Istruzione & Formazione

Un po’ di amarcord…

DIRINNOVA. Quando Unica cominciò a impegnarsi seriamente per la Terza Missione.
dirinnova-unicaforDirinnova-2007
- La foto è del 2007.

Università della Sardegna. Oggi l’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università di Sassari

UNiss aa 16+17 inaugOggi venerdì 23 settembre, a partire dalle ore 11,00, avrà luogo la cerimonia inaugurale del 455° anno accademico 2016-2017 dell’Università di Sassari, presieduta dal Rettore Massimo Carpinelli.
Il prof. Tito Boeri, Presidente dell’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, terrà una prolusione dal titolo “Il lavoro futuro”.
L’evento si svolgerà secondo il programma diramato dall’Ateneo e sarà trasmesso in diretta streaming sul portale istituzionale (www.uniss.it).

La Scuola al primo posto

alice-10-2image Goni 12 set 16TUTTA UN’ALTRA SCUOLA
cosa non va nella scuola italiana?
Fiorella Farinelli su Rocca

Fine settimana di metà settembre a Vaiano, qualche chilometro da Prato. Una «Festa-convegno della scuola che cambia», ospitata nell’istituto comprensivo della cittadina. Una giovane preside che parla di Barbiana e Don Milani come fossero ancora tra noi a denunciare quella scuola di tanti anni fa (ma per certi versi non è ancora così?) troppo simile a un ospedale che accoglie i sani e respinge i malati. Tanti gli insegnanti e tantissimi i genitori, bambini e passeggini a rallegrare ogni angolo. Le attività sono anche outdoor e si espandono in cerchi concentrici, due piazze, una sopravvissuta Casa del Popolo, una Badia, un giardino pubblico, spazi all’aperto e al chiuso dedicati a una miriade di laboratori, gruppi di lavoro, seminari, giochi per adulti e per bambini, atelier di teatro e manualità varie. Si capisce subito che l’evento è speciale anche perché coinvolge l’intera comunità locale, e il suo sindaco. Ma la cifra più interessante è che non si tratta solo di idee ma anche di azioni. Non solo di progetti ma anche di esperienze. Non solo di denunce ma anche di proposte. A tenerle insieme il gomitolo multicolore di un ambientalismo giovane, positivo e produttivo – dovunque in vendita prdotti locali rigorosamente bio – cui si intrecciano innamoramenti e mode culturali che guardano a orizzonti più vasti. Le filosofie orientali e l’India, yoga e animalismo, meditazione e buddhismo. A promuovere il tutto, attraendo esperienze e pensieri da Padova a Scampia, è l’associazione toscana TerraNuova-Pensa e Vivi Ecologico, forte di numerosi rapporti con associazioni culturali e sociali di mezza Italia, e con i più diversi progetti di sviluppo civico e per la qualità ambientale. Ma tra i tanti laboratori per il risparmio energetico, il riciclo degli scarti, l’olio di oliva che diventa sapone, la cardatura della lana, come costruirsi un pannellino solare per ricaricare i cellulari, spiccano anche temi e protagonisti di un mondo educativo, non solo scolastico, che costruisce e ricostruisce instancabilmente quello che nel nostro sistema di istruzione sembra oggi più a rischio. L’originalità didattica, la passione pedagogica, la centralità delle persone e delle libertà individuali, i metodi e i percorsi di una scuola orientata alla cooperazione più che alla competitività, l’apprendimento che scalda i cuori dissolvendo conformismi e vincoli burocratici, un crescere insieme – e reciprocamente – tra scuole e comunità. Cultura, identità, locale e globale.
paradigmi educativi altri
Perché il titolo dell’evento è in verità «Tutta un’altra scuola», la ricerca dunque di altri o alternativi paradigmi educativi. C’è la Rete Senza Zaino degli studenti impegnati in progetti di scuole liberate da oneri e vincoli impropri, ma anche le storiche esperienze del riformismo fiorentino di Scuola-Città Pestalozzi. C’è l’Alice Project che non ha mai attecchito nella scuola pubblica italiana trovando invece il suo habitat in una lontana regione dell’India, ma portano contributi anche le sempre-verdi scuole montessoriane e le sempre più apprezzate steineriane. Non mancano le suggestioni anglosassoni dell’homeschooling, gli «asili nei boschi» d’ispirazione tedesca, il consueto e irrisolto dibattito su digitale sì-digitale no, cui si alternano le riflessioni da una università di Milano sulla «contro educazione», gli stimoli delle edizioni Erickson dedicate alle nuove tecnologie didattiche, e persino qualche progetto d’avanguardia firmato Confindustria. A discuterne in modi formali e informali, un singolare mix di educatori di strada arrivati da Napoli e di operatori della formazione professionale che lavorano invece a Bologna, esperti di cose scolastiche coi capelli grigi e giovani insegnanti alle prese con i minori stranieri non accompagnati approdati in Sicilia, pedagogisti libertari e studenti con domande spesso più difficili delle risposte.
