Editoriali

“Il bene comune è il principio ordinatore della Costituzione, che lo definisce come «interesse della collettività» (art. 32), «interesse generale» (artt. 35, 42, 43 e 118), «utilità sociale» e «fini sociali» (art. 41), «funzione sociale» (artt. 42, 45), «utilità generale» (art. 43), «pubblico interesse» (art. 82). Espressioni non coincidenti, ma convergenti, che si integrano l’una nell’altra in una coerente architettura di valori”.

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Le culture uniscono i popoli
di Salvatore Settis

Riprendiamo da SardegnaSoprattutto il testo della Lectio magistralis di Salvatore Settis che, assente lui per malattia, è stata letta al Convegno FAI Sardegna: “Arte ponte tra culture, Mediterraneo ponte tra popoli”, svoltosi il 6 febbraio 2017 al Teatro Massimo di Cagliari.

Sono molto grato al Fai, e in particolare alla mia cara amica Maria Antonietta Mongiu, di avermi invitato a parlare in questa giornata. Quel che vorrei offrirvi oggi può esser diviso in due parti. Nella prima farò, fondandomi sulla nostra Costituzione, qualche considerazione sulla cultura come bene comune; nella seconda parlerò invece della cultura come fattore essenziale di comunicazione fra i popoli e di pace.

Parlare di cultura come bene comune vuol dire parlare di Costituzione: un tema molto importante sempre, e ancor di più oggi, dopo che lo sconsiderato tentativo di modificare il testo della nostra Carta fondamentale ha prodotto l’opposto, generando un forte movimento di opinione in favore della Costituzione. Tuttavia, parlare di cultura e Costituzione oggi vuol dire riflettere su un orizzonte di valori che è quotidianamente sotto attacco, e anzi a rischio di demolizione. Nessun Paese al mondo ha una Costituzione che affermi il diritto alla cultura con tanta forza e coerenza come fa la nostra Carta fondamentale; eppure nessun Paese in Europa ha tagliato gli investimenti pubblici in questo settore quanto l’Italia.

Permettetemi di ricordare un episodio che può parere remoto ma è ancora attuale: otto anni fa, nel giugno 2008, il neo-ministro Sandro Bondi dichiarò a Camera e Senato che «l’Italia è agli ultimi posti in Europa per la percentuale della spesa in cultura sul bilancio dello stato (0,28% contro l’8,3% di Svezia e 3% di Francia)», aggiungendo «mi impegno ad invertire questa tendenza negativa» (ANSA, 3 giugno). Meno di un mese dopo, Bondi subì senza fiatare un taglio di 1 miliardo e 300 milioni, che dimezzava il bilancio del suo ministero falcidiandone la capacità di spesa.

A colpi di decine di milioni, lo stesso ministro e i suoi infelici successori Giancarlo Galan e Lorenzo Ornaghi hanno totalizzato ulteriori tagli per centinaia di milioni; e questa tendenza è stata solo in parte corretta dall’attuale ministro Dario Franceschini; ma la sua estesa riforma “a rate” del Ministero ha creato e sta creando più problemi di quanti non ne abbia saputo risolvere, ed è oggi ancor più vero che il basso livello degli investimenti impedisce di affrontare decentemente la quotidianità e l’ordinaria amministrazione, e dunque a maggior ragione vieta di rispondere adeguatamente alle emergenze, come si vede a ogni terremoto, a ogni slavina, a ogni alluvione.

Cambiare i direttori dei grandi musei non basta, e la mancanza pressoché assoluta di turnover negli ultimi vent’anni (le colpe sono equamente divise fra centro-destra, centro-sinistra e governo “tecnico”) ha portato a un drammatico invecchiamento del personale della tutela, mentre le università continuano a produrre a getto continuo laureati in beni culturali, archeologia, storia dell’arte, votati alla disoccupazione o all’emigrazione. Il concorso in atto per l’assunzione di 500 nuovi funzionari è inadeguato a colmare l’abisso aperto da una continua emorragia (pensionamenti o dimissioni volontarie) che è quasi 10 volte più grande.

E’ su questo sfondo che, in un Paese oggi affetto da una crisi collettiva di memoria, dobbiamo ricordare a noi stessi che la cultura, secondo la Costituzione, è un bene comune. Secondo il nostro ordinamento, i valori della cultura (per esempio la tutela del paesaggio e del patrimonio storico-artistico) non sono un tema “di nicchia”, ma appartengono a una sapiente architettura di diritti che si lega strettamente agli orizzonti fondamentali della democrazia: eguaglianza, libertà, equità sociale, dignità della persona umana. Di tali orizzonti la nostra Costituzione è il perfetto manifesto, anche se, come diceva Calamandrei, essa è davvero “la grande incompiuta”: ma questa sua perenne, feconda incompiutezza non è affatto una ragione per cambiarla, bensì per esigere che venga finalmente messa in pratica.

Corre oggi nel Paese, prendendo talvolta i colori dell’indignazione, talaltra quelli della rassegnazione e della rinuncia, una domanda, questa : è ancora possibile progettare un futuro in cui abbiano cittadinanza valori come giustizia equità democrazia libertà? In cui il cuore della politica sia non la geometria variabile delle alleanze o delle “intese”, ma la forte trama dei diritti civili? Sarà possibile, io credo, solo se sapremo ricollocare il bene comune al centro di un nuovo discorso sulla cittadinanza. E in questo discorso, come proverò ora a dire, la cultura ha un ruolo essenziale, pienamente riconosciuto dalla Costituzione.

Questo ruolo non può essere inteso senza evocare, oltre che quello di bene comune, alcuni altri concetti-chiave: popolo, cittadino, lavoro, solidarietà.

Il bene comune è il principio ordinatore della Costituzione, che lo definisce come «interesse della collettività» (art. 32), «interesse generale» (artt. 35, 42, 43 e 118), «utilità sociale» e «fini sociali» (art. 41), «funzione sociale» (artt. 42, 45), «utilità generale» (art. 43), «pubblico interesse» (art. 82). Espressioni non coincidenti, ma convergenti, che si integrano l’una nell’altra in una coerente architettura di valori.
Popolo è la parola più pregnante per designare il soggetto collettivo che è il protagonista della Costituzione: ad esso appartiene la sovranità (art. 1), e perciò in suo nome viene amministrata la giustizia (art. 101).
Al popolo come soggetto collettivo corrisponde una parola altrettanto ricca di senso, cittadino. Il cittadino è per definizione membro del popolo, e dunque titolare della sovranità. Perciò «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge», ed «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana» (art. 3). Ai cittadini spettano diritti inviolabili come la libertà (artt. 13, 15, 16), e in particolare la libertà di riunione (art. 17), di associazione (artt. 18 e 49), di culto (art. 19), di parola, di pensiero e di stampa (art. 21): diritti, tutti, connnessi strettamente con la libertà della cultura.
Un altro grande tema della Costituzione, il lavoro, ricorre sin dall’incisiva definizione dell’art. 1: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro»; ed è al cittadino-lavoratore che l’art. 36 assicura una «esistenza libera e dignitosa». Perciò, recita l’art. 4, «la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto».
Infine, i valori del bene comune e l’etica del lavoro e della cittadinanza determinano nella Costituzione i «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» richiesti ai cittadini (art. 2).
Ma il cittadino-lavoratore non può essere consapevole protagonista della vita economica e sociale del Paese senza un ingrediente essenziale: il diritto alla cultura. Mirata al bene comune è infatti anche la centralità della cultura scolpita nell’art. 9, «il piú originale della nostra Costituzione» (Ciampi): «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Cultura, ricerca, tutela contribuiscono al «progresso spirituale della società» (art. 4) e allo sviluppo della personalità individuale (art. 3), legandosi strettamente alla libertà di pensiero (art. 21) e di insegnamento ed esercizio delle arti (art. 33), all’autonomia delle università, alla centralità della scuola pubblica statale, al diritto allo studio (art. 34).

Inoltre la Corte costituzionale, ragionando sulla convergenza fra tutela del paesaggio (art. 9) e diritto alla salute (art. 32) ha stabilito che anche la tutela dell’ambiente è un «valore costituzionale primario e assoluto» in quanto espressione di un interesse diffuso dei cittadini, che esige un identico livello di tutela in tutta Italia, come mostra nell’art. 9 il cruciale termine Nazione.

La creazione in via interpretativa di questa avanzatissima nozione costituzionale di “ambiente” è la prova provata, se ce ne fosse mai bisogno, di quanto la Costituzione sia lungimirante; e che essa, dunque, non va cambiata, ma interpretata e soprattutto applicata. Ora, secondo la nostra Costituzione il diritto al lavoro e la dignità della persona si legano alla stessa concezione secondo cui ambiente, paesaggio, beni culturali formano un insieme unitario e inscindibile la cui estensione corrisponde al territorio nazionale; fanno tutt’uno con la cultura, l’arte, la scuola, l’università e la ricerca.

Con esse, concorrono in misura determinante al principio di uguaglianza fra i cittadini, alla loro «pari dignità sociale» (art. 3), alla libertà e alla democrazia: perciò la loro funzione è costituzionalmente garantita. Il noto adagio di Calamandrei («La scuola, come la vedo io, è un organo “costituzionale“») può perciò applicarsi anche alle altre istituzioni culturali, dalle università alle accademie ai musei ai teatri, agli enti di ricerca.

Questi principi costituzionali configurano quel che si può chiamare a buon diritto il diritto alla cultura che la Costituzione italiana, caso rarissimo nel panorama mondiale delle Costituzioni, assicura ai propri cittadini. La cultura fa parte dello stesso identico orizzonte di valori costituzionali che include il diritto al lavoro, la tutela della salute, la libertà personale, la democrazia. Perciò dobbiamo, è vero, rilanciare l’etica della cittadinanza, puntando su mete necessarie come giustizia sociale, tutela dell’ambiente, diritto al lavoro, priorità del bene comune sul profitto del singolo, democrazia, uguaglianza. Ma perché queste mete siano praticabili e concrete è altrettanto necessaria la piena centralità della cultura.

Se concepiamo la cultura come il cuore e il lievito dei diritti costituzionali della persona e insieme il legante della comunità, capiremo che essa è funzionale alla libertà, alla democrazia, all’eguaglianza, alla dignità della persona. Che difendere il diritto alla cultura è difendere l’intero orizzonte dei nostri diritti: perché i diritti, se non li difendi, li perdi. Ma se non li conosci, non saprai difenderli. La funzione della cultura è anche questa: farci conoscere i nostri diritti, lo spessore storico, filosofico, etico, religioso dal quale essi provengono. Il futuro che ci permettono di costruire, e per converso il buio in cui precipiteremo se rinuceremo a difenderli.

Anche questo è il compito di chi pratica le scienze storiche: ricordarsi e ricordare che la storia non è evasione, non è una via di fuga dal presente, una sorta di tranquillante che ci allontana dalle urgenze dell’oggi. Al contrario, la storia può aiutarci a interpretare le radici delle nostre urgenze e dei nostri problemi: per dar corpo e ragione ai nostri disagi.

Secondo un detto famoso, «la storia è maestra della vita». Ma proviamo a capovolgerlo, quel detto: possiamo dire infatti, a ragion veduta, che la vita è maestra della storia: sono le urgenze del presente che ci spingono a rileggere le vicende del passato non come mero accumulo di dati eruditi, non come polveroso archivio, ma come memoria vivente delle comunità umane.

Solo questa concezione degli studi storici può trasformare la consapevolezza del passato in lievito per il presente, in serbatoio di energie e di idee per costruire il futuro. E’ infatti dovere, anzi mestiere, degli storici coltivare uno sguardo lungo, una visione delle cose e degli uomini che riguarda tanto il passato quanto l’avvenire, premessa necessaria per provare a costruire un futuro diverso e migliore.

La centralità della cultura nella Costituzione italiana è un buon punto di partenza per riflettere sulla funzione possibile della cultura nell’interscambio fra i popoli. L’Unione Europea, che oggi vacilla non solo e non tanto come conseguenza dell’uscita imminente della Gran Bretagna, ma di una crisi economica e politica senza fine, deve la propria debolezza non – come spesso si dice, al fatto di non essersi ancora tradotta in un comune esercito e in un’unione politica più forte, ma al fatto di essere stata concepita sin dall’inizio come una progressiva fusione di economie, non di culture.

L’idea da cui si partì all’altezza dei Trattati (in particolare quelli di Maastricht e di Lisbona) fu che, una volta assicurata una solida unione economica, tutti gli altri aspetti ne sarebbero seguiri per naturale evoluzione. Non è stato affatto così, e continua a mancare in Europa una riflessione istituzionale adeguata su un assetto di valori fondamentali che possa servira da legante ai Paesi della comunità, diversissimi l’uno dall’altro per lingua, compagine sociale e tradizioni culturali, eppure unificati non solo dalla geografia, ma dalla storia.

Ma questo discorso va allargato ben oltre i confini dell’Europa. Il tema di questo convegno, Mediterraneo ponte tra i popoli, è oggi molto opportuno perché cade in un momento storico la cui drammaticità, dovuta alle ondate di migranti con le tragedie personali e sociali che comportano, è destinata a crescere negli anni che ci aspettano. Tendiamo oggi a vedere il Mediterraneo come un baratro che si apre tra una sponda Nord prospera e cristiana e una sponda Sud povera e mussulmana. Ma, se la vita è maestra della storia, guardiamo alla storia con lo sguardo di oggi per trarne insegnamento e ispirazione per il futuro.

Nei lunghi secoli dell’impero romano, il Mediterraneo fu mare di pace, fu un incrocio di strade più che una barriera, fu luogo di incontro e di dialogo più che di conflitto. Gli archeologi studiano oggi relitti di navi romane dove si trovano fianco a fianco ceramiche anatoliche, monete coniate in Italia, olio prodotto in Spagna: una globalizzazione ante litteram che somiglia moltissimo a quella che viviamo, e da cui dovremmo imparare (ma in quel mondo la convergenza culturale era assicurata dalla diffusione universale delle due lingue-guida, il greco e il latino, e dal dominio incontrastato della civiltà giuridica romana).

Ma anche nel Medio Evo, e proprio mentre si svolgevano le Crociate e altri scontri fra le due sponde del Mediterraneo, si svolse –non contraddicendo, ma integrando le conflittualità che pure insorgevano a ogni passo– un intenso scambio di idee, di progetti culturali, di saperi. Basti ricordare velocemente qualche punto. Fu alla corte di Bagdad, e non in Europa, che numerosissimi testi greci di filosofia, astronomia, medicina, matematica vennero sistematicamente tradotti e studiati; e anche dopo la riscoperta di molti testi nel Rinascimento ci sono ancora numerosi testi greci perduti in originale, e conservati solo in traduzione araba o siriaca.

Gli stessi “numeri arabi” che usiamo ogni giorno sono in realtà di invenzione indiana, ed entrarono in Europa, con la mediazione araba, grazie a un matematico pisano, Leonardo Fibonacci, che il padre (un mercante) aveva mandato da ragazzo a studiare in una città araba (che si trovava nell’odierna Algeria).

Ma ci sarebbe di più: uno studioso svizzero ha dimostrato che due monumenti famosissimi di Pisa, la Torre pendente e il Battistero, furono progettati sulla base di formule matematiche molto complesse, che presuppongono la conoscenza di teoremi dell’antica matematica greca, allora noti solo alla scienza araba e non in Europa: è dunque necessario presupporre un apporto arabo anche all’architettura di un’icona dell’Italia e dell’Europa come la Torre di Pisa. Un tale apporto passava attraverso i rapporti commerciali (la matematica veniva studiata prevalentemente dai mercanti, in quanto funzionale ai loro commerci), ma si traduceva in rapporti artistici e culturali.

Eppure i Pisani combatterono guerre crudeli contro gli Arabi, durante le quali conquistarono anche le Baleari trascinando a Pisa molti prigionieri fra cui una regina (poi sepolta nel Duomo anche se non cristiana). Guerra, economia e cultura sono sempre stati elementi capaci di convivere nel rapporto fra culture. L’uno non esclude l’altro.

Basti questo esempio a ricordare come la cultura possa essere un legante fra i popoli, e non qualcosa che divide. Come ha argomentato Maurizio Bettini in un piccolo e prezioso libro Contro le radici, tendiamo oggi a concepire le identità in senso atomistico ed esclusivistico. Come se l’identità di ogni individuo non dovesse presupporre la comunità di cui fa parte. Come se l’identità di un popolo potesse mai essersi formata a prescindere dai popoli con cui è stato ed è a contatto. I temi identitarii sono oggi straordinariamente importanti, ma è altrettanto importante considerare le identità non come il prodotto della razza, del sangue e del suolo, bensì come il risultato di molteplici e stratificati apporti, che per loro natura sono sempre bidirezionali.

Il concetto di “osmosi” è in questo senso il più adeguato a descrivere questi processi: l’Italia, ad esempio, non sarebbe quello che è senza l’apporto delle diversissime popolazioni che ne formano l’ossatura storica, dai Greci di Sicilia e di Magna Grecia ai Celti della pianura padana, dagli Etruschi ai Sardi, dai Fenici ai Veneti. E anche le epoche di dominio straniero (francesi, aragonesi, spagnoli, austriaci…..), che pure hanno suscitato tanta opposizione e finalmente le Guerre d’indipendenza, hanno lasciato tracce considerevolissime delle diverse culture giuridiche, filosofiche, artistiche, letterarie. Questa è dunque la concezione da promuovere, interamente coerente con quella della cultura come bene comune consacrata dalla Costituzione.

