Sardegna Che fare? La relazione di Guido Melis alla Scuola politica delle Acli. Un importante contributo al dibattito

aladin bomeluzo
Istituzioni in Sardegna
pubblicata da Guido Melis
Sabato 22 settembre, all’Argentiera (SS), Relazione di apertura Scuola politica delle ACLI.
Guido Melis:  Istituzioni in Sardegna, storia e sviluppo

 

 

1. Com’eravamo: dall’industrializzazione all’autunno dell’autonomia.

 

“Istituzioni in Sardegna: storia e sviluppo” è un tema molto vasto e altrettanto impegnativo. Implica una analisi (che mi propongo breve) della storia degli ultimi decenni. La presa d’atto di una crisi, e forse – aggiungerei – di una sconfitta culturale, prima ancora che politica. E, se possibile, una proposta per il futuro. Nei mesi scorsi Francesco Soddu ha curato per i tipi della Edes una antologia in due tomi del periodico “Il Democratico”, il foglio sul quale, a cavallo tra ultimi anni Cinquanta e primi anni Sessanta, si espresse la leadership intellettuale di una nuova classe dirigente cattolica regionale, quella stessa che aveva di recente conquistato la guida della Dc nella cosiddetta “rivoluzione dei giovani turchi”. Scorrendo quelle pagine (ma anche quelle di altre riviste coeve di diversa estrazione politico-culturale, a cominciare dalla ormai mitica “Ichnusa”-seconda seria di Antonio Pigliaru) colpisce la capacità di cogliere gli elementi evolutivi allora in atto nell’economia e nella società sarda e di dare loro una risposta in termini politici. Risposta forse non sempre appropriata, giudicando col senno di poi. Ma tuttavia pur sempre una risposta.

Come è noto nacque (o fu importato) in quegli anni un modello di sviluppo, bene o male condiviso dall’intero schieramento politico e da una larga parte della classe dirigente sarda più aperta al nuovo. Al centro di quel modello gli studi preliminari al Piano di Rinascita avevano inizialmente posto saggiamente un mix equilibrato tra grande e piccola industria, quest’ultima collegata all’allora dominante indotto dell’agro-pastorale, a sua volta da investire con opportuni interventi di razionalizzazione capitalistica.

Inizialmente, ho detto: perché nel rapidissimo svolgersi degli eventi prevalse di fatto una variante molto radicale, rappresentata dal protagonismo assoluto della grande industria, in particolare petrolchimica, senza un’opportuna razionalizzazione del rapporto asimmetrico che l’avvento di questo ingombrante nuovo arrivato imponeva al territorio. Fu come inserire un gigante in un mondo di lillipuziani. Ne nacquero tensioni anche acute, che come è noto si espressero poi nei secondi anni sessanta e dopo nell’acutizzarsi della questione delle zone interne e nell’emergenza del banditismo dedito al sequestro di persona.

Si delineò allora un quadro che oggi dobbiamo rivisitare con occhi criticamente lucidi. Si innescarono nella vecchia questione sarda elementi di modernizzazione non di poco momento, destinati ad incidervi profondamente: l’avvento di una nuova classe operaia, giovane, di estrazione per lo più agricola, beneficamente esposta ai contagi del sindacalismo moderno e della cultura di fabbrica; il progressivo processo di desertificazione dei paesi dell’interno, divenuti spesso paesi-dormitorio per i lavoratori che ogni giorno i pullman del padronato trasferivano nei luoghi della produzione; l’evoluzione complessiva del costume, con fenomeni di abbandono anche traumatico della tradizione, rottura delle antiche casematte culturali rappresentate dai vincoli familistici, frammentazione dei tessuti comunitari tipici della società sarda tradizionale. Come sempre la modernizzazione impose senza mediazioni i suoi modelli. E fece le sue vittime.

Quel panorama, tuttavia, rappresentò negli anni Settanta ed oltre anche il quadro di un processo di inclusione della Sardegna nel tessuto nazionale, con significativi fenomeni di italianizzazione che – nel bene e nel male – segnarono profondamente il modo d’essere e di sentire dei sardi. Tanto più che, per una  coincidenza non voluta, altri potenti fattori di integrazione (qualcuno direbbe di omologazione) erano in atto: la televisione per prima, e poi la rapida circolazione anche nella periferia sarda dei messaggi provenienti dalle emittenti culturali del mondo capitalistico nazionale e internazionale; e la nuova scuola media, che pose un primo limite all’analfabetismo e consentì la crescita di una generazione di studenti destinata a contare non poco nell’evoluzione successiva.