pensiero e azione
Un menù così denso e variegato da far dubitare che se ne possa venire a capo. Ma un punto fermo c’è, nel «Tutta un’altra scuola» di Vaiano. È evidente che i temi dell’educazione non possono essere sequestrati dai soli addetti ai lavori, politici o operatori che siano, e che l’esigenza di metterli a fuoco per individuare e pratica- re le soluzioni è tanto più pressante dove – come, appunto, nel mondo ambientalista che analizza i guasti di un modello di sviluppo insano – ci si misura con il cosa e il come fare per uscirne. Una sfida che, nel caso dell’ambientalismo ma non solo, richiede politiche pubbliche bene orientate ma anche stili diversi di vita e diversi comportamenti individuali. Quindi informazione, formazione, apprendimenti cognitivi e valoriali. Partecipazione democratica, certo, ma anche interiorizzazione di una nuova etica fatta di responsabilità civile. Sta qui, e non altrove, la centralità dell’educazione, non solo scolastica. Una strategia intelligente, una promettente combinazione di pensiero e azione. Che siano soprattutto qui – nell’ormai diffusa rinuncia ad avere e costruire collettivamente una qualche idea di trasformazione del mondo, e quindi di trasformazione delle mentalità – le ragioni più profonde della straordinaria povertà culturale e politica che ormai da tempo caratterizza il dibattito italiano sui temi dell’educazione? C’è da chiederselo perché è evidente che non è possibile discutere di contenuti culturali, di altri metodi di insegnamento/ apprendimento, di nuovi obiettivi dell’istruzione e della formazione senza porsi il problema di ridefinire mete e modelli di società, e direzioni di marcia per realizzarli. E perché non si può sapere che fare della scuola e nella scuola senza ridiscutere i profili auspicabili di una cittadinanza attiva e responsabile – e misurarsi su cosa serve per formarli. Saranno le tante «Tutta un’altra scuola» del nostro paese a rimettere prima o poi le cose con i piedi per terra?
Risulta chiaro, intanto, che per farlo occorre una buona dose di coraggio e di laicità culturale. E un buon senso capace di sfidare il conformismo del senso comune. Che in effetti si profila in modo netto nella conferenza dedicata a un tema tra i più classici della discussione scolastico-educativa. La dispersione, e i tanti perché degli abbandoni scolastici precoci. Una patologia in calo nel nostro paese ma ancora troppo consistente con il suo 19-20 per cento di ragazzi che escono dai circuiti formativi senza diplomi e neppure qualifiche, e dalle connotazioni inquietanti. Da un lato uno svantaggio dei ragazzi rispetto alle ragazze di quasi 7 punti, decisamente superiore alle medie europee; dall’altro una correlazione evidente con le aree territoriali e le condizioni socio-familiari più sfavorite; e poi l’impressionante sequela di insuccessi – bocciature, ripetenze, ritardi, abbandoni – degli studenti di origine straniera, anche nati da noi, e di gravità maggiore, anche qui, rispetto a ciò che succede in altri paesi meta di flussi migratori.
come si spiega?
Come si spiega? Cos’è che non va nella scuola italiana? E quali sono le responsabilità esterne alla scuola? I dati statistici non bastano a capire. Ma basterebbero, in altre occasioni di confronto – istituzionali, politiche, accademiche – per replicare il solito refrain di una scuola, quella italiana, che per molte ragioni storiche e strutturali non ha ancora gli strumenti per misurarsi con successo con le disgrazie del mondo, le disparità socioculturali della popolazione, le note diseguaglianze del Sud, i deficit linguistici degli stranieri, le difficoltà identitarie di un genere maschile sempre più disorientato dalle dinamiche emancipatorie della componente femminile e quant’altro. In sintesi, per riproporre la consueta pratica autogiustificatoria per cui gli insuccessi del sistema scolastico si spiegherebbero con ritardi e deficit che gli impediscono, non per sua colpa, di affrontare le tante novità sociali e culturali dei nostri tempi. C’è del vero, intendiamoci, in questo modello interpretativo. Ma serve ripeterselo ancora una volta? E, soprattutto, un approccio di questo tipo basta a rappresentare le diverse facce della crisi attuale della scuola italiana?