Nel Mediterraneo, le isole, e in particolare le Grandi Isole (Sicilia, Sardegna e Corsica; ma anche Cipro, Creta, Baleari) hanno in questo senso una funzione ancor più evidente, perché più si prestano a fungere da crocevia tra i vari popoli. Secondo la teoria “delle quattro penisole” del mio maestro Silvio Ferri, le ondate di migrazione culturale che dall’Oriente hanno progressivamente raggiunto l’Atlantico si sarebbero sviluppate passando da una “penisola” all’altra: prima la penisola balcanica, poi l’Italia, poi (prima di arrivare alla penisola iberica) quella che Ferri chiamava, con voluta improprietà, la “terza penisola”, costituita dall’insieme di Sardegna e Corsica: vissute, egli sosteneva, come approdi e luoghi di sosta e di interscambio intermedi fra l’Italia e le coste della Francia e della Spagna.

E’ a partire da idee, nozioni e memorie come queste che dovremmo saper costruire una nuova concezione del Mediterraneo come ponte e non barriera, come strada e non muraglia, come luogo dove tendersi la mano e provare a dialogare pur non negando le diversità e i conflitti. La cultura, infatti, è l’unica moneta di scambio che non è soggetta a date di scadenza, che non conosce inflazioni e deflazioni, se solo sappiamo usarla per quel che è stata, che è, che può ancora essere.

Per finire ricordo, perché sempre attuale, il forte ammonimento di Bertolt Brecht «per la difesa della cultura» al I e al II congresso internazionale degli scrittori: «Si abbia pietà della cultura, ma prima di tutto si abbia pietà degli uomini! La cultura è salva quando sono salvi gli uomini. Non lasciamoci trascinare dall’affermazione che gli uomini esistono per la cultura, e non la cultura per gli uomini. (…) Riflettiamo sulle radici del male! (…) scendiamo sempre più in profondo, attraverso un inferno di atrocità, fino a giungere là dove una piccola parte dell’umanità ha ancorato il suo spietato dominio, sfruttando il prossimo a prezzo dell’abbandono delle leggi della convivenza umana (…), sferrando un attacco generale contro ogni forma di cultura. Ma la cultura non si può separare dal complesso dell’attività produttiva di un popolo, tanto più quando un unico assalto violento sottrae al popolo il pane e la poesia».

Al via l’Osservatorio dei Beni Comuni della Sardegna. Ecco il Documento base del Comitato di Cagliari

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Osservatorio beni comuni Sardegna
Documento base del Comitato di Cagliari, che sarà discusso nella prossima riunione di lunedì 20 febbraio, alle ore 17.30, nella sede della Confederazione Sindacale Sarda (CSS), che sostiene il progetto dell’Osservatorio.

L’Osservatorio dei Beni Comuni della Sardegna – che promuoviamo partendo da un piccolo gruppo, con l’ambizione di ingrossare le fila in misura consistente e in tempi rapidi - si propone di approfondire e diffondere il concetto di “beni comuni”, da individuare concretamente nelle “cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona (…) che devono essere tutelati e salvaguardati dall’ordinamento giuridico, anche a beneficio delle generazioni future” (1) e dei quali favorire la fruibilità e la gestione da parte dei cittadini attivi e organizzati in accordo con le Pubbliche amministrazioni. La categoria dei “beni comuni” è immensa, posto che comprende “i fiumi, i torrenti e le loro sorgenti; i laghi e le altre acque; l’aria; i parchi come definiti dalla legge, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i lidi e i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; i beni archeologici, culturali, ambientali e le altre zone paesaggistiche tutelate” (1). E l’elencazione non è affatto esauriente. Risulta pertanto necessario da parte di un Gruppo ristretto quale è il nostro, sia pure ambiziosamente destinato a crescere, selezionare il proprio campo di azione. Non facciamo però tale scelta “a priori”, decidendo invece di modellare il programma da portare avanti rispetto alle persone che formano ora e che formeranno nel tempo l’Osservatorio, articolato in diverse “sezioni” per “filoni di intervento”. Anche la dimensione territoriale, tendenzialmente riferita a tutto il territorio regionale, nella pratica riguarderà solo parziali articolazioni dello stesso. In questo quadro allo stato attuale dichiariamo che ci occuperemo immediatamente solo di “beni comuni urbani”, limitandoci a quelli che insistono nel territorio comunale di Cagliari. Almeno da qui cominciamo, poi si vedrà.
Il nostro operare sarà pertanto su due diversi ambiti:
- quello di carattere generale, per definire concettualmente i “beni comuni”, partendo dallo stato dell’arte nei diversi ambiti disciplinari;
- quello specifico, di concreto intervento sul territorio, con particolare attenzione al riuso sociale delle ex servitù militari e delle altre strutture pubbliche dismesse o in dismissione o già nella piena disponibilità delle amministrazioni pubbliche.
A noi ovviamente interessa che nella gestione di questi “beni comuni” intervengano direttamente i cittadini, nella pratica attuazione del principio costituzionale della sussidiarietà orizzontale, di cui all’art. 118, ultimo comma della Costituzione: “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. Detta norma, allo stato attuale largamente disattesa, riconosce ai cittadini – e dunque alle loro organizzazioni/associazioni nelle più diverse espressioni – la capacità di attivarsi autonomamente nell’interesse generale e dispone che le istituzioni debbano sostenerne le coerenti iniziative.

Unendo il generale al particolare puntiamo allora a individuare gli strumenti per praticare con tutta la possibile urgenza tali obbiettivi. Per esempio aiutando il Comune di Cagliari a dotarsi di un buon “Regolamento per l’amministrazione condivisa dei beni comuni”, magari da copiare, adattandolo, dai migliori regolamenti tra quelli attualmente vigenti in più di 100 Comuni italiani, e, operativamente, per rendere concreto e tangibile il rapporto tra amministrazione e cittadini, invitando il Comune a dotarsi di un ufficio per l’amministrazione condivisa, uno “sportello unico per i cittadini attivi”, che faciliti e semplifichi al massimo il rapporto fra i cittadini che portano risorse preziose per il bene della comunità e le strutture amministrative

Non lo nascondiamo: contiamo nell’immediato di aiutare le entità dell’associazionismo socio-culturale della città (e non solo) a reperire spazi adeguati per le loro benemerite attività. Tra queste ci siamo anche noi dell’Osservatorio, allo stato ospitato nella sede della CSS, che ringraziamo per la consueta disponibilità.

Contiamo evidentemente di attivare tutte le possibili collaborazioni e, di più, di “fare integrazione” con altri soggetti che si propongono come noi la pratica della “democrazia partecipata”.
Ci collegheremo poi agli Organismi simili ai nostri a livello italiano, europeo e internazionale, a partire dal Laboratorio sulla Sussidiarietà fondato e diretto dal prof. Gregorio Arena (www.labsus.it).
In questa direzione stiamo anche lavorando per uno o più Convegni sulla tematica “Costituzione, Beni comuni e Sussidiarietà” da organizzare a Cagliari tra il mese di giugno e quello di novembre 2017, in collaborazione con il “Comitato d’iniziativa Costituzionale e Statutaria”, che veda/no la partecipazione di illustri relatori come Paolo Maddalena, Ugo Mattei, Stefano Rodotà, Gregorio Arena ed altri. Ed ancora stiamo lavorando per attivare uno stretto rapporto con i Dipartimenti e i singoli docenti dell’Università della Sardegna (Cagliari e Sassari) di diversi ambiti disciplinari, interessati alle tematiche dei “beni comuni” per iniziative di ricerca, didattica, diffusione di buone pratiche.

Buon lavoro!
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1. Proposta di articolato Commissione Rodotà – elaborazione dei principi e criteri direttivi di uno schema di disegno di legge delega al Governo per la novellazione del Capo II del Titolo I del Libro III del Codice Civile nonché di altre parti dello stesso Libro ad esso collegate per le quali si presentino simili necessità di recupero della funzione ordinante del diritto della proprietà e dei beni (14 giugno 2007).
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Cagliari OBCCONTATTI
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Poli industriali, Eurallumina e dintorni Un piano straordinario per lavoro, a partire dalle bonifiche e dalla messa in sicurezza del territorio sardo, dedicato soprattutto alle giovani generazioni

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di Fernando Codonesu
Certo una riflessione a giochi ormai fatti sul progetto recentemente approvato dall’ultima Conferenza dei Servizi decisoria dell’otto marzo sul progetto di rilancio dello stabilimento sulcitano di Eurallumina, va fatta.
Detto in termini manzoniani, con riferimento voluto alla Regione nel suo complesso, possiamo dire che alla richiesta di autorizzazione del progetto della Rusal “la sciagurata rispose”, con tutto ciò che ne conseguì nel libro del grande lombardo e che ne consegue per la nostra martoriata regione, cioè per tutti noi.
Bene ha fatto Giacomo Meloni della CSS a rimarcare tutte le criticità del progetto presentato da Eurallumina-Rusal per il suo rilancio produttivo, un progetto basato dal punto di vista energetico sull’uso del carbone e sulla riproposizione della produzione di allumina, con lo stabilimento Alcoa chiuso da anni. Così come altrettanto bene hanno fatto associazioni e gruppi ambientalisti come Legambiente, il GrIg e numerosi altri che si sono pacatamente e motivatamente opposti all’autorizzazione del progetto.
Intanto va osservato che venuta meno la presenza di Alcoa nell’area, la ripresa della produzione di Eurallumina, a differenza del periodo di piena attività del polo industriale, vede ora l’operatività di un solo segmento della filiera, anzi di un singolo “punto produttivo” che non costituisce filiera per definizione, che sarà alimentato con materia prima proveniente via nave, così come avverrà via nave l’approvvigionamento del carbone, essendo venuta meno la produzione di carbone nella vicina miniera. Quindi una filiera inesistente e un rilancio produttivo che fa solo gli interessi temporanei della Rusal che a tempo debito (tre anni, forse cinque), dopo aver realizzato la centrale, confezionerà un “pacco” da mettere sul mercato rifilandolo a qualche altro operatore.
E allora riprenderà la trafila per richiedere ancora qualche intervento basato sull’assistenzialismo di industrie decotte e non in grado di stare sul mercato?
Una cosa è la protezione dei lavoratori in aree e periodi di crisi, altro è finanziare attraverso la collettività industrie esogene che nulla hanno a che vedere con le vocazioni territoriali della Sardegna, obsolete in quanto ferme da ben otto anni, inquinanti come ampiamente noto e non in grado di stare sul mercato.
Altro sarebbe stato creare un polo produttivo di riciclo dell’alluminio come suggerito dal GrIG che avrebbe avuto anche il merito di emissioni ridotte del 90% rispetto alla produzione di alluminio da minerale.
Il progetto, in sintesi, prevede la realizzazione di una caldaia di cogenerazione di energia elettrica e vapore, l’adeguamento della raffineria per utilizzare bauxiti tri-idrate come materia prima per la produzione dell’allumina e l’ampliamento del bacino dei fanghi rossi ancora sotto sequestro della magistratura, con investimenti di circa 170 milioni e un impatto occupazionale tra diretti e indotto di circa 500 lavoratori.
Siamo sicuri sia questa la via più efficace per la salvaguardia dell’occupazione e lo sviluppo del già martoriato Sulcis?
A giudicare dalla situazione di grave inquinamento ambientale, come sottolineato efficacemente da Legambiente, la risposta è totalmente negativa: si immette ulteriore inquinamento ambientale che si somma a quello esistente a fronte di profitti certi per un breve periodo per la multinazionale di turno e futuro molto incerto per i lavoratori di cui si vedrà a breve termine l’esito.

Come in tanti, troppi altri casi, è il coraggio delle scelte che manca e l’epilogo di questa vicenda ne costituisce l’ulteriore riprova.
E’ stato appurato fin dai primi anni ’90 che l’attività industriale attraverso le emissioni gassose e polverulente, gli scarichi idrici e le discariche di rifiuti ha rappresentato la principale sorgente di rischio per la popolazione residente e per la qualità dell’ambiente, al punto di aver definito un piano di disinquinamento e incluso tutta l’area nella nella perimetrazione del SIN (Sito di interesse nazionale per le bonifiche) ‘Sulcis-Iglesiente-Guspinese’ nell’anno 2003 .
E veniamo ad alcuni dati attuali sull’inquinamento ambientale che dovrebbero essere al centro dell’agenda della Regione, così come del sistema sanitario e di tutta la popolazione non solo del Sulcis, ma dell’intera Sardegna.
L’inquinamento è così diffuso che si fa fatica ad immaginare quante risorse finanziarie dovranno essere trovate per bonificare e ripristinare le zone individuate.
Trascuriamo per il momento i dati dell’inquinamento del suolo della zona industriale di Portovesme, su cui spesso sono intervenute le ordinanze di divieto del consumi di ortaggi, latte, formaggi e altro da parte del sindaco di Portoscuso, e concentriamo l’attenzione sull’inquinamento della falda acquifera. A tale riguardo, in data 27 gennaio 2013 sul quotidiano l’Unione Sarda è stato pubblicato un articolo con i dati di fonte ministeriale riportati nelle due tabelle che seguono:

Tab 1 Codonesu
Tab. 1: Inquinamento falda acquifera superficiale area industriale Portovesme. Fonte: Ministero dell’Ambiente
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Tab 2 Codonesu
Tab. 2: Inquinamento falda acquifera profonda area industriale Portovesme. Fonte: Ministero dell’Ambiente

Non risulta che in questi anni si sia proceduto a bonifiche sistematiche dei suoli e della falda perché l’unica attività realmente operativa in capo alle poche aziende produttive dell’area consiste in interventi di “pump and treat”,ovvero niente più di un semplice monitoraggio con piezometri a diverse profondità. Per tale motivo è ragionevole supporre che la situazione non sia affatto migliorata, salvo auspicabile smentita documentata.
Si osserva che sull’inquinamento e sulle aziende alle quali addebitarne i costi e gli oneri continua ad esserci un rimpallo delle responsabilità, ovvero chi ha inquinato, da quando e fin dove: lo Stato prima, Alcoa, Eurallumina e le altre aziende dopo, per cui chi deve pagare? Anche per tali motivi il piano di disinquinamento dopo oltre vent’anni dalla sua prima stesura è ancora fermo al palo: si fa il monitoraggio, ma nessun reale passo avanti concreto verso la messa in sicurezza permanente, la bonifica, il ripristino e il riuso.
Parlare di bonifiche, con i valori su indicati, è pressoché impossibile: se si applicassero rigorosamente le norme bisognerebbe far cessare anche le poche produzioni rimaste in funzione nell’area industriale. Infatti, i valori di inquinamento sono così alti che solo con un periodo di qualche decennio di bonifiche profonde dei suoli è ipotizzabile un’azione di riconversione, riqualificazione, recupero e ripristino dell’area in esame.
E questo, purtroppo, vale anche per numerosi altri siti industriali presenti nell’isola.
E’ appunto il coraggio delle scelte che sembra mancare.
E per tornare al linguaggio manzoniano, quando si è vasi di coccio tra vasi di ferro lo si può anche capire, ma in questo caso c’è solo un vaso di ferro, Rusal, e tanti, troppi vasi di coccio che corresponsabilmente, con le loro decisioni e le loro azioni, alimentano i già gravi danni ambientali, economici e sociali presenti nella nostra regione.
Non vale prendersela con i tecnici che analizzano i progetti e portano avanti le procedure di valutazione ambientale. Spesso fanno il loro lavoro in condizioni di accerchiamento quasi fossero “nemici o avversari”, mentre si tratta di personale competente che, oltre alle pressioni della piazza, si deve adattare a cambiamenti repentini della normativa che cambia in continuazione al punto di non considerare come “rifiuti pericolosi” i fanghi rossi che finiscono nel bacino ancora sotto sequestro della magistratura e le indebite intrusioni della “politica” che, incapace di individuare percorsi alternativi di sviluppo, ha difeso la declassificazione della pericolosità dei fanghi rossi e sposato la possibilità di un’autorizzazione di 25 anni, quando normalmente le autorizzazioni sulle discariche durano 10 anni.
Nello specifico della Conferenza dei Servizi del progetto Eurallumina va dato atto al Mibact, ovvero al soprintendente Martino, di essere stata l’unica voce istituzionale contraria al progetto: tutti gli altri Enti hanno contribuito alla “sciagurata risposta” di Gertrude/Regione.
I lavoratori sotto il ricatto della disoccupazione e della disperazione e privati di qualunque altra prospettiva appaiono non preoccuparsi né dell’ambiente in cui vivono né della salute di se stessi e della popolazione. L’unica preoccupazione sembra essere la difesa con le unghie e con i denti delle poche attività lavorative rimaste, anche con i dati drammatici dell’inquinamento che sono stati evidenziati e quando il lavoro proposto confligge amaramente con la salute.
La politica, infine, è sotto ricatto dal basso (i lavoratori e i sindacati) e dall’alto, la multinazionale di turno e lo Stato, per cui è la rappresentazione plastica del nostro Don Abbondio manzoniano.
Ma ci si può accontentare del fatto che o il coraggio uno ce l’ha o non c’è niente da fare?
Insomma, comunque la si guardi questa vicenda vede solo perdenti ad esclusione della multinazionale Rusal.
In definitiva una brutta pagina per tutti, talmente brutta che si sono registrati anche casi di intimidazioni e gravi minacce ad alcuni esponenti di associazioni e gruppi contrari al progetto.
Per voltare definitivamente pagina è necessario ripensare collettivamente al nostro futuro.
Va individuato un nuovo modello di sviluppo sostenibile a partire dalla considerazione che il lavoro è cambiato e niente più sarà come prima.
Per quanto ci riguarda, anche la grave situazione di compromissione dei suoli inquinati della Sardegna che, con la nuova perimetrazione partita nel 2011 e finalmente conclusa e ratificata dal Ministero dell’Ambiente, ammonta a circa 22 mila ettari, da quel grave problema che è va trasformato in opportunità.
Nella nostra isola abbiamo tutti i tipi di inquinamento ambientale di origine industriale, minerario e militare. Anche a partire da qui abbiamo il dovere di delineare idee e progetti sostenibili finalizzati alla proposta di un piano straordinario per il lavoro che dia prospettive di sviluppo e benessere soprattutto ai nostri giovani, senza costringerli ad emigrare per l’inadeguatezza generalizzata delle classi dirigenti, perché senza i giovani la Sardegna sarà definitivamente senza futuro.
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1 μg = un microgrammo = un milionesimo di grammo

