Risultato della ricerca: elezioni e legge elettorale

Verso le elezioni sarde

img_3442 Nasce il secondo polo in Sardegna
Oggi, 31 luglio 2023, le organizzazioni politiche Rifondazione Comunista, Potere al Popolo, ProgReS – Progetu Repùblica de Sardigna, Partito Comunista Italiano, iRS — indipendèntzia Repùbrica de Sardigna e RossoMori promuovono un’alternativa unitaria e antagonista al cartello di partiti oggi presenti in Consiglio Regionale. I valori ispiratori della nostra pratica politica sono quelli dell’antiliberismo, dell’autodeterminazione, dell’antifascismo, del pacifismo, dell’antimperialismo, del femminismo intersezionale, dell’anticolonialismo, dell’ambientalismo.

Dibattito. Verso le elezioni sarde. Come voteranno i cattolici?

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d0200290-9056-4df3-a587-48510422d8d5Intervento di Giacomo Meloni.

Una premessa.
Seguo con un certo interesse il dibattito pre-elettorale e, compatibilmente col poco tempo che ho per gli impegni sindacali di Segretario Naz.le della CSS, cerco di andare ad ascoltare i protagonisti principali nelle assemblee ed incontri pubblici. Ho capito che per ora scenderanno in campo vari schieramenti politici: il Centro Destra per ora unito, il PD con alcuni movimenti collaterali, i Progressisti con altri movimenti tra cui gli indipendentisti di Liberu con Giulia Lai e Devias e A Innantis di Franziscu Sedda.
Poi c’è la galassia dei Partiti e Movimenti Indipendentisti, che nelle assemblee di Serri e Parco S.Agostino di Abbasanta stanno tentando una via unitaria identitaria.
Il direttore Franco Meloni mi sollecita a dire la mia su ciò che in politica si muove nel mondo cattolico. E allora, ecco le mie riflessioni.
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Vorrei precisare che il mondo cattolico soprattutto oggi è molto diviso. Fermo restando che credo sia irripetibile l’esperienza del Partito Popolare e della DC e che personalmente non mi reputo certo un nostalgico, anche se penso che molte donne e uomini cattolici impegnati nella politica di quei periodi sono dei giganti rispetto alla maggioranza dei nani e ballerine di oggi.
Vorrei avvertire che i laici cattolici non sono tutti orientati a sinistra e/o al centrosinistra. Le precedenti elezioni hanno visto molti cattolici sostenere candidati di destra sia dentro le coalizioni di destra, sia all’interno degli schieramenti di centrosinistra indicando apertamente donne e uomini di “destra senza tessere”.
Esempi lampanti:
1. Elezione di Ugo Cappellacci (Forza Italia Centro DX) a presidente della Giunta Reg.le, sostenuto dal mondo cattolico in particolare dall’Associazionismo sportivo, rappresentato da Alessandra Zedda che diventò Assessora.
2. Elezione di Massimo Zedda (allora PD ed ora Gruppo Progressisti) a sindaco di Cagliari (Centro-sinistra e sardista per un periodo e poi solo centro-sinistra, dopo il ritiro delle deleghe all’assessore sardista Gianni Chessa), sostenuto dal mondo cattolico tramite la madre cattolicissima ed il forte legame coll’allora ed ora emerito Arcivescovo di Cagliari Mons.Giuseppe Mani (ex ordinario militare in pensione forse col grado di generale e per me “imprenditore”, vedi il forte flusso finanziario delle casse regionali per l’istituzione del Collegio S.Efisio nei locali dell’ex Seminario diocesano).
Massimo era sostenuto anche dai giovani universitari di sinistra. Ma tra i primi provvedimenti della sua Giunta ha chiuso i locali, dove si riunivano le associazioni giovanili nel Palazzo dell’ex Liceo Dettori (poi Siotto), dove studio’ Antonio Gramsci (a cui ha dedicato una targa a futura memoria, dimenticandosi dei giovani, che il nostro grande Gramsci incoraggiava a studiare ed entrare in politica).
3. Elezione di Christian Solinas a Presidente della Giunta Reg.le Sardegna (Centro Destra sardo-leghista), sostenuto dal mondo cattolico e da interessi forti del mondo imprenditoriale e dalla Massoneria.
Torniamo alla sfida di oggi.

Quale Italia? Sud, Sardegna: poveri noi!

img_3586Sud e Nord, la Costituzione vangelo di una fede laica

Massimo Villone su il manifesto
[Pubblicato 8 giorni fa - Edizione del 20 luglio 2023]

SVIMEZ 2023. Il divario territoriale non si riduce, ed anzi tende per molti profili ad allargarsi, sia pure meno e più lentamente rispetto alla caduta seguita alla crisi del 2008

img_3904Negli ultimi giorni due voci si sono segnalate con forza nella cacofonia della politica italiana. Una è lo Svimez, che ha presentato le Anticipazioni sul Rapporto 2023. L’altra è quella di don Mimmo Battaglia, arcivescovo di Napoli, che ha rivolto una dura critica all’autonomia differenziata.

Tema principale in entrambi i casi la faglia tra il Sud e il resto del paese.Per la Svimez il divario territoriale non si riduce, ed anzi tende per molti profili ad allargarsi, sia pure meno e più lentamente rispetto alla caduta seguita alla crisi del 2008.

Dopo quell’anno il Sud non ha mai del tutto recuperato, rimanendo tuttora a -7 punti di PIL. Così, vediamo al Sud una inflazione più alta, una perdita di potere di acquisto dei salari maggiore, una più alta quota di lavoro precario e a termine, nonché di salari al di sotto dei 9€ all’ora tanto osteggiati dalla destra (25% al Sud, circa il 16% al Centro-Nord). Al Sud il termine lavoro povero non è un’espressione letteraria, ma la condizione di vita di milioni.

PREOCCUPANO, POI, le previsioni Svimez fondate su dati settoriali, come ad esempio l’industria che nel Sud contribuisce alla crescita assai meno che nel Centro-Nord (10% vs 25%), o i minori investimenti in macchine e attrezzature. Questi elementi suggeriscono che non si rafforza la capacità produttiva, in ipotesi essenziale per il rilancio del Sud come secondo motore del paese. Preoccupano, altresì, i dati sugli investimenti in materia di istruzione che non risultano mirati ai territori con maggiori carenze e bisogni. Uno scenario coronato dalla terribile cifra di 460000 laureati emigrati dal Sud verso il Centro-Nord nell’arco di venti anni.

NELLE ANTICIPAZIONI Svimez le parole autonomia differenziata non compaiono. Ma non sono invero necessarie, perché la posizione critica della Svimez sul tema è nota, è stata in molteplici occasioni manifestata dal presidente Adriano Giannola e dal direttore Luca Bianchi, ed è da ultimo ribadita nella memoria per l’audizione in Senato (che si legge sulla pagina web della I Commissione). Anche per la Chiesa potremmo dire che la critica all’autonomia differenziata non è una prima assoluta. Ma certo le parole dell’Arcivescovo Battaglia segnano un salto di qualità per chiarezza di posizione e forza argomentativa.

Don Battaglia non parla solo in termini di fede e carità. Critica duramente la scarsa tensione morale di una parte della politica, che ha indebolito le istituzioni e sprecato risorse pubbliche. Censura una voglia di separatezza che viene dall’idea di fare “tante piccole Italie”, attraverso riforme costituzionali rabberciate. Attacca direttamente l’autonomia differenziata. Parole – argomenta – che prese singolarmente recano un messaggio positivo. Ma in perversa sinergia spaccano il paese ed accrescono la povertà che già colpisce milioni. Contesta persino la tesi – cara ai fan – dell’autonomia differenziata come attuazione della Costituzione, che invece persegue l’eguaglianza, impegnando lo stato a realizzarla.

CONDIVIDIAMO. Se le parole di Don Battaglia indicano che la Chiesa come istituzione scende esplicitamente in campo contro l’autonomia differenziata siamo di fronte a una importante e positiva novità. Non sembra dubbio che questa dovrebbe essere la posizione della Chiesa di Papa Francesco. Ma esiste pur sempre una parte della Chiesa che potrebbe dissentire. Per questo sarebbero opportune iniziative utili a dimostrare che la posizione di Don Battaglia non è isolata.

Inoltre, è in atto una discussione sulla collocazione politica dei cattolici. Il contrasto all’autonomia differenziata meriterebbe un posto di onore in un manifesto o una carta di valori. Nell’esperienza quotidiana capita di incontrare qualcuno che frequenta con devozione formale i sacramenti mentre si nega alla mano che chiede aiuto. Don Battaglia ammonisce che non è “politicismo” se la Chiesa prende parte per gli ultimi e i bisognosi. E conclude che oggi “questo sostegno deve andare anche ai territori, affinché non siano lasciati soli. A quelli del Sud …”. È la stessa conclusione cui deve arrivare la politica, con le proprie ragioni.

CARO DON BATTAGLIA, un passaggio ci è molto piaciuto nella sua riflessione. Laddove racconta che ha scritto avendo per caso davanti uno accanto all’altro il Vangelo e la Costituzione, le cui parole “stanno bene insieme”. Non potrebbe essere diversamente. Cos’è infine la Costituzione se non il vangelo di una fede laica?
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Riforme. «Autonomia differenziata, da Vangelo e Costituzione i criteri per un giudizio»

Mimmo Battaglia su Avvenire sabato 15 luglio 2023*

L’arcivescovo di Napoli interviene nel dibattito sulla discussa riforma che incide sulla struttura dello Stato e, ancor più, sullo spirito e i valori che lo animano, sorretti dall’idea di persona

C’è un’aria strana che si muove nel cielo. Da troppo tempo, ormai. Non si comprende bene se è di vento, e di che vento. O di temporale che minaccia. È certa, però, la direzione in cui essa si muove. È quella della povera gente, resa ogni giorno più povera da una certa politica che non la considera, se non per la convenienza, magari elettorale. La gente, resa più distante dalle istituzioni, che si vorrebbero asservite al potere e questo a pochi uomini, e assai più poche donne, che lo detengono. La gente, trascurata anche dalla cultura che, smarrendo la sua vocazione originaria, si volta dall’altra parte e si ubriaca di parole che essa stessa ha consumato. La gente, che non riesce più a sentirsi popolo, perché le antiche bandiere sono ferme e gli inni gloriosi muti, davanti a una falsa idea di nazione che scambia la patria per un campo di battaglia, dove una parte si contrapponga a un’altra. E dove ciascuno è straniero se viene da lontano, da una terra che non li caccia, la propria. E da un’altra, di là dal mare, che non li vuole.

L’Italia, il nostro bel Paese, ricco di storia buona e di cultura bella, di paesaggi ineguagliabili e di ricchezze artistiche e culturali incommensurabili, è sotto quel cielo, a respirare quest’aria strana. E io, nell’umiltà della mia fatica pastorale, in una terra di confine sono preoccupato seppur non rassegnato. Terra di confine, è la mia Napoli. Territoriale, tra il Sud e il Nord, in tutte le accezioni considerabili. Di confine tra un Sud che non parte e un Nord che non viene. E dove Sud è l’arretratezza, con tutto il carico di dolori e di errori, e il Nord è lo sviluppo, con tutto il peso delle sue contraddizioni. Terra di confine, è la mia Napoli, tra un Meridione che si modernizza e cresce, come essa sta facendo da non pochi anni (pur con le ferite che le squarciano il petto e sanguinano nelle carni di tanti ragazzi) e la mia Calabria, la regione da cui provengo, che resta, nonostante i buoni sforzi di parti della politica e delle istituzioni, ferma al palo dell’antico abbandono e delle moderne speculazioni. Su cui, pesante come un macigno, grava la scarsa tensione morale di parte della politica che ha indebolito le istituzioni e sprecato in un tempo lungo ingenti risorse pubbliche.

E non è la sola a essere in queste situazioni. All’interno di questo quadro, il nostro Paese, che dalla grave pandemia è uscito impoverito e diviso, rischia di essere trascinato in un campo in cui l’egoismo che ci prende sempre di più si codifica in scelte politiche nette. Scelte che alimentano quel desiderio di separatezza di una parte del territorio da tutto il resto del Paese. Un desiderio, questo, che ha un’origine lontana. In quel tempo in cui si pensava a una diversa articolazione dello Stato, di fatto divisiva e separatista, mascherata da decentramento e partecipazione dal basso, quando invece altro non era che il tentativo di fare dell’Italia, nazione grande e prestigiosa, tante piccole italie, lontanissime dalla più grande e potente che si sarebbe agganciata all’Europa. Quel tentativo, di cui non è responsabile solo una parte della rappresentanza parlamentare, si confuse in modifiche costituzionali rabberciate, i cui danni si vedono a occhio nudo ancora adesso. Oggi quella cultura della divisione, quel sentimento di egoismo che si è progressivamente trasformato in una sorta di indifferenza collettiva nei confronti della sorte dell’altro, sta prendendo sempre più la forma di un’altra legge possente. Di un altro colpo, cioè, all’impalcatura democratica dello Stato fondato sulla partecipazione di tutti (territori e cittadini e istituzioni e culture, nessuno escluso) alla costruzione della ricchezza del Paese.

Lo chiamano in più modi, questo disegno di legge, che, varato dal Governo, ha già fatto un gran pezzo di strada parlamentare. Lo chiamano in tanti modi, ripeto, alcuni leggeri ed eleganti, per indorare la pillola sbagliata da ricetta ancora più sbagliata. La più nota denominazione é “Autonomia differenziata”. Ecco l’eleganza delle parole. Sono due sole. Prese autonomamente procurano una sensazione più piacevole di quella che pure si prova se lette insieme. Autonomia. Che bella questa parola! Cosa c’è in un qualsiasi consorzio umano di meglio che avere garantita l’autonomia. Autonomia si coniuga con libertà. È magnifico essere autonomi, magnifico essere liberi. Poter decidere del proprio futuro e della propria vita attraverso il pieno utilizzo dei propri mezzi è il sogno di tutti. Qui si potrebbe innestare un principio anch’esso affascinante, di chiara marca liberista o come meglio dir si voglia: a ciascuno secondo le proprie capacità. Fin qui potremmo essere quasi felici, se non intervenisse la fatica dell’essere autonomo e il rischio che la libertà applicata in quel contesto possa procurare voglia di fare senza gli altri. Ovvero, di non vedere altro interesse che il proprio. Del territorio e di quanti all’interno di esso vivono, specialmente. Forte crescerebbe qui il desiderio di costruire tutt’intorno a quella autonomia confini più rigidi e invalicabili.