Come reagirono le istituzioni dell’autonomia a questo profondo, epocale cambiamento degli anni Sessanta e Settanta? Molti anni fa (si era nei primi anni Ottanta), scrivendo una voce sull’autonomia regionale per l’enciclopedia “La Sardegna” diretta da Manlio Brigaglia, ebbi a coniare l’espressione “autunno dell’autonomia”. Mi sembrava già allora, valutando il problema a valle, dopo l’esaurirsi della prima grande ondata dell’industrializzazione per effetto della crisi petrolifera, nei decenni cioè in cui quel modello prima imperante sembrava mostrare i primi segnali di affanno, mi sembrava che l’autonomia, sia pure speciale (anzi, forse proprio perché speciale) si fosse dimostrata non all’altezza. Avrebbero dovuto, le istituzioni autonomistiche, governare il cambiamento, puntando a lenire le contraddizioni e gli strappi tipici di ogni simile processo di modernizzazione (racchiuso in pochi anni e in poche zone pilota, quindi particolarmente violento). Avrebbero dovuto dar sfogo alla nuova domanda di partecipazione confusamente nata col nuovo protagonismo dei sardi nelle lotte sindacali e politiche, adottando coraggiose riforme nell’esercizio stesso dell’autonomia, magari valorizzando quella rete preziosa rappresentata dai piccoli e meno piccoli comuni, storicamente rimasta come distaccata, nella storia dell’autonomismo sardo, dalla Regione e dalla sua preponderante iniziativa. Avrebbero potuto infine favorire il ricambio della stessa classe politica, che rimase invece in quegli anni quella stessa che aveva dato origine vent’anni prima alla industrializzazione, talvolta dimostrandosi invecchiata, non perfettamente capace di fronteggiare coi nuovi mezzi culturali e con nuovi strumenti istituzionali l’aggressività di poteri economico forti, monopolistici, protetti dalla politica romana.

Autunno dell’autonomia. Negli ultimi due decenni del Novecento, nonostante qualche parentesi più positiva (le giunte di unità autonomistica prima, quelle di sinistra poi, ma anch’esse non esenti da ritardi e cecità), avrebbe quasi per inerzia generato un gap via via più profondo tra istituzioni e sardi, tra Regione e società civile, tra ceto politico regionale e cittadini. Una crisi di legittimazione strisciante dell’istituzione Regione.

 

 

2La Sardegna e la grande crisi: un destino segnato?

 

In questo contesto, già potenzialmente di crisi, si è inserita negli ultimi anni una congiuntura (ma si tratta poi solo di una congiuntura?) che revoca in dubbio tutte le certezze sulle quali era stato costruito il progresso dei sardi dagli anni Sessanta del secolo scorso in poi.

Le cause esterne sono note, tanto da permettermi di riassumerle in poche battute: globalizzazione della produzione e dei mercati, avvento della grande finanza in luogo del grande potere industriale basato sulla produzione di beni materiali, rapida obsolescenza del tessuto industriale, estrema mobilità delle ricchezze, caduta verticale delle sovranità nazionali ed anche – contestualmente – della capacità di condizionamento dal basso sino ad ora espressa bene o male dalle istituzioni locali.

Come avvertiva solo pochi giorni fa da Cernobbio un acuto osservatore come Romano Prodi, l’Europa intera rischia di rinunciare in pochi anni alla sua caratteristica storica di sede prioritaria della manifattura moderna. Nel torno di soli pochi decenni l’intero continente che le ‘700 ha dato origine al capitalismo industriale corre il pericolo di trasformarsi in un immenso parco culturale, nel quale i nuovi dominatori asiatici o – chissà – dopodomani latino-americani o africani, sverneranno alla ricerca del loro relax. Quella che abbiamo di fronte non è cioè una crisi passeggera, destinata a risolversi con aggiustamenti tutto sommato modesti negli equilibri del mondo che ci sovrasta. No: siamo piuttosto di fronte a una di quelle svolte epocali, simili a quella che segnò tra Settecento e Ottocento, la fine della società agraria occidentale e l’avvento di quella industriale. Una svolta che vedrà nuovi popoli, per secoli confinati ai margini dagli egoistici colonialismi euro-occidentali, assicurarsi la leadership del mondo.