l’approccio dei Maestri di Strada napoletani
L’approccio dei «Maestri di Strada» di Napoli che danno avvio alla discussione è un altro. Sebbene la loro esperienza educativa sia nata dentro i contesti socioculturali più disagiati della città, gli educatori napoletani non ci stanno a relegare il disagio scolastico nei confini relativamente ristretti del disagio sociale più acuto. Il problema allora viene rovesciato mostrando come gli abbandoni siano solo la punta più visibile ed estrema di un malessere e di un’insoddisfazione per l’esperienza scolastica in verità molto più larghi e interclassisti. Che riguarda anche figli dei ceti non sfavoriti, che non si concentra solo nel Sud o nelle periferie metropolitane, che non si manifesta solo negli istituti professionali e tecnici, che riguarda anche i nativi e non solo gli stranieri. Che c’è, è riconoscibile, e va curato anche quando non si presenta con la faccia drammatica delle bocciature e degli abbandoni, ma piuttosto con l’aspetto, in verità non meno inquietante, della demotivazione, del disinteresse, di un apprezzamento dell’esperienza scolastica solo per quel che offre in termini di socialità tra pari. E poi sotto forma di apprendimenti scarsi, superficiali, effimeri.
Oggi il pericolo più grande, si sostiene, è il diffuso disinvestimento individuale nell’istruzione, è lo spreco di opportunità di uno sviluppo culturale fondamentale per il futuro dei giovani. Non solo il futuro lavorativo e professionale, ma anche e soprattutto quello civile che riguarda la consapevolezza del mondo in cui siamo e la passione per un suo possibile cambiamento. Il possesso degli strumenti per autorientarsi, e anche per vivere al meglio un futuro sia di occupazione che di disoccupazione. La domanda di fondo, allora, quella che tutti dovrebbero porsi, diventa provocatoriamente un’altra. Da esaminare non sono solo le cause per cui un settore ampio di giovani esce dai circuiti formativi prematuramente, c’è piuttosto da chiedersi perché, nelle condizioni date, i ragazzi di oggi dovrebbero apprezzare la scuola e l’apprendimento che gli viene imposto. Perché dovrebbero farlo se quella stessa scuola e quegli stessi apprendimenti sono con tutta evidenza poco apprezzati dai loro stessi insegnanti. Perché dovrebbero appassionarsi a contenuti culturali proposti spesso in modi ripetitivi, freddi, senza inventiva e fantasia didattica, senza un rapporto con la loro esperienza, le loro domande, le loro inquietudini. Perché dovrebbero credere in una scuola che promette un ascensore sociale che la società e il mondo del lavoro non sono più in grado di assicurare. E poi, come utilizzare l’esperienza scolastica per crescere in autonomia e responsabilità quando la scuola attuale non permette scelte o percorsi individualizzati e non assicura nessuna flessibilità di funzionamento?
«cura» parola chiave
Queste domande non esauriscono l’intero catalogo delle questioni aperte ma hanno il pregio di svelare la nudità del re, e perciò di andare più a fondo dei numerosi fattori di crisi del nostro come di altri sistemi scolastici. E delle responsabilità che si annidano in una educazione familiare orientata spesso più alla tutela dei giovani che alla loro responsabilizzazione, in una non-educazione o malaeducazione che viene dalla società, dai media, da un consumismo che dà valore più all’avere che all’essere, da un modello economico e sociale impostato sulla dissipazione delle risorse, dei beni comuni, delle energie e dei talenti delle giovani generazioni.
C’è spazio, ovviamente, anche per una critica di fondo delle politiche scolastiche di questi anni. Ma non è questo il registro essenziale della discussione di Vaiano. Che segue piuttosto, come per i temi ambientali, la via dell’individuazione delle contraddizioni più acute, e di ciò che si può fare, e che in molti casi si sta già facendo per curarle. È «cura» la parola chiave, non successo, non competitività, non occupabilità. Ed è il come si può fare, e dove e con chi. Nelle scuole e nei territori, con gli insegnanti e con il privato sociale, con il mondo produttivo e con l’associazionismo. Con la musica, il teatro, le università, la ricerca scientifica, le botteghe artigiane, il lavoro, il volontariato, la cooperazione, la solidarietà. Ci vuole intelligenza, certo. E anche professionalità. Ma la risorsa più importante, forse, è la passione educativa, la convinzione che è su questo terreno più che su altri che si giocano le partite decisive. Per i ragazzi di oggi e anche per il destino del paese. Vale la pena di provarci.