L’altra parola, egualmente bella e affascinante, è “differenziata”. Essere differenti, cioè sé stessi diversi dagli altri per legge determinati, è interessante. Fare cose differenti, agire in maniera differente in un’area differenziata, è atto straordinario, che solletica vanità e senso di superiorità. Voglia di far da soli e per sé stessi e con le proprie risorse, senza, soprattutto, dover dar conto agli altri e fare i conti con gli altri, non è vantaggio da buttare, direbbero gli interessati se già non l’hanno pensato.
Dicono i sostenitori della nuova legge in itinere che è tutto previsto dalla Carta costituzionale, che da tempo attenderebbe che venisse attuata in quel principio più largamente affermato nelle cinque regioni autonome. Ed è forse davvero così. Costoro, però, dimenticano, che la Costituzione, prima, durante e dopo, quell’articolo narra dell’eguaglianza autentica fra tutti cittadini e prescrive che sia lo Stato a garantire l’effettiva parità, secondo modi e criteri che non sto qui a elencare. In tanti ancora dimenticano che la bellezza della nostra Costituzione è nella inscindibile unità tra autonomie e solidarietà, tra libertà individuale e azione sociale, tra ricchezza individuale e ricchezza complessiva, tra singoli territori e unità territoriale. Tra regioni e nazione. Tra comuni e Stato, tra pluralismo e compattezza. Dimenticano che al centro di ogni divenire sociale c’è la persona, non l’individuo singolo privo di tutto quel corredo umano che fa l’uomo l’essere speciale che è.

L’autonomia differenziata, per quanto la si voglia edulcorare con nuovi innesti terminologici che la gente non comprende, rompe questo concetto di unità, lacera il senso di solidarietà che è proprio della nostra gente, divide il Paese, accresce la povertà già troppo estesa ed estrema per milioni di italiani. Infine, cancella d’un colpo quel bagaglio ricchissimo di conquiste democratiche realizzato dalle lotte popolari dal Risorgimento a oggi. Abbiamo di recente visto che da soli non si va da nessuna parte, che anche le zone ricche subiscono il rischio di diventare povere e di incontrare la sofferenza e il dolore. Il terribile terremoto e la devastante alluvione che in due ravvicinate “sventure” ha subito la nobile e fiera Emilia Romagna, hanno visto ancora una volta la straordinaria grandezza del popolo italiano. La solidarietà è partita subito. Specialmente dal Sud il cuore della generosità è volato su quelle terre così duramente colpite. Nessuno ha fatto i conti della spesa. Qui al Sud si è pregato e tifato, e si è gioito quando il Governo ha elargito somme considerevoli, che anche qui sono considerate insufficienti per far tempestivamente rinascere quella parte della nostra Italia. Il territorio è la prima ricchezza che hanno i poveri, indebolirglielo è colpa grave, non solo politica. Le ferite ai territori, in qualsiasi modo inferte, sono ferite sulle carni già aperte dei poveri. Sfugge ai responsabili della cosa pubblica il significato della parola “gente”, della parola “popolo”. Della parola “comunità”. Essa ha valore se si comprende che gente, popolo, comunità è la Persona, con tutto il suo carico di diritti inalienabili.

Sono un prete, soltanto un prete, che ha toccato e tocca ogni giorno la sofferenza. Della persona che lotta e non vince mai. Che si affatica e non si riposa un minuto. Che sta sempre in fondo alla fila che non scorre mai. Che vorrebbe avere fiducia e non trova ascolto. Che vorrebbe parlare e non la si lascia esprimere. Il Santo Padre, che si batte strenuamente per difendere le persone da ogni guerra che si muove loro contro (quella della fame è la guerra che un miserabile mondo opulento e obeso muove prima di quelle guerreggiate), ci esorta a non abbandonare quella che si manifesta sempre di più come la più grande delle azioni umane, la solidarietà verso gli ultimi. La difesa della vita umana e della tutela della sua piena dignità. Dinanzi alle enormi sofferenze di famiglie intere che non riescono a fronteggiare il più piccolo dei bisogni nessuno osi tirarsi indietro. La Chiesa non può e non lo farà. Il prete non può e non lo farà. E non tema alcuno di essere accusato di politicismo: la Chiesa prende parte, sì, quella dei poveri, dei bisognosi. Si fa parte essa stessa degli ultimi e non perché li carezzi mentre li si vorrebbe ultimi ma per dar loro la forza di riscattarsi dalla povertà e dall’arretratezza. Oggi questo sostegno deve andare anche ai territori, affinché non siano lasciati soli. A quelli del Sud perché in essi splenda pienamente il sole. Il sole incontro al quale devono correre i nostri ragazzi, per costruire insieme la felicità. Di tutti.

Ho scritto questa riflessione di getto, lasciando parlare solo il mio cuore. Di prete e di uomo. L’ho fatto trovandomi sulla scrivania, l’uno accanto all’altro, così casualmente, il Vangelo e la Costituzione. Tenendo ben divisi questi due “libri”, trovo felicemente che la Parola e quelle parole stanno proprio bene insieme. Questa sensazione in me è bellissima. La dirò domattina ai miei amici più piccoli, che si chiamino Ciro, Concetta, Carmela, Gennaro, o altri nomi che ho conosciuto attraverso i loro volti bellissimi, affinché provino gioia e desiderio di camminare con questi valori e questi princìpi. Ma non da soli, però. Da soli no. Con gli altri. Sempre più numerosi. Perché la Bellezza vince sempre. E l’Amore pure.

Arcivescovo di Napoli

*Questo testo è pubblicato in contemporanea da Avvenire e www.chiesadinapoli.it. Una sintesi sull’edizione di Avvenire del 16 luglio.
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img_3442img_3907img_2775Se son rose fioriranno. Qualcuna è già fiorita!
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di Franco Meloni
Il dibattito politico sulle prossime elezioni sarde è in rapida crescita. Per quanto riguarda il centro destra tutto sembra ruotare sulla contrastata ricandidatura di Christian Solinas, che solo la Lega e la parte maggioritaria del PSdAz propongono. La destra rampante di Fratelli d’Italia e quella moderata di Forza Italia più cespugli vari vogliono un cambio di cavallo. E a parere di molti credibili osservatori ci riusciranno. E anch’io così penso. Basterà trovare un beatiful exit per l’ingombrate Christian: per lui si aprirebbe un dorato pensionamento al Parlamento europeo. La destra vincente punterebbe su un candidato di prestigio come l’attuale leader della Coldiretti Sardegna Luca Saba. Scelta intelligente che riunirebbe in una sola coalizione il centro destra. Sulla sponda opposta il centro sinistra stenta a trovare l’unità, nonostante una sola lista avrebbe ragionevoli previsioni di vittoria. Ma, si sa, come per primo disse il prof. Luigi Gessa: “il più grande avversario della sinistra è la stessa sinistra”.
Purtroppo le diverse formazioni della sinistra rischiano ancora una volta di perdere, perché incapaci di costruire un’alleanza intorno a un solo candidato presidente, con diverse liste che garantirebbero la diversità di posizioni. Viaggiano nell’ipotesi di una sola coalizione il Pd, il M5S, i Progressisti, Possibile, e altre importanti 6802d991-52f6-4acf-9de5-bf92b0b994ccaggregazioni, tra le quali Demos con Insieme, queste ultime due rappresentanti un’area di Cattolici democratici, che in questa fase tentano, con qualche successo, di riportare molti Cattolici (o comunque persone che si ispirano ai valori cristiani) all’impegno politico. Significativo al riguardo un esplicito gradimento della conferenza dei vescovi italiani (CEI), che non manca di richiamare la entusiasmante stagione del grande compromesso costituzionale del dopoguerra. Il Vangelo e la Costituzione (Vangelo laico), sono i due fondamentali riferimenti; ma come non vedervi l’incitamento esplicito in dimensioni planetarie di Papa Francesco? Nel nostro piccolo, questa posizione è maggioritaria nell’ambito del Movimento Patto per la Sardegna, che si muove vivacemente nel nostro ambiente.
Ma torniamo al centro sinistra e dintorni. In direzione contraria alla grande coalizione si muovono, allo stato, l’arcipelago degli indipendentisti e, separatamente, la sinistra tout court. Sembrerebbe prevalere per ciascuna di queste aggregazioni la scelta di liste separate. Scelta sciagurata, soprattutto in caso di presentazione di coalizioni (anziché di liste singole), inesorabilmente punite dall’attuale pessima legge elettorale sarda. In sostanza: si può vincere e conquistare il governo della Regione solo con la presentazione di un’unica lista con un solo candidato presidente. Semplice a spiegarsi, duro a capirsi nonostante l’esperienza delle img_3910ultime tornate elettorali. Da segnalare l’incognita del neo movimento di “Sardegna chiama Sardegna”, che ha costruito un bellissimo programma per la Sardegna, ma che stenta a concretizzare la scelta sulla presentazione, attualmente affascinata da uno “splendido isolamento”. Noi di Aladinews siamo schierati senza alcuna reticenza per l’unica lista di coalizione del centro sinistra, guidata da un candidato (meglio da una candidata) scelta attraverso il meccanismo delle primarie. Si discuta apertamente senza preclusioni, badando al possibile e auspicabile risultato vittorioso. Il programma va costruito sulle bozze esistenti, trovando l’unità su una serie di punti, rispettando le diversità che devono essere esplicitate. Avanti nell’interesse dei sardi e dell’intera Sardegna!
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Oggi sabato 29 luglio 2023

img_3099 Regionali. Il PD non è legittimato a formare e guidare la coalizione contro le destre
29 Luglio 2023
Andrea Pubusa su Democraziaoggi
Si parla molto di tavoli, il più importante senbra quello che fa capo al PD e al M5S, ma il PD, fingendo apertura, pretende di decidere. La ragione è semplice, è il primo partito della coalizione. E dunque il metro è che chi ha più voti incide di più nelle decisioni. Come nelle società […]
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img_3442img_3907Se son rose fioriranno. Qualcuna è già fiorita!
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di Franco Meloni
Il dibattito politico sulle prossime elezioni sarde è in rapida crescita. Per quanto riguarda il centro destra tutto sembra ruotare sulla contrastata ricandidatura di Christian Solinas, che solo la Lega e la parte maggioritaria del PSdAz propongono. La destra rampante di Fratelli d’Italia e quella moderata di Forza Italia più cespugli vari vogliono un cambio di cavallo. E a parere di molti credibili osservatori ci riusciranno. E anch’io così penso. Basterà trovare un beatiful exit per l’ingombrate Christian: per lui si aprirebbe un dorato pensionamento al Parlamento europeo. La destra vincente punterebbe su un candidato di prestigio come l’attuale leader della Coldiretti Sardegna Luca Saba. Scelta intelligente che riunirebbe in una sola coalizione il centro destra. Sulla sponda opposta il centro sinistra stenta a trovare l’unità, nonostante una sola lista avrebbe ragionevoli previsioni di vittoria. Ma, si sa, come per primo disse il prof. Luigi Gessa: “il più grande avversario della sinistra è la stessa sinistra”.
Purtroppo le diverse formazioni della sinistra rischiano ancora una volta di perdere, perché incapaci di costruire un’alleanza intorno a un solo candidato presidente, con diverse liste che garantirebbero la diversità di posizioni. Viaggiano nell’ipotesi di una sola coalizione il Pd, il M5S, i Progressisti, Possibile, e altre importanti 6802d991-52f6-4acf-9de5-bf92b0b994ccaggregazioni, tra le quali Demos con Insieme, queste ultime due rappresentanti un’area di Cattolici democratici, che in questa fase tentano, con qualche successo, di riportare molti Cattolici (o comunque persone che si ispirano ai valori cristiani) all’impegno politico. Significativo al riguardo un esplicito gradimento della conferenza dei vescovi italiani (CEI), che non manca di richiamare la entusiasmante stagione del grande compromesso costituzionale del dopoguerra. Il Vangelo e la Costituzione (Vangelo laico), sono i due fondamentali riferimenti; ma come non vedervi l’incitamento esplicito in dimensioni planetarie di Papa Francesco? Nel nostro piccolo, questa posizione è maggioritaria nell’ambito del Movimento Patto per la Sardegna, che si muove vivacemente nel nostro ambiente.
Ma torniamo al centro sinistra e dintorni. In direzione contraria alla grande coalizione si muovono, allo stato, l’arcipelago degli indipendentisti e, separatamente, la sinistra tout court. Sembrerebbe prevalere per ciascuna di queste aggregazioni la scelta di liste separate. Scelta sciagurata, soprattutto in caso di presentazione di coalizioni (anziché di liste singole), inesorabilmente punite dall’attuale pessima legge elettorale sarda. In sostanza: si può vincere e conquistare il governo della Regione solo con la presentazione di un’unica lista con un solo candidato presidente. Semplice a spiegarsi, duro a capirsi nonostante l’esperienza delle img_3910ultime tornate elettorali. Da segnalare l’incognita del neo movimento di “Sardegna chiama Sardegna”, che ha costruito un bellissimo programma per la Sardegna, ma che stenta a concretizzare la scelta sulla presentazione, attualmente affascinata da uno “splendido isolamento”. Noi di Aladinews siamo schierati senza alcuna reticenza per l’unica lista di coalizione del centro sinistra, guidata da un candidato (meglio da una candidata) scelta attraverso il meccanismo delle primarie. Si discuta apertamente senza preclusioni, badando al possibile e auspicabile risultato vittorioso. Il programma va costruito sulle bozze esistenti, trovando l’unità su una serie di punti, rispettando le diversità che devono essere esplicitate. Avanti nell’interesse dei sardi e dell’intera Sardegna!

Dibattito: interventi di Mario Girau, Tonino Secchi, Franco Meloni, Michele Pintus

img_3442 La replica di Tonino Secchi. Caro Mario, il tuo sogno si sta già avverando. Forse non ti sei accorto ma io ho condiviso nella nostra chat [del movimento Patto per la Sardegna – vedi anche su aladinpensiero] il primo incontro al Parco del Molentargius della larga maggioranza di centro-sinistra che si sta formando in Sardegna. Oltre i partiti già presenti in Consiglio Regionale ci sono molte associazioni che si stanno organizzando in un Coordinamento già impegnato a scrivere un Manifesto programmatico. Ci sono anche i cattolici: io con INSIEME di Zamagni e DEMOS con la Comunità di Sant’Egidio alla cui guida in Sardegna c’è Mario Arca. Entro fine mese di luglio il programma sarà pronto e verrà portato in giro per l’isola per confrontarlo con la gente, soprattutto con i delusi e gli sfiduciati. Sono sempre a disposizione per tutti quelli che ne vogliono sapere di più. Camaldoli non si ripete e sta nella storia del movimento cattolico che ne ha fatto buon uso trasferendo i suoi principi nella Carta Costituzionale. Ora siamo in un cambio d’epoca che sconvolge anche il futuro dell’isola. Tocca mobilitarsi e non restare alla finestra!
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Precisazione di Mario Girau [segue il dibattito al 24 luglio 2023].

