, ma anche per l’economia e la vita tout court. L’idea è cioè che il Green deal sia una “strategia per la crescita” alternativa a quella attuale ancora fondata sui combustibili fossili. Il piano ha anche l’obbiettivo di portarci fuori dalla crisi, di dare nuove prospettive di lavoro e di inclusione sociale, di ridisegnare il nostro modo di muoverci, di abitare, di consumare, il tutto riducendo le diseguaglianze e il nostro impatto su risorse e ambiente.

Un sogno? Forse, e come vedremo i problemi non mancano. Bisogna però riconoscere che al di là del merito, il grande lavoro fatto dalla Commissione europea, con il suo scarso (in termini numerici) e spesso criticato staff, è stato davvero straordinario e rappresenta il senso e l’utilità del progetto europeo. In questi mesi c’è stato anche uno sforzo reale di ascolto dei vari attori in campo, dalle ONG all’industria, anche se ovviamente alcune voci sono forse state più ascoltate di altre.
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Lavoro

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di Fiorella Farinelli, su Rocca.

Luana D’Orazio, apprendista di 22 anni, ingoiata il 4 maggio da un macchinario in una fabbrica de distretto tessile di Prato. La sua fresca bellezza postata su Facebook, la ragazza-madre di una bambina di 5 anni, il fratello gravemente disabile, un salario di 980 Euro (ma qualche volta, ha raccontato sua mamma, capitava che fossero 1000 e allora era una piccola festa).

Luana
E poi il sospetto, terribile, che come nell’orditoio gemello sequestrato dalla magistratura, anche in quello che l’ha uccisa fossero stati disattivati i dispositivi automatici di sicurezza. Intenzionalmente, per permetterne la massima velocità operativa, contando magari sul fatto che gli operai più giovani di sicurezza non ne sanno abbastanza, e sul clima di condivisione che c’è di solito nelle piccole aziende dove il sindacato non c’è e il delegato alla sicurezza neppure. Una tempesta perfetta, dunque, con gli ingredienti giusti per sollevare un’ondata di dolore e indignazione nell’opinione pubblica. E per tornare ancora una volta a interrogarsi, chi solo retoricamente e chi sul serio, sulle «morti bianche», quante, dove, perché. Ma c’è da scommettere che le reazioni solo emotive non dureranno a lungo. Le morti sul lavoro, una media nel 2019 di 3 al giorno festività comprese, di solito non fanno granché notizia. Per tanti motivi, tra conformismi e convenienze, sono tra le meno visibili. Tanto più oggi, anestetizzati come siamo da mesi e mesi di centinaia di morti quotidiane per pandemia. E tutti o quasi con la tentazione di giustificare ogni semplificazione o ogni deroga che faciliti l’agognata ripresa produttiva (nella funivia del Mottarone finalmente riaperta, non è stata la disattivazione dei freni automatici la causa principale della tragedia del 23 maggio, lo schianto al suolo della cabina con 14 vite perdute e un bambino gravemente ferito?).