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democraziaoggiAnche su Democraziaoggi.
Poli industriali, Eurallumina e dintorni
Un piano straordinario per lavoro, a partire dalle bonifiche e dalla messa in sicurezza del territorio sardo, dedicato soprattutto alle giovani generazioni
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Domani lunedì 13 febbraio 2017

Libro SP 13 feb 2017

Sardegna

pablo-e-amiche SardegnaPer una legge elettorale di tipo proporzionale
di Fernando Codonesu

Cinquanta anni di proporzionale puro in Italia hanno prodotto un’instabilità politica permanente, al punto che a partire dal primo governo repubblicano del 1946 guidato da De Gasperi fino al 1992 si sono alternati ben 49 governi, con una durata media inferiore ad un anno.
Nel 1992 nasce l’XI Legislatura che dura appena due anni. E’ presieduta da Amato a cui succede dopo appena 10 mesi Ciampi.
In Italia nello stesso anno scoppia il caso Tangentopoli ed ha inizio la stagione di Mani Pulite che evidenziò con forza una corruzione così diffusa da essere diventata sistemica, con tangenti in ogni ganglio decisionale dell’apparato pubblico, e con una capillare occupazione dello Stato da parte dei partiti politici, già denunciata fin dal 1976 da Berlinguer in una ben nota intervista a La Repubblica, ancorché riferita principalmente al partito di governo e ai sui alleati nel corso del tempo.
A partire dal 1992 viviamo in Italia un periodo di riforme e cambiamenti dal punto di vista istituzionale e della scelta dei propri rappresentanti negli organi elettivi, un periodo di lunga transizione che ha come traguardo un sistema elettorale di tipo maggioritario scopiazzato maldestramente da paesi come gli USA e la Gran Bretagna caratterizzati da un sistema bipartitico per cui tale metodo elettivo andava bene e non declinati, se non opportunisticamente, sulla struttura e sul sistema di rappresentanza italiano.
E’ in quel periodo, caratterizzato da una forte richiesta popolare di cambiamento del sistema paese e dei suoi meccanismi di selezione della classe dirigente, a partire dall’espressione della sovranità elettorale mediante il voto, che ha inizio il percorso del maggioritario in Italia, prima su base nazionale e poi su base regionale.
Nascono la legge per l’elezione diretta del Sindaco , il Mattarellum per l’elezione di deputati e senatori e il Tatarellum , per l’elezione diretta del presidente della regione e del consiglio regionale.
Le due ultime leggi, essendo lo specchio del tempo contengono una componente maggioritaria e una proporzionale; la prima prevede un 75% di eletti con il sistema maggioritario e un 25% di proporzionale; la seconda contiene un 80% di maggioritario e un 20% di proporzionale.
Con il referendum del 1999 il popolo italiano cancella il residuo 25% di proporzionale dalla legge Mattarella e si ha il completamento del sistema maggioritario in Italia, mentre per l’elezione del Consiglio e del Presidente delle regioni tale processo ha temine nel 2001 con la modifica del titolo V della Costituzione.
Che succede intanto ai governi nazionali, si ha veramente stabilità e governabilità come da richiesta popolare e intenzioni delle leggi elettorali?
Nel mese di maggio del 1994 ha inizio la XII legislatura con il primo governo Berlusconi e si chiude nel 1996 con il governo Dini. Anche in questo caso si registra il copione della legislatura precedente con una durata di due anni, una crisi e un cambio di governo.
La XIII legislatura ha inizio nel maggio del 1996 con il governo Prodi e ha termine con il secondo governo Amato, dopo due ulteriori governi D’Alema: qui si riscontrano ben tre crisi.
La XIV legislatura ha inizio nel mese di giugno del 2001 con il secondo governo Berlusconi e termina regolarmente nel 2006, ma consuma comunque una crisi di governo nel 2005 con la formazione del terzo governo Berlusconi.
La XV legislatura inizia nel mese di maggio del 2006 con il secondo governo Prodi e dura anche questa volta appena due anni per contrasti in seno alla maggioranza.
Nel mese di maggio 2008 nasce la XVI legislatura con il quarto governo Berlusconi che ha termine anticipatamente nel 2011, con lo spread oltre i 700 punti base, fortissime pressioni dell’Unione europea e della BCE e la nascita del governo Monti incaricato dal Presidente della Repubblica Napolitano. Si osserva che Monti ottiene una fiducia di tipo “plebiscitario” e viene acclamato da tutti i partiti come “il salvatore” della patria. Dopo appena 18 mesi il parlamento nega la fiducia a Monti e si va alle elezioni del 2013 con la nascita della XVII legislatura.
Questa legislatura appare subito problematica perché dalle urne non esce una maggioranza riconosciuta. Il M5S prende più voti del PD, ma il meccanismo elettorale maggioritario è tale che è il PD a prendere la maggioranza dei seggi per cui viene dato un primo incarico a Bersani, leader di tale partito. Dopo il suo tentativo andato a vuoto, nasce il governo Letta che viene sostituito dopo appena 10 mesi, per ragioni esclusivamente interne agli equilibri e giochi di corrente interni al partito di maggioranza relativa, da Renzi, diventato nel frattempo leader e dominus incontrastato del PD, con incarico affidato dal Presidente della Repubblica Napolitano.
In definitiva, se il proporzionale puro della prima Repubblica aveva evidenziato instabilità politica permanente, un debito pubblico fuori controllo e corruzione possiamo dire che il decennio transitorio del sistema misto maggioritario-proporzionale e il successivo decennio del sistema maggioritario abbiano prodotto stabilità e governabilità?
La domanda è sicuramente retorica perché la risposta è decisamente no, per tutto ciò che è stato evidenziato nelle pagine precedenti: tre legislature chiuse anticipatamente, continui cambi di governo che non hanno mai garantito la governabilità pur avendo la maggioranza di seggi attribuiti dal sistema elettorale, cambi di schieramento da parte di parlamentari. Insomma il tratto saliente del maggioritario non si discosta da ciò che ha caratterizzato la prima Repubblica: instabilità politica permanente derivante da crisi interne alle maggioranze di turno, continuo depauperamento degli istituti di democrazia e, dal punto di vista economico, ulteriore dismissione di asset dello Stato e saccheggio dei beni comuni a vantaggio di gruppi privati nazionali e internazionali.
Uno degli aspetti politici più rilevanti è che mentre si pensava che l’avvio del sistema maggioritario avrebbe portato ad una maggiore partecipazione popolare, si è prodotto il risultato contrario arrivando a percentuali di astensione dal voto progressivamente maggiori nel tempo, fino a sfiorare il 50% del corpo elettorale.
Ciò è derivato soprattutto dalla consapevolezza che in quanto cittadini elettori si veniva chiamati alle urne esclusivamente per ratificare le scelte compiute dalle segreteria dei partiti.
L’ultimo governo guidato da Renzi ha portato avanti provvedimenti, leggi e riforme mirate a scardinare i fondamenti della Costituzione, come il Jobs Act, l’eliminazione dell’art. 18, la cosiddetta Buona scuola, facendo un uso spregiudicato dei voti di fiducia che di fatto hanno posto il potere esecutivo al di sopra del potere legislativo. Meccanismi e decisioni di governo che hanno portato a compimento il processo di precarizzazione dell’esistenza dei giovani, con abnorme utilizzazione dei voucher in tutti i settori produttivi e del terziario, compreso lo Stato e anche alcune organizzazioni sindacali.
Il referendum del 4 dicembre
L’esito del referendum del 4 dicembre ha riacceso la speranza. Quando il voto conta l’elettorato torna alle urne. E’ tornato alle urne e con un’ampia maggioranza ha detto No alla riforma voluta da Renzi e dalle forze di governo. In Sardegna, come già osservato autorevolmente in diversi articoli e contesti, si è riscontrato un risultato di voti favorevoli al No più alto del 10% rispetto alla media nazionale, con una altrettanto maggiore partecipazione popolare al voto.
Il No è stato sia per la specifica riforma che, più in generale, per le politiche del Governo nazionale e in Sardegna per quelle portate avanti dalla Giunta regionale guidata da Pigliaru.
Da questo risultato può partire una nuova speranza e prospettiva di partecipazione politica costruendo percorsi e proposte a partire dai diritti, quei diritti sanciti dalla Costituzione e dallo Statuto che non sono stati ancora attuati e troppo spesso sono stati calpestati.

La via maestra, la Costituzione
Da più parti si propone la riscrittura della legge statutaria e alcuni gruppi e movimenti stanno già lavorando in tal senso. In questo contesto pare più condivisibile e unificante concentrare le nostre energie su una proposta di legge elettorale regionale di tipo proporzionale.
Sappiamo che lo Statuto è per certi versi altro, ma è altrettanto vero che nella specialità della Sardegna, la legge elettorale ne è specifica centrale, non a caso viene denominata Legge elettorale statutaria. Non si tratta perciò di un obiettivo minore, ma è un traguardo ambizioso con una doppia valenza. Da un lato costituisce la caratterizzazione più forte dello Statuto e dall’altro va visto come una proposta che può unire a partire dal lavoro sul campo, con assemblee e una raccolta di firme, tutte quelle forze, movimenti, gruppi e associazioni che nelle elezioni del 2014 non hanno avuto rappresentanza.
Una buona legge elettorale deve obbligatoriamente ripartire dalla Costituzione che per noi è via maestra.
Ancora una volta giova ricordare l’articolo 1 della nostra carta che riporta “ L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.
Sulla sovranità ogni cittadino deve poter intervenire e anche quando la si delega a qualcuno, compresi coloro che vengono eletti in parlamento o nei consigli regionali e degli enti locali, va intesa come data “a tempo” e va osservata, controllata e verificata in qualunque momento.
La sovranità va esercitata giorno per giorno e ciò comporta coerenza, fatica e sacrificio. Quando si verifica che alcuni, molti o troppi partiti agiscano contro la sovranità popolare, è il popolo in tutte le sue componenti che può e deve esercitarla in ogni luogo, in ogni ambito di lavoro, in ogni ambiente, mediante iniziative in prima persona.
Ancora si riporta dalla Carta l’articolo 48. che recita “Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età. Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico”.
In questi principi c’è tutto ciò che serve per scrivere una buona legge elettorale, una legge che sia in grado di garantire la “sovranità del popolo”, che è tanto più reale quanto più si ha una larga partecipazione popolare al voto.
Una legge che garantisca “uguaglianza” nel voto, sia che si voti per la maggioranza che per un partito o movimento di opposizione, senza gli stravolgimenti generati dal sistema maggioritario nel corso del tempo perché qualunque premio di maggioranza, che di fatto attribuisce una maggior peso relativo ad un voto dato a chi governa piuttosto che a chi sta all’opposizione, è sempre elemento di “distorsione” del principio di uguaglianza del voto sancita dalla Costituzione.
Una legge che garantisca la “rappresentanza” perché ad una supposta governabilità che non può mai essere garantita da una legge elettorale, si preferisce la rappresentanza, questa sì possibile attraverso una buona legge, anche di partiti e movimenti minori perché la democrazia è fatta di pluralità di opinioni che devono trovare sintesi nel parlamento come nei consigli regionali, ovvero negli organi elettivi di governo.
Una legge che garantisca la parità di rappresentanza di uomini e donne, perché la società è composta di uomini e donne, e non vi può essere discriminazione di genere nell’accesso agli organi elettivi, sarà l’elettorato a scegliere chi eleggere senza discriminazioni in partenza.
Per questi motivi preferiamo un sistema elettorale di tipo proporzionale, non intendendo con questo un semplice ritorno ai meccanismi elettorali della prima Repubblica .
Questi principi sono validi per ogni espressione del voto sia di tipo nazionale che regionale e locale. Ma noi abbiamo anche un’altra bussola che ci indica la via da seguire e questa è il nostro Statuto che con la legge costituzionale n. 2 del 31/01/2001, all’art. 15 riporta “ …In armonia con la Costituzione e i principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica e con l’osservanza di quanto disposto dal presente Titolo, la legge regionale, approvata dal Consiglio regionale con la maggioranza assoluta dei suoi componenti, determina la forma di governo della Regione e, specificatamente, le modalità di elezione, sulla base dei principi di rappresentatività e di stabilità, del Consiglio regionale, del Presidente della Regione e dei componenti della Giunta regionale, i rapporti tra gli organi della Regione, la presentazione e l’approvazione della mozione motivata di sfiducia nei confronti del Presidente della Regione, …, nonché l’esercizio del diritto di iniziativa legislativa del popolo sardo e la disciplina del referendum regionale abrogativo, propositivo e consultivo. Al fine di conseguire l’equilibrio della rappresentanza dei sessi, la medesima legge promuove condizioni di parità per l’accesso alle consultazioni elettorali. Le dimissioni contestuali della maggioranza dei componenti il Consiglio regionale comportano lo scioglimento del Consiglio stesso e l’elezione contestuale del nuovo Consiglio e del Presidente della Regione se eletto a suffragio universale e diretto. Nel caso in cui il Presidente della Regione sia eletto dal Consiglio regionale, il Consiglio è sciolto quando non sia in grado di funzionare per l’impossibilità di formare una maggioranza entro sessanta giorni dalle elezioni o dalle dimissioni del Presidente stesso. …”
Ancora una volta se ci riferiamo alla costituzione del popolo sardo troviamo i principi ispiratori di una buona legge: rappresentatività e stabilità, presentazione e approvazione della mozione di sfiducia nei confronti del Presidente della Regione, esercizio del diritto di iniziativa legislativa del popolo sardo e referendum propositivo, abrogativo e consultivo, condizioni di parità di accesso per uomini e donne.
Per quanto attiene alla rappresentatività è evidente che il sistema proporzionale è l’unico che la può garantire anche per i partiti e movimenti minori, mentre per la stabilità, se è vero che non può essere garantita da nessuna legge, è altrettanto evidente che la mozione di sfiducia può positivamente concorrervi quale elemento di equilibrio sistemico.
La possibilità del referendum propositivo è un altro grande diritto da far valere, specialmente in un periodo caratterizzato da partiti impegnati esclusivamente nella gestione del potere mirata alla propria sopravvivenza e conservazione di privilegi personali.
L’altro principio irrinunciabile è la parità di accesso di uomini e donne agli organi elettivi e vanno trovati gli opportuni strumenti strumenti per garantirla senza far ricorso alle cosiddette “quote rosa” dedicate, perché appaiono, anche al di là delle migliori intenzioni, come concessioni e non come diritti.
E’ ispirandosi a questi principi che può essere scritta una Legge elettorale statutaria per la Regione Sardegna che potrà permettere al popolo sardo di tornare massicciamente alle urne e scegliere i propri rappresentanti.
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1. Legge n. 81 del 1993
2. 1993, dal nome del proponente Sergio Mattarella, attuale presidente della Repubblica
3. 1995, dal nome del proponente Pinuccio Tatarella, esponente di spicco del gruppo di Alleanza Nazionale
4. Al riguardo, per esempio, pur riconoscendo che questo è un aspetto puramente tecnico che per certi versi esula da queste considerazioni, per evitare la polverizzazione del voto è comprensibile una soglia per ottenere seggi che sia valida tutti, senza distinzioni tra partiti e coalizioni, che per la nostra regione potrebbe attestarsi tra il tre e il quattro per cento.

Povera Patria Sarda, così ridotta da sfruttatori e ascari

Chidecideraperlasardegna1
di Vito Biolchini su vitobiolchini.it
“Eurallumina verso il riavvio dopo 8 anni”, “Sì alla rinascita di Eurallumina”: ecco come nasce una fake news.
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EURALLUMINA SU la nuova

Era il 9 febbraio 2017

“Eurallumina verso il riavvio dopo 8 anni” titolava ieri la Nuova Sardegna, “Sì alla rinascita di Eurallumina” gli ha fatto eco l’Unione Sarda. Ma siamo sicuri che le cose stiano veramente così? Siamo sicuri che la versione dei fatti data dai due quotidiani sardi sia rispondente alla realtà e che veramente la riapertura della fabbrica di Portovesme sia imminente?