Che succede e ancor può succedere?

b8d4f079-0a9d-4306-b131-9b630a570a4ecostituente-terra-logo Costituente Terra Newsletter n. 117 del 17 maggio 2023 – Chiesadituttichiesadeipoveri Newsletter n. 298 del 17 maggio 2023
L’ATOMICA E IL COVID

Cari Amici,

A missione conclusa, si capisce meglio il senso del giro delle Sette Chiese che il presidente Zelensky ha fatto, dalla Polonia a Roma, al Vaticano, a Berlino, a Parigi, a Londra e a Bruxelles. Tre erano i suoi obiettivi: la conferma dell’appoggio politico dei suoi alleati e l’assicurazione che esso non verrà meno anche se la controffensiva annunciata dovesse durare a lungo; chiedere più armi, e soprattutto i caccia per la guerra aerea con la Russia, perché non si vince una guerra senza il dominio del cielo; stanare il Papa, fargli compromettere la sua terzietà e il ruolo di mediatore, annettere anche lui alla crociata dell’Occidente contro la Russia, distoglierlo dal voler parlare con Putin.

Dei tre obiettivi il primo è stato raggiunto a partire dalla Polonia, la nuova pupilla degli Stati Uniti in Europa, fino alla promessa di nuove sanzioni alla Russia da parte di Ursula von der Leyen, e con la straordinaria accoglienza goduta in Italia; il secondo è stato solo in parte raggiunto perché gli sono stati negati i caccia, oltre quelli già forniti da Varsavia; il terzo si è risolto in un disastro.

La solidarietà dell’Italia è giunta fino all’identificazione tra le due leadership, al loro accomunarsi nel perseguimento della vittoria, e fino alla definizione della Russia come “il Nemico”, data da Giorgia Meloni nel discorso a Palazzo Chigi; qualifica di nemico che equivale allo stare in guerra contro qualcuno (Biden definisce Russia e Cina non come “nemici” ma “competitori strategici”) guerra che però in Italia può essere deliberata solo dalle Camere e dichiarata dal presidente della Repubblica. In cambio Zelensky ha preconizzato che anche l’Italia dovrà mandare i suoi figli a combattere in questa guerra quando la Russia, se non sarà sconfitta, invaderà i Paesi baltici, come diceva la “teoria del domino” ai tempi della guerra del Vietnam.

Del tutto mancato è stato invece il terzo obiettivo che metteva in gioco la “missione” perseguita dal Papa. Zelensky si è presentato da lui con il suo elenco di richieste, cha ha poi enunciato la sera nelle esternazioni di “Porta a porta”, nelle quali ha espresso tutta la sua delusione e ha licenziato il Papa dicendo di non aver bisogno di un mediatore. Nell’udienza era incorso in un grave infortunio regalando al Papa una piastra antiproiettile e un’icona della Madonna senza il bambino, sostituito da una cancellatura nera (per significare “la perdita” dei bambini nella guerra), che sarebbe come presentare il cristianesimo senza Cristo e non fare di Maria “la mamma di Gesù”, come si è poi affrettato a chiamarla il Papa all’ “Angelus” domenicale.

Da tutto ciò risulta che questa guerra non è un pezzo della “guerra mondiale a pezzi”, ma è già in nuce la guerra mondiale intera. Resta la grande incognita del ruolo che avrebbe l’arma nucleare. Interrogato sull’ipotesi che la Russia vi faccia ricorso (come è previsto nella sua strategia se fosse messa a rischio l’esistenza stessa dello Stato), Zelensky ha risposto che Putin ha paura di morire, come dimostra quando riceve i suoi ospiti seduto al tavolo lungo per non prendere il Covid, e perciò non userebbe la bomba perché anche lui morirebbe. Non sembra una risposta da statista, quando nella guerra fredda per scongiurare uno scontro nucleare fino a liberarsi dall’atomica si ricorse addirittura alla deterrenza e all’equilibrio del terrore, e si impegnarono i più grandi statisti, da Kissinger a Gorbaciov a Rajiv Gandhi.

Perciò bisogna fermare la guerra, perché oggi siamo in altre mani.

Nei siti [chiesadituttichiesadeipoveri e costituente terra] pubblichiamo una riflessione di papa Francesco, nel discorso tenuto recentemente all’Università cattolica di Budapest, sul rischio tecnocratico, e un testo di Raniero La Valle, “Allarme per la democrazia”, per la presentazione del libro “Guerra Ucraina” di Domenico Gallo.

Con i più cordiali saluti,

Chiesa di Tutti Chiesa dei Poveri
Costituente Terra (Raniero La Valle)
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ALLARME DEMOCRAZIA
17 MAGGIO 2023 / COSTITUENTE TERRA / L’UNITÀ UMANA /

Divenuta strutturale la guerra non è compatibile con la democrazia. Le tre rovine del pensiero superate nel Novecento e riprese dal fascismo profondo: diseguaglianza, sovranità e guerra. La vera riforma della Meloni

Raniero La Valle

Pubblichiamo lo scritto di Raniero La Valle per la presentazione alla Fondazione Basso del libro di Domenico Gallo: Guerra ucraina, Delta 3 Edizioni

La visita di Zelensky in Italia e il suo giro per le capitali europee, con la benedizione degli Stati Uniti, conferma che la guerra è strutturale nella nostra società, nel senso che tutto l’ordine internazionale è fondato e strutturato sulla guerra, e dunque la guerra è la sua forma permanente, combattuta o in pausa che sia. Del resto è sempre stato così, dall’inizio della storia conosciuta, con l’eccezione nel Novecento della negazione della guerra come congenita all’uomo della Carta delle Nazioni Unite e della Pacem in terris di Giovanni XXIII e della Chiesa dopo di lui.

Ma la guerra non è compatibile con la democrazia; ciò vale anche in Italia dove, secondo l’art. 78 della Costituzione, lo “stato di guerra”, deliberato dalle Camere, è uno stato di eccezione – l’unico – che consente deroghe alle regole democratiche.

Tanto più ciò è vero nella comunità internazionale: non a caso all’inizio della guerra in Ucraina Zelensky ha chiesto lo scioglimento dell’ONU, poi non ha riconosciuto la Russia come presidente di turno del Consiglio di Sicurezza, mentre sono compromessi i tentativi di instaurare un più avanzato costituzionalismo mondiale. Pertanto la democrazia internazionale è sospesa.

Tuttavia la guerra non è la sola cosa che mette a rischio la democrazia in Italia. Ci sono molti altri sintomi e simboli che fanno risuonare un “allarme democrazia”, che è necessario riconoscere.

Prima di tutto mentre per sua natura la democrazia è inclusiva, la politica è oggi concepita in Italia, come in molti altri Paesi dell’Occidente, come una contrapposizione amico-nemico, secondo la teorizzazione che ne ha fatto Carl Schmitt. Le leggi elettorali maggioritarie e bipolari ne sono la conseguenza.

A metterci oggi sul “chi vive?” c‘è poi il rischio che è di tutte le democrazie, ed è che la democrazia è un regime meraviglioso ma fragile, che in modo dissimulato abusando degli strumenti rappresentativi e giuridici può rovesciarsi in autocrazia. Così è avvenuto col fascismo in Italia e il nazismo in Germania; può accadere che una forza politicamente e culturalmente non egemone che per un caso fortuito vinca le elezioni sostenga di dover restare al potere per assicurare il bene o la salvezza del Paese; e può accadere, come effettivamente è accaduto col Forum economico di Davos, che grandi poteri economici o politici internazionali premano sulle politiche nazionali perché “raffreddino” la democrazia.

Molte sono le democrazie, anche tra le più note, che si sono dimostrate vulnerabili e a rischio. Basta pensare agli Stati Uniti, dove si stava rovesciando addirittura un’elezione presidenziale e dove ci sono più stragi che scuole, al Brasile dove Lula è stato messo in carcere, alla Francia che promulga leggi sottratte al Parlamento, a Israele che perseguita i palestinesi e sovverte l’ordine giudiziario e la stessa Corte suprema. Anche in Italia la democrazia è stata più volte a rischio, col governo Tambroni (1960), il piano Solo (1964), le stragi, la collusione Stato-mafia, le Brigate Rosse, l’uccisione di Moro: ma allora c’erano i partiti di massa a presidiare la democrazia e le sezioni comuniste erano allertate quando il pericolo si faceva maggiore.

E oggi sono via via crescenti i sintomi dl pericolo a pochi mesi di distanza da elezioni estive sbadatamente gestite dai partiti, e sinistrate da un gran numero di astensioni, che hanno prodotto quasi per caso un governo di matrice culturale fascista.

Molti sono i sintomi di un’emergenza democratica, Non c’è solo la lotta ai migranti, l’introduzione di nuovi reati; c’è un uso spregiudicato dello spoil system, che se purtroppo viene considerato normale nell’attuale sistema politico, è uno strumento delicato in mano a poteri non affidabili. Grazie a esso il governo mette le mani su polizia e guardia di finanza, e nello stesso tempo (cosa mai vista, secondo Bersani) lo fa sulla RAI, l’INPS l’INAIL, ENI, ENEL, LEONARDO e POSTE Sui migranti è già stato introdotto lo stato di emergenza e Salvini controlla la Guardia costiera. .Un sintomo grave è la lunga sospensione delle conferenze stampa, sostituite dagli spot televisivi autoprodotti a palazzo Chigi dalla premier. Grave è stata anche l’appropriazione distorsiva che è stata fatta del 25 aprile e del 1 maggio, l’affronto ai sindacati di convocarli la sera prima del varo del decreto lavoro, l’implicita citazione fascista del motto “qui non si fa politica si lavora” (a proposito della festa del 1 maggio). C’è un fascismo profondo della Meloni, come dice Carlo Rossella berlusconiano ed ex direttore del TG1, che viene da lontano, cioè dalla cultura che ha generato il fascismo del Novecento e da questo è stata assunta nella sua forma peggiore, una cultura con cui la storia stessa ha stabilito una rottura epocale con la guerra antifascista e antinazista conclusasi con la Liberazione.

Quali sono i filoni negativi di quella cultura, fatti propri dai fascismi del Novecento, che sono stati travolti dalla rivoluzione della II guerra mondiale?

Il primo è il pensiero della diseguaglianza per natura tra gli esseri umani. È un pensiero che viene dalla società signorile che discriminava tra signori e servi, è passato attraverso il regime di cristianità, ha legittimato la conquista dell’America e il genocidio degli Indios nella loro inferiorità rispetto agli Spagnoli (si sospettava non avessero l’anima). La diseguaglianza per natura è stata poi teorizzata da Hegel nella distinzione tra popoli della natura e popoli dello spirito, da Nietzsche per il quale “gli uomini non sono tutti eguali. E neppure devono esserlo!”, fino a Croce che contrappone gli “uomini che appartengono alla storia e uomini della natura, uomini capaci di svolgimento e di ciò incapaci”, i quali ultimi “zoologicamente e non storicamente sono uomini”, motivazione questa di tutti i razzismi passati e presenti: è chiaro quindi perché i post-fascisti cultori dell’integrità della “Nazione” militano contro “la sostituzione etnica” e sognano il blocco navale contro i migranti.

Il secondo tabù che è stato rimosso dopo la sconfitta dei fascismi novecenteschi è il pensiero della sovranità incondizionata. Essa viene dall’età degli antichi Imperi, è passata attraverso la definizione di Marino da Caramanico della sovranità come la sovranità del potere che non riconosce alcun altro potere “superiorem” (souverain”), al di sopra di sé, è stata teorizzata da Hobbes che nello Stato moderno vede un mostro biblico, il Leviatano, che uscendo dallo stato di natura e facendosi, come dice Ferrajoli, “lupo artificiale” , monopolizza la violenza e promette sicurezza in cambio della libertà. Il feticcio della sovranità giunge poi fino allo Stato etico del nazismo e a Giovanni Gentile; è chiaro quindi perché i sovranisti ce l’hanno con l’unità europea e preferiscono obbedire alla NATO e al Pentagono piuttosto che sposare il multilateralismo costituzionale e appellarsi al sistema di sicurezza dell’ONU.

La terza costante perversa che ha attraversato la storia è il pensiero di guerra. Esso viene dagli albori della nostra cultura, dal frammento di Eraclito che fa della guerra “il padre e il re di tutte le cose”, passa attraverso la teologia medioevale della guerra giusta, sopravvissuta fino a papa Giovanni; nel passaggio alla modernità la guerra è esaltata dallo stesso Hegel quale igiene dei popoli e antidoto al loro “infiacchimento” allo stesso modo in cui “il movimento dei venti preserva il mare dalla putrefazione come vi ridurrebbe i popoli una pace durevole o perpetua”, essa è poi teorizzata dal generale prussiano von Clausewitz, è assunta, col Nemico, da Carl Schmitt quale “criterio del politico”, fino al “credere obbedire combattere” del fascismo. Dopo la sospensione garantita dalla deterrenza nucleare durante la guerra fredda, è recuperata appena la guerra fredda finisce nel conflitto del Golfo e giunge fino alla “competizione strategica” di Biden che “culmina nella sfida con la Cina” e al “vinceremo” di Zelensky; è chiaro quindi perché chi manda le armi nella gara che sta devastando l’Ucraina e convoca poi le imprese per restaurarla, ignora il ripudio costituzionale della guerra e recita due parti in commedia, di distruzione e ricostruzione.