sulla sicurezza si fa troppo poco
Sul rischio di un rapido ritorno al silenzio, e su quello assai più grave che sulla sicurezza nei luoghi di lavoro si continui a fare troppo poco, e che quel che si fa non si faccia come si dovrebbe, è tornato il 12 maggio, in un question time rivolto al presidente Draghi, il deputato Guglielmo Epifani. Diceva, l’ex segretario generale della Cgil nel suo penultimo intervento in aula prima di morire, che la pur positiva decisione del governo, assunta già prima della morte di Luana, di rafforzare le attività dell’Ispettorato nazionale del lavoro con 1000 nuove assunzioni – e poi forse altre 1000 – in aggiunta a un organico attuale di circa 4.500 addetti, non può bastare da sola a contenere drasticamente i rischi di gravi incidenti, più alti da noi rispetto alla media europea, e a paesi manifatturieri come
e più del nostro, per esempio la Germania. Una media di 1200 l’anno solo le morti, la punta dell’iceberg di centinaia di migliaia di incidenti sul lavoro, 369.290 gli infortuni accertati nel 2019, il 65,8% delle denunce presentate (molte di più quelle degli ultimi quindici mesi, ma i numeri più recenti sono meno attendibili per via degli infortuni dovuti a Covid 19 che sono un terzo del totale, delle tante attività rimaste chiuse e della riduzione per effetto dello smartworking degli incidenti «in itinere»).
È però fin troppo pacifico che una parte degli infortuni da noi non vengano censiti, sia oggi che prima della pandemia, perché molto lavoro è in nero e allora le denunce non ci sono o vengono occultate da ricoveri in ospedale attribuiti ad altre cause. Ma perché aumentare gli organici dedicati alle ispezioni potrebbe non bastare? Perché, argomentava Epifani, è altrettanto importante superare la frammentazione degli interventi di controllo e di ispezione, riconducibile al fatto che sono affidati sia al Ministero del lavoro che a quello della sanità, quindi sia allo Stato che alle Regioni (e ogni Regione sempre un pò a modo suo, nonostante il solenne accordo di qualche anno fa in Conferenza Unificata). L’Istituto nazionale del lavoro è nato, nel 2015, proprio per coordinare quello che oggi soffre di interventi scoordinati, di interferenze, sovrapposizioni, perfino rivalità e concorrenze tra i vari enti. Per questo ha un profilo istituzionale e organizzativo che lo rende «terzo», e autonomo da altri attori e autorità. Ma è stato finora poco finanziato, ha un organico insufficiente non solo per quantità ma anche per qualità tecnica e professionale. E il problema dei problemi è che dispone di una banca-dati non ancora integrata ed interoperativa con quelle delle Regioni, delle Asl, di Inps, Inail, e di altri enti con funzioni analoghe o connesse che però operano ciascuno per conto proprio, non di rado pestandosi i piedi. Ecco anche qui, e sulla pelle di chi lavora, gli irrisolti problemi del nostro scombinato regionalismo, dei ritardi nella modernizzazione digitale, delle contrarietà o resistenze istituzionali, politiche, corporative a un funzionamento efficiente, integrato, trasparente, socialmente controllabile delle attività e dei servizi pubblici. Ci vorrà tempo, e molto lavoro, per venirne a capo. Nel frattempo, era il suggerimento di Epifani, la garanzia del coordinamento delle attività ispettive dovrebbe essere assunta direttamente dalla Presidenza del Consiglio. Bisogna prepararsi, da subito, ai maggiori rischi che potrebbero determinarsi sotto la pressione della ripresa produttiva e del recupero affannoso di ciò che è andato perduto.

la vita e la salute non ammettono deroghe
I question time, si sa, si devono fare in pochi minuti. Ma chi di sicurezza del lavoro si occupa, non solo nel sindacato ma anche nei tribunali, nelle università, tra gli avvocati e i medici del lavoro, sa che i problemi sono anche altri, non meno inquietanti dell’inefficienza del pubblico e della sua non infrequente arrendevolezza agli interessi delle imprese (con la cattiva abitudine, che si mormora essere assai diffusa e facilitata da troppo laschi regolamenti regionali, di anticipare informalmente ai datori di lavoro le date delle ispezioni). Se è certo che di ispezioni bisogna farne di più (nel 2020 l’Istituto nazionale ne ha fatte solo 10.179, una media di neanche 2 per ogni addetto) e se, come ha denunciato il sindaco di Prato, nella sua città non ci sono più di 4-5 ispettori a fronte di oltre 4.000 aziende del suo distretto tessile, è certissimo che una migliore «cultura della sicurezza» richiede la costruzione di un triangolo virtuoso tra innovazione tecnologica e manutenzione dei macchinari, intese più stringenti tra le parti sociali, e tanta formazione e qualificazione professionale del personale, non solo degli operatori esecutivi ma anche di chi dirige, proprietari e management.
Rischi e guai, infatti, vengono da più parti. Innanzitutto da un sistema produttivo fatto per il 92% di piccole e piccolissime imprese poco in grado di investire economicamente in tecnologie sofisticate ad alto profilo di sicurezza (macchinari obsoleti e maltenuti sono frequentissimi anche in agricoltura, costruzioni, logistica), e abituate da tempo a giocare la partita della competitività principalmente
sulla riduzione dei costi, quelli del lavoro, delle attrezzature, della formazione.
Occorrono interventi pubblici mirati, una contrattazione nazionale e decentrata più esigente, una presenza più attiva delle rappresentanze sindacali nelle singole aziende e anche in ambiti settoriali e territoriali. Ma è decisivo anche che i lavoratori – tutti, anche i precari e stagionali, anche i collaboratori familiari, anche i tanti di provenienza straniera che conoscono poco l’italiano – siano più informati, consapevoli, responsabili. In grado, anche se condizionati dalla disparità rispetto al potere aziendale, anche se con la paura di perdere il lavoro, anche se non sempre supportati dalla presenza in azienda del sindacato, di rendersi conto dell’entità del rischio, di denunciare il mancato rispetto delle regole, in proprio o rivolgendosi a chi può aiutarli. In grado anche di utilizzare correttamente, senza disattenzioni e approssimazioni, i dispositivi personali di tutela e sicurezza. La vita e la salute di ciascuno e di tutti non ammettono deroghe.