Ore 18.04 di mercoledì 8 febbraio: l’Ufficio stampa della Regione invia ai giornalisti un comunicato dal titolo “Eurallumina, conclusa la Conferenza dei servizi. Parere Mibact non ostativo”. Leggiamolo assieme:

La Conferenza di servizi sul progetto della Rusal, azienda proprietaria dell’Eurallumina, ha concluso i suoi lavori, con posizioni invariate rispetto a una settimana fa, ma con parere del Ministero dei beni paesaggistici non ostativo. Nel frattempo è stata la stessa Rusal a chiedere tempo per presentare ulteriore documentazione utile per la decisione sull’ampliamento del bacino di stoccaggio. Sono queste le comunicazioni date ai rappresentanti degli operai Eurallumina dall’assessora dell’Ambiente, Donatella Spano e dal collega degli Enti locali, Cristiano Erriu, accompagnati dal capo di Gabinetto della Presidenza, Filippo Spanu, e dal direttore generale Alessandro De Martini.

Fermiamoci un attimo: cosa significa che “è stata la stessa Rusal a chiedere tempo per presentare ulteriore documentazione utile per la decisione sull’ampliamento del bacino di stoccaggio”? La Conferenza dei servizi è stata convocata proprio per questo, per autorizzare l’ampliamento del bacino dei fanghi rossi: ma se “è stata la stessa Rusal a chiedere tempo per presentare ulteriore documentazione utile per la decisione sull’ampliamento del bacino di stoccaggio” è evidente che manca la documentazione necessaria per il via libera e che nessuna decisione dunque è stata ancora presa. Sulla base dunque di quale elemento la Regione ha diffuso il suo trionfalistico comunicato? Ma andiamo avanti.

La Conferenza dei servizi si è conclusa – ha spiegato Donatella Spano – con pareri differenti tra Ministero dei Beni paesaggistici e la Regione. Il parere ministeriale non è, però, vincolante e ostativo.

Anche qui è necessario uno stop. “La Conferenza dei servizi si è conclusa” afferma innanzitutto l’assessore regionale all’Ambiente Donatella Spano. Quindi ci sarà un verbale o un atto nel quale la Conferenza ha messo nero su bianco le sue decisioni. Esiste questo documento? No, non esiste. Per un motivo semplice: che contrariamente a quanto afferma l’assessore Spano, la Conferenza dei servizi non si è affatto conclusa e non ha assunto alcuna decisione. E a confermarlo è paradossalmente lo stesso comunicato della Regione, che prosegue riportando la dichiarazione dell’assessora Spano:

Per quanto riguarda l’iter, la Rusal ha chiesto almeno un mese per presentare altri documenti. Non appena si concluderà l’istruttoria, predisporremo la delibera sul progetto, che sarà portata in tempi serrati in Giunta.

L’”istruttoria” di cui si parla la Spano è in realtà proprio quella Conferenza dei servizi che qualche riga prima era data per “conclusa” dalla stessa assessora! Perché la Regione sta mistificando la realtà in questo modo? Ma non era stato lo stesso Presidente Pigliaru ad invitare i suoi assessori qualche giorno fa a smettere di fare ”propaganda”?

Detto questo, è chiaro che perché la Conferenza dei servizi dia il suo parere servirà come minimo un mese; ma in realtà bisognerà aspettare molto di più: intanto perché la documentazione che la Rusal si è impegnata a fornire dovrà essere esaminata (e ci vorranno settimane), sia perché nel corso della Conferenza dei Servizi è emerso che tra la documentazione mancante vi è anche quella relativa alla valutazione di incidenza ambientale riguardante l’impatto del bacino nei confronto di un’area di pregio naturalistico che lambisce la zona di stoccaggio!

Senza questa valutazione (ovviamente positiva), non si può immaginare nessun riavvio della fabbrica; e quindi non è vero che, come afferma la Regione, “il parere del Mibact non è ostativo”: ma proprio per niente! Perché sono diversi ancora i pareri (vincolanti) che il Mibact deve dare una volta arrivata in Conferenza la documentazione ancora mancante.

Quindi i tempi sono dunque lunghi, ragionevolmente lunghi: e al termine della Conferenza dei servizi non è detto che il parere sia favorevole all’ampliamento del bacino.

Anche perché poi c’è un altro elemento che i nostri giornali stanno incredibilmente “dimenticando”: il processo per disastro ambientale che si è aperto un anno fa presso il tribunale di Cagliari e che vede imputati i vertici di Eurallumina proprio per la gestione del famigerato bacino dei fanghi rossi che ora si vorrebbe ulteriormente ampliare.

Trovate tutti gli elementi della notizia in questo articolo di Sardinia Post del 23 marzo dello scorso anno (“Eurallumina, al via il processo per disastro ambientale”), con diversi aggiornamenti poi dati dalla Nuova Sardegna qualche mese dopo. Da questi articoli si desume peraltro che una parte del bacino dei fanghi rossi, quello che (ripeto) l’Eurallumina deve ampliare per ritornare a produrre, è ancora sotto sequestro giudiziario!

Quindi di quale “riavvio” e “rinascita” di Eurallumina stanno parlando la Spano, tutta la giunta Pigliaru, insieme all’Unione e la Nuova, quando è in corso un processo per disastro ambientale (prossima udienza, a quanto mi consta, ad aprile) e una parte del bacino che si pretende di ampliare è ancora sotto sequestro?

Ma vi rendete conto?

E come se non bastasse, la politica, non paga di mistificare la realtà, poi si fa pure i complimenti da sola! “È un grande passo avanti verso il riavvio dello stabilimento, un risultato che è stato possibile raggiungere grazie alla collaborazione di tutti e alla determinazione degli operai” ha dichiarato ieri all’Unione Sarda il capogruppo del Pd in Consiglio regionale Pietro Cocco. Ma di che risultato sta parlando? Incredibile.

E insieme a lui hanno giocato a prendere in giro l’opinione pubblica (e tema anche gli operai) il deputato del Pd Emanuele Cani (“È un fatto importante per i lavoratori e per tutto il territorio”), il senatore ex Sel Luciano Uras (che parla senza vergogna dell’Eurallumina come di una “prospettiva di sviluppo sostenibile e armonico”) e del segretario del Pd del Sulcis Daniele Reginali.

Ecco come nascono la fake news: la politica dichiara quello che gli fa più comodo e i giornali non fanno nessuna verifica.

E se questo avviene per sciatteria o complicità, non sta a me dirlo.

Post scriptum
Il comunicato della Regione comunque si concludeva così:
“Ringraziamo gli uffici degli assessorati coinvolti che hanno lavorato strenuamente in questi mesi”, ha concluso l’esponente dell’esecutivo, che ha poi raggiunto gli operai che da questa mattina manifestavano davanti al palazzo di viale Trento e ha loro confermato, insieme all’assessore Erriu, quanto emerso in Conferenza di servizi. Gli operai hanno dunque deciso di sciogliere il presidio”.
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lampadadialadmicromicro13Correlazione
https://www.aladinpensiero.it/?p=64880
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Per il Sovrintendente non è solo questione di paesaggio.
Su SardiniaPost.

Povera Patria Sarda, così ridotta da sfruttatori e ascari

Chidecideraperlasardegna1L’eterno ritorno della premiata ditta Chimica & affini
di Nicolò Migheli
By sardegnasoprattutto 9 febbraio 2017/Società & Politica/

Alla fine forse non se ne farà niente. La soluzione della vertenza Eurallumina ha tutto il sapore di una promessa elettorale. La Rusal ha chiesto un mese per integrare la documentazione. Si vedrà. Certo che la vicenda Eurallumina, dopo una chiusura di otto anni diventa l’epifenomeno di che cosa è diventata oggi la Sardegna. Da una parte le giuste rivendicazioni dei dipendenti che lottano per difendere il posto di lavoro, dall’altra una politica incapace di strategie di sviluppo che non siano la conferma dell’esistente.

Le dichiarazioni del senatore. Luciano Uras riportate dall’Unione Sarda: “Siamo vicini ai lavoratori Eurallumina, che hanno il diritto al lavoro in sicurezza ed a una prospettiva di sviluppo sostenibile ed armonico”, sono un compendio di arrampicamento sugli specchi. Il sofista e profeta del I secolo d.c. Apollonio di Tiana, ci suggerisce la chiave interpretativa: “Non vi stupite di questo, che io comprenda quello che dicono gli uomini, imperciocché io so perfino quello che essi non dicono” Ed è in quella prospettiva di sviluppo sostenibile ed armonico la contradictio che nol consente, quello che gli uomini non dicono ma nascondono con artifizi verbali.

Come una fabbrica di alluminio, responsabile di inquinamento vasto, di produzione di fanghi rossi sia sostenibile ed armonica ce lo dovrebbe dimostrare il senatore Uras. Secondo i piani industriali tale discarica dovrebbe essere allargata, dovrebbe esserci la costruzione di una nuova centrale a carbone e lo smaltimento delle ceneri in quei siti. Nelle scienze economiche e sociali la sostenibilità si ha quando la soddisfazione della generazione presente non compromette i diritti di quella futura.

A Portoscuso e in tutto il Sulcis siamo già ben oltre la soddisfazione della generazione presente, almeno che per questa non si intendano solo il lavoro e gli stipendi. Cosa importante per carità, ma i costi sono commisurati? Tempo addietro il sindaco di quella località a seguito di un rapporto circostanziato della ASL ha dovuto emanare una ordinanza per raccomandare alla popolazione il non uso di prodotti agricoli coltivati in quel territorio in quanto pericolosi per la salute umana; i molluschi e pesci sono contaminati da metalli pesanti.

Però l’assessora regionale all’ambiente non ha nulla da dire, anzi esprime soddisfazione per la ripresa di Eurallumina. Altri dati che sarebbe utile conoscere: quanti abitanti di quell’area sono stati colpiti da tumore? Quale è l’aspettativa di vita degli operai e dei pensionati di quegli stabilimenti? Quale quella dei loro familiari? Tutte informazioni che potrebbero confermare o smentire drammaticamente la sostenibilità di imprese simili. Un posto di lavoro val bene il cancro? L’avvelenamento dei luoghi, i probabili effetti sul Dna dei bambini sono compatibili con i diritti delle future generazioni?

Le osservazioni del Mibact, che per alcuni politici sarebbero solo consultive (sic!), sottolineano la contrarietà alla ripartenza della fabbrica perché in contrasto con il PPR Sardegna, con lo strumento principe che la Regione si è data per il governo del territorio e per il suo futuro che doveva essere appunto sostenibile. Preventivamente i senatori sardi del PD però si erano premuniti chiedendo al ministro Franceschini che i suoi uffici non ostacolassero con deliberazioni critiche la ripresa produttiva della fabbrica.

Tutti atti che denotano una totale mancanza di idee e di una strategia per la Sardegna. L’eterno ritorno della chimica e delle fabbriche inquinanti come paradigma dell’azione politica. Una classe dirigente che si nega nel suo essere politica, ridotta a gestire i cascami di iniziative industriali sbagliate che hanno avvelenato l’isola oggi e chissà per quanti decenni. Non bastano più le narrazioni su di un nuovo modello di sviluppo, su agricoltura, artigianato, turismo, conoscenza, tecnologia.

No, è questo presente che incatena tutta la Sardegna alla ripetizione coatta di scelte che si rivelano essere, ancora una volta il tubo di scappamento dell’Italia e delle multinazionali che intascano i profitti, e qui lasciano quattro stipendi e veleni in abbondanza. Dispiace dirlo ma è così. Un rapporto perverso tra interessi locali e quelli globali, dove la politica con le propaggini sindacali altro non sono che la riedizione dei rapporti ineguali che caratterizzano la Sardegna dal Settecento in poi.

Si preferisce l’accordo con lo sfruttatore di turno, oggi Rusal, che sviluppare una idea di sé e della propria modernità. Borghesia compradora, ieri ed oggi, classi dirigenti e politiche che lucrano sul disagio, che su quello costruiscono carriere personali, insensibili ad ogni avvertimento, prone sull’interesse immediato, incapaci di un futuro che non sia per i propri circoli familistici e clientelari. Questo è, piaccia o no.
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Quando i tiranni sabaudi rasero al suolo la Sardegna
Sardegna ai tempi di Carloalbertodi Francesco Casula
L’Isola del «grande verde», che fra il XIV e XII secolo avanti Cristo fonti egizie, accadiche e ittite dipingevano come patria dei Sardi shardana è sempre più solo un ricordo. La storia documenta che l’Isola verde, densa di vegetazione, foreste e boschi, nel giro di un paio di secoli fu drasticamente rasata, per fornire carbone alla industrie e traversine alle strade ferrate, specie del Nord d’Italia. Certo, il dissipamento era iniziato già con Fenici Cartaginesi e Romani, che abbatterono le foreste nelle pianure per rubare il legname e per dedicare il terreno alle piantagioni di grano e nei monti le bruciarono per stanare ribelli e fuggitivi, ma è con i Piemontesi che il ritmo distruttivo viene accelerato.
Iniziarono presto: 20 anni dopo avere preso possesso dell’Isola, nel 1740 il re Carlo Emanuele III di Savoia aveva concesso al nobile svedese Carlo Gustavo Mandell il diritto di sfruttare tutte le miniere di Parte d’Ispi (Villacidro) in cambio di un’esigua percentuale sul minerale raffinato; e gli aveva permesso di prelevare nelle circostanti foreste il carbone e la legna per le fonderie, costringendo i comuni a vere e proprie corvè e distruggendo così il patrimonio forestale della regione.
Lo scempio era continuato anche quando miniere e fonderie, scaduto il contratto trentennale di Mandell, furono gestite direttamente dal regio governo. Anzi da allora la situazione si era aggravata, perché le richieste di combustibile si erano fatte più pressanti e perentorie.
Furono bruciati persino i boschi della piana di Oristano per incenerire i covi dei banditi mentre i toscani li bruciarono per fare carbone e amici e parenti di Cavour, come quel tal conte Beltrami devastatore di boschi quale mai ebbe la Sardegna, mandò in fumo il patrimonio silvano di Fluminimaggiore e dell’Iglesiente.
Con l’Unità d’Italia infine si chiude la partita con una mostruosa accelerazione del ritmo delle distruzioni, specie con il regno di Umberto I a fine Ottocento.
Scriverà Eliseo Spiga: ”lo stato italiano promosse e autorizzò nel cinquantennio tra il 1863 e il 1910 la distruzione di splendide e primordiali foreste per l’estensione incredibile di ben 586.000 ettari, circa un quarto dell’intera superficie della Sardegna, città comprese”.
Mentre il poeta Peppino Mereu, a fine Ottocento, mette a nudo la “colonizzazione” operata dal regno piemontese e dai continentali, cui è sottoposta la Sardegna, proprio in merito alla deforestazione: Sos vandalos chi cun briga e cuntierra/benint dae lontanu a si partire/sos fruttos da chi si brujant sa terra (I vandali con liti e contese/ vengono da lontano/a spartirsi i frutti/dopo aver bruciato la terra). E ancora: Vile su chi sas jannas hat apertu/a s’istranzu pro benner cun sa serra/a fagher de custu logu unu desertu (Vile chi ha aperto la porta al forestiero /perché venisse con la sega/e facesse di questo posto un deserto).
E Giuseppe Dessì, nel suo romanzo Paese d’ombre scrive: “La salvaguardia delle foreste sarde non interessava ai governi piemontesi, la Sardegna continuava ad essere tenuta nel conto di una colonia da sfruttare, specialmente dopo l’unificazione del regno”.
Mentre Carlo Corbetta, (scrittore lombardo della seconda metà del secolo XIX), in seguito a un viaggio in Sardegna, (e in Corsica) scrisse un’opera in due volumi Sardegna e Corsica. E a proposito della distruzione dei boschi e della deforestazione, scrive che la si deve in massima parte agli speculatori e trafficanti di scorza che col loro coltello scorticatore ne denudano i tronchi e grossi rami delle elci e quercie marine e delle quercie comuni e la spediscono in continente ad estrarne tannino per la conceria delle pelli e per le tinture.
Si tratta di un’analisi gravemente deficitaria. E’ vero che le sugherete erano preda subito dopo l’Unità d’Italia (a partire soprattutto dal 1865) di gruppi di commercianti che cercavano il tannino e la potassa. Ma i veri responsabili che Corbetta non individua, sono ben altri: i re sabaudi e i loro governi. Probabilmente Corbetta non voleva nè poteva individuarli, essendo essi amici e contigui ai suoi sostenitori, Quintino Sella in primis. Il suo viaggio in Sardegna era stato possibile proprio grazie all’appoggio proprio di Quintino Sella. Questi, più volte Ministro delle Finanze nel 1869 soggiornerà due volte in Sardegna in qualità di componente della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sulle condizioni dell’isola.
Ma è soprattutto Gramsci, in un articolo sull’Avanti (Edizione piemontese) del 23 ottobre 1918, censurato e riscoperto 60 anni dopo, a denunciare la devastazione ambientale e climatica, frutto della spoliazione e distruzione dei boschi. Nell’articolo – intitolato significativamente “Gli spogliatoi di cadaveri”, individua fra questi gli industriali del carbone. Essi scendono dalla Toscana e stavolta, il lascito perla Sardegna è la degradazione catastrofica del suo territorio. L’Isola è ancora tutta boschi. Gli industriali toscani ne ottengono lo sfruttamento per pochi soldi: a un popolo in ginocchio anche questi pochi soldi paiono la salvezza, scrive ancora Gramsci.
Così – continua l’intellettuale di Ales – L’Isola di Sardegna fu letteralmente rasa suolo come per un’invasione barbarica. Caddero le foreste. Che ne regolavano il clima e la media delle precipitazioni atmosferiche. La Sardegna d’oggi alternanza di lunghe stagioni aride e di rovesci alluvionanti, l’abbiamo ereditata allora, concluderà.
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Quando i tiranni sabaudi rasero al suolo la Sardegna