Dalla vecchia cultura viene anche la concezione del lavoro come spregevole, tanto che all’inizio era addossato ai servi e risparmiato ai signori, ed attraverso una lunga storia è arrivato a noi come lavoro schiavo, lavoro merce, sempre alienato e sfruttato, mentre la Costituzione lo mette a fondamento stesso della Repubblica democratica

Ma il segnale più grave della crisi democratica è il precipitoso tentativo di Giorgia Meloni di istituzionalizzare un potere personale mediante riforme costituzionali volte al presidenzialismo e al premierato. Giorgia Meloni, benché affermi di voler instaurare un sistema che dia più stabilità ed efficienza al sistema, si dice indifferente alla scelta tra presidenzialismo e premierato elettivo, anche se c’è una grande differenza tra le due ipotesi: le basta che ci sia qualcuno eletto al comando. Ciò rivela la ragione personalissima per cui la presidente del Consiglio intraprenda con tale urgenza la via delle riforme costituzionali. Il suo governo è scaturito da un’elezione estiva, con la complicità di una cattiva legge elettorale, di un forte astensionismo e della sbadataggine dei partiti oggi all’opposizione. È molto difficile, se non impossibile, che queste condizioni abbiano a ripetersi. Volendo perpetuare il suo potere oltre gli anni di questa legislatura, l’unica strada per lei è l’elezione popolare diretta, non importa a quale delle due cariche, nell’idea che il favore degli attuali sondaggi ad personam si traducano in un voto plebiscitario a suo favore. D’altra parte le riforme sono state sbrigativamente proposte all’opposizione parlamentare ma dalla destra predestinate a farle “anche da sola”. Ora elezione diretta e autonomia differenziata per le regioni come ha scritto Tomaso Montanari, sono la tenaglia con cui verrebbe distrutta la Costituzione della Repubblica.

Tutto ciò inserito nella struttura di guerra imposta all’ordine mondiale, nella ormai iperbolica diseguaglianza di condizioni di vita e di reddito tra ricchi e poveri, nella sovranità del capitalismo globalizzato, susciterebbe allarme chiunque fosse al potere.

In Italia c’è oggi il rischio aggiunto della debolezza della eventuale resistenza che fosse necessaria: i partiti sono stati smontati e solo ora in via di restaurazione-le culture democratiche sono appannate; anche tra i cattolici avanza una nuova debolezza, molti sono diventati post-teisti, pensano che Dio sia una cosa del passato, premoderna, e ora bisogna fare tutto da soli. Ma i cattolici che fanno tutto da soli non sono un gran che.

Tutto questo oggi dice perché oggi ci sia un “allarme democrazia”. Personalmente non vorrei che quello che non ho fatto a 13 anni per conquistare la democrazia, dovessi farlo a 92 anni per difenderla.
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Guerra e Pace

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ALIENUM EST A RATIONE, la libertà ripudia le guerre

di Giancarla Codrignani

Dall’Osservatore Romano del 18 aprile: “In Svezia esercitazioni militari con Ucraina e altri dodici Paesi. Sono “le più grandi” da venticinque anni. “Insieme con le forze armate svedesi e ucraine ci saranno inoltre quelle di altri 12 Paesi: StatiUniti, Regno Unito, Finlandia, Polonia, Norvegia, Estonia,Lettonia, Lituania, Danimarca, Austria, Germania e Francia. I militari impegnati nelle esercitazioni saranno 26.000. Lo scopo è quello di migliorare il potenziale delle truppe nel contrastare un eventuale attacco armato al Paese. Le esercitazioni, che vedranno il coinvolgimento di forze di terra, aria e mare e che si concluderanno a maggio, si terranno in varie parti della Svezia e coinvolgeranno Esercito, Aeronautica, Marina e guardia nazionale svedese”.

Avevo scritto Se non mi persuadete, non ci sto: questa mi sembra una risposta. Che la guerra è una follia l’ha detto da qualche secolo Erasmo da Rotterdam che ben conosceva la diversità culturale tra Oriente e Occidente le cui chiese, detentrici del messaggio di pace cristiano, nelle loro divisioni, avevano mantenuto la relazione almeno formale, oggi malauguratamente interrotto all’interno dell’ortodossia. Tuttavia per amore di libertà, nei paesi democratici, si può accettare perfino una guerra.

Assolutamente no trovarcisi dentro ignorandone non solo le ragioni, ma le modalità che appaiono dettate da incoscienza o impotenza. La Nato non è schierata in campo, anche se le dichiarazioni di Stoltenberg non lo escludono e può bastare un passo falso della Polonia, il paese più affidabile – ospita un milione e mezzo di profughi e ha già dichiarato la disponibilità a fornire all’Ucraina i MiG 29 in suo possesso – perché la Nato diventi operativa. I governi membri sono d’accordo whatever it takes senza parere previo dei loro Parlamenti?

Come individua sto soffrendo il disastro degli ucraini per una guerra che sono costretta a credere “scoppiata” il 24 febbraio 2022 a causa dell’aggressione della Russia che ha deliberatamente varcato i confini con truppe che nessun sistema di controllo aveva intravisto in tempo per attivare la diplomazia. Dopo un anno e qualche mi è cresciuta la preoccupazione: alienum a ratione non è più la guerra, ma la regressione alla legge del taglione, la divulgazione della paura, la reticenza a esplicitare gli obiettivi che si perseguono di una strategia destinata a pesare nel futuro dell’intera Europa.

Non possiamo accusare la Nato se l’Europa non ha una Difesa comune. Tuttavia la Nato comprende 26 paesi, tutti europei, tranne il Canada e gli Usa, e tutti sono alleati nel Patto Atlantico. Non è un patto tra uguali: pazienza, anche questo non è nuovo. L’Europa è debitrice agli Stati Uniti della liberazione dal mostro nazifascista e del rientro nel sistema democratico dei valori e dei diritti della sua tradizione occidentale. Ma non può valere l’interpretazione che nel 1946 ne dava il cardinale Spellman: “non è per difendere la mia fede che io condanno il comunismo ateo, ma in quanto americano io difendo il mio paese; perché essendo un nemico del cattolicesimo, il comunismo è una provocazione rivolta a tutti coloro che credono nell’America e in Dio”. America first, ma non in Europa. Gli europei sanno distinguere la democrazia occidentale dal dispotismo russo e non intendono difendere i diritti del popolo ucraino con una guerra a tempo indeterminato per delega, perché assumono il rischio di un allargamento della conflittualità e perfino del ricorso al nucleare.

Infatti nel coacervo culturale dell’impero ex-zarista ed ex-sovietico, oggi Federazione Russa governata da Putin, albergano lingue e tradizioni diverse con tatari e calmucchi ancora memori del Tamerlano e Gengiskan: l’Azerbaijan potrà aver voglia di autonomia, le tensioni balcaniche sono sempre attive e il Kosovo non è tranquillo, mentre gli un tempo sconosciuti Nagorno Karabak, Abcazia, Ossezia del sud (Georgia) e Transnistria rimandano all’Armenia, alla Georgia e alla Moldova (ex Bessarabia).

Mentre nel 1932 era in corso a Ginevra una conferenza sul disarmo per evitare altre guerre in Europa, una conferenza di Dietrich Bonhoeffer ricordava che “le relazioni tra due popoli hanno una profonda analogia con le relazioni tra due singole persone”. Ma nel caso di danni o violenze tra persone, la civiltà dei rapporti sposta il conflitto al tribunale, sostituto universale della voglia di farsi giustizia da sé, mentre tra Paesi l’onore offeso richiede il tributo del sangue “a prescindere”. Eppure i morti non risorgono, le spese in armamenti vengono sottratte al welfare: oggi sullo sfondo le Banche Nazionali navigano a vista e Janet Yellin, segretaria al tesoro americano cerca rapporti tranquilli con la Cina nonostante Taipei, mentre Biden, per contrappeso alle ingenti spese militari per l’Ucraina, ha varato l’Inflation Reduction Act (370 mld.) a sostegno di imprese e lavoratori senza tagliare né Medicare né pensioni e promuove il buy made in Usa. A danno dell’Europa che dovrà farsi carico della ricostruzione, risarcimento dovuto dopo la solidarietà armata, rinascita produttiva e temuta corruzione (la ‘ndrangheta deve già essere sul posto).

Bisogna riconoscere che i costi di una guerra, dopo la grave pandemia, danneggiano l’Europa – in campagna elettorale per il nuovo Parlamento – sia sul campo dell’Unione dove l’onda populista ha prodotto tensioni identitarie nazionaliste e sovraniste che attentano allo Stato di diritto, sia perché ritardano la crescita politica dell’Unione, che, mentre stava decollando in autorevolezza e potere, rischia il declassamento. Piero Calamandrei, temeva che un’alleanza atlantica di cui si parlavaritardasse la più necessaria “Federazione occidentale europea, politicamente e militarmente unita e indipendente, né alleata né ostile, ma mediatrice tra i due blocchi trasformando gli Stati europei in satelliti di uno dei due blocchi”.

La situazione si è fatta ancor più pericolosa, se è vero che la Nato si interessa troppo del Sudest asiatico: il presidente del Giappone Kishida è venuto due volte in Europa, mentre il segretario Stoltenberg si recava in Corea e Giappone. Se a qualcuno piacesse “liberare Taiwan”, i fatti precederanno un’altra volta le informazioni? Infatti è dai tempi della Corea che le guerre non si dichiarano più: avvengono. E avvengono in modo strano: non in tutti i posti in cui la libertà e la democrazia vengono offese, ma random, dove “piace”, un like. I paesi “che non contano” e sono disastrati (o occupati, vedi i curdi) oggi si chiamano Siria, Sudan, Birmania. Di altri governati da dispoti – Libia, Egitto (Giulio Regeni) o l’Arabia Saudita (Khashoggy) – detentori di gas e petrolio sostitutivi delle forniture russe, apprezzate fino al 24 febbraio o della Turchia (che si avvale di iniziative mediatorie che potevano essere prese perfino dall’Italia) o dell’Afganistan, già assistito da Usa e Nato e improvvisamente abbandonato ai talebani, ci riferiamo ai loro diritti?

Si aggiunge la considerazione sull’evidenza dei limiti delle “Due Grandi Potenze”, in vista dell’avanzata senza fretta de “La Cina”, la terza temuta unica. Non fanno più troppo rumore le accuse di comunismo: per la Cina come niente fosse, in Russia Putin l’ha rinnegato e rimpiange di non aver aderito alla Nato nel 2007. La globalizzazione poteva – se non fosse stata condannata ad essere solo finanziaria – far capire che siamo già diventati cittadini del mondo e per questo nessuno vorrebbe vedere un’altra guerra mondiale: diventerebbe mondiale in senso proprio perché collegherebbe i frammenti di quella già in corso secondo papa Francesco.

Cerchiamo di non dare altre preoccupazioni al Pentagono: i generali che conoscono bene le guerre ormai temono soprattutto le scelte dei politici.

Anche perché Macron – la Francia è potenza nucleare e fa bene a prendersi cura dello stato delle cose – è stato in Cina per mantenere relazioni pacifiche dichiarando che i francesi non intendono essere eterodiretti. Come dire: se la Cina aggredire Taiwan, Xi Jinping è un nemico come Putin? Eppure Macron è stato sgridato.

Chi ha sperimentato la seconda guerra mondiale non può dimenticare che il fascismo e il nazismo sono andati al potere, nonostante ideologie razziste e necrofile, per regolari elezioni democratiche; ma sa bene che gli italiani non potevano combatterla da soldati da soldati della Repubblica Sociale, bensì solo da partigiani: Tina Anselmi obbligata con la scuola ad assistere all’impiccagione di 31 arrestati fece la sua scelta. Gli alleati – inglesi e americani democratici insieme con russi comunisti (totalitari, ma secondo l’ideologia finalizzata alla liberazione dei lavoratori dall’oppressione di classe) – condannarono la Germania sconfitta a subire l’occupazione, risparmiata all’Italia ugualmente sconfitta, perché i partigiani ne avevano salvato la dignità. Ma proprio perché quella catastrofe ha dimostrato che si possono perdere, il valore dello stato democratico e il possesso della pace vanno difesi “prima” dalla buona politica: nazionale, europea e internazionale. La condivisione dello Stato di diritto è l’antidoto alla guerra, che non va mai legittimata in quanto tale. Sono state tante le esperienze – in Vietnam, in America Latina, in Iraq e Iran, in Sudafrica, a Srebrenica – che hanno reso “necessari” massacri, stragi, distruzioni di paesi lasciati cinicamente soli. Di conseguenza è legittima la domanda: che senso ha avuto aiutare paesi poveri in difficoltà con le “missioni militari” e le armi, quando le tensioni e le violenze interne – ben note – andavano prevenute (perché previste) con tempestivi aiuti alimentari e non con governi delegati a mantenere l’ordine? A ben considerare ancora una volta problema vero non è la contrapposizione Est/Ovest, ma quella Nord/Sud, i ricchi contro i poveri. Nel 2023 sostenere con le armi l’autodeterminazione del popolo ucraino contro un despota al potere (da vent’anni!) con cui l’Europa – e la stessa Ucraina – manteneva reciprocità di interessi, conferma il criterio arcaico della guerra: giusta o non giusta, intanto prevalgono gravissime offese ai diritti umani, non partono i cereali da spedire al Sud del mondo dal Mar Nero minato, le Marine nordiche e russe mantengono l’allerta nel Mare Artico, ignare di stare correndo nel frattempo più rischi nel Mediterraneo: prevediamo di scivolare nel conflitto, pur di non assumerci la difesa dei diritti prima che vengano lesi? Non è che anche i nordici vivrebbero meglio se si occupassero dell’Africa?

Ormai sono ben altri gli interessi che premono, anticipo di scontri da non risolvere militarmente: l’ambiente esige che tutti cooperino insieme a salvare il pianeta. La guerra non solo è il più grande inquinante fisico (e morale), ma distrae dall’urgenza di risolvere le priorità di un impegno colossale con metodi da gestire necessariamente in comune. Eppure tutti si stanno riarmando (l’annuario Sipri è scandalizzato dagli aumenti 2022) e la ricerca tecno-scientifica produrrà armi “autonome” ancor più sofisticate e il caccia Tempest – un velivolo che è un intero sistema – sostituirà l’F35, che sostituiva l’Eurofighter a sua volta sostituto del Mrca: non disponibile oggi, si propone per la prossima volta. Ormai si è aggiunta l’arma elettronica, una strategia in più che può creare il caos nelle retrovie nemiche e paralizzare banche, ferrovie, istituzioni. Potrebbe essere l’unica arma. Devasterebbe la casa del nemico, ma non verserebbe sangue. E l’uomo, invece, “vuole” deliberatamente il sangue.