Fiorella Farinelli
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- La foto in testa all’articolo è tratta dal sito del progetto Alice (Alice Project).
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La scuola al primo posto? Non in Italia e tanto meno in Sardegna

image Goni 12 set 16Contro lo scasso difendiamo la scuola

democraziaoggiGianna Lai su Democraziaoggi

Fino all’ultimo momento senza sede gli insegnanti, senza aule gli studenti: inizia bene l’anno scolastico in città e in Sardegna. Per i docenti trasferiti fuori dall’Isola ma in attesa qui di assegnazione provvisoria, (per il sostegno), i presidi devono leggere i curricoli sul sito ministeriale e fare la chiamata diretta, (la guerra tra poveri) ma poi ci sono quelli delle graduatorie ad esaurimento, e poi ci sono gli insegnanti abilitati, gli abilitati al sostegno, ma precari, e i non abilitati, e quelli di ruolo assegnati a province diverse, è il caos, pardon, è l’innovazione della buona scuola renziana! A Goni chiuse elementari e medie, i genitori si sostituscono ai docenti, la scuola, l’ultima cosa rimasta in questi paesi, ormai in via di abbandono se la scuola stessa li abbandona. - segue -

Quindici anni a massacrare scuola e ricerca: ecco perché siamo il malato d’Europa
Francesco Cancellato su LinKiesta

Goni difende il diritto alla scuola per i propri bambini

Goni scuola su US 13 set 16
- Su L’Unione Sarda, martedì 13 settembre 2016.
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image Goni 12 set 16
GONI. Una sessantina di genitori ha occupato questa mattina la scuola elementare di Goni, finita al centro delle polemiche scoppiate per la chiusura dell’istituto ed il conseguente trasferimento degli alunni a Silius. Una decisione che i genitori non hanno mandato giù, tanto che oggi hanno deciso di non far salire i propri figli sul pullman che li avrebbe portati nella scuola di Silius, occupando pacificamente lo stabile. Sul posto sono intervenuti i carabinieri. La protesta è destinata a durare alcuni giorni. (La Nuova Sardegna online).
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- Notizie su Goni.
- Su Casteddu online.

universidade de sa Sardigna – university of Sardigna – università della Sardegna

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Cosa si aspetta a costituire l’Università della Sardegna? Atenei sardi osate! E la Regione non stia a guardare!

di Franco Meloni su Nuovo Cammino (n. 16 dell’11 settembre 2016)

Tra i punti deboli più rilevanti delle Università sarde vi è la mancanza di attrattività di studenti stranieri, che le penalizzano nelle classifiche nazionali e internazionali e nella ripartizione delle risorse del fondo unico statale. Difficile colmare questa carenza, ma qualcosa si deve pur escogitare, per esempio mettendo insieme le forze dei due Atenei sardi attraverso una loro federazione. Lo sosteniamo da tempo, anche confortati dal parere degli esperti di marketing che avvertono come Cagliari e Sassari all’estero siano del tutto sconosciute e che l’unico “brand” attrattivo è appunto “Sardegna”. L’Università della Sardegna come The University of California: questa è una soluzione giusta. Non basta certo, ma questa scelta aiuterebbe eccome, anche al di là degli aspetti di attrattività.
Però la federazione deve essere vera, come prescrive il competente Ministero, che nel documento di programmazione 2013-2015 del sistema universitario italiano delinea le caratteristiche dei “modelli federativi di università su base regionale o macroregionale… ferme restando l’autonomia scientifica e gestionale dei federati nel quadro delle risorse attribuite”. Precisamente devono prevedersi: “a) unico Consiglio di amministrazione con unico presidente; b) unificazione e condivisione di servizi amministrativi, informatici, bibliotecari e tecnici di supporto alla didattica e alla ricerca”. Il patto federativo firmato dai due Atenei alcuni anni fa è ben lontano da tale impostazione, prevalendo una concezione sostanzialmente conservatrice. - segue -