Una grande svolta alla quale l’Italia arriva in condizioni difficilissime. Perché da decenni una classe dirigente poco previdente ha smantellato sistematicamente quelli che erano i fortilizi della nostra identità di paese industriale (distruggendo l’elettronica, ad esempio,  e oggi la chimica di base); e perché manca al Paese quell’attrezzatura strutturale che costituisce altrove la prima difesa in tempi di crisi.

E la Sardegna? Come sta la Sardegna nel mare magnum della grande crisi?

La Sardegna, anche per responsabilità di un potere regionale oggi particolarmente incapace, sta pessimamente.

Innanzitutto è giunto alle corde il vecchio modello di sviluppo. Per quanto siamo tutti d’accordo nel difendere con le unghie e coi denti i posti di lavoro, bisognerà pure che su questo punto ci diciamo la verità. L’idea di un futuro industriale come lo abbiamo conosciuto è una pietosa bugia, e bisogna diffidare dei politici che per fini di consenso elettorale diffondono questa bugia.

Ma è alle corde anche il vecchio modello istituzionale. Perché la Regione (ne è prova la pessima performance in questa legislatura del Consiglio regionale) non ha più quella capacità di leadership che ebbe in alcuni momenti topici del secondo Novecento e – io dico – anche nel contestato quinquennio di Renato Soru. Ciò che non c’è più, e non vale cercare di riferirvisi, è il vecchio schema centro-periferia, la vecchia dialettica autonomia-centralismo, Regione-Stato. E non c’è perché oggi le grandi scelte che condizionano tutto il quadro economico europeo (per limitarci all’Europa) non sono più assunte su tavoli romani dove la Regione possa far valere – debole o forte che sia – il suo punto di vista. Sono invece trasferire a Bruxelles e a Strasburgo, per non parlare di quelle scelte (ne abbiamo avuto una prova coi russi nella vicenda dell’alluminio) che risiedono in stanze ancora più segrete, più distanti, più impalpabili, quali sono ormai le società multinazionali e i circuiti della grande finanza senza patria.

Il punto allora è un po’, ancora, quello che ponevo nello scritto citato dei primi anni Ottanta, ma aggravato in modo da essere divenuto ormai di quasi impossibile soluzione: come si fa, quando si sta in basso, e nella periferia del mondo, a contare di più? Come si fa a incidere su politiche globali delle quali non solo non si ha il controllo ma spesso neppure la tempestiva informazione? Come si fa a decidere in casa propria, come vorrebbe un romantico indipendentismo nostrano da fine Ottocento, quando tutta la materia del decidere risiede in altre mani?

Problema enorme, che investe la questione stessa della democrazia nell’epoca contemporanea. Problema, ripeto, oggi, alla stregua degli strumenti anche teorici in nostro possesso, pressoché insolubile.

Certo non risolubile se si tiene fermo al vecchio schema della speculare contrapposizione centro-periferia. Bisogna al contrario comprendere che i concetti stessi di “centro” e di “periferia” sono oggi oggetto di revisione. Che l’equilibrio del mondo, piuttosto che su quella antica distinzione valida per secoli, si regge oggi sulla nuova realtà delle reti, cioè su un disegno più complesso e al tempo stesso più informe, nel quale le decisioni maturano attraverso scambi e passaggi di tipo circolare e multidirezionale. E una realtà come quella sarda (per cominciare a rispondere, come si può e come posso, alla domanda precedente) può sperare di contare solo se si inserisce nel reticolo, se si autocostituisce come uno dei suoi snodi, se si intreccia intimamente con altri nodi e con essi dialoga e interagisce. Una Sardegna, intanto, che destrutturi la propria autopercezione come isola e come periferia. Non siamo né isolati, né periferici, per quanto in via contingente siamo penalizzati da una pessima politica regionale dei trasporti (ma in via contingente, però: nulla è eterno). Siamo al centro del mediterraneo, a un passo dai paesi africani domani emergenti (per quanto gravi su di essi l’incognita tremenda del fanatismo religioso), in un momento della storia del mondo che sarà inevitabilmente segnato da grandi flussi migratori, da contaminazioni demografiche e da una riformulazione – è quanto meno plausibile – della geografia umana sul continente europeo e nel mondo mediterraneo. Uno snodo che può inserirsi più profondamente in Europa, e al tempo stesso guardare al Sud del mondo. Magari sostituendo la vecchia chance dell’industria novecentesca con la nuova delle tecnologie avanzate, sostenute dagli insediamenti della ricerca d’avanguardia. Un vecchio amico che purtroppo non c’è più, il giornalista Alberto Rodriguez, aprì negli ultimi anni Ottanta sull’ “Unione sarda” un dibattito molto interessante su quella che allora si chiamava (e si sognava) la “Silicon Valley sarda”. Rubbia venne in Sardegna anche attratto da quelle suggestioni. Da lì, forse, si può riprendere a dipanare il filo.