Pochi anni fa l’aspirazione universale delle libertà occidentali aveva fatto immaginare addirittura la fine della storia e sognare una liberaldemocrazia estesa al sistema-mondo nel benessere della pace. La fine della storia come metafora era simbolo di un’umanità desiderosa di vivere in pace. Ma il fare giustizia ha ri pristinato la solita volontà di guerra: come quando la Crimea si ribellò al suo zar e Cavour mandò La Marmora con 15.000 soldati piemontesi, oggi Zelinsky dice che la Crimea è sua, ucraina. Per quanto si possa far durare la guerra, alla fine ci sarà solo un tavolo con gli stessi due contendenti. E, dopo il conteggio delle vittime, le decisioni sui confini e le indipendenze, i grandi dicano ai piccoli quale guerra dobbiamo temere.

° docente, politologa, giornalista, già-parlamentare

Il 25 aprile 2023, nel segno di un antifascismo che riconosce la sovranità e l’autonomia di ciascuno, la bellezza del dovere politico consapevole è il diritto dei popoli alla cura della pace da parte delle istituzioni.
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ALIENUM EST A RATIONE, la libertà ripudia le guerre
di editor 26 Aprile 2023 su Smips.

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Eventi in programma
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Dal primo al quattro maggio 2023
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Mercoledì 3 maggio 2023
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“Alienum est a ratione”. Significa: “È fuori dalla ragione”, “fuori di testa “, “roba da persone disturbate mentalmente”. È un’espressione usata dal Papa San Giovanni XXIII nell’Enciclica Pacem in Terris (1963), nella quale viene detto che ritenere che le guerre possano portare alla pace è appunto “alienum est a ratione”.

Disastro sanità

3dd2e059-2dc5-4bf2-8bb2-70b88f851d5bdisperazione AladinGli italiani situano la salute in cima alle loro preoccupazioni. Giustamente.
Hanno grande considerazione del Sistema sanitario pubblico, nonostante tutto. Nonostante gli episodi di malasanità, il complessivo peggioramento dei servizi sanitari e la progressiva privatizzazione degli stessi. La pandemia ha messo a nudo tutte le criticità. E svelato l’indebolimento delle strutture sanitarie, che nel tempo sono state ridimensionate, in taluni casi smantellate, private di adeguati finanziamenti… A subirne le conseguenze sono stati i ceti più poveri, ma anche il ceto medio. Molte morti potevano essere evitate, non solo nel periodo più acuto della pandemia. Il potere politico, di tutti gli schieramenti, massimo responsabile dello stato passato e presente della sanità, ha cercato con colpevole ritardo di escogitare qualche rimedio, difficile in relazione alla inadeguatezza dell’organizzazione sanitaria, spezzettata nei molteplici centri di potere (regionali e non solo) che esso stesso aveva creato. Una terribile confusione, alimentata da inefficienze e assurdi carichi burocratici, a tutti i livelli, nonché dalle consuete irresponsabili speculazioni politiche. Con relativa tempestività sono state trovate le risorse, anche ingenti, in gran parte di provenienza europea (PNRR in primis). I danni sono stati davvero tanti e diffusi in tutto il Paese e le sofferenze della popolazione terribili. Costretti dagli eventi si è messo mano al potenziamento degli ospedali e all’attivazione di presidi sanitari sul territorio, anche con l’assunzione di nuovi medici e unità di personale socio-sanitario. Qualcosa è stata migliorata, ma ancora nessuna radicale soluzione in grado di arrestare il degrado e restituirci un sanità adeguata alle esigenze. Gli interventi non sono stati di uguale portata, efficienza ed efficacia in tutto il Paese. Continuano drammaticamente a pesare le differenziazioni tra Nord e Sud, in una prospettiva di ulteriore aumento delle distanze a sfavore del Sud, come fanno temere le sciagurate misure dell’autonomia differenziata. Perché qualcosa cambi davvero occorre lottare in un percorso di lunga durata: uniti e organizzati nella ricerca e nella pratica politica. Anche noi daremo il nostro contributo. Non mi dilungo. Per quanto riguarda la situazione sarda, non solo sanitaria, siamo messi male: basta leggere l’intervento odierno (14/4/23) di Andrea Pubusa sul blog Democraziaoggi. I sardi sopportano. Come sono purtroppo abituati a fare da millenni. La grande parte non si ribella. Non sottovaluto certo l’impegno eroico di movimenti, comitati popolari, sindacati, anche qualche buon politico… che si battono contro la chiusura di ospedali, per più risorse e personale alla sanità e così via, ma l’establishment politico non sembra rispondere alle pressioni popolari. Tutto sommato tiene, anche nei consensi, e poco si preoccupa del calo della partecipazione, di quella dei cittadini attivi, organizzati nelle associazioni democratiche di base e di quella elettorale, tanto se si è eletti dalla minoranza della popolazione non cambia il peso del potere. Ovviamente tutti i partiti all’indomani delle elezioni esprimono formale dispiacere per il crescente astensionismo, ma non mettono in campo alcuna volontà e relative proposte concrete per modificare le leggi elettorali che lo determinano in rilevante misura. Così capita che in Sardegna abbiamo la peggiore tra le leggi elettorali regionali, voluta e mantenuta dall’unanimità delle forze politiche, salvo meritori dissenzienti. Torniamo alla sanità. Da segnalare che del persistente disastro nessuno intende assumersi le responsabilità: per la coalizione di centrodestra, che governa oggi la Regione, è tutta colpa della precedente gestione di centrosinistra. Non ne dubitiamo, ma allora che fa il centrodestra in maggioranza? Più che altro provoca ulteriori danni, considerato che il suo impegno quasi si esaurisce nel creare e distribuire posti di potere, a questo fine determinati a modificare assetti organizzativi, che creano più problemi che buone soluzioni. Basta riferirsi alla recente decisione di spostare due importanti reparti dell’Ospedale Brotzu (Centro Antidiabetico e Centro per l’Autismo) ad altri nosocomi. Al riguardo bastano e avanzano le pesanti critiche al provvedimento assunto dall’assessore regionale alla sanità, formulate dal mio omonimo e amico Franco Meloni, medico ed ex dirigente sanitario di alto rango, nonché autorevole politico di maggioranza, nelle pagine de L’Unione Sarda del 13 c.m. In conclusione del suo convincente ragionamento (a cui rimandiamo) Franco Meloni, anche facendosi portatore delle istanze dei pazienti e dei familiari “vittime” del provvedimento assessoriale (per fortuna non ancora eseguito) ne chiede la revoca. Vedremo come va a finire. Speriamo bene! Per parlare ancora di prospettive, specificamente di programmi della sanità regionale (piani nazionale e sanitari regionali e dintorni) giova segnalare come questi, in certa parte condivisibili, restino in gran parte “sulla carta”. Su tali tematiche, al tempestivo e interessante recente Convegno promosso dall’Aimos a Cagliari, di cui abbiamo dato conto in un apposito articolo, i massimi dirigenti amministrativi e sanitari della Regione hanno ampiamente relazionato, ma si tratta allo stato di “cose da fare”, in minima parte in attuazione. Per esempio per quanto riguarda la costituzione delle Case della salute e degli Ospedali di Comunità. I soldi ci sono, medici e personale socio-sanitario molto meno, le strutture non ancora del tutto individuate e pronte alla bisogna… la spesa va a esasperante rilento. Come si può essere soddisfatti? Come possono esserlo le migliaia di cittadini in fila per le prestazioni sanitarie specialistiche, con tempi di risposta assolutamente inaccettabili? Come avere fiducia in una classe politica che non riesce a portare avanti programmi e progetti in tempi ragionevoli? Chiudo, provvisoriamente s’intende, con un solo esempio (di inefficienza).
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L’amministrazione comunale di Cagliari dispone da diversi anni (dal 2016!) di un finanziamento per realizzare un Centro della salute dedicato ai quartieri di San Michele e Is Mirrionis, erogato dall’Unione Europea e dalla Regione Sarda in attuazione del Programma ITI Is Mirrionis. A fronte dei programmi definiti, dei soldi disponibili, dell’individuazione dello stabile (ex Scuola di Via Abruzzi), di un bel programma organizzativo/gestionale redatto dal Comitato Casa del quartiere Is Mirrionis (tutto registrato e documentato) nulla risulta si sia ulteriormente fatto. Gli abitanti di San Michele e Is Mirrionis, soprattutto gli anziani, i giovani, i poveri… possono aspettare o anche morire! Chiediamo conto di questa inaccettabile inerzia al Sindaco Paolo Truzzu e agli assessori competenti. E, ovviamente, chiediamo che i consiglieri comunali della maggioranza e dell’opposizione prendano posizione.
Non finisce qui! È una promessa e, se volete, anche una minaccia, ma una buona minaccia, che tiene in conto e vuole approfittare dell’approssimarsi del periodo elettorale, perché per una buona causa, in favore della gente, specie della povera gente (fm).
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Eventi consigliati
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Sabato 15 aprile 2023
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Venerdì 21 aprile 2023
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Mercoledì 3 maggio 2023
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Riflessioni & Dibattito

457b1c0e-0091-4ca4-8afe-bceebaf7a649145007e6-b00c-4cc4-a60e-dcce3785d78aImpegno nella Chiesa e subito andare in “mare aperto”
di Franco Meloni*
Nel dibattito su “Cattolici e Politica”, meritoriamente lanciato da L’Unione Sarda, concordo con quanti ritengono oggi improponibile una riedizione di un partito politico cattolico o che si ispiri ai principi cristiani, sulle orme del Partito Popolare di don Sturzo e della Democrazia Cristiana. Beninteso, queste esperienze sono state positive, fondamentali, se solo pensiamo che i cattolici sono stati determinanti nella grande alleanza antifascista che ci ha dato la democrazia e la Costituzione. Pur ritenendo legittime tali proposte, dubito di consistenti successi elettorali, nonostante recenti sondaggi secondo cui circa il 25% degli elettori italiani sarebbero favorevoli alla nascita di un partito cattolico. Interpreto questo dato non come ricerca di un nuovo soggetto politico, bensì come un’esigenza di recupero dei valori fondamentali per il  “bene comune”. Dove la politica deve ri-trovare il suo fondamento. A questo fine i cattolici  devono  impegnarsi, più di quanto facciano attualmente, senza separarsi dal resto del mondo. In fondo seguendo l’esortazione di Papa Francesco: “partecipare, in mezzo agli altri e con gli altri, a costruire la casa comune, che richiede fraternità, giustizia, accoglienza, amicizia sociale”. Questo messaggio attualmente trova tanti cattolici impegnati soprattutto nel volontariato, mentre l’agone più propriamente politico viene da essi disertato, ingrossando le fila degli astensionisti. E’ ora di invertire la rotta, anche in Sardegna, dove è urgente rilanciare proposte coraggiose, non importa se considerate utopistiche. Cosa possono fare i cattolici insieme con tutte le persone di buona volontà disposte a un percorso comune? Partire dalla fiducia. La Sardegna ne ha bisogno più che di risorse materiali: creare un clima di fiducia che consenta di affrontare i problemi e di risolverli mettendo a frutto le capacità personali e delle comunità di appartenenza. Tutto ciò sembra banale, ma non lo è affatto. Sicuramente è difficile. Pensate cosa significa creare fiducia nel mondo della politica: praticare rapporti di scambio intellettuale e collaborazione fattuale tra persone che nella ricerca del bene comune, nel confronto e nello scontro dialettico, arrivino a soluzioni ottimali. La condizione è che si pratichi l’ascolto reciproco e che si persegua l’obbiettivo della massima partecipazione. Cosa abbastanza diversa da quanto accade oggi, laddove la politica tende a selezionare le idee e le scelte sulla base degli interessi dei gruppi prevalenti e la partecipazione popolare alla gestione della cosa pubblica è sempre più ristretta. Allora occorre allargare gli spazi di partecipazione democratica sia per quanto riguarda l’accesso alle rappresentanze istituzionali (riforma delle leggi elettorali), sia per la promozione della cittadinanza attiva, sia per la valorizzazione delle competenze che devono prevalere sulle appartenenze. E’ la “partecipazione” la chiave giusta per ridare speranze di rinascita al popolo sardo e i cattolici devono essere in prima fila nell’impegno concreto per favorirla, avendo come chiaro e virtuoso riferimento la nostra Costituzione. Ma i cattolici dove possono trovare le ragioni e la forza del loro impegno? La risposta è nella Chiesa, nelle sue innumerevoli espressioni organizzative, nelle parrocchie come negli altri ambiti aggregativi, formali o spontanei, praticando spazi pubblici reali, contigui e non opposti a quelli liturgici, in cui, come dice il monaco Enzo Bianchi: “delineare le istanze evangeliche irrinunciabili, che poi i singoli cattolici con competenza e responsabilità tradurranno in impegni e azioni diverse a livello economico, politico, giuridico”. Esattamente come previsto dai percorsi sinodali, sulla scia degli insegnamenti del Concilio Vaticano II, in cui da due anni è impegnata la Chiesa universale unitamente alle Chiese particolari, ovviamente sorretti da spirito evangelico e da correlato ottimismo della volontà! In conclusione i cattolici devono ripartire dall’impegno nella Chiesa, come detto, e subito andare “in mare aperto” (la “Chiesa in uscita” di papa Francesco) per navigarvi e operare insieme con tutti gli uomini e le donne di buona volontà. In definitiva per la Salvezza dell’Umanità e di tutto il Creato.
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cattoliciGli interventi nel dibattito su L’Unione Sarda