Corsi universitari in telematica. Le università sarde partirono bene e con tempestività, poi…

eduopen-white2E’ nata EduOpen: 14 università pubbliche mettono online i loro corsi. Gratuiti e senza copyright.
Corsi accessibili a tutti tenuti dai docenti degli atenei italiani: è l’offerta di EduOpen, la nuova piattaforma di Mooc finanziata dal Miur
di Carlotta Balena su StartupItalia!, 21 aprile 2016
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bann_unisofiaaladin-lampada-di-aladinews312Come si vedrà nel corpo dell’articolo, nell’elenco non ci sono le università sarde. Eppure a partire dal 2006 gestirono un grande progetto europeo, denominato Unisofia, attraverso il Consorzio Unitelsardegna delle due università (http://www.unica.it/pub/7/show.jsp?id=1330&iso=19&is=7). logo_unisofiaPer fortuna il Consorzio esiste ancora, resistendo alla furia distruttiva di rettori non lungimiranti, ma non sembra abbia il ruolo di rilievo che meriterebbe. Prova ne sia la sua assenza nel progetto EduOpen. Il tempo perduto va ora ricuperato con un adeguato impegno da portare avanti come Università della Sardegna.
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Ecco l’articolo
L’università italiana da oggi è online, gratuita e per tutti. E’ diventa ufficialmente attiva, infatti, la piattaforma EduOpen.eu, creata da 14 atenei italiani pubblici [1] per offrire dei corsi formativi di alta qualità a distanza, cioè i cosiddetti MOOC (Massive open online course). Tutti i corsi offerti da EduOpen sono tenuti da docenti universitari e prodotti dalle università italiane aderenti al progetto, finanziato dal ministero dell’Istruzione con 100 mila euro. Gli atenei attualmente nella piattaforma sono: l’Università Aldo Moro di Bari, il Politecnico di Bari, la Libera Università di Bolzano, l’Università di Catania, l’Università di Ferrara, l’Università di Foggia, l’Università di Genova, l’Università Politecnica delle Marche, l’Università di Modena e Reggio Emilia, l’Università Bicocca di Milano, l’Università di Parma, l’Università di Perugia, l’Università del Salento, l’Università Ca’ Foscari di Venezia.
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Università nel mondo e Università della Sardegna / DIBATTITO

La controclassifica dove l’Italia supera Harvard e Stanford. Un interessante esercizio di Giuseppe De Nicolao su Roars.
Roars Logo-Home-Page-910x1174Il sito Roars aggiunge un parametro alla classifica di Shangai e i risultati sono a sorpresa con le italiane in testa
di Gianna Fregonara, sul Corriere della Sera on line.
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Harvard prima. Poi Stanford e il Mit e Berkeley, Cambridge e Princeton. Sedici americane, tre inglesi e una svizzera (l’Istituto di tecnologia di Zurigo) sono le migliori venti università del mondo, secondo la classifica pubblicata a Ferragosto dalla Shanghai Jiao Tong University (Arwu). Le italiane, come negli scorsi anni, sono ancorate dopo il 150esimo posto su 500. Cinque quest’anno – erano sei nel 2014 – tra il 150 e il 200esimo gradino: la Sapienza, l’Università di Milano, e poi Padova, Pisa e Torino. Venti in tutto entro l’ultima posizione.
Difficile, messe così le cose, poter esultare per il nostro sistema universitario, nonostante il rettore della Sapienza Eugenio Gaudio abbia subito rimarcato la riconferma del risultato dello scorso anno per il suo ateneo. Impossibile per le nostre università scalare oltre le classifiche – tutt’al più può succedere che da un anno all’altro «rosicchino» qualche posizione – se si usano i criteri dell’istituto cinese: il numero di ex studenti che hanno preso il Nobel, il numero di premi Nobel che fanno parte del corpo insegnante, il numero di ricercatori con maggiori citazioni scientifiche e di studi pubblicati nelle riviste specializzate.
La vittoria degli Atenei italiani
Ma Giuseppe De Nicolao, professore di Ingegneria a Pavia e collaboratore della rivista online Roars, ha provato ad aggiungere un altro indicatore ai dati raccolti a Shanghai, per stilare una classifica «dell’efficienza delle università che mettesse a confronto i risultati con la spesa», dividendo cioè i costi di gestione di ogni università per il numero di punti raggiunti. E a sorpresa – mettendo a confronto i primi venti atenei della classifica Arwu e i venti atenei italiani che vi sono classificati – a guidare questa «gara» sono quattro università italiane: la Scuola Normale di Pisa, l’Università di Ferrara, Trieste e Milano Bicocca, e nei primi dieci posti otto sono gli atenei italiani mentre a reggere il confronto dell’efficienza tra le grandi università ci sono solo Princeton e Oxford. – segue -