 

3. Qualche proposta, per cominciare

 

Ma occorre, per farlo, un’idea di Sardegna. Un’idea nuova, come la ebbe la nuova classe dirigente che scriveva sul “Democratico” e su “Ichnusa” (e su “Rinascita sarda”, sul “Giornale” di Antonello Satta, sulla “Tribuna della Sardegna” di Michelangelo Pira..). Non rassegnarsi, intanto, all’idea della Sardegna ridotta (rubo una felice espressione a Renato Soru) a mercato di “sardigne rie”. No al paradiso dei ricchi aperto tre mesi all’anno e solo sulle coste. No alla desertificazione dell’interno. No alla fuga dei ragazzi. No al declino demografico (potremmo, nei prossimi 10 anni, scendere sotto il milione). Quattro idee, tanto per cominciare:

a)    la Sardegna rinunci alla sua specialità intanto in materia di entrate (dove, come è stato dimostrato, ad esempio da Giorgio Macciotta, ha tutto da guadagnare a stare nel quadro delle regioni ordinarie) e magari anche oltre: mi azzardo a suggerire che quel concetto stesso, la specialità, possa ormai ritenersi superato, che non corrisponde a niente di sostanziale: “siamo isolati e poveri, tu Stato ci devi compensare” è il presupposto che lo sorregge. Ma questa filosofia, che è poi quella che ha talvolta caratterizzato in peggio l’autonomismo sardo e sardista nel mondo contemporaneo non vale più). Punti invece, la Sardegna, sulla sua capacità di stare in rete, con proposte e idee nuove, con una sua politica verso gli altri nodi della rete, in Europa e altrove. Dunque riforma profonda della Regione, suo alleggerimento in termini di costi e di personale politico (e naturalmente anche amministrativo). Ampia delega agli enti locali e ai territori. Riscrittura radicale di tutta la geografia amministrativa interna, senza la pretesa di rispettare una astratta uniformità ma dando ad ognuno dei territori sardi il tipo di istituzione rappresentativa che gli è più congeniale.

b)   La Sardegna guardi all’esterno. Siamo a pochi chilometri dall’Africa. Si imposti una politica regionale in quella direzione. Si favoriscano flussi migratori dal continente africano e si rafforzino i flussi dall’Est Europa, al fine di popolare la Sardegna interna, con opportune misure regionali di incoraggiamento volte all’insediamento guidato e attentamente monitorato di comunità esterne. Puntiamo a sfruttare la posizione naturale di ponte tra i due continenti. Insomma, per citare una vecchia endiadi di Fernand Braudel, dall’ “ile conservatoire” all’ “ile carrefour”.

c)    La Sardegna non rinunci all’industria ma si orienti verso l’industria del XXI secolo. Si lavori sul nesso tra industria di trasformazione (che va potenziata) e agropastorale, con politiche mirate e con una visione che guardi, anche qui, al quadro non solo europeo ma globale. Si investa fortemente nella ricerca, pura e applicata, costringendo le due università sarde a entrare con più decisione in un circuito virtuoso al servizio dello sviluppo. Esiste la carta della chimica verde, per quanto se ne intravedano tutte le debolezze e le contraddizioni: si decida presto, senza perdere altro tempo, se è una carta davvero giocabile, e se lo è la si potenzi, se non lo è la si abbandoni sinché si è in tempo. Ma comunque su un’industria che non distrugga l’ambiente si dovrà investire.

d)   Si allarghi la maglia dell’offerta turistica, per esempio con proposte mirate per il turismo degli anziani, estendendo la mappa alle zone non costiere, valorizzando l’immagine identitaria della Sardegna.