1) 02/3/2023 Antonello Menne, I cattolici e la politica.
2) 04/3/2023 Sergio Nuvoli, L’impegno dei cattolici.
3) 11/3/2023 Tonino Secchi, La diaspora dei cattolici.
4) 14/3/2023 Luca Lecis, Valori, non partiti.
*5) 1/04/2023 Franco Meloni, I cattolici tornino in mare aperto. Su Aladinpensiero/Editoriali e L’Unione Sarda/Il dibattito dell’1/4/2023.
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E’ online Rocca n.8 del 15 aprile 2023.
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L’Editoriale di Mariano Borgognoni
Se fossi andato a votare ai gazebo piddini non avrei avuto dubbi nel mettere la mia croce sul nome di Elly. La rianimazione del partito (p rigorosamente minuscola) richiedeva infatti uno shok. Qualsiasi scelta che anche lontanamente somigliasse alla continuità sarebbe stata letale. Quel partito infatti era ormai diventato una sorta di partito tecnico, il cui segretario naturale sarebbe potuto essere Mario Draghi o Mario Monti o proprio mari e monti, come quelle cucine che scelgono di non scegliere. Con i rischi conseguenti: ricordate la storia dell’asino di Buridano? Gli iscritti sono andati dritti… pel tratturo antico. Gli elettori hanno dato uno schiaffo di correzione. Salutare. I primi frutti si intravedono dopo la glaciazione lettiana, una sorta di tutti a nanna nel supremo interesse nazionale, dell’Occidente (con la O rigorosamente maiuscola), della nuovo soggetto politico, appena Nato. Né riforma elettorale, né campo largo, né orizzonte lungo. Così il Pd, sorto con il proposito di mettere a frutto i riformismi comunista, socialista e cristiano, tenuti lontani dalla guerra fredda, li ha semplicemente rimossi. Anzi li ha fatti marcire, mischiati e irriconoscibili, nella poltiglia di correnti, divenute via via stagni di potere bisognosi, per sopravvivere fuori dal cimento del consenso, di qualunque porcellum elettorale. Oh! naturalmente non è tutta responsabilità di Letta. Molti sono andati ai gazebo, molti altri no. Anzitutto perché credono, questi ultimi, che a votare, in questo sistema elettorale, bisognerebbe andare per scegliere i candidati al Parlamento. Non i leader di partito. Per come la vedono costoro, che comprendo molto, i partiti sono associazioni in cui gli iscritti dovrebbero contare, se no perché consumare la suola delle scarpe per andare in sezione o nei circoli? Bisogna ammettere però che a partito mezzo morto è stato meglio chiamare il medico che il becchino. E stavolta sembra che l’elettore si sia messo il camice bianco piuttosto che il mantello nero. L’inatteso successo della Schlein non è stato tanto il frutto della scelta tra opzioni diverse che, per la verità, nella competizione con Bonaccini non sono apparse così nettamente, ma di un robusto voto di protesta, da parte di coloro che hanno resistito o desistito alle elezioni, contro il ceto politico che ha guidato il partito soprattutto in questi ultimi anni. Abili guidatori di un aereo mai decollato. Non ha vinto quindi una linea, ha perso una linea. Proprio per questo ora viene la prova più difficile e in essa impareremo a conoscere meglio la fisionomia politico-culturale di Elly Schlein e le sue doti di leader. Oltre al volto del nuovo Partito Democratico. Molti commentatori molto approssimativi hanno parlato di una ricollocazione del partito su posizioni di sinistra-sinistra. A parte l’inconsistenza della definizione non mi pare affatto che Schlein possa essere ricondotta ad un chiaro posizionamento ideologico. Lo stesso termine di radicalità, più volte evocato, è variamente declinabile; potrebbe per esempio riferirsi all’idea di dar vita ad un partito liberal o ad un partito radicale di massa o ad un partito laburista e popolare moderno. Non si tratta della stessa cosa. Nelle prime riunioni mi è parso di notare che la Schlein non usa il termine compagni, non evoca mai la parola socialismo, non fa riferimento al concetto di persona. Non sono affatto considerazioni banali come qualcuno astutamente obietterà: quasi sempre il linguaggio dice la cosa. I termini che ho citato, insieme ai simboli delle lotte per il lavoro e la libertà, sono lingua in uso in tutti i partiti socialisti, socialdemocratici e della sinistra europea. Si vuole rimanere creativamente o uscire da questo orizzonte? Che fa riferimento anche ad una base sociale tipica, sia pure profondamente cambiata, nel mondo del lavoro, nella centralità dei diritti sociali e nella capacità di proteggere gli strati sociali più fragili, senza sottovalutare i diritti civili ma anche senza prender su ogni pratica solo perché presente; ad un modo di stare in occidente aperto all’idea di un mondo multipolare e pacifico che veda nella prospettiva il recupero del ruolo di una Europa di cui siano parte, in qualche modo, sia l’Ucraina che la Russia; ad un governo delle migrazioni che salvi ed integri ma che si accompagni alla cooperazione internazionale e all’impegno internazionalista per l’emancipazione dei popoli e la liberazione da regimi corrotti sostenuti dalle classi dominanti dei Paesi dominanti. Dentro questo orizzonte si tratta altresì di attingere al patrimonio del solidarismo cristiano e a quell’idea di persona e di comunità che mette in discussione le opposte derive del collettivismo senza libertà e dell’individualismo senza uguaglianza che già Maritain da una parte e Adorno dall’altra avevano visto molti decenni fa. Si vuole far riferimento a queste fonti che sono sotto la pelle della nostra storia nazionale ed europea, si pensa ad un partito radicato nel territorio, comunità democratica organizzata e solida o si tenta una carta diversa che guarda all’esperienza americana, all’idea di un partito leggero, fortemente interclassista, molto tattico, veloce e iperleaderistico che marca la sua differenza prevalentemente sui diritti civili? Insomma quello che di solito viene definito un partito radicale di massa con un insediamento borghese colto largamente prevalente. In fondo il primo corso del Pd veltroniano si collocava lungo questa traiettoria ed anche la primitiva collocazione del Pds occhettiano tentava con un doppio salto di guadagnare la sponda liberal, immaginando lì la collocazione della cosa nuova. Ma oggi è lo stesso Occhetto che nell’intervista a noi rilasciata, oltre che nel titolo del suo ultimo libro, spiega «perché non basta dirsi democratici». Insomma avremo tempo per studiare la fenomenologia di Elly Schlein. Le prime schermaglie sui capigruppo di Senato e Camera e sugli assetti esecutivi piddini ci rimettono davanti la forza d’inerzia del corpaccione dei collocati da una parte e dall’altra il mandato che la nuova Segretaria sente essergli venuto dall’opinione democratica di dar vita a un vero mutamento. Anche se la domanda: quale mutamento? è quella sulla quale si registrano le maggiori opacità. E d’altra parte è ancora presto per poter dare una valutazione fondata. Insomma chi vivrà vedrà. Noi cercheremo di monitorare il cammino. Con questo editoriale, un po’ ruvido, si voleva solo aprire un confronto che non ci può vedere indifferenti. Per chi continua a credere nella fatica della democrazia l’alternativa alla politica può essere solo una politica alternativa, per cambiare la società nel segno che hanno lasciato sulla nostra Costituzione coloro che coltivarono l’ambizione di tenere insieme libertà ed uguaglianza.
P.S. Abbiamo voluto dedicare la copertina a quella grande parte del popolo israeliano che, con una mobilitazione senza eguali nella storia di quel Paese, ha per ora bloccato la riforma di Netanyahu, volta ad azzerare i poteri della Corte Suprema (il Parlamento, oltre a scegliere i giudici, potrebbe annullare le decisioni della Corte). La partita tuttavia rimane drammaticamente aperta. Nel prossimo numero approfondiremo la questione con l’attenzione che merita per l’importanza che, da diversi punti di vista, rivestono quel Paese e quella tormentata area del mondo.

ROCCA 15 APRILE 2023 l’editoriale di Mariano Borgognoni
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ffd713e0-6677-4082-a5ad-0478fb5c68bcEvento venerdì 21 aprile 2023.
L’incontro, dal titolo “Laicità e laicismo: una questione aperta”, si terrà venerdì 21 aprile 2023, alle ore 17.30, nell’Aula magna della Facoltà Teologica della Sardegna. Dopo i saluti del Preside della Facoltà, Mario Farci, interverrà Luca Diotallevi, docente ordinario di Sociologia all’Università Roma Tre. Modererà il giornalista Franco Siddi. L’evento è organizzato dalla Facoltà Teologica della Sardegna e dall’Associazione Suor Giuseppina Nicoli, con la collaborazione degli Amici del Cammino sinodale.
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Cattolici e Politica: un indispensabile Dibattito esteso e vivace ma tuttora nascosto

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c3dem_banner_04Cattolici e politica, una presenza contraddittoria
6 Febbraio 2023 by Fabio | su C3dem
di Luigi Viviani
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L’autore, già sindacalista ed ex senatore del Partito Democratico, interviene sul dibattito cattolici e politica in una situazione di crisi e grande trasformazione del Paese, per un contributo sulle sfide da assumere.
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Alcuni aspetti dell’esperienza veneta
In questa fase di ripensamento sul futuro della Chiesa, sollecitato dalla multiforme pastorale di Papa Francesco e anche dalla recente scomparsa di papa Ratzinger, l’esame non può che riguardare anche la politica, dove, in modo più evidente, si addensano i problemi e l’inadeguatezza della presenza e del ruolo dei cattolici. Tutte le ricerche sul campo testimoniano che tale presenza è distribuita su tutto l’arco dei partiti che formano il sistema politico, ma varie risultano le modalità con le quali, nei diversi schieramenti, i cattolici testimoniano la loro fede. Assodata la conquista storica della laicità come metodo essenziale con il quale si pratica la politica da parte degli stessi cattolici, la situazione del nostro Paese presenta alcune specificità. In particolare, in una Regione come il Veneto, nella quale, data la configurazione religiosa di partenza, i processi di cambiamento si sono manifestati con maggiore profondità ed evidenza. Nella società veneta del dopoguerra, dove la maggioranza della popolazione costituiva il popolo cattolico, e in politica la Dc gestiva praticamente tutto il potere sul territorio, con una schiera di ministri nel governo nazionale, una nutrita rappresentanza parlamentare, e la stragrande maggioranza dei sindaci del territorio, si manifestarono una serie di processi interessanti. Nella prima fase postbellica, il partito cattolico possedeva una classe dirigente di una certa qualità. In parte proveniente dal Partito popolare di Sturzo, temprata e selezionata attraverso gli orrori della guerra e, in gran parte, tramite la partecipazione alla Resistenza, per cui si impegnò a ricostruire la società sul territorio e ad avviare lo sviluppo, frenando progressivamente il processo di emigrazione verso altre zone del Paese e all’estero. Uno degli aspetti positivi che emerse in quel periodo, fu che, in generale, a guidare le istituzioni locali si scelsero gli uomini migliori, indipendentemente dalla loro posizione nel partito. A Verona, per esempio, pur essendo la provincia con la Dc più a destra della Regione, per le maggiori cariche istituzionali si scelsero amministratori locali in maggioranza di centrosinistra. Anche in tal modo si crearono le condizioni per un vero avvio del miracolo economico con la nascita di tante nuove imprese e una crescita spettacolare dell’occupazione. Ma negli anni successivi, naturalmente con le ovvie eccezioni, le nuove classi dirigenti, concentrate nella gestione del potere, persero progressivamente la spinta iniziale ad innovare, e il processo di sviluppo incominciò a registrare limiti e contraddizioni. In questa fase, in seguito all’accelerata secolarizzazione della società, la sostanziale ispirazione cristiana della politica si sfilacciò, tanto che il processo di rinnovamento conciliare interessò soltanto un’esigua minoranza della politica militante e qualche centro culturale ad essa collegato. Una importante occasione persa, frutto anche dei limiti dell’azione pastorale della Chiesa veneta, che nei confronti della politica mantenne un atteggiamento essenzialmente diplomatico, e si accontentò di un cristianesimo di semplice schieramento, consistente, nell’affermazione di alcuni principi accompagnata da qualche scontro con gli avversari. Fu in questa fase che in Veneto si rafforzò l’opposizione ad alcune scelte nazionali della Dc, come l’apertura a sinistra che Moro, anche se non compreso dalla maggioranza della gerarchia cattolica, concepì e cercò di realizzare per riprodurre un clima di collaborazione tra le maggiori forze politiche, analogo a quello della Costituente. Nella Dc veneta tale scelta provocò un duro scontro, con una divisione che determinerà situazioni di progressivo sfrangiamento delle posizioni dei cattolici, e, nel tempo, diventerà un terreno favorevole al radicamento e all’espansione della Lega. I canoni della politica leghista fondati su una propagandata autonomia territoriale che, nei fatti si dimostrò una forma di egoismo collettivo sulla gestione delle risorse del territorio, in un contesto di chiusura verso l’esterno fino a forme di vero e proprio razzismo antimeridionale e antimigranti. Valutata in sede storica la politica della Lega, non solo non ha favorito le diverse possibilità di sviluppo territoriale delle aree della Regione, ma ha determinato una loro progressiva contrazione riducendo le opportunità di relazione e di collaborazione con altri territori italiani ed europei. Il recente ridimensionamento elettorale manifesta tale sostanziale fallimento. che la perdurante popolarità di Zaia, frutto del suo attivismo, rallenta ma non riesce a invertire. Nella Lega la presenza cattolica è numerosa ma in termini prevalenti di appoggio passivo, con qualche sollecitazione a favore delle chiese locali, ma mai capace di influenzare in modo significativo la linea strategica del Carroccio. I cattolici sono stati pure presenti nel centrodestra in alcuni raggruppamenti post-democristiani come Ccd e Cdu, e soprattutto in Forza Italia contribuendo a rafforzare la maggioranza della coalizione, sostanzialmente con la medesima funzione di presenza più o meno subalterna, preoccupandosi di fare qualche battaglia a sostegno formale dei valori cristiani tradizionali, come la famiglia e l’aborto. Le recenti elezioni politiche del settembre 2022 hanno registrato una forte sostituzione di FdI alla Lega nel consenso dei veneti, e ha fatto una certa impressione che, in alcuni paesini della montagna veneta, FdI abbia raggiunto il 30% dei voti. Ora il dibattito politico regionale si sta concentrando sulla questione dell’Autonomia regionale che la Lega rivendica e cerca di realizzare in tempi brevi, forzando la situazione politica con la condizione per cui, o si realizza la riforma o cade il governo. In sintesi, dentro tali processi nel centrodestra i cattolici vivono normalmente inseriti nei diversi partiti, spesso senza particolari esigenze di testimonianza quando non svolgono un ruolo di copertura ideologica di posizioni non sempre conciliabili con i principi evangelici. In quest’area il problema del ruolo dei cattolici in politica non viene sostanzialmente percepito, perché la loro presenza, ancorché marginale, è considerata sufficiente, in un contesto ritenuto, nel complesso, favorevole ai principi cristiani, anche se la scelta religiosa si riduce spesso a semplice e utile corredo dell’identità politica. Del tutto diversa l’esperienza dei cattolici nel centrosinistra. Dopo lo sbandamento postdemocristiano e l’avvio di qualche esperienza di dialogo con la sinistra, molti cattolici aderirono con convinzione all’Ulivo di Prodi ma la sua breve esistenza li ricacciò in una specie di limbo politico, che la successiva nascita della Margherita solo in parte è riuscita a rappresentare. Da ultimo il Pd, che nel Veneto, sia per l’assenza di significativi leader locali che pet una precedente, profonda divisione ideologica tra gli aderenti alle due culture chiamate a realizzare una nuova sintesi, non è mai riuscito a raggiungere una identità significativa né una dimensione organizzativa all’altezza delle aspettative. Inoltre, la diffusa logica delle correnti, peraltro strettamente dipendenti dal livello nazionale, si è tradotta in un ulteriore impoverimento dell’azione del partito. Pur con questi limiti, oggi i cattolici e la cultura cattolico-democratica sono chiamati a dare un contributo per costruire identità e strategia del Pd. Un compito di particolare rilevanza che tuttavia contrasta con il ruolo avuto finora da gran parte dei cattolici in quest’area, che quasi sempre non sono riusciti ad affrancarsi da una partecipazione ad una redistribuzione dei posti di potere in un contesto di diffusa minoranza.