RIFLETTENDO e PROPONENDO. MISURE ANTICRISI. L’Università come «nuova agorà». “Le Università costituiscano «reti sociali» con associazioni, centri culturali, enti locali, cittadini, lavoratori, imprese (piccole, medie e grandi). Nel fare tutto questo da un lato promuovono la nascita di un’intera costellazione di nuovi attori culturali, che si interfacciano con la società, e dall’altra sviluppano nuova conoscenza intorno ai rapporti scienza e società, con appositi centri interdisciplinari di ricerca. In Italia c’è una domanda sociale ridotta di conoscenza. Ma c’è anche un’offerta insufficiente. Le università non sono ancora attrezzate per la Terza Missione. Occorre farlo”.

ragazzo vs universitàL’università italiana si salva solo con la «terza missione». L‘università si proponga come una «nuova agorà»

di Pietro Greco*

Gli inglesi da un paio di decenni la chiamano Third Mission, terza missione, o, Third Stream, terzo flusso. Si riferiscono all’università e alla necessità che essa si dia un terzo compito – una terza missione, appunto – insieme ai due canonici della formazione e della ricerca. Questa terza missione è (deve essere) la diffusione fuori dalle sue mura delle conoscenze prodotte. La necessità nasce dal fatto che viviamo, ormai, nella «società della conoscenza» e che lo sviluppo culturale ed economico di ogni comunità a livello locale, nazionale e globale ha bisogno di essere alimentato con continuità da nuove conoscenze. Se non c’è questa immissione continua lo sviluppo dell’intera società ne è frenato, se non bloccato. La domanda sociale è rivolta ai luoghi dove la nuova conoscenza viene prodotta. E poiché le università sono i luoghi primari di formazione e di produzione delle nuove conoscenze, è a loro in primo luogo che «la società della conoscenza» chiede di essere alimentata. La richiesta è che l’università cambi. E dal modello chiuso e statico cui ha aderito nell’Ottocento, per soddisfare i bisogni di formazione di tecnici e di classe dirigente per la società industriale fondata sulla produzione di beni materiali, aderisca a un modello aperto ed evolutivo, per soddisfare i bisogni della società fondata sulla conoscenza e la produzione di beni immateriali. Per un certo tempo questa domanda sociale è stata interpretata in termini molto riduttivi, di semplice «trasferimento delle conoscenze» dalle università alle imprese. In Gran Bretagna, per esempio, il governo favorisce da tempo la Terza Missione delle sue università proprio attraverso una serie di iniziative di «trasferimento delle conoscenze» che includono lo Higher Education Innovation Fund, la Higher Education Reachout to Business and the Community Initiative, lo University Challenge, lo Science Enterprise Challenge. Negli Stati Uniti da almeno un quarto di secolo esistono leggi, come il Bayh-Dole Act, che stimolano l’università non solo a trasferire conoscenze alle imprese, ma – attraverso la valorizzazione e protezione della proprietà intellettuale – a diventare essa stessa impresa: a interpretare se stessa come entrepreneurial university, come università imprenditrice. In Italia non esiste l’università imprenditrice, ma dal novembre 2002 esiste un «Network per la valorizzazione della ricerca universitaria» che coordina decine di atenei di tutto il paese nel tentativo di trasferire conoscenza alle nostre imprese, così poco vocate alla ricerca e così poco consapevoli dell’era in cui siamo entrati. Ebbene, questa attività da sola non basta per entrare nella «società della conoscenza». È troppo riduttiva. È troppo economicista. Lo sostiene il Russell Group, un centro che coordina i due terzi delle università del Regno Unito, sulla base di una documentata indagine. Se il rapporto tra università e società non viene interpretato in una prospettiva molto più ampia e olistica, non solo l’ingresso nell’«era della conoscenza» si allontana, ma persino il trasferimento strumentale di conoscenze alle imprese ne viene minato e perde efficacia. Insomma, sostiene il Russell Group, per entrare nella «società della conoscenza» occorre un dialogo fitto e a tutto campo che promuova uno sviluppo complessivo – culturale ed economico – dell’intera società. In cosa deve consistere, questo dialogo? Dovessimo riassumerlo in una frase, potremmo dire: nella costruzione della cittadinanza scientifica. Che significa maggiore consapevolezza dei cittadini intorno ai temi della ricerca scientifica e dello sviluppo tecnologico e maggiore partecipazione alle scelte tecniche e scientifiche, ivi incluse quelle ambientali e quelle «eticamente sensibili». Ma significa anche maggiore democrazia economica. Se i saperi sono ormai la leva principale per la crescita economica, costruire la cittadinanza scientifica significa (anche) fare in modo che la conoscenza non diventi un fattore di nuova esclusione sociale, ma un fattore attivo di inclusione sociale. In pratica significa che nell’aprirsi l’università si proponga coma una «nuova agorà», una delle piazze della democrazia partecipativa (dove i cittadini si riuniscono per documentarsi, discutere e decidere) e della democrazia economica (dove non solo le grandi imprese attingono conoscenza per l’innovazione, ma i cittadini tutti acquisiscono i saperi necessari per il loro benessere, per la loro integrazione sociale, persino per una imprenditorialità dal basso). Questo dialogo fitto e a tutto campo tra università e società non è un’aspirazione astratta. E neppure futuribile. Sta andando avanti, sia pure per prova ed errore. E ha assunto aspetti concreti non solo in Gran Bretagna o negli Usa. In Danimarca la Terza Missione dell’università è stata stabilita per legge. In Francia ci sono importanti iniziative sulla comunicazione pubblica della scienza. E anche nei paesi scientificamente emergenti come Cina, India e, di recente, Sud Africa molto impegno e molte risorse sono dedicate alla diffusione delle conoscenze e al rapporto tra «scienza e società». Un po’ ovunque il tentativo consiste nel fatto che le università cercando di aprirsi alla società – senza rinunciare al compito canonico dell’alta formazione e della ricerca scientifica – superando l’ambito, riduttivo, del trasferimento di conoscenze per l’innovazione tecnologica e costituendo «reti sociali» con associazioni, centri culturali, enti locali, cittadini, lavoratori, imprese (piccole, medie e grandi). Nel fare tutto questo da un lato promuovono la nascita di un’intera costellazione di nuovi attori culturali, che si interfacciano con la società, e dall’altra sviluppano nuova conoscenza intorno ai rapporti scienza e società, con appositi centri interdisciplinari di ricerca. In Italia c’è una domanda sociale ridotta di conoscenza. Ma c’è anche un’offerta insufficiente. Le università non sono ancora attrezzate per la Terza Missione. Occorre farlo. Perché l’università aperta è uno dei passaggi obbligati per entrare nella società della conoscenza. E per costruire una piena cittadinanza scientifica.
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lampada aladin micromicro* L’articolo di Pietro Greco, pubblicato per la prima volta su L’Unità il 12 marzo 2007, è stato più volte ripreso da Aladinews per chiarezza espositiva, per le proposte e per lo spirito innovativo che lo pervade. Tutto ciò lo rende dunque attuale e le sue proposte concretamente e utilmente percorribili.
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Con Caravaggio

Liuto Caravaggio Hermitage LLCanone occidentale.
Caravaggio,”Pictor praestantissimus”: 1596,
Il Suonatore di Liuto I (Museo dell’Hermitage).
L’ amico Mario Minniti, giovane di incantevole bellezza, mentre suona lo strumento e canta… sul tavolo lo spartito con i 4 madrigali di Arcadelt. “Voi sapete ch’io v’amo, anzi v’adoro”, canta il giovane, con gli occhi lucidi per l’emozione. Notevole il vaso con i fiori con il riflesso della finestra, il violino e la frutta sul tavolo. (Il dipinto venne eseguito per il banchiere Vincenzo Giustiniani).

Studiare, rileggere, ripensare, riscrivere (laddove necessario), la storia della Sardegna per decidere “che fare” oggi

Abbasso Carlo Felice, Viva Giovanni Maria Angioy e i Martiri di Palabanda. Rileggere la storia per decidere “che fare” oggi
carlo ferocefelice mag 2016 foto FMC’è da spostare una statua
di Francesco Casula*

In occasione della ricorrenza di Sa Die de sa Sardigna, il 28 aprile scorso, un gruppo di cittadini (intellettuali, storici, docenti universitari) si sono ritrovati in Piazza Yenne a Cagliari e hanno dato vita a un Comitato “Spostiamo la statua di Carlo Felice”.