Sardegna ai tempi di Carloalbertodi Francesco Casula
L’Isola del «grande verde», che fra il XIV e XII secolo avanti Cristo fonti egizie, accadiche e ittite dipingevano come patria dei Sardi shardana è sempre più solo un ricordo. La storia documenta che l’Isola verde, densa di vegetazione, foreste e boschi, nel giro di un paio di secoli fu drasticamente rasata, per fornire carbone alla industrie e traversine alle strade ferrate, specie del Nord d’Italia. Certo, il dissipamento era iniziato già con Fenici Cartaginesi e Romani, che abbatterono le foreste nelle pianure per rubare il legname e per dedicare il terreno alle piantagioni di grano e nei monti le bruciarono per stanare ribelli e fuggitivi, ma è con i Piemontesi che il ritmo distruttivo viene accelerato.
Iniziarono presto: 20 anni dopo avere preso possesso dell’Isola, nel 1740 il re Carlo Emanuele III di Savoia aveva concesso al nobile svedese Carlo Gustavo Mandell il diritto di sfruttare tutte le miniere di Parte d’Ispi (Villacidro) in cambio di un’esigua percentuale sul minerale raffinato; e gli aveva permesso di prelevare nelle circostanti foreste il carbone e la legna per le fonderie, costringendo i comuni a vere e proprie corvè e distruggendo così il patrimonio forestale della regione.
Lo scempio era continuato anche quando miniere e fonderie, scaduto il contratto trentennale di Mandell, furono gestite direttamente dal regio governo. Anzi da allora la situazione si era aggravata, perché le richieste di combustibile si erano fatte più pressanti e perentorie.
Furono bruciati persino i boschi della piana di Oristano per incenerire i covi dei banditi mentre i toscani li bruciarono per fare carbone e amici e parenti di Cavour, come quel tal conte Beltrami devastatore di boschi quale mai ebbe la Sardegna, mandò in fumo il patrimonio silvano di Fluminimaggiore e dell’Iglesiente.
Con l’Unità d’Italia infine si chiude la partita con una mostruosa accelerazione del ritmo delle distruzioni, specie con il regno di Umberto I a fine Ottocento.
Scriverà Eliseo Spiga: ”lo stato italiano promosse e autorizzò nel cinquantennio tra il 1863 e il 1910 la distruzione di splendide e primordiali foreste per l’estensione incredibile di ben 586.000 ettari, circa un quarto dell’intera superficie della Sardegna, città comprese”.
Mentre il poeta Peppino Mereu, a fine Ottocento, mette a nudo la “colonizzazione” operata dal regno piemontese e dai continentali, cui è sottoposta la Sardegna, proprio in merito alla deforestazione: Sos vandalos chi cun briga e cuntierra/benint dae lontanu a si partire/sos fruttos da chi si brujant sa terra (I vandali con liti e contese/ vengono da lontano/a spartirsi i frutti/dopo aver bruciato la terra). E ancora: Vile su chi sas jannas hat apertu/a s’istranzu pro benner cun sa serra/a fagher de custu logu unu desertu (Vile chi ha aperto la porta al forestiero /perché venisse con la sega/e facesse di questo posto un deserto).
E Giuseppe Dessì, nel suo romanzo Paese d’ombre scrive: “La salvaguardia delle foreste sarde non interessava ai governi piemontesi, la Sardegna continuava ad essere tenuta nel conto di una colonia da sfruttare, specialmente dopo l’unificazione del regno”.
Mentre Carlo Corbetta, (scrittore lombardo della seconda metà del secolo XIX), in seguito a un viaggio in Sardegna, (e in Corsica) scrisse un’opera in due volumi Sardegna e Corsica. E a proposito della distruzione dei boschi e della deforestazione, scrive che la si deve in massima parte agli speculatori e trafficanti di scorza che col loro coltello scorticatore ne denudano i tronchi e grossi rami delle elci e quercie marine e delle quercie comuni e la spediscono in continente ad estrarne tannino per la conceria delle pelli e per le tinture.
Si tratta di un’analisi gravemente deficitaria. E’ vero che le sugherete erano preda subito dopo l’Unità d’Italia (a partire soprattutto dal 1865) di gruppi di commercianti che cercavano il tannino e la potassa. Ma i veri responsabili che Corbetta non individua, sono ben altri: i re sabaudi e i loro governi. Probabilmente Corbetta non voleva nè poteva individuarli, essendo essi amici e contigui ai suoi sostenitori, Quintino Sella in primis. Il suo viaggio in Sardegna era stato possibile proprio grazie all’appoggio proprio di Quintino Sella. Questi, più volte Ministro delle Finanze nel 1869 soggiornerà due volte in Sardegna in qualità di componente della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sulle condizioni dell’isola.
Ma è soprattutto Gramsci, in un articolo sull’Avanti (Edizione piemontese) del 23 ottobre 1918, censurato e riscoperto 60 anni dopo, a denunciare la devastazione ambientale e climatica, frutto della spoliazione e distruzione dei boschi. Nell’articolo – intitolato significativamente “Gli spogliatoi di cadaveri”, individua fra questi gli industriali del carbone. Essi scendono dalla Toscana e stavolta, il lascito perla Sardegna è la degradazione catastrofica del suo territorio. L’Isola è ancora tutta boschi. Gli industriali toscani ne ottengono lo sfruttamento per pochi soldi: a un popolo in ginocchio anche questi pochi soldi paiono la salvezza, scrive ancora Gramsci.
Così – continua l’intellettuale di Ales – L’Isola di Sardegna fu letteralmente rasa suolo come per un’invasione barbarica. Caddero le foreste. Che ne regolavano il clima e la media delle precipitazioni atmosferiche. La Sardegna d’oggi alternanza di lunghe stagioni aride e di rovesci alluvionanti, l’abbiamo ereditata allora, concluderà.

Bologna, per esempio

scuola popolare is mirrionisregolamento-amministrazionecondivisa-comune-di-bologna-1-638
REGOLAMENTO SULLA COLLABORAZIONE TRA CITTADINI E AMMINISTRAZIONE PER LA CURA
E LA RIGENERAZIONE DEI BENI COMUNI URBANI

CAPO I – Disposizioni generali
Art. 1 – (Finalità, oggetto ed ambito di applicazione)
Art. 2 – (Definizioni)
Art. 3 – (Principi generali)
Art. 4 – (I cittadini attivi)
Art. 5 – (Patto di collaborazione)
Art. 6 – (Interventi sugli spazi pubblici e sugli edifici)
Art. 7 – (Promozione dell’innovazione sociale e dei servizi collaborativi)
Art. 8 – (Promozione della creatività urbana)
Art. 9 – (Innovazione digitale)
CAPO II – Disposizioni di carattere procedurale
Art. 10 – (Disposizioni generali)
Art. 11 – (Proposte di collaborazione)
CAPO III – Interventi di cura e rigenerazione di spazi pubblici
Art. 12 – (Interventi di cura occasionale)
Art. 13 – (Gestione condivisa di spazi pubblici)
Art. 14 – (Gestione condivisa di spazi privati ad uso pubblico) Art. 15 – (Interventi di rigenerazione di spazi pubblici)
CAPO IV – Interventi di cura e rigenerazione di edifici
Art. 16 – (Individuazione degli edifici)
Art. 17 – (Gestione condivisa di edifici)
CAPO V – Formazione
Art. 18 – (Finalità della formazione)
Art. 19 – (Il ruolo delle scuole)
CAPO VI – Forme di sostegno
Art. 20 – (Esenzioni ed agevolazioni in materia di canoni e tributi locali)
Art. 21 – (Accesso agli spazi comunali)
Art. 22 – (Materiali di consumo e dispositivi di protezione individuale)
Art. 23 – (Affiancamento nella progettazione)
Art. 24 – (Risorse finanziarie a titolo di rimborso di costi sostenuti)
Art. 25 – (Autofinanziamento)
Art. 26 – (Forme di riconoscimento per le azioni realizzate)
Art. 27 – (Agevolazioni amministrative)
CAPO VII – Comunicazione, trasparenza e valutazione
Art. 28 – (Comunicazione collaborativa)
Art. 29 – (Strumenti per favorire l’accessibilità delle opportunità di collaborazione)
Art. 30 – (Rendicontazione, misurazione e valutazione delle attività di collaborazione)
CAPO VIII – Responsabilità e vigilanza
Art. 31 – (Prevenzione dei rischi)
Art. 32 – (Disposizioni in materia di riparto delle responsabilità)
Art. 33 – (Tentativo di conciliazione)
CAPO IX – Disposizioni finali e transitorie
Art. 34 – (Clausole interpretative)
Art. 35 – (Entrata in vigore e Sperimentazione)
Art. 36 – (Disposizioni transitorie)

CAPO I – Disposizioni generali
Art. 1 (Finalità, oggetto ed ambito di applicazione)
1. Il presente regolamento, in armonia con le previsioni della Costituzione e dello Statuto comunale, disciplina le forme di collaborazione dei cittadini con l’ammini- strazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani, dando in particolare attuazione agli art. 118, 114 comma 2 e 117 comma 6 Costituzione.
2. Le disposizioni si applicano nei casi in cui l’intervento dei cittadini per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani richieda la collaborazione o risponda alla solleci- tazione dell’amministrazione comunale.
3. La collaborazione tra cittadini e amministrazione si estrinseca nell’adozione di atti amministrativi di natura non autoritativa.
4. Restano ferme e distinte dalla materia oggetto del presente regolamento le previ- sioni regolamentari del Comune che disciplinano l’erogazione dei benefici economici e strumentali a sostegno delle associazioni, in attuazione dell’art. 12 della legge 7 agosto 1990 n. 241.
Art. 2 (Definizioni)
1. Ai fini delle presenti disposizioni si intendono per:
a) Beni comuni urbani: i beni, materiali, immateriali e digitali, che i cittadini e l’Am- ministrazione, anche attraverso procedure partecipative e deliberative, riconoscono essere funzionali al benessere individuale e collettivo, attivandosi di conseguenza nei loro confronti ai sensi dell’art. 118 ultimo comma Costituzione, per condividere con l’amministrazione la responsabilità della loro cura o rigenerazione al fine di migliorar- ne la fruizione collettiva.
b) Comune o Amministrazione: il Comune di Bologna nelle sue diverse articolazioni istituzionali e organizzative.
c) Cittadini attivi: tutti i soggetti, singoli, associati o comunque riuniti in formazioni sociali, anche di natura imprenditoriale o a vocazione sociale, che si attivano per la cura e rigenerazione dei beni comuni urbani ai sensi del presente regolamento.
d) Proposta di collaborazione: la manifestazione di interesse, formulata dai cittadini attivi, volta a proporre interventi di cura o rigenerazione dei beni comuni urbani. La proposta può essere spontanea oppure formulata in risposta ad una sollecitazione del Comune.
e) Patto di collaborazione: il patto attraverso il quale Comune e cittadini attivi defini- scono l’ambito degli interventi di cura o rigenerazione dei beni comuni urbani.
f) Interventi di cura: interventi volti alla protezione, conservazione ed alla manuten- zione dei beni comuni urbani per garantire e migliorare la loro fruibilità e qualità.
g) Gestione condivisa: interventi di cura dei beni comuni urbani svolta congiuntamen- te dai cittadini e dall’amministrazione con carattere di continuità e di inclusività.
h) Interventi di rigenerazione: interventi di recupero, trasformazione ed innovazione dei beni comuni, partecipi, tramite metodi di coprogettazione, di processi sociali, eco- nomici, tecnologici ed ambientali, ampi e integrati, che complessivamente incidono sul miglioramento della qualità della vita nella città.
i) Spazi pubblici: aree verdi, piazze, strade, marciapiedi e altri spazi pubblici o aperti al pubblico, di proprietà pubblica o assoggettati ad uso pubblico.
l) Rete civica: lo spazio di cittadinanza su internet per la pubblicazione di informazioni e notizie istituzionali, la fruizione di servizi on line e la partecipazione a percorsi inte- rattivi di condivisione.
m) Medium civico: il canale di comunicazione – collegato alla rete civica – per la rac- colta, la valutazione, la votazione e il commento di proposte avanzate dall’Ammini- strazione e dai cittadini.
Art. 3 (Principi generali)
1. La collaborazione tra cittadini e amministrazione si ispira ai seguenti valori e prin- cipi generali:
a) Fiducia reciproca: ferme restando le prerogative pubbliche in materia di vigilanza, programmazione e verifica, l’Amministrazione e i cittadini attivi improntano i loro rapporti alla fiducia reciproca e presuppongono che la rispettiva volontà di collabora- zione sia orientata al perseguimento di finalità di interesse generale.
b) Pubblicità e trasparenza: l’amministrazione garantisce la massima conoscibilità del- le opportunità di collaborazione, delle proposte pervenute, delle forme di sostegno assegnate, delle decisioni assunte, dei risultati ottenuti e delle valutazioni effettuate. Riconosce nella trasparenza lo strumento principale per assicurare l’imparzialità nei rapporti con i cittadini attivi e la verificabilità delle azioni svolte e dei risultati otte- nuti.
c) Responsabilità: l’amministrazione valorizza la responsabilità, propria e dei cittadi- ni, quale elemento centrale nella relazione con i cittadini, nonché quale presupposto necessario affinché la collaborazione risulti effettivamente orientata alla produzione di risultati utili e misurabili.
d) Inclusività e apertura: gli interventi di cura e rigenerazione dei beni comuni devono essere organizzati in modo da consentire che in qualsiasi momento altri cittadini inte- ressati possano aggregarsi alle attività.
e) Sostenibilità: l’amministrazione, nell’esercizio della discrezionalità nelle decisioni che assume, verifica che la collaborazione con i cittadini non ingeneri oneri superiori ai benefici e non determini conseguenze negative sugli equilibri ambientali.
f) Proporzionalità: l’amministrazione commisura alle effettive esigenze di tutela degli interessi pubblici coinvolti gli adempimenti amministrativi, le garanzie e gli standard di qualità richiesti per la proposta, l’istruttoria e lo svolgimento degli interventi di collaborazione.
g) Adeguatezza e differenziazione: le forme di collaborazione tra cittadini e ammini- strazione sono adeguate alle esigenze di cura e rigenerazione dei beni comuni urbani e vengono differenziate a seconda del tipo o della natura del bene comune urbano e delle persone al cui benessere esso è funzionale.
h) Informalità: l’amministrazione richiede che la relazione con i cittadini avvenga nel rispetto di specifiche formalità solo quando ciò è previsto dalla legge. Nei restanti casi assicura flessibilità e semplicità nella relazione, purché sia possibile garantire il rispet- to dell’etica pubblica, così come declinata dal codice di comportamento dei dipendenti pubblici e dei principi di imparzialità, buon andamento, trasparenza e certezza.
i) Autonomia civica: l’amministrazione riconosce l’autonoma iniziativa dei cittadini e predispone tutte le misure necessarie a garantirne l’esercizio effettivo da parte di tutti i cittadini attivi.
Art. 4 (I cittadini attivi)
1. L’intervento di cura e di rigenerazione dei beni comuni urbani, inteso quale concreta manifestazione della partecipazione alla vita della comunità e strumento per il pieno sviluppo della persona umana, è aperto a tutti, senza necessità di ulteriore titolo di legittimazione.
2. I cittadini attivi possono svolgere interventi di cura e di rigenerazione dei beni co- muni come singoli o attraverso le formazioni sociali in cui esplicano la propria perso- nalità, stabilmente organizzate o meno.
3. Nel caso in cui i cittadini si attivino attraverso formazioni sociali, le persone che sottoscrivono i patti di collaborazione di cui all’art. 5 del presente regolamento rap- presentano, nei rapporti con il Comune, la formazione sociale che assume l’impegno di svolgere interventi di cura e rigenerazione dei beni comuni.
4. L’efficacia dei patti di collaborazione di cui all’art. 5 del presente regolamento è condizionata alla formazione secondo metodo democratico della volontà della forma- zione sociale che assume l’impegno di svolgere interventi di cura e rigenerazione dei beni comuni.
5. I patti di collaborazione di cui all’art. 5 del presente regolamento riconoscono e valorizzano gli interessi, anche privati, di cui sono portatori i cittadini attivi in quanto contribuiscono al perseguimento dell’interesse generale.
6. Il Comune ammette la partecipazione di singoli cittadini ad interventi di cura o ri- generazione dei beni comuni urbani quale forma di riparazione del danno nei confronti dell’ente ai fini previsti dalla legge penale, ovvero quale misura alternativa alla pena detentiva e alla pena pecuniaria, con le modalità previste dalla normativa in materia di lavoro di pubblica utilità.
7. Gli interventi di cura e rigenerazione dei beni comuni urbani possono costituire progetti di servizio civile in cui il Comune può impiegare i giovani a tal fine selezionati secondo modalità concordate con i cittadini.
Art. 5 (Patto di collaborazione)
1. Il patto di collaborazione è lo strumento con cui Comune e cittadini attivi con- cordano tutto ciò che è necessario ai fini della realizzazione degli interventi di cura e rigenerazione dei beni comuni.
2. Il contenuto del patto varia in relazione al grado di complessità degli interventi concordati e della durata della collaborazione. Il patto, avuto riguardo alle specifiche necessità di regolazione che la collaborazione presenta, definisce in particolare:
a) gli obiettivi che la collaborazione persegue e le azioni di cura condivisa;
b) la durata della collaborazione, le cause di sospensione o di conclusione anticipata della stessa;
c) le modalità di azione, il ruolo ed i reciproci impegni dei soggetti coinvolti, i requisiti ed i limiti di intervento;
d) le modalità di fruizione collettiva dei beni comuni urbani oggetto del patto;
e) le conseguenze di eventuali danni occorsi a persone o cose in occasione o a causa degli interventi di cura e rigenerazione, la necessità e le caratteristiche delle coperture assicurative e l’assunzione di responsabilità secondo quanto previsto dagli artt. 31 e 32 del presente regolamento, nonché le misure utili ad eliminare o ridurre le interferenze con altre attività;
f) le garanzie a copertura di eventuali danni arrecati al Comune in conseguenza della mancata, parziale o difforme realizzazione degli interventi concordati;
g) le forme di sostegno messe a disposizione dal Comune, modulate in relazione al va- lore aggiunto che la collaborazione è potenzialmente in grado di generare;
h) le misure di pubblicità del patto, le modalità di documentazione delle azioni re- alizzate, di monitoraggio periodico dell’andamento, di rendicontazione delle risorse utilizzate e di misurazione dei risultati prodotti dalla collaborazione fra cittadini e amministrazione;
i) l’affiancamento del personale comunale nei confronti dei cittadini, la vigilanza sull’andamento della collaborazione, la gestione delle controversie che possano insor- gere durante la collaborazione stessa e l’irrogazione delle sanzioni per inosservanza del presente regolamento o delle clausole del patto;
l) le cause di esclusione di singoli cittadini per inosservanza del presente regolamento o delle clausole del patto, gli assetti conseguenti alla conclusione della collaborazione, quali la titolarità delle opere realizzate, i diritti riservati agli autori delle opere dell’in- gegno, la riconsegna dei beni, e ogni altro effetto rilevante;
m) le modalità per l’adeguamento e le modifiche degli interventi concordati.
3. Il patto di collaborazione può contemplare atti di mecenatismo, cui dare ampio rilievo comunicativo mediante forme di pubblicità e comunicazione dell’intervento realizzato, l’uso dei diritti di immagine, l’organizzazione di eventi e ogni altra forma di comunicazione o riconoscimento che non costituisca diritti di esclusiva sul bene comune urbano.
Art. 6 (Interventi sugli spazi pubblici e sugli edifici)
1. La collaborazione con i cittadini attivi può prevedere differenti livelli di intensità dell’intervento condiviso sugli spazi pubblici e sugli edifici, ed in particolare: la cura occasionale, la cura costante e continuativa, la gestione condivisa e la rigenerazione.
2. I cittadini attivi possono realizzare interventi, a carattere occasionale o continua- tivo, di cura o di gestione condivisa degli spazi pubblici e degli edifici periodicamente individuati dall’amministrazione o proposti dai cittadini attivi. L’intervento è finaliz- zato a:
- integrare o migliorare gli standard manutentivi garantiti dal Comune o migliorare la vivibilità e la qualità degli spazi;
- assicurare la fruibilità collettiva di spazi pubblici o edifici non inseriti nei programmi comunali di manutenzione.
3. Possono altresì realizzare interventi, tecnici o finanziari, di rigenerazione di spazi pubblici e di edifici.
Art. 7 (Promozione dell’innovazione sociale e dei servizi collaborativi)
1. Il Comune promuove l’innovazione sociale, attivando connessioni tra le diverse ri- sorse presenti nella società, per creare servizi che soddisfino bisogni sociali e che nel contempo attivino legami sociali e forme inedite di collaborazione civica, anche attra- verso piattaforme e ambienti digitali, con particolare riferimento alla rete civica.
2. Il Comune promuove l’innovazione sociale per la produzione di servizi collaborativi. Al fine di ottimizzare o di integrare l’offerta di servizi pubblici o di offrire risposta alla emersione di nuovi bisogni sociali, il Comune favorisce il coinvolgimento diretto dell’u- tente finale di un servizio nel suo processo di progettazione, infrastrutturazione ed erogazione. La produzione di servizi collaborativi viene promossa per attivare processi generativi di beni comuni materiali, immateriali e digitali.
3. Il Comune persegue gli obiettivi di cui al presente articolo incentivando la nascita di cooperative, imprese sociali, start-up a vocazione sociale e lo sviluppo di attività e progetti a carattere economico, culturale e sociale.
4. Gli spazi e gli edifici di cui al presente regolamento rappresentano una risorsa fun- zionale al raggiungimento delle finalità di cui al presente articolo. Il Comune riserva una quota di tali beni alla realizzazione di progetti che favoriscano l’innovazione socia- le o la produzione di servizi collaborativi.
Art. 8 (Promozione della creatività urbana)
1. Il Comune promuove la creatività, le arti, la formazione e la sperimentazione arti- stica come uno degli strumenti fondamentali per la riqualificazione delle aree urbane o dei singoli beni, per la produzione di valore per il territorio, per la coesione sociale e per lo sviluppo delle capacità.
2. Per il perseguimento di tale finalità il Comune riserva una quota degli spazi e degli edifici di cui al presente regolamento allo svolgimento di attività volte alla promozione della creatività urbana e in particolare di quella giovanile.
3. Il Comune promuove la creatività urbana anche attraverso la valorizzazione tem- poranea di spazi e immobili di proprietà comunale in attesa di una destinazione d’uso definitiva. I suddetti beni possono essere destinati a usi temporanei valorizzandone la vocazione artistica, evitando in tal modo la creazione di vuoti urbani e luoghi di conflitto sociale.
Art. 9 (Innovazione digitale)
1. Il Comune favorisce l’innovazione digitale attraverso interventi di partecipazione all’ideazione, al disegno e alla realizzazione di servizi e applicazioni per la rete civica da parte della comunità, con particolare attenzione all’uso di dati e infrastrutture aperti, in un’ottica di beni comuni digitali.
2. Al tal fine il Comune condivide con i soggetti che partecipano alla vita e all’evoluzio- ne della rete civica e che mettono a disposizione dell’ambiente collaborativo e del me- dium civico competenze per la coprogettazione e realizzazione di servizi innovativi, i dati, gli spazi, le infrastrutture e le piattaforme digitali, quali la rete e il medium civici.
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Tutto il regolamento di Bologna.
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Papa Francesco: «Il “no” ad un’economia che uccide diventi un “sì” ad una economia che fa vivere, perché condivide, include i poveri, usa i profitti per creare comunione»