Cattolici e sinistra, il dovere di fronte alla storia
In Veneto il problema del rapporto tra cattolici e politica nel Partito democratico acquista un particolare valore anche perché, in questo territorio. esso può più concretamente contribuire a far uscire il partito da una crisi profonda che lo ha ridotto ai minimi termini. Va ricordato che alle ultime elezioni esso e arrivato al 16 % nettamente sotto il pur negativo risultato nazionale, frutto di una gestione de partito subordinata essenzialmente agli interessi delle diverse correnti nei territori provinciali. Qui probabilmente più che altrove ha pesato una incapacità delle due culture di riferimento, quella della sinistra storica e quella cattolico-democratica, di operare una sintesi in direzione di una identità definita del partito. Lo stesso Congresso, anche per il depotenziamento politico operato da Letta con la sua dichiarata volontà di non ricandidarsi, da assise costituente si è progressivamente trasformato in un percorso elettorale tra i candidati, e lo stesso “Manifesto del nuovo Pd nel 2030” non ha aggiunto granché agli analoghi documenti precedenti. Lo strumento delle primarie aperte, per eleggere il nuovo segretario, ha dato avvio a un dibattito circa la contraddizione tra l’elezione del segretario come atto essenziale di democrazia rappresentativa, e l’ammissione al voto dei non iscritti, con evidente disincentivo all’iscrizione al partito. Dibattito che dovrebbe concludersi con un ripristino della differenza di funzioni e poteri tra iscritti e no, mentre le primarie possono diventare un importante strumento di partecipazione aperta anche ai non iscritti se vengono usate per consultare il popolo del Pd sulle più importanti scelte politiche del partito (primarie tematiche). La realtà attuale del Pd manifesta quindi che questo partito non ha risolto i suoi problemi perché finora ha scelto la strada sbagliata di definire le regole di funzionamento interno, e di selezione della sua classe dirigente in un contesto rigidamente correntizio. Ciò interroga la cultura cattolico-democratica come parte in causa per contribuire a superare tale limite. L’esperienza di un corretto funzionamento del partito ci suggerisce che la via migliore per conquistare una identità politica definita, rimane quella di un confronto approfondito con la realtà nella quale esso è chiamato a operare. Per il Pd tale obiettivo si concretizza nella costruzione di una nuova sinistra idonea a interpretare e governare la realtà di oggi. Una sinistra ad un tempo riformista, inclusiva e di governo, del tutto diversa da quella del ‘900. Tanto più che negli ultimi anni si è operata, in Italia e nel mondo, una trasformazione che per profondità ed estensione appare tra le più rilevanti nella storia dell’umanità. Essa si avvale di due motori fondamentali: lo sviluppo scientifico e tecnologico e la globalizzazione dell’economia, che intervengono nei diversi aspetti della vita personale e sociale. La novità di tale processo richiede, a sinistra, nuove mediazioni, decisamente diverse dal passato, tra i valori di libertà, uguaglianza e solidarietà e la nuova realtà in trasformazione. Serviranno quindi meno ideologia e più capacità di comprensione e di sperimentazione di nuove politiche. In particolare, sarà necessario un nuovo rapporto con il capitalismo fondato sulla capacità di intervenire sulle sue contraddizioni come via di rafforzamento della democrazia. In questo ambito la cultura cattolico-democratica essendo stata meno coinvolta nelle esperienze della sinistra del passato, può favorire più concretamente gli aspetti di novità. Operando in contesto di pluralismo e laicità, il politico cattolico, per svolgere il ruolo richiesto, deve essere dotato di formazione cristiana integrale, capacità di interpretare la realtà sulla quale intervenire, assumere il coraggio di proporre, sulle questioni in discussione, soluzioni di ispirazione cristiana, che spesso non traducono direttamente i principi cristiani ma ne rappresentano una mediazione parziale, che il politico cristiano assume con la sua piena responsabilità. In tal modo egli compie un dovere di testimonianza dentro la storia del suo tempo, accettandone tutte le conseguenze, forse anche con un rapporto difficile con la Chiesa.

La Chiesa e la politica
La fase che si sta aprendo nella vita del nostro Paese richiede una riflessione particolare della Chiesa italiana nei confronti della politica, sulla base di una riconsiderazione critica di tale realtà e dei rapporti intrattenuti con essa in precedenza. Il punto di partenza rimane la considerazione della politica come particolare testimonianza cristiana a servizio dei bene comune. Essa è stata definita dagli stessi vescovi, ad un tempo : impegnativa testimonianza di fede, l’organizzazione della speranza e la forma più esigente di carità. Quindi una via particolarmente impegnativa di vivere il cristianesimo secondo una vocazione rivolta al bene dell’intera società. Nel corso degli ultimi decenni è cresciuto il divario tra il valore di questa vocazione e la prassi politica concreta di tanti cattolici per cui, mentre in passato, nelle fasi migliori della Dc. la politica, nella classe dirigente più impegnata, rappresentava un ambito avanzato di testimonianza cristiana da parte dei laici, con particolari livelli di coerenza e responsabilità, la politica di oggi diviene spesso veicolo di diffusione di forme di presenza cristiana contrassegnate da incoerenza e prioritaria attenzione a raggiungere posizioni di potere, ancorché marginali. Tanto che, credo, non sia esagerato affermare che la politica oggi appare l’ambito nel quale il ruolo dei laici nella Chiesa indicato dal Concilio risulta largamente disatteso. Una situazione frutto della difficoltà particolare di esprimere e vivere scelte di ispirazione cristiana nel contesto della politica di oggi, e anche di un insufficiente rapporto e dell’assenza di una adeguata pastorale da parte della Chiesa gerarchica nei loro confronti. Se è vero che l’impegno politico, sempre più necessario per il futuro della nostra comunità, richiede un grado particolarmente elevato di virtù cristiane per rendere più consapevole ed efficace la presenza dei cattolici in questa attività, diventa indispensabile che la Chiesa, riconosca il particolare valore di questa vocazione e la sostenga con una specifica azione pastorale tesa a favorire una formazione cristiana idonea a tale compito. Non credo che a questo scopo siano sufficienti le antiche scuole fondate sui principi della dottrina sociale della Chiesa, né tanto meno scuole di generica formazione politica realizzate in ambito ecclesiale. Serve invece una formazione cristiana, qualificata in direziona di questa particolare vocazione, con un rapporto di sostegno successivo dei partecipanti, unito a un giudizio esigente sul loro operato. In tal senso mi pare che alcuni segnali positivi provengano, sulla scia di Papa Francesco, dal rapporto che il presidente della Cei cardinale Zuppi, dimostra di voler intrattenere con il mondo politico e i suoi problemi, fondato su un rigoroso rispetto dell’autonomia della politica unito a un interesse più ravvicinato alla sua realtà.

Finita definitivamente l’era del Dc, caratterizzata da una egemonia politica dei cattolici, per effetto della trasformazione del rapporto tra fede e modernità, è subentrata una dispersione dell’impegno dei cattolici nei vari schieramenti politici secondo criteri in gran parte di preferenza personale o di piccoli gruppi. Ciò ha comportato oltre che una evidente marginalizzazione complessiva dei cattolici nelle scelte politiche fondamentali oltre che una progressiva riduzione dell’ispirazione cristiana nell’azione politica, proprio nella fase in cui la Chiesa ha cercato di elaborare, sulla base dei segni dei tempi, una proposta teologica e pastorale nei confronti della modernità con il Concilio Vaticano II. Così, mentre in passato la politica era anche un fronte avanzato ed esposto del ruolo dei laici nella Chiesa e nella società ,per cui, ad esempio, politici cattolici di particolare qualità, come De Gasperi e Moro, ebbero talvolta rapporti difficili con la gerarchia ecclesiastica circa scelte essenziali e strategiche nella loro azione politica, oggi, specie negli ultimi tempi, assistiamo allo spettacolo poco edificante di una politica, anche dei cattolici, divenuta veicolo di diffusione in gran parte di forme di presenza, magari formalmente riferite ai principi cristiani, ma lontane da una loro testimonianza autentica e di segno anticonciliare. L’esito complessivo di tale processo, accanto al permanere di una presenza largamente minoritaria di cristiani autentici, peraltro quasi sempre politicamente ai margini, è che l’incidenza dei cattolici nel processo politico risulta sempre più insignificante, quando non si riduce a copertura ideologica di posizioni del tutto lontane dallo spirito del Vangelo. Una situazione di particolare gravità che chiama in causa gli stessi vescovi, che nel nostro Paese, nonostante gli stimoli e le sollecitazioni di alcune voci profetiche, hanno in generale non sempre compreso il significato e il valore della politica per il futuro umano e civile dell’Italia, e tenuto nei confronti del potere politico un atteggiamento informato in prevalenza a rapporti diplomatici, accontentandosi troppo spesso che il ruolo dei cattolici si limitasse ad una adesione di massima ai valori cristiani. Oggi, nella situazione di crisi e di grande trasformazione del Paese, operare per ridare senso, valore e risultati concreti al ruolo dei cattolici in politica diventa un problema di tutta la Chiesa. Nel rigoroso rispetto della laicità della politica e delle distinte funzioni dei diversi soggetti, ognuno deve è chiamato a dare un concreto contributo per rendere il ruolo dei cattolici fattore positivo nella costruzione di un futuro di benessere e di pace dell’Italia.
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Punta de billete, Save the date, Prendi nota. Venerdì 17 marzo pv, presso l’aula magna della Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna, di pomeriggio/sera è previsto un Convegno su La Chiesa oggi in Italia (titolo da definire). Tra gli organizzatori il gruppo “Amici in cammino sinodale – Amici sardi in cammino sinodale”. A presto per tutti i dettagli.
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Ricordando Marino de Medici

7eee326d-ba8c-4b70-b9f1-8457a7bf4509Martedì 15 u.s. con infinita tristezza abbiamo dato notizia della morte di Marino de Medici, grande giornalista, che per alcuni anni abbiamo avuto l’onore di annoverare tra i collaboratori della nostra News, con la pubblicazione dei suoi articoli, competenti, informati e brillanti sulle vicende politiche degli Stati Uniti d’America, in particolare sulle malefatte di Donald Trump. Ma non ci ripetiamo, rinviando a quello scritto. Pubblichiamo ora, di seguito, un simpatico e commovente ricordo che di Marino fa Giancarlo Morgante, nostro amico e collaboratore della News, amico di Marino, che ha avuto, tra l’altro il merito di farci conoscere. A parte pubblichiamo poi uno degli ultimi scritti di Marino, che aveva inviato a Giancarlo, che crediamo dia uno spaccato della situazione politica degli USA, soprattutto con riferimento alla ormai avviata fase elettorale presidenziale. Giancarlo ne sottolinea l’importanza e la pertinenza, cosa che ci esonera da aggiungere ulteriori parole. Salvo proporne il carattere di omaggio al nostro amico Marino (fm).
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Ho avuto il piacere di conoscere Marino De Medici durante una sua vista a Cagliari ospite di comuni amici, persona colta, squisita e cordiale. Gli abbiamo fatto conoscere Cagliari e tutti i luoghi di carattere paesaggistico, storico ed artistico. Da cronista che aveva girato gran parte del nostro pianeta, mostrava molto interesse per le vicende storiche della nostra Isola. Ricordo il suo interesse quando seduti ad un tavolino di un bar in piazza Martiri, all’aperto, gli mostrai il balcone dove Emilio Lussu subì una aggressione da parte di squadristi fascisti locali. Mi disse che pur avendolo incontrato per lavoro, non aveva mai avuto l’opportunità di leggere un suo libro. Qualche tempo dopo gli inviai nella sua residenza (distante da New York un centinaio di km) due libri di Emilio Lussu, “Niente di nuovo sul fronte occidentale” e “Marcia su Roma e dintorni”. Qualche tempo dopo ci sentimmo tramite WhatsApp, mi ringraziò, mi disse di averli letti volentieri e che nella scrittura di Lussu , soprattutto nel libro “Marcia su Roma e dintorni” intravedeva similitudini col suo stile di scrittura come corrispondente di guerra (era stato reporter durante la guerra del Vietnam, i golpe in Cile e in Argentina, ecc.).
Corrispondente da Whashington dell’Agenzia ANSA, e corrispondente dagli Stati Uniti per il quotidiano “Il Tempo”. [segue]

Oggi lunedì 14 novembre 2022

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—————————————-—Eventi, Opinioni, Commenti e Riflessioni——————————
Per una nuova legge elettorale
14 Novembre 2022 su Democraziaoggi.
Domenico Gallo ha lanciato questa petizione
Le elezioni del 25 settembre hanno reso non più rinviabile un radicale cambiamento delle regole elettorali
La nuova legge elettorale deve essere di tipo proporzionale, garantendo che elettrici e elettori possano scegliere direttamente i parlamentari, senza liste bloccate, togliendo ai capipartito la decisione su chi debba essere eletto, […]
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c3dem_banner_04RASSEGNA STAMPA 14.11.2022
14 Novembre 2022 by Giampiero Forcesi | su C3dem
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È urgente una nuova legge elettorale. Appello

7111e527-c753-4a9e-a67a-73618b1d814fLe elezioni del 25 settembre hanno reso non più rinviabile un radicale cambiamento delle regole elettorali
La nuova legge elettorale deve essere di tipo proporzionale, garantendo che elettrici e elettori possano scegliere direttamente i parlamentari, senza liste bloccate, togliendo ai capipartito la decisione su chi debba essere eletto, come è accaduto finora.
La crescita dell’astensione dal voto (+ 9%) ha raggiunto il livello più alto in elezioni politiche e sottolinea la crisi di questo sistema elettorale. [segue]

Che succede?

c3dem_banner_04PRESIDENTI DIVISIVI. IL PD SECONDO ARTURO PARISI

15 Ottobre 2022 su C3dem.
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SINISTRO SINISTRA aggiustare o rifare?

Rocca è online
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SINISTRO SINISTRA
aggiustare o rifare?

di Mariano Borgognoni

All’indomani delle elezioni politiche è iniziata e continua (anche sulle nostre pagine) una riflessione sulla Sinistra, sui suoi fondamenti e sul suo destino in Italia. È una riflessione più che necessaria per la democrazia, i diritti sociali e civili, i valori costituzionali della Repubblica.