formazione, vertenze, controllo
Ma è una sfida, quella della formazione obbligatoria dei lavoratori nel campo della sicurezza, tanto strategica quanto trascurata. In Italia non mancano, s’intende, le situazioni di eccellenza, per lo più in aziende di grande e media dimensione. Ma in moltissimi altri casi, dove le aziende vedono nella formazione solo un costo, una perdita dannosa di tempo di lavoro, un potenziale ostacolo alla produttività e alla disciplina di fabbrica, le attività formative vengono dilazionate, ridotte al minimo, realizzate in modalità prevalentemente astratte e teoriche (sempre più spesso on line), spesso affidate a formatori esterni che sanno poco o niente delle caratteristiche delle macchine e delle prestazioni di quella determinata unità operativa, dell’organizzazione del lavoro, dei livelli di istruzione e della qualità professionale degli addetti. Una formalità banalizzata, e inadatta allo scopo. Nell’ultimo contratto nazionale dei metalmeccanici, si prevede correttamente che la formazione comprenda anche l’analisi degli infortuni che si sono verificati, la simulazione degli incidenti possibili, lo scambio informativo e formativo tra lavoratori più esperti e meno esperti nello specifico contesto operativo, tra le macchine e sulle linee di produzione. È un’indicazione appropriata, ma sarà possibile attuarla, e svilupparla anche in altri contratti di lavoro? Sono stati gli stessi sindacalisti che l’hanno firmato a proporre, in queste settimane di allarme e di emozione per la morte di Luana, che in ogni azienda si tengano incontri straordinari tra direzioni e organismi sindacali per
analizzare i rischi connessi a questa fase di ripresa a pieno regime della produzione. A sollecitare a tutto il mondo sindacale la costruzione di vertenze unitarie sui temi della sicurezza e della prevenzione, e per il rilancio di una formazione continua non finalizzata unicamente all’addestramento alla prestazione o all’aggiornamento delle competenze finalizzato all’innovazione tecnologica ma anche allo sviluppo della qualità professionale. È infatti anche da qui che passa la dignità del lavoro operaio, la riconquista del suo assai logorato valore sociale. Soprattutto per i più giovani per cui il lavoro in fabbrica è spesso oggi solo il segno di un cattivo destino o del fallimento di altri più attraenti progetti di vita, una condizione da cui scappare il prima possibile, una realtà senza alcuna possibilità individuale e collettiva di crescita e di emancipazione. Non era così una volta, ma oggi bisogna tenerne conto, anche con la formazione.

Fiorella Farinelli

ROCCA 1 LUGLIO 2021
tanta strada nei miei sandali
tanta voglia di futuro

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Infortuni sul lavoro. Le relazioni del dottor Kafka
07-06-2021 – di: Vincenzo Cottinelli su Volerelaluna.
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