E in tutto ciò si riformi profondamente la politica. Ho lasciato per ultimo questo argomento, ma è decisivo, e vorrei su questo concludere. Scontiamo, in Sardegna come in Italia, il passo lento e contraddittorio della politica. Viviamo tempi di decisioni istantanee, caratterizzati da un concetto del tempo profondamente diverso da quello del passato, anche del passato recente. L’economia si muove secondo dinamiche così veloci da rendere immediate e universali la ricaduta delle sue scelte. Il ritmo della vita stessa della società del Duemila è cento volte più rapido di quanto non fosse quello del secolo scorso.

La politica, in questo nuovo quadro, arranca secondo tempi e modalità di decisione di un altro secolo, attardata da procedure barocche, complicata da catene decisionali lunghissime e da tempi morti frequenti, quasi fisiologici. Le istituzioni, e la politica stessa, invece vanno riformate anche modellandole sul nuovo concetto diffuso di tempo sociale. Ciò vale innanzitutto per le assemblee deliberative, a cominciare dal parlamento e dai consigli regionali; e vale in generale per l’attività di governo. Le procedure della partecipazione (sacrosante, in un mondo nel quale gli interessi si presentano in forma sempre più frammentata, quasi sfarinata) mal si conciliano con l’istantaneità della decisione. Le forme della concertazione (necessarie quanto non mai, in un mondo nel quale qualunque scelta investe più attori tra loro indipendenti eimplica una sintesi degli interessi in gioco) non sempre collimano con quelle della deliberazione finale pronta e temporalmente adeguata. Questo punto cruciale (uno dei paradossi della democrazia moderna) va affrontato anche utilizzando gli strumenti dell’informatica, ma essendo consapevoli che il forum elettronico di per sé non soddisfa tutte le condizioni poste dalla richiesta insita nella pratica democratica.

Dunque riforma della politica. Sua semplificazione comunicativa, migliore articolazione procedurale, revisione dei suoi linguaggi più criptici. Maggiore penetrazione nella politica delle competenze presenti nell’economico e nel sociale e dunque sua legittimazione. Ricerca di forme più snelle di decisionalità.

E accanto a ciò, riforma in profondo del personale politico. Sua formazione non più affidata alla pura selezione elettorale ma garantita da percorsi formativi propri. Possibilità per i cittadini elettori di controllare, monitorare, giudicare in ogni momento i propri rappresentanti. Trasparenza piena sui costi della politica, assicurata da controllori neutrali ad essa esterni. Forme di partecipazione che assicurino ai rappresentati la possibilità di influire sui comportamenti dei rappresentanti. Democrazia governante, e non solo governata.

Se sapremo fare tutto questo, se sapremo guardare in avanti, essere presbiti e non miopi, sarà più agevole anche difendere l’esistente, assicurare il lavoro oggi, ottenere la transizione di chi è espulso dalle attività lavorative attuali ad altri impieghi, assicurare a tutti i giusti ammortizzatori. Se non lo faremo, resteremo in balia delle cose, soggetti passivi di una trasformazione che non potremo governare.

Se tutto ciò imporrà la revisione anche degli strumenti organizzativi attuali (partiti, pur profondamente trasformati sin da oggi; e sindacati) sarà questione da meglio valutare di quanto io non possa qui fare. Certo se le forme della partecipazione imponessero una rinuncia a questi antichi e gloriosi soggetti non mi stupirei: il partito stesso, e il sindacato, sono formazioni storiche, risalenti a non più di un secolo, un secolo e mezzo di tempo, connesse con l’avvento della società contemporanea nella sua specifica forma di società industriale. Perché non immaginare che, in una società senza più centri e periferie, senza più dorsali nazionali cui rapportarsi, basate sulla fluidità della rete degli interessi in perenne dialogo reciproco, anche queste forme organizzative “rigide” possano e debbano subire una trasformazione?

Si apre insomma, o si è già aperta senza che ne avessimo tutta la percezione, una stagione di intensi, profondissimi mutamenti. Ai quali deve presiedere una nuova cultura dell’innovazione, una più grande e sincera disponibilità a guardare in avanti e non all’indietro. La Sardegna del futuro, tra 50 anni ma forse anche meno, somiglierà solo per alcuni tratti a quella che ha conosciuto la nostra generazione. Sarà diversa certamente. Se in meglio o in peggio dipende da noi. Dipende in ultima analisi, e questo è l’unico rassicurante punto di certezza, dalla intelligenza e dalla volontà delle donne e degli uomini nostri contemporanei.

 

 

 

 

 


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