Tanto più dopo un voto che ha di fatto messo in discussione il collante antifascista della Nazione come terreno condiviso e ha posto, per la prima volta in un grande Paese fondatore della comunità europea, la destra postfascista e sovranista alla guida del governo. Non è cosa di poco conto e proprio per la sostanziale coerenza di cui ha dato prova Giorgia Meloni dobbiamo immaginare che le sue politiche non si discosteranno troppo da quanto ha sostenuto nell’ultimo quinquennio e da quanto è nel dna della sua formazione culturale e politica. Di questa trincea identitaria ci parlano anche le elezioni dei Presidenti delle Camere. E ciò dentro la drammatica situazione di guerra, di estensione della povertà e dell’impoverimento.
Di fronte a questo processo politico che va ben oltre la dimensione nazionale, sarebbe necessario organizzare una ferma e forte presenza democratica, popolare, di sinistra.
E intanto, da subito un movimento unitario per la pace, contro il riarmo dentro lo schema atlantista (niente affatto europeista), per il lavoro e la sua dignità, per il mantenimento e lo sviluppo di l’editoriale uno welfare veramente universalistico e che protegga milioni di persone cadute in una situazione di bisogno (disoccupa- ti, lavoratori poveri etc.), per una redistribuzione del reddito verso il basso e non verso l’alto come è avvenuto in questi anni di intollerabile ed economicamente miope apertura della forbice del- le disuguaglianze.
Ma se lo stato del Paese è questo già da sé ci parla di grandi responsabilità della Sinistra che ha segato, con dete zione degna di miglior causa, il ramo su cui era seduta. Ed è chiaro da sempre che quando la Sinistra è senza popolo, senza un progetto di avanzamento delle sue condizioni economiche e sociali, quel popolo si rifugia in modo subalterno nella protezione della Destra. Se la Sinistra non si propone di lavorare per una partecipazione consapevole e organizzata quel suo popolo diventa gente totalmente atomizzata, folla arrabbiata di individui solitari.
Non c’è dubbio che la nuova articolazione del mondo del lavoro ha cambiato il paesaggio sociale del passato anche recente, ma il compito di una Sinistra moderna è quello di leggere «i segni dei tempi» e comprendere come permangano e talvolta si aggravino nel presente situazioni di alienazione e di sfruttamento. Se invece ci si rassegna ad essi o addirittura li si favorisce, si finisce per rompere quel legame sentimentale, di cui tanti stucchevolmente ora parlano, con il mondo che ha più bisogno che il mondo cambi.
Sarà possibile dar vita ad un profondo cambiamento, a cominciare dal Pd? Purtroppo non è scontato poiché un gruppo dirigente, ormai autoreferenziale, che non si è preoccupato neanche di modifi- care una legge elettorale che impedisce di fatto di eleggere davvero il Parlamento, tende, direi quasi naturaliter ad eternizzare se stesso. Il rosatellum serve a questo: riservare il gioco della politica a quelli che sono rimasti dentro i palazzi (dove peraltro ben poco si decide) dopo la fine della politica che si reggeva sui partiti di massa e sul protagonismo dei corpi intermedi. All’interno di questa logica il Pd è diventato via via un partito tecnico (non esistono solo i governi tecnici), di competenti gestori del mondo co- m’è, poiché «del doman non v’è certezza» e non c’è nessun principio-speranza a cui affidarsi. Esiste tuttavia un mondo di militanti, di simpatizzanti, di elettori nasoturatisti, di consapevoli astensionisti, che, forse, possono ancora bombardare
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ROCCA 1 NOVEMBRE 2022
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Urgente un protagonismo sociale che spinga la sinistra politica a muoversi
di Alfiero Grandi​
14.10.2022

La sconfitta elettorale delle “non destre” è ancora fresca, siamo all’inizio della nuova legislatura e già nei primi passaggi importanti si manifesta con chiarezza che la sconfitta non è stata un incidente di percorso. Se si rivotasse oggi il risultato sarebbe ancora peggiore, per le “non destre”. Certo, le destre dimostrano che non basta vincere per sanare le ferite al loro interno che restano vistose, addirittura tali da offrire spazi alle opposizioni, che purtroppo non sono in grado di approfittarne perché restano confuse, stordite da una sconfitta elettorale cocente, per certi versi storica, che è stata possibile solo per la frammentazione dello schieramento potenzialmente in grado di presentarsi come un’alternativa alle destre.

Per questo non vanno sottovalutati i limiti e per certi versi la vera e propria crisi politica e di valori delle “non destre”. Ci sono questioni di fondo da affrontare.
Tuttavia, la sconfitta delle “non destre” è il risultato di errori politici madornali e imperdonabili, altrimenti lo schieramento di destra che ha preso il 44% dei voti e ha ottenuto il 59% dei seggi in parlamento non avrebbe vinto, malgrado un aumento del 10% delle astensioni.

Sarebbero state possibili alternative politiche.
Naturalmente era decisivo cambiare per tempo questa infame legge elettorale. Un misto tra un flipper impazzito che scarica gli eletti a casaccio nel paese e una camicia di forza per gli elettori, costretti ad un voto unico, che premia le coalizioni, vere o finte che siano, e per di più finge di ignorare che con il taglio dei parlamentari la soglia per ottenere l’elezione del 3% (quando è tale, altrimenti molto più alta) è in realtà più alta del 33%, quindi è circa il 4,5 %. Si scrive 3% e si legge 4,5%.

Questi ed altri aspetti della legge elettorale, come i voti degli elettori che hanno pesi enormemente diversi tra loro, dovevano portare le “non destre” ad ingaggiare una lotta senza quartiere per cambiare la legge elettorale per tempo e c’è stato almeno un momento in cui avrebbero potuto farlo: quando la maggioranza rosso/gialla aveva i numeri per farla approvare e le condizioni politiche per farlo perché il taglio dei parlamentari meritava almeno una contropartita in cambio dell’approvazione definitiva. La verità è che l’incertezza, la confusione, l’illusione delle “non destre” di rinviare all’infinito la prova elettorale, senza mai chiedersene il prezzo, hanno portato a perdere tutte le occasioni per procedere alla riforma della legge elettorale che le destre non volevano perché puntavano a tornare insieme dopo essersi divise per tutta la passata legislatura.

Eppure, a Letta, appena eletto segretario del Pd, era stato spiegato con cura dal Cdc che la nuova legge elettorale era una condizione indispensabile da ottenere ad ogni costo prima del voto. Del resto, la stessa cosa era stata già esposta con forza anche al M5Stelle e a S.I. Sono arrivate le elezioni e il risultato è (purtroppo) noto. Neppure le indicazioni venute da diverse parti ad usare al meglio la legge elettorale in vigore, almeno per difendersi nel modo migliore, non ha trovato ascolto. Era sufficiente presentare candidature uniche nei collegi uninominali per evitare il cappotto della destra. Il voto nei collegi uninominali si sarebbe riverberato, esattamente come per la destra, tra tutte le componenti delle “non destre”. Un risultato Win Win, nessuno guadagna e nessuno vince sugli altri coalizzati, ma prende seggi alle destre.

Si è detto che non si poteva fare uno schieramento con chi aveva provocato la caduta del governo Draghi, ora si dovrà fare la stessa cosa in condizioni enormemente più difficili se non si vuole regalare alle destre una prateria per le incursioni dentro l’opposizione, come è già accaduto in occasione dell’elezione di La Russa, eletto con il soccorso di una parte dell’opposizione, una sorta di ripetizione dei 101 di Prodi. In realtà, un accordo almeno temporaneo contro le destre era del tutto possibile sulla base di una piattaforma formidabile – ricordata anche da Liliana Segre in apertura dei lavori del Senato – la Costituzione, la sua difesa e la sua attuazione.

Denunciare i pericoli per la Costituzione e poi non trarne le conseguenze costruendo uno schieramento per impedirne lo snaturamento è una contraddizione inspiegabile. Anche perché la maggioranza di Draghi comprendeva Lega e Forza Italia che hanno condizionato le politiche del governo. Quindi schierarsi in una difesa acritica di tutto l’operato del governo Draghi aveva (ed ha) poco senso, tanto più che la destra invece millantava ben altri obiettivi in caso di vittoria elettorale, quindi manteneva uno spazio di manovra.

La guerra.
Qui forse c’è il vero punto della difficoltà a creare uno schieramento politico alternativo, per lo meno nei collegi uninominali della Camera e del Senato. L’impressione è che sia arrivato un messaggio (dalla Nato, dagli Usa?) che il temperamento nell’invio delle armi dall’Italia sostenuto da Conte insieme alla richiesta di avviare trattative di pace doveva portare a posizioni diversificate tra Pd e M5Stelle. Comunque sia questo è stato un errore politico. La pace riguarda tutti e non è più accettabile che il tema trattative per la pace resti oscurato da una continua escalation nell’invio delle armi, di crescenti difficoltà nell’economia e nell’energia, mentre gli Usa queste difficoltà non le hanno, anzi vendono il loro Gnl liquefatto a prezzi molto più alti che sul loro mercato interno contribuendo ad una disparità concorrenziale crescente tra Usa ed Europa.
Viene sottovalutata la questione che un’Europa più povera, in recessione e in crisi occupazionale diventerà una polveriera sociale ed economica e l’Unione europea, incapace di iniziativa autonoma per la pace e per salvaguardare la sua economia, ricorda – purtroppo – l’orchestra del Titanic.

Bisogna prendere atto che le “non destre” politiche ci metteranno tempo, se ci riusciranno, a svolgere un’opposizione efficace. La speranza è nelle mani della società, dove la sinistra esiste, ben oltre la definizione di “non destre”, che chiamo così perché nessuno sa oggi come chiamare quelli che non sono destre. Occorre fare crescere movimenti, iniziative, associazioni, cercando di unificare il più possibile. È un buon senso immediatamente comprensibile: occorre unire le forze, sottinteso non come è accaduto con i partiti.

Ad esempio, è arrivata la notizia importante che il 5 novembre ci sarà una grande manifestazione unitaria per la pace a Roma, di straordinaria importanza per invertire una tendenza remissiva e sbagliata.

Occorre dare maggiore respiro ed unità agli obiettivi cominciando dal lavoro per la pace che deve essere un assillo quotidiano, in alternativa alla ripetitiva insistenza sulle armi e sulla rincorsa agli armamenti, in cui si è distinto il segretario generale della Nato.

Pace, ambiente, contrasto al cambiamento climatico, investimenti massicci nelle energie alternative, politiche industriali e occupazionali, cancellazione del Jobs Act e nuovi diritti per chi lavora, contrasto radicale alla povertà ormai in crescita esponenziale. Se questo dovesse suonare come smentita di precedenti comportamenti pazienza, chi ha deciso sbagliando se ne farà una ragione e finalmente le destre si confronteranno con piattaforme forti e alternative nate dalla società, anziché dai partiti.

È una speranza che potrebbe diventare una certezza di cambiamento della stessa politica, che dovrà raccogliere le istanze, cambiare o affondare.
Dalla società debbono venire scelte nette e forti, di protagonismo attivo, nella consapevolezza di un ruolo insostituibile, tale da provocare un terremoto politico nelle “non destre”, che dovranno adeguarsi o lasciare il posto ad altro/i.

Non è certo il momento di frenare ma di suscitare partecipazione attiva, consapevole, protagonismo, capacità di iniziativa e la responsabilità oggi è sulle spalle della società, dei movimenti che la percorrono, per creare un salto di qualità nella stessa politica.
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Ufficio stampa: Andreina Albano 3483419402 – andreinaalbano@gmail.com
Adesione del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale
alla manifestazione nazionale per la pace che si terrà il 5 novembre a Roma

Aderiamo alla Manifestazione nazionale per la pace indetta per il 5 novembre a Roma da Europe for peace, con l’adesione di tantissime organizzazioni sociali, sindacali, laiche, cattoliche, culturali, di volontariato. Una manifestazione che è espressione della volontà di pace che viene in primo luogo dalla società civile.
L’escalation della guerra in Ucraina sta rischiando di portare il mondo sull’orlo di uno scontro nucleare. Di fronte a questo pericolo per l’intera umanità si è levata forte la voce di papa Francesco: “Quanto sangue deve ancora scorrere perché capiamo che la guerra non è mai una soluzione, ma solo distruzione? … Si giunga subito al cessate il fuoco” La manifestazione del 5 novembre risponde quindi all’accorato appello del Papa e di tutte le voci che si sono levate dal mondo laico e pacifista perché le armi tacciano e si imbocchi con decisione la strada di una trattativa con la mediazione dell’Onu e di paesi che agiscono sotto la sua egida, che possa portare ad una conferenza internazionale di pace, come fu quella di Helsinki nel 1975, in piena guerra fredda che permise di evitare per molti anni uno scontro tra le maggiori potenze.
La continuazione della guerra iniziata con l’invasione russa, l’invio di armi sempre più potenti all’Ucraina da parte dei paesi della Nato, fra cui il nostro, la minaccia di usare armi nucleari da parte della Russia, il decreto del Presidente Zelensky che vieta di aprire negoziati con Mosca si muovono in direzione contraria alla pace e spingono il mondo sull’orlo di un baratro.
Non c’è vittoria sul campo per nessuno. Questa è una guerra a perdere per tutti. Per questo va fermata subito.
L’Unione europea deve uscire da un comportamento di appiattimento alle decisioni americane e assumere un ruolo politico autonomo sullo scenario mondiale esercitandolo in nome della pace. Il nostro paese, sulla base della nostra Costituzione, deve assumere immediatamente nella Ue e nelle relazioni con gli altri stati la funzione di proposta e di stimolo alle iniziative necessarie per creare le condizioni della pace.
Il Cdc invita quindi tutti gli aderenti e i comitati locali ad organizzare la massima partecipazione il 5 novembre a Roma e a partecipare attivamente a tutte le iniziative sul piano locale, come quelle già previste tra il 21 e il 23 ottobre, per il cessate il fuoco e per arrivare alla pace.
La presidenza del Coordinamento per la democrazia costituzionale
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