valutazione-dirinnova-pittura-paAi Partecipanti all’Incontro “Economia di Comunione”, promosso dal Movimento dei Focolari
DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Aula Paolo VI – Sabato, 4 febbraio 2017

Cari fratelli e sorelle,

sono lieto di accogliervi come rappresentanti di un progetto al quale sono da tempo sinceramente interessato. A ciascuno di voi rivolgo il mio saluto cordiale, e ringrazio in particolare il coordinatore, Prof. Luigino Bruni, per le sue cortesi parole. E ringrazio anche per le testimonianze.

Economia e comunione. Due parole che la cultura attuale tiene ben separate e spesso considera opposte. Due parole che voi invece avete unito, raccogliendo l’invito che venticinque anni fa vi rivolse Chiara Lubich, in Brasile, quando, di fronte allo scandalo della diseguaglianza nella città di San Paolo, chiese agli imprenditori di diventare agenti di comunione. Invitandovi ad essere creativi, competenti, ma non solo questo. L’imprenditore da voi è visto come agente di comunione. Nell’immettere dentro l’economia il germe buono della comunione, avete iniziato un profondo cambiamento nel modo di vedere e vivere l’impresa. L’impresa non solo può non distruggere la comunione tra le persone, ma può edificarla, può promuoverla. Con la vostra vita mostrate che economia e comunione diventano più belle quando sono una accanto all’altra. Più bella l’economia, certamente, ma più bella anche la comunione, perché la comunione spirituale dei cuori è ancora più piena quando diventa comunione di beni, di talenti, di profitti.

Pensando al vostro impegno, vorrei dirvi oggi tre cose.

La prima riguarda il denaro. È molto importante che al centro dell’economia di comunione ci sia la comunione dei vostri utili. L’economia di comunione è anche comunione dei profitti, espressione della comunione della vita. Molte volte ho parlato del denaro come idolo. La Bibbia ce lo dice in diversi modi. Non a caso la prima azione pubblica di Gesù, nel Vangelo di Giovanni, è la cacciata dei mercanti dal tempio (cfr 2,13-21). Non si può comprendere il nuovo Regno portato da Gesù se non ci si libera dagli idoli, di cui uno dei più potenti è il denaro. Come dunque poter essere dei mercanti che Gesù non scaccia? Il denaro è importante, soprattutto quando non c’è e da esso dipende il cibo, la scuola, il futuro dei figli. Ma diventa idolo quando diventa il fine. L’avarizia, che non a caso è un vizio capitale, è peccato di idolatria perché l’accumulo di denaro per sé diventa il fine del proprio agire. E’ stato Gesù, proprio Lui, a dare categoria di “signore” al denaro: “Nessuno può servire due signori, due padroni”. Sono due: Dio o il denaro, l’anti-Dio, l’idolo. Questo l’ha detto Gesù. Allo stesso livello di opzione. Pensate a questo.

Quando il capitalismo fa della ricerca del profitto l’unico suo scopo, rischia di diventare una struttura idolatrica, una forma di culto. La “dea fortuna” è sempre più la nuova divinità di una certa finanza e di tutto quel sistema dell’azzardo che sta distruggendo milioni di famiglie del mondo, e che voi giustamente contrastate. Questo culto idolatrico è un surrogato della vita eterna. I singoli prodotti (le auto, i telefoni…) invecchiano e si consumano, ma se ho il denaro o il credito posso acquistarne immediatamente altri, illudendomi di vincere la morte.

Si capisce, allora, il valore etico e spirituale della vostra scelta di mettere i profitti in comune. Il modo migliore e più concreto per non fare del denaro un idolo è condividerlo, condividerlo con altri, soprattutto con i poveri, o per far studiare e lavorare i giovani, vincendo la tentazione idolatrica con la comunione. Quando condividete e donate i vostri profitti, state facendo un atto di alta spiritualità, dicendo con i fatti al denaro: tu non sei Dio, tu non sei signore, tu non sei padrone! E non dimenticare anche quell’alta filosofia e quell’alta teologia che faceva dire alle nostre nonne: “Il diavolo entra dalle tasche”. Non dimenticare questo!

La seconda cosa che voglio dirvi riguarda la povertà, un tema centrale nel vostro movimento.

Oggi si attuano molteplici iniziative, pubbliche e private, per combattere la povertà. E tutto ciò, da una parte, è una crescita in umanità. Nella Bibbia i poveri, gli orfani, le vedove, gli “scarti” della società di quei tempi, erano aiutati con la decima e la spigolatura del grano. Ma la gran parte del popolo restava povero, quegli aiuti non erano sufficienti a sfamare e a curare tutti. Gli “scarti” della società restavano molti. Oggi abbiamo inventato altri modi per curare, sfamare, istruire i poveri, e alcuni dei semi della Bibbia sono fioriti in istituzioni più efficaci di quelle antiche. La ragione delle tasse sta anche in questa solidarietà, che viene negata dall’evasione ed elusione fiscale, che, prima di essere atti illegali sono atti che negano la legge basilare della vita: il reciproco soccorso.

Ma – e questo non lo si dirà mai abbastanza – il capitalismo continua a produrre gli scarti che poi vorrebbe curare. Il principale problema etico di questo capitalismo è la creazione di scarti per poi cercare di nasconderli o curarli per non farli più vedere. Una grave forma di povertà di una civiltà è non riuscire a vedere più i suoi poveri, che prima vengono scartati e poi nascosti.

Gli aerei inquinano l’atmosfera, ma con una piccola parte dei soldi del biglietto pianteranno alberi, per compensare parte del danno creato. Le società dell’azzardo finanziano campagne per curare i giocatori patologici che esse creano. E il giorno in cui le imprese di armi finanzieranno ospedali per curare i bambini mutilati dalle loro bombe, il sistema avrà raggiunto il suo culmine. Questa è l’ipocrisia!

L’economia di comunione, se vuole essere fedele al suo carisma, non deve soltanto curare le vittime, ma costruire un sistema dove le vittime siano sempre di meno, dove possibilmente esse non ci siano più. Finché l’economia produrrà ancora una vittima e ci sarà una sola persona scartata, la comunione non è ancora realizzata, la festa della fraternità universale non è piena.

Bisogna allora puntare a cambiare le regole del gioco del sistema economico-sociale. Imitare il buon samaritano del Vangelo non è sufficiente. Certo, quando l’imprenditore o una qualsiasi persona si imbatte in una vittima, è chiamato a prendersene cura, e magari, come il buon samaritano, associare anche il mercato (l’albergatore) alla sua azione di fraternità. So che voi cercate di farlo da 25 anni. Ma occorre agire soprattutto prima che l’uomo si imbatta nei briganti, combattendo le strutture di peccato che producono briganti e vittime. Un imprenditore che è solo buon samaritano fa metà del suo dovere: cura le vittime di oggi, ma non riduce quelle di domani. Per la comunione occorre imitare il Padre misericordioso della parabola del figlio prodigo e attendere a casa i figli, i lavoratori e collaboratori che hanno sbagliato, e lì abbracciarli e fare festa con e per loro – e non farsi bloccare dalla meritocrazia invocata dal figlio maggiore e da tanti, che in nome del merito negano la misericordia. Un imprenditore di comunione è chiamato a fare di tutto perché anche quelli che sbagliano e lasciano la sua casa, possano sperare in un lavoro e in un reddito dignitoso, e non ritrovarsi a mangiare con i porci. Nessun figlio, nessun uomo, neanche il più ribelle, merita le ghiande.

Infine, la terza cosa riguarda il futuro. Questi 25 anni della vostra storia dicono che la comunione e l’impresa possono stare e crescere insieme. Un’esperienza che per ora è limitata ad un piccolo numero di imprese, piccolissimo se confrontato al grande capitale del mondo. Ma i cambiamenti nell’ordine dello spirito e quindi della vita non sono legati ai grandi numeri. Il piccolo gregge, la lampada, una moneta, un agnello, una perla, il sale, il lievito: sono queste le immagini del Regno che incontriamo nei Vangeli. E i profeti ci hanno annunciato la nuova epoca di salvezza indicandoci il segno di un bambino, l’Emmanuele, e parlandoci di un “resto” fedele, un piccolo gruppo.

Non occorre essere in molti per cambiare la nostra vita: basta che il sale e il lievito non si snaturino. Il grande lavoro da svolgere è cercare di non perdere il “principio attivo” che li anima: il sale non fa il suo mestiere crescendo in quantità, anzi, troppo sale rende la pasta salata, ma salvando la sua “anima”, cioè la sua qualità. Tutte le volte che le persone, i popoli e persino la Chiesa hanno pensato di salvare il mondo crescendo nei numeri, hanno prodotto strutture di potere, dimenticando i poveri. Salviamo la nostra economia, restando semplicemente sale e lievito: un lavoro difficile, perché tutto decade con il passare del tempo. Come fare per non perdere il principio attivo, l’ “enzima” della comunione?

Quando non c’erano i frigoriferi, per conservare il lievito madre del pane si donava alla vicina un po’ della propria pasta lievitata, e quando dovevano fare di nuovo il pane ricevevano un pugno di pasta lievitata da quella donna o da un’altra che lo aveva ricevuto a sua volta. È la reciprocità. La comunione non è solo divisione ma anche moltiplicazione dei beni, creazione di nuovo pane, di nuovi beni, di nuovo Bene con la maiuscola. Il principio vivo del Vangelo resta attivo solo se lo doniamo, perché è amore, e l’amore è attivo quando amiamo, non quando scriviamo romanzi o quando guardiamo telenovele. Se invece lo teniamo gelosamente tutto e solo per noi, ammuffisce e muore. E il Vangelo può ammuffirsi. L’economia di comunione avrà futuro se la donerete a tutti e non resterà solo dentro la vostra “casa”. Donatela a tutti, e prima ai poveri e ai giovani, che sono quelli che più ne hanno bisogno e sanno far fruttificare il dono ricevuto! Per avere vita in abbondanza occorre imparare a donare: non solo i profitti delle imprese, ma voi stessi. Il primo dono dell’imprenditore è la propria persona: il vostro denaro, seppure importante, è troppo poco. Il denaro non salva se non è accompagnato dal dono della persona. L’economia di oggi, i poveri, i giovani hanno bisogno prima di tutto della vostra anima, della vostra fraternità rispettosa e umile, della vostra voglia di vivere e solo dopo del vostro denaro.

Il capitalismo conosce la filantropia, non la comunione. È semplice donare una parte dei profitti, senza abbracciare e toccare le persone che ricevono quelle “briciole”. Invece, anche solo cinque pani e due pesci possono sfamare le folle se sono la condivisione di tutta la nostra vita. Nella logica del Vangelo, se non si dona tutto non si dona mai abbastanza.

Queste cose voi le fate già. Ma potete condividere di più i profitti per combattere l’idolatria, cambiare le strutture per prevenire la creazione delle vittime e degli scarti; donare di più il vostro lievito per lievitare il pane di molti. Il “no” ad un’economia che uccide diventi un “sì” ad una economia che fa vivere, perché condivide, include i poveri, usa i profitti per creare comunione.

Vi auguro di continuare sulla vostra strada, con coraggio, umiltà e gioia. «Dio ama chi dona con gioia» (2 Cor 9,7). Dio ama i vostri profitti e talenti donati con gioia. Lo fate già; potete farlo ancora di più.

Vi auguro di continuare ad essere seme, sale e lievito di un’altra economia: l’economia del Regno, dove i ricchi sanno condividere le loro ricchezze, e i poveri sono chiamati beati. Grazie.
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Papa Francesco: «Cambiare sistema», non basta il «buon samaritano»
- Luca Kocci, su IL MANIFESTO, ROMA,05.02.2017

“Il lavoro che vogliamo: dignitoso, libero, creativo, partecipativo e solidale”. Ecco perché diciamo NO all’Eurallumina

GD'INTERV GIURI PORTOSCUSO
Perché diciamo NO all’Eurallumina e SI al Lavoro
di Giacomo Meloni, segretario nazionale CSS
(lettera ad Antonella Delrio Solinas, 1 febbraio 2017).
In Sardegna il lavoro ci può essere se si avesse il coraggio di investire sul comparto agropastorale/agroalimentare, sulle bonifiche cantierabili e sul turismo diffuso nei territori e per tutto l’anno, abbandonando le false industrie inquinanti ed energivore come l’Euroallumina, i cui nuovi proprietari (i russi della RUSAL) per metterla in produzione pretendono di sopraelevare le colline dei fanghi rossi ed il dissequestro della parte del bacino bloccato dal Giudice in quanto vi è un disastro ambientale in atto, oltre alla costruzione di una Centrale a carbone ad appena 400 metri dall’abitato di Portoscuso. Ai lavoratori che oggi [2 febbraio 2017] occupano parte dei locali del Palazzo della Giunta Regionale vorrei dire – se ci ascoltassero – che quella fabbrica è fuori mercato, è energivora ed inquinante. Distrugge altro lavoro come la pesca ed il turismo di Carloforte ed avvelena i prodotti agricoli dei terreni circostanti. Lo sanno che anche questi sono posti di lavoro e che quei lavoratori che perdono il lavoro non hanno neppure la cassa integrazione? Se il finanziamento di soldi pubblici (in parte) per l’Eurallumina si impegnassero per lavoro utile per tutto il territorio non sarebbe una lotta unificante e ben spesa?

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SardiniaPost loghettpLa notizia
Eurallumina, Paci agli operai: “Stiamo facendo il possibile per riavvio impianti”
2 febbraio 2017 su SardiniaPost
Il vicepresidente della Giunta, Raffaele Paci ha portato questa mattina la “solidarietà assoluta e totale“, a nome di tutta la Giunta, agli operai Eurallumina. Da giorni sono in presidio permanente sotto il palazzo di viale Trento a Cagliari e dall’altro ieri hanno occupato la sala riunioni. Aspettano la decisione sul riavvio dell’impianto che è slittata all’8 febbraio, quando è convocata la conferenza di servizi.
Eurallumina-Paci-2-372x221 Per l’Eurallumina sembrava una strada in discesa. Invece a sorpresa è arrivata lo stop da parte del Mibact (ministero per i Beni culturali) alla valutazione paesaggistica sull’impianto di stoccaggio. Ciò che appunto ha fatto rinviare alla prossima settimana la decisione sulla ripartenza della produzione. Tra la Regione e il Governo è nato uno scontro, sollevato dall’assessore all’Urbanistica, Cristiano Erriu. E oggi Paci ha incontrato gli operai per confermare la vicinanza della Regione agli operai. “Il vicepresidente – si legge in una nota – si è prima fermato a parlare con gli operai in presidio, poi ha raggiunto i cinque che stanno occupando la sala riunioni”. Paci ha ribadito che “la Giunta sta facendo tutto il possibile per risolvere rapidamente la situazione”.
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CSS loghettoIl commento della Confederazione Sindacale Sarda (CSS) per voce del Segretario nazionale Giacomo Meloni.
“Dobbiamo prendere atto che la Giunta Regionale per bocca del vice Presidente Paci e dell’Assessore all’Urbanistica Erriu sono d’accordo per accettare le condizioni poste dalla RUSAL (attuale proprietaria dell’ex Eurallumina ):
1. Centrale a carbone a 400 metri all’abitato di Portoscuso
2. Sopraelevazione delle attuali colline di fanghi rossi
3. Dissequestro della parte del bacino di fanghi rossi messa sotto sequestro dal Giudice per disastro ambientale.
Complimenti per aver risolto i problemi degli operai della ex Eurallumina ai danni del territorio,dell’ambiente e della salute della popolazione”.
E, ancora.
MA NESSUNO SI RIBELLA E MOLTI CONTINUANO A PENSARE CHE IL CANCRO SIA CAUSATO DAL DESTINO…
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PENSATE PER ESEMPIO AGLI ABITANTI DI PORTOSCUSO, PORTOVESME E PARINGIANU DOVE IL CANCRO AL PANGREAS E ALLA PROSTATA E’ DIFFUSO IN QUASI OGNI FAMIGLIA… EPPURE I POLITICI, GLI AMMINISTRATORI ED I SINDACATI ITALO/SARDI E GLI STESSI OPERAI/CASSAINTEGRATI VOGLIONO LA CENTRALE A CARBONE ED I FANGHI ROSSI DELL’EURALLUMINA CHE PROVOCANO IL CANCRO.
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PERSINO IL MPS (MOVIMENTO PASTORI SARDI) HA PORTATO SOLIDARIETA’ ALLA LOTTA PER RIAPRIRE L’EURALLUMINA SENZA PENSARE AI DANNI ALL’AMBIENTE CHE PURE INFLUISCE SUL LATTE E SUGLI ALLEVAMENTI.
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PENSATE AGLI ABITANTI DI SARROCH E DEI PAESI VICINI DOVE IL CANCRO AI POLMONI ED ALLE VIE RESPIRATORIE E’ DIFUSISSIMO, MA POCHI PROTESTANO CON LA SARAS CHE SOLO DAL 2007 HA MESSO I FILTRI DI PROTEZIONE NELLE CIMINIERE, MA CONTINUA A LAVARE IN MARE IL PETROLIO CHE FUORIESCE DALLE PETROLIERE PRIMA DI IMMETTERLO NEI PROPRI SERBATOI.
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Portovesmecopia-di-dsc_1464
PENSO CHE NESSUNO POSSA NEGARE IL DISASTRO PROVOCATO DALL’EURALLUMINA A PORTOVESME, A PORTOSCUSO E NEI TERRIRORI CONFINANTI.
Gruppo intervento pol giuri loghettoGUARDATE IL FILMINO DEI DANNI SUL MARE DI FRONTE A CARLOFORTE RISALENTE AL 2010 QUANDO LA FABBRICA ERA IN FUNZIONE.
Sulla pagina fb del Gruppo d’intervento giuridico onlus (16 giugno 2015).
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QUESTO DICEVAMO COME CSS NEL 2015 E QUESTO PENSIAMO E RIAFFERMIAMO OGGI SULL’EURALLUMINA E SULL’ALCOA.
CSS loghettoConfederazione Sindacale Sarda Css
25 gennaio 2016 ·
ECCO PERCHE’ LA CSS CONSIDERA UNA TRAGEDIA LA MOBILITAZIONE DI CGIL/CISL/UIL/CUB DI MARTEDI’ 26 GENNAIO 2016 SU OBIETTIVI SBAGLIATI E SENZA FUTURO.
BASTA INGANNARE GLI OPERAI. IL LAVORO C’E’ SOLO CON UNO SVILUPPO DIVERSO
.
Caro Presidente Pigliaru,
(…)
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Nuova Eurallumina? No, diamo lavoro bonificando il territorio.
L’Associazione Adiquas e i Carlofortini Preoccupati.
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Io sto con i lavoratori ma non con l’Eurallumina: che prima chiude, meglio è.
di Vito Biolchini su vitobiolchini.it
portoscuso

Portoscuso
In basso a destra, i giganteschi bacini dei fanghi rossi in cui vengono stoccati i residui della bauxite, la materia prima per la produzione dell’alluminio.

Se non ci fosse il problema dei posti di lavoro, la notizia che il ministero dei Beni culturali vuole bloccare l’ampliamento del bacino dei fanghi rossi (passaggio indispensabile per provare a rimettere in moto il moribondo polo dell’alluminio a Portovesme) non sarebbe affatto una sciagura ma una decisione benedetta, una delle poche positive arrivate di questi tempi dall’oltremare.

Se non ci fosse il problema dei posti di lavoro, tutta la Sardegna che ad ogni piè sospinto afferma (senza sapere evidentemente ciò che dice) che l’isola “ha bisogno di un nuovo modello di sviluppo” dovrebbe scendere in piazza con cartelli e striscioni per ringraziare e sostenere il Mibact per questo suo veto che, se mantenuto, metterebbe definitivamente fine ad una delle produzioni più devastanti dal punto di vista ambientale che l’isola abbia mai ospitato, in un settore (quello dell’alluminio) entrato in crisi da anni e che si porta dietro una marea di questioni irrisolte (dall’inquinamento al costo dell’energia: quand’era a regime, il polo dell’alluminio “succhiava” il venti per cento di tutta la corrente elettrica erogata in Sardegna!).

Se non ci fosse il problema dei posti di lavoro, non ci sarebbe dunque alcun problema e tutti guarderemmo con fiducia al futuro.

Purtroppo però le cose non stanno così.

Io ho grande rispetto della lotta dei lavoratori dell’Eurallumina ma penso che loro abbiano diritto ad un posto di lavoro, non “a quel” posto di lavoro: e qui sta il nodo di tutta la questione industriale sarda, nella quale il problema occupazionale viene utilizzato strumentalmente da chi vuole rilanciare con forza (oserei dire, con prepotenza) il vecchio modello di sviluppo.

La prova (evidente, clamorosa, plateale) sta nel Piano Sulcis che, lungi dal disegnare per quel territorio una vera nuova prospettiva economica, ha riverniciato di fresco quella vecchia, gettando le basi per la sopravvivenza del polo della metallurgia pesante e condannando Portovesme ad un futuro di inquinamento mortale.

Il problema quindi non riguarda in prima battuta la perdita dei posti di lavoro (uno, cento o mille non fa differenza perché ogni posto di lavoro in meno è un dramma) ma è culturale: perché se solo lo avessero voluto, con tutte le risorse arrivate nel Sulcis in questi anni, le forze politiche che hanno governato l’isola negli ultimi vent’anni avrebbero potuto serenamente progettare una vera riconversione industriale, sostenibile sia dal punto di vista ambientale che economico.

Invece l’industria metallurgica pesante (quella della Glencore, dell’Eurallumina e dell’Alcoa buonanima), le cui ricadute ambientali sul territorio sono (non ci stancheremo mai di dirlo) devastanti, piace tanto sia ai sindacati che ai partiti politici italiani (Pd, Forza Italia e la sinistra ex comunista nelle sue varie sigle in primis), non solo perché ritengono che possa essere il motore di un consenso che stanno perdendo altrove (avete mai notato che nei tre centri ex industriali di Carbonia, Porto Torres e Assemini i comuni sono governati dai grillini?), ma anche perché consente loro di mantenere quelle interlocuzioni ad alto livello delle quali hanno bisogno per garantirsi una carriera politica o sindacale.

La Sardegna dei Tore Cherchi, degli Antonello Cabras, degli Ugo Cappellacci, dei Giorgio Oppi, dei Luciano Uras, della Cgil, della Cisl e della Uil non vuole dunque voltare pagina.

Avrebbe dovuto farlo la giunta presieduta da Francesco Pigliaru, che quando era un “semplice” economista sulle colonne della Nuova Sardegna scriveva cose ben precise sul futuro industriale di Portovesme, salvo poi rimangiarsi tutto una volta assunto un ruolo politico importante (e quegli articoli in rete non si trovano più).

Ed ecco dunque l’assessora regionale Donatella Spano (insieme alla sua collega all’Industria, uno dei più sbiaditi assessori di questa giunta), che per motivi misteriosi ritiene che l’ennesimo ampliamento del bacino dei fanghi rossi non sia dannoso per l’ambiente, ambiente che lei dovrebbe per ruolo istituzionale difendere.

È chiaro che uscire da questo vicolo è molto difficile: ma una politica consapevole del proprio ruolo avrebbe dovuto far iniziare il futuro appena possibile, operando con forza per assicurare ai lavoratori dell’Eurallumina una alternativa più che valida e abbandonando il polo dell’alluminio al suo destino.

Invece non solo così non è stato, ma così continua a non essere.

E tutto nel silenzio quasi assoluto dell’opinione pubblica (intimorita dal dover prendere una posizione controcorrente) e delle forze dell’autodeterminazione, che dovrebbero trattare il caso Portovesme alla stessa stregua delle servitù militari: perché la logica che sottende ai due insediamenti è esattamente la stessa.

Ma fare manifestazioni a Capo Frasca perché è facile, di scendere in piazza a Portovesme per chiedere la chiusura di tutte le fabbriche inquinanti invece non viene in mente a nessuno, neanche agli indipendentisti più esagitati: chissà perché.
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CSS loghettoIl Comunicato della Confederazione Sindacale Sarda sulla Vertenza Eurallumina in atto.
Siamo disponibile ad un confronto. Per la CSS la soluzione delle vertenze nel Sulcis è UN NUOVO MODELLO DI SVILUPPO CHE è IL
CONTRARIO DI CIO’ CHE SI STA PER DECIDERE SUL RIAVVIO DELL’EURALLUMINA PERCHE’ CON ESSO SI PERPETUA IL VECCHIO
MODELLO DI SVILUPPO CHE HA PRODOTTO DISASTRO AMBIENTALE, MALATTIE E MORTI ACCLARATI PER TUMORE AL PANCREAS E
ALLA PROSTATA.
RIAVVIARE L’EURALLUMINA ALLE CONDIZIONI CAPESTRO DELLA RUSAL E’ DELINQUENZIALE.

Il corto circuito tra politica e istituzioni

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di Massimo Villone, su il manifesto

La pronuncia della Corte costituzionale non ha sciolto i nodi politici, ma ha certamente aperto una fase nuova passando la palla alle forze in parlamento. E mentre è vero per i giuristi che la lettura di una sentenza richiede le motivazioni, così non è necessariamente per i politici. Per quel che serve, il risultato è già definito: no al ballottaggio, sì al premio con soglia e ai capilista bloccati. Dei tre elementi essenziali dell’Italicum, solo uno cade. Si discuterà molto della continuità della pronuncia sull’Italicum rispetto alla sentenza 1/2014 sul Porcellum. Ma conta che con la normativa di risulta il disegno politico-istituzionale di Renzi – concentrazione del potere sul leader e sull’esecutivo, asservimento delle assemblee elettive, riduzione degli spazi di partecipazione democratica – è intaccato ma non cancellato. La disproporzionalità possibile tra voti e seggi rimane molto – troppo – alta. E il voto bloccato sui capilista può comunque produrre l’effetto che i deputati siano in gran parte sottratti alla scelta degli elettori.
In queste ore traspaiono i calcoli di convenienza delle forze politiche. Renzi ha immediatamente assunto come obiettivo primario il 40% e il premio conseguente. Lo stesso Grillo, per M5S. Ma anche la Lega guarda con interesse al premio con soglia, come strumento di potere contrattuale verso Forza Italia. Lo stesso vale per quella parte della sinistra fuori del Pd che considera inevitabile muoversi insieme al Pd in una prospettiva di governo. E possiamo anche aggiungere quelli che nel Pd alzano i toni contro il segretario. È dubbio che – ad oggi – ci siano in parlamento i numeri per cancellare il premio, o per innalzare la soglia sopra il 40%. Quanto ai capilista bloccati, nessuno può dirlo in chiaro, ma a molti non dispiace affatto che siano sopravvissuti.
Tutto questo spiega l’accordo raggiunto alla Camera tra Pd, M5S, Lega e FdI per iniziare il 27 febbraio le danze, con l’intenzione di estendere il Consultellum camera al senato e minimi aggiustamenti. Un accordo che poi Grillo ha denunciato, avendo capito – magari un po’ in ritardo – che a M5S, per le sue peculiarità, i capilista bloccati non interessano. E che le ultime convulse ore forse hanno già superato.
Politica e istituzioni sono entrate in un corto circuito dal quale faticano a uscire. Il parlamento delegittimato una prima volta nel 2014, e nuovamente delegittimato nel 2017 perché recidivo nella volontà di forzare gli argini costituzionali, è ancora chiamato a scrivere con la legge elettorale la più alta regola della democrazia. Come può cogliere il senso del voto referendario del 4 dicembre, che è stato soprattutto il rigetto di un modo arrogante e chiuso all’ascolto di esercitare il potere, di ridurre il governo al comando? È proprio questa filosofia del governare che può alla fine trovarsi confermata se si accetta la normativa di risulta per la camera così com’è, magari estendendola al senato. A questo obiettivo punta Renzi quando chiede il voto subito, con argomenti collaterali quali lo slittamento dei referendum Cgil, e il voto prima di una legge di stabilità che quest’anno si preannuncia dura. Cresce la fronda nel Pd, e persino un ministro prende posizione contro il voto subito.
Ma il disegno in campo si contrasta davvero in altro modo: costruendo a sinistra un progetto politico alternativo rispetto a quello portato avanti, e in parte realizzato, dagli ultimi governi. Un progetto che dia una nuova centralità ai diritti e ai bisogni della persona, come la Costituzione vuole, sul quale far convergere tutta la sinistra degna di questo nome e quella parte del paese che si è riaccostata all’impegno civile con il voto del 4 dicembre. Un progetto che sia competitivo nel paese, qualunque sia la regola elettorale che alla fine si sceglierà.
Per un progetto e una sinistra di tal genere è utile una robusta correzione in chiave proporzionale della normativa di risulta. Non basta ad escluderla il trito argomento della governabilità, come ha argomentato Floridia [sulle pagine de il manifesto]. Se tale fosse l’esito della confusione di oggi, avremmo ritrovato – quale che fosse la data del voto – un paese civile che pensavamo di avere perduto.
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Lunedì 6 febbraio alle ore 17 nella Sala Conferenze del Banco di Sardegna in viale Bonaria n. 33, Massimo Villone parteciperà a un’iniziativa promossa dall’Ampi e dal Comitato d’iniziativa Costituzionale e Statutaria sul tema “Principio di sovranità e legge elettorale dopo la sentenza sull’Italicum“.

Gli sguardi senza volto dei bulli

MASCHERA

di Veronica Rosati

Non importa quanti anni passeranno. Chi ha subito atti di bullismo di qualunque natura non dimentica. Ricorderà per sempre quelle emozioni gelide, poiché caratterizzate da un infinito perpetuarsi di insulti e di risatine del bullo o della bulla di turno. Si sa, i bambini e gli adolescenti possono essere cattivi, ma la loro vittima, seppur coetanea, riesce subito a distinguere la cruda spontaneità dal bullismo.
È recente la consapevolezza che quegli epiteti gridati, quegli insulti totalmente gratuiti sono l’espressione di un fenomeno che passa quasi indisturbato da una generazione all’altra, adeguandosi tristemente ai tempi.

Negli anni ’80 era sufficiente portare gli occhiali per entrare di diritto nella rosa delle possibili vittime dei bulli. Il bullo poteva essere maschio o femmina, ininfluenti la classe sociale o la famiglia di provenienza. Si divertiva ad offendere riversando addosso alla vittima ogni sorta di insofferenza, invidia malcelata o rancore silente. Gli occhiali, più erano spessi e brutti più diventavano una colpa, un peccato originale sinistro che segnava, giorno dopo giorno, l’imperfezione e la conseguente inferiorità del suo portatore.
La vittima vedeva la sua forza d’animo vacillare e rischiava di iniziare a vedersi con gli occhi dei bulli.

Non sei più tu con il tuo universo di pregi e di difetti, con il tuo vissuto e la tua libertà. Ti guardi allo specchio e vedi solo i tuoi orribili occhiali oppure qualunque altra caratteristica divenuta colpa. Il colore della pelle, la nazionalità, le preferenze sessuali, le scelte affettive o sentimentali. Divieni fragile, pericolosamente in balia degli sguardi dei bulli, poiché anche il tuo è divenuto tale.
La forza, la sicurezza di sé e la razionalità che lucidamente farebbero comprendere che gli unici colpevoli sono gli altri, vengono intorpidite fino a svanire del tutto. Si riescono a percepire solo la solitudine ed un imprecisato senso di colpa. Impossibile uscire da queste sabbie mobili, dove chi insulta e moltiplica questa violenza incanala lo squallore della sua vita in un rabbioso moto di male.

Oggi il web rappresenta il vero pericolo. Una giungla fittissima che dà l’illusione di nascondere i volti dei bulli. I cattivi non sono più in un luogo definito, ma possono essere ovunque. Non ha più importanza la loro età. Il luogo per eccellenza della libertà d’espressione è diventato una terra di nessuno in cui la totale assenza di regole e di una legislazione a tutela degli utenti fa sentire in diritto di poter insultare chiunque. Le donne, ancora una volta, sono le prede preferite. Si ricoprono di ingiurie impronunciabili ex fidanzate, amori non ricambiati, sconosciute incrociate per strada e vip.

Ne sa qualcosa la giornalista Selvaggia Lucarelli. Dal suo seguitissimo profilo Facebook non si stanca di gridare la sua battaglia a favore di una regolamentazione del web e di una punizione certa per chi commette atti di bullismo sul web e sui social. Lo fa in maniera seria, denunciando gruppi che inneggiano alla violenza sulle donne, alle volgarità più squallide, al femminicidio, alla diffamazione, al furto di immagini personali segnalando alla Polizia Postale, alle autorità competenti e a Facebook.
Lo fa anche a modo suo. Condivide i nomi e i cognomi, i profili, i luoghi di lavoro degli autori di tutto questo. Si affanna a dare un volto ed una collocazione reale ad azioni che non possono continuare a restare impunite. Lo fa per smuovere un pantano di ignoranza, di degrado di valori e di assenza di regole. Per portare una goccia nel mare della lotta ad ogni forma di violenza.

La confusione dei confini fra la realtà virtuale e quelli del mondo reale, oltre a non aver portato alcun adeguamento normativo, apre un baratro. È il vuoto che può raggiungere l’animo umano il quale, in assenza di regole e paletti in questa forma nuova di vivere civile, riesce a compiere e ad inneggiare le cose più atroci. È un universo di vigliacchi che si crede al sicuro, dietro agli schermi dei loro pc o smartphone.
Ma siamo sempre noi, anche sul web. Non basta l’accezione fintamente reale del vagare col proprio nome e cognome per gruppi Facebook chiusi, se non si è responsabili di ciò che si esprime: così, come accade nel mondo reale. Si tratta di veri e propri gironi infernali che fanno della libertà di parola l’arma per augurare la morte altrui, per diffamare chiunque senza alcuna pietà. Un accanimento sconcertante, un meccanismo che fa togliere il fiato. Razzismo, ignoranza, volgarità, ipocrisia, desiderio di fare del male si rincorrono.
Sconcerta la parola che si fa desiderio ed azione. Viene da chiedersi quale sia davvero il ruolo contemporaneo del sistema dei principi etici che regolano le relazioni umane. È in atto una crisi profonda e dolorosa.

È vero. Il bullismo è uno di quei complessi fenomeni che rotola come un macigno da un decennio all’altro. Ora però i suoi luoghi si moltiplicano all’infinito su internet. Il luogo e il tempo dell’atto di violenza svaniscono. È questo forse il dramma più grande.
Le parole, gli insulti, le immagini viaggiano incontrollate sui social. Rimbalzano e feriscono. Si creano ferite nell’animo infinite. Come gli sguardi senza volto dei bulli che restano impuniti.

Avanti con la Costituzione come scudo per i Diritti

Oggi su L’Unione Sarda. Il Comitato d’iniziativa Costituzionale e Statutaria si presenta. Priorità all’impegno per le leggi elettorali italiana e sarda. Ma il campo di intervento spazia in tutti gli ambiti dei diritti costituzionali. Il metodo è la partecipazione. Ostinatamente in direzione contraria al degrado della politica e alla sua sciagurata pratica dei gruppi dirigenti.
Comitato CoStat

La forza, la competenza e la serendipità

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I risultati dell’azione politico-amministrativa della Giunta dei competenti sono davanti agli occhi di tutti e quella percentuale “bulgara” del 72,22% di No al Referendum espressa dai sardi rappresenta anche la bocciatura senza appello di una classe politica dirigente incapace di apportare beneficio alla disastrata situazione socio-economica dell’isola.

di Raffaele Deidda

“La serendipità è cercare un ago in un pagliaio e trovarci la figlia del contadino”. Così Julius Comroe negli anni ’70 spiegava, con ironia, il significato del neologismo serendipity. Coniato dallo scrittore inglese Horace Walpole, che nel 1754 utilizzò il termine ispirato dalla spiritosa fiaba I principi di Serendip: “Facevano sempre nuove scoperte, per caso e per intelligenza, di cose che non andavano minimamente cercando”. Il termine ha così assunto, nel tempo, il significato di “trovare una cosa non cercata o imprevista mentre se ne cerca un’altra”, diventando patrimonio delle cognizioni di umanisti, filosofi, economisti, scienziati. Andando ad occupare un posto importante nella storia di scoperte come la penicillina, il viagra, internet.
Alcuni studiosi hanno anche fatto coincidere il concetto di serendipità con quello dello Stato, visto come un problema di fronte alle nuove aperture e istanze che nascono nella società solo apparentemente a caso e che generano il libero correlarsi di situazioni e uomini. Altri si sono interrogati sulla possibile esistenza di una relazione fra serendipità e politica. L’uomo inteso come “animale politico”, cittadino della polis, è probabilmente scomparso e sopravvive nei luoghi comuni. L’uomo politico attuale è concepito come colui che fa o che dovrebbe fare politica, che spende parte del proprio tempo nella sfera pubblica al servizio delle istituzioni. Si osserva però come la politica si comporti come se tutto fosse demandato alla perenne ricerca di un atto di fede, di un evento rivelatore che possa determinare un cambiamento.
Lo dimostra il recente sondaggio Demos, che ha rilevato come il declino della politica abbia fatto crescere negli ultimi anni la voglia dell’Uomo forte, con il leader solo al comando che piace a otto italiani su dieci. Eppure la politica, come la scienza, dovrebbe prendere spunto dalla massima di Pasteur: “La fortuna favorisce le menti preparate”. Quelle, cioè, disponibili ad affrontare situazioni inconsuete e a rivisitare in termini innovativi le proprie visioni della realtà. Che non sono le visioni riconducibili all’autorevolezza e/o all’autorità dell’uomo forte di turno. Se ad osservare gli eventi non c’è una mente preparata, anche l’incontro fortuito con interessanti contributi di idee di cui s’ignorava l’esistenza è improbabile che venga colto nella sua importante novità. Se si dovesse rilevare quante menti politiche realmente preparate operino oggi in Italia, a tempo pieno o a tempo parziale “al servizio delle istituzioni”, ci troveremmo molto avvantaggiati dalla semplicità del calcolo e coltiveremmo ancora di più il gramsciano pessimismo della ragione sui possibili risultati positivi di un processo casuale in cui sono fondamentali l’intelligenza e la conoscenza.
Era sembrato a molti che Matteo Renzi, esempio di “uomo forte al comando”, potesse avere le giuste energie e le risorse per interpretare quel processo “serendipitoso” e virtuoso capace di generare non solo positività ricercate ma anche benefici indotti non attesi nel corso delle azioni di governo. E’ stato invece sconfessato, con il No al referendum costituzionale, da quegli stessi italiani che poi si sono espressi per l’avvento di un leader forte. Questo evidentemente perché non è risultato sufficientemente chiaro al rottamatore e ai sui supporters che non è sulla leva autoritaria che si consolida una leadership forte, ma sulla capacità di confermare le promesse elettorali con gli atti concreti di governo. La narrazione della promessa, che appariva efficace, non ha riscontrato l’efficienza dell’azione concreta.
Se il fenomeno del “renzismo” lo si guarda riflesso nell’azione della Giunta regionale sarda, il fallimento appare ancora più drammaticamente evidente. In Sardegna non c’è forse stata la stessa narrazione “guascona” di Renzi, ma i sette professori universitari presenti in Giunta hanno prosaicamente rappresentato la loro competenza accademica come lo strumento mirabolante per gestire con efficienza ed efficacia i problemi dell’isola e portarli a soluzione. Contando sul sostegno del mentore uomo forte al comando e del suo governo “amico”, a cui offrire in cambio deferenza ed ubbidienza. I risultati dell’azione politico-amministrativa della Giunta dei competenti sono davanti agli occhi di tutti e quella percentuale “bulgara” del 72,22% di No al Referendum espressa dai sardi rappresenta anche la bocciatura senza appello di una classe politica dirigente incapace di apportare beneficio alla disastrata situazione socio-economica dell’isola.
Altro che generare in modo fortuito positività da idee e progetti formalizzati e finalizzati!
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il_Manifesto_quotidiano_comunista
La magia incostituzionale del 40%
Gianni Ferrara
EDIZIONE DEL 27.01.2017
PUBBLICATO 26.1.2017, 23:59

Erano tre le incostituzionalità di immediata e sfacciata evidenza dell’Italicum.

Al ballottaggio che tale sistema elettorale prevedeva e che è stato soppresso, si aggiungevano (e si aggiungono) sia il premio (per di più esorbitante) del 14 per cento dei 630 seggi della Camera a quella lista che avesse ottenuto il 40 per cento dei voti, sia la nomina a deputati dei capilista (e dei secondi di lista) da parte dei capipartito delle liste che ottenevano seggi all’elezione della Camera dei deputati.

Questo terzo vizio è stato solo ridotto, ma non sanato. È stato invece conservato il cosiddetto premio di maggioranza. Non se ne comprende il perché (che è difficile che ci sia).

Leggeremo la sentenza ma, per ora, non ci convince affatto il rigetto dell’eccezione di incostituzionalità del “premio”.

Non ci convince proprio partendo dalla incostituzionalità, accertata dalla Corte, del ballottaggio per i 340 seggi tra liste che avessero ottenuto anche una bassissima percentuale di voti al primo scrutinio ed anche al secondo, incostituzionalità clamorosamente evidente. Ma lo è perché un meccanismo di tal tipo contraddice la misura del consenso. La misura cioè di quanto è necessario, indefettibile, inalienabile ed incomprimibile in democrazia per l’esercizio del potere. Tanto più se potere normativo, che riguarda quindi lo status di cittadino, i suoi diritti, le sue pretese, i suoi doveri, i suoi obblighi, i suoi oneri.

Non va mai dimenticato, eluso, rimosso, taciuto, sminuito il nucleo duro dei sistemi elettorali, che è quello del consenso numerico certo, da cui deriva la maggioranza reale da accertare a sua volta in modo incontrovertibile, non manipolandola, non falsificandola sostituendo numeri e gonfiando somme.

Se si qualifica negativamente la quantità del consenso espresso col voto in caso di ballottaggio tra liste con ridotto numero di voti sia al primo che al secondo turno ad ogni fine giuridicamente rilevante, deve non diversamente rilevare la quantità del consenso, se si tratta di voti ottenuti da una lista che consegua il 40 per cento dei voti all’elezione della Camera dei deputati. Quale magia espande nell’ordinamento costituzionale italiano, nei rapporti interpersonali, nel futuro dell’italica gente, quel 40 per cento, resta un arcano.

Forse no. Fu del 40 per cento il numero dei voti conseguiti, alle ultime elezioni al Parlamento europeo, dalla lista del Pd. Il 40 per cento dei voti si attribuì in quell’occasione l’ex Presidente del Consiglio Renzi. Che ritenne, con ogni probabilità, che fosse fatale quel numero per lui e ineluttabile per i suoi luminosi successi. Non aveva, invece, e non poteva aver altro ruolo, quel numero, che quello di rivelare la distanza che lo separava e lo separa da quella metà più uno che segna, da sempre, la maggioranza numerica dei voti di ogni aggregata pluralità umana.

Conseguire un numero di voti che si avvicina a quella metà, significa solo che la maggioranza reale, quella vera ha negato a quella più ambiziosa minoranza il potere della metà più uno.

Sovviene un raffronto cui segue una riflessione.

È del 40,89 per cento il numero dei sì al referendum del 4 dicembre contro il 59,11 dei no. Con questo risultato il corpo elettorale ha respinto la legge costituzionale che sconvolgeva l’ordinamento parlamentare della Repubblica, una legge della massima rilevanza costituzionale, certo, ma comunque una legge, una sola legge.

E ora una domanda: un risultato di tal tipo può essere rovesciato, quanto ad effetti, per legittimare una maggioranza parlamentare, un legislatore per cinque anni ? Il 40 per cento di una lista sola o anche di più liste collegate può legittimare l’acquisizione di 340 seggi parlamentari? Tanti quanti necessari – si pretende – per assicurare la governabilità secondo i suoi pasdaran?
A quanto ammonta, di grazia, il costo della governabilità imposto alla democrazia? A quanto ammonta inoltre il prezzo della personalizzazione del potere per la nomina a deputato dei capilista anche se lasciano alla sorte di optare per il collegio di derivazione?

Or son pochi mesi, riconobbi alla Corte costituzionale il merito esclusivo di garante della Costituzione. La legittimazione del premio di maggioranza mi induce ora a riflettere su quel giudizio.