Nel volgere di qualche settimana arrivano centinaia e centinaia di adesioni: attualmente sono più di quattromila. Nel contempo il Comitato propone la sottoscrizione di una petizione (bilingue, in Sardo e in Italiano) con una proposta-richiesta che intende presentare al Sindaco e all’Amministrazione comunale di Cagliari corredata dalle firme, che a tutt’oggi 29 maggio sono 950.

Ma ecco in estrema sintesi i punti più salienti della proposta:

1. Spostare la statua di Carlo Felice in un museo cittadino, corredandola di adeguata ed esaustiva didascalia che, con richiami bibliografici, permetta ad ogni visitatore del museo, di prendere coscienza della storia dello stesso.

2. Rinominare la strada “Largo Carlo Felice” con qualcosa che richiami un momento positivo della storia dell’Isola e della città, quale per esempio, la data del 28 aprile giorno in cui si celebra Sa Die de Sa Sardigna.

3. Sostituire la statua di Carlo Felice con altro monumento idoneo a ricordare un eroe della lotta per la liberazione del popolo sardo dalle vessazioni dei dominatori succedutisi nei secoli (per esempio Giovanni Maria Angioy i cui seguaci furono perseguitati da Carlo Felice).

4. Concordare, con le istituzioni scolastiche della città, iniziative di informazione e formazione degli studenti sulla storia della città di Cagliari così da favorire la conoscenza e la crescita del senso di identità che oggi appare debole, effimero e non consapevole.

Nella sua proposta-richiesta il Comitato parte da un dato: le gravissime responsabilità politiche della zenia dei savoia, su cui la storia ha emesso giudizi inappellabili di condanna. Per fare qualche esempio penso a Umberto I, soprannominato “re mitraglia” e, non a caso. L’8 maggio 1988 il generale Fiorenzo Bava Beccaris, in qualità di Regio commissario straordinario ordinò di utilizzare i cannoni, per la prima volta nella storia italiana, per sparare sulla folla al centro di Milano, uccidendo 80 cittadini e ferendone altri 450: una vera e propria carneficina. Il re mitraglia “ricompensa” il generale Beccaris con una bella onorificenza: prima la Gran Croce dell’Ordine militare dei Savoia: In seguito lo nominerà pure senatore. Aveva o no infatti compiuto una brillante azione militare?

Altro re savoiardo funesto è stato Vittorio Emanuele III, uno dei responsabili principali di sciagure immani: l’ingresso dell’Italia nella 1° e 2° Guerra mondiale, l’avventura tragica del Fascismo – fu lui in seguito alla cosiddetta Marcia su Roma a nominare Mussolini capo del Governo – conclusasi con una ignominiosa fuga, quando l’Italia, persa la guerra, era nel caos.

Ma il re dei Savoia più funesto – almeno per la Sardegna – è stato Carlo Felice. Di questo sovrano ottuso despota e sanguinario mi piace riportare testualmente quanto scrive Giuseppi De Nur (in Buongiorno Sardegna: da dove veniamo, Ed. La Biblioteca dell’Identità, 2013, pagina 154): ”Partito il re e lasciata l’Isola nelle mani del viceré Carlo Felice, i feudatari continuarono imperterriti a dissanguare i vassalli con l’esosità delle loro gabelle mentre il viceré oziava nella sua villa di Orri, gaudentemente intrattenuto dai cortigiani locali e d’importazione, in conflitto permanente con tutto ciò che poteva affaticarlo non solo fisicamente ma anche intellettualmente, essendo uomo di scarsa cultura che rifuggiva dagli esercizi mentali troppo impegnativi.

Il bilancio dello Stato era disastroso ma non quello suo personale, ovviamente, così che poteva permettersi di ostentare elargizioni in beneficenza con ciò che aveva riservato per sé. Fu, il suo, il governo poliziesco, sostenuto efficacemente da quelle anime nere dei feudatari, a formare un sistema di potere dispotico e predatore in danno della popolazione locale, la cui autorità si manifestava delle forche erette per impiccare i trasgressori delle sue leggi, lì imposte con la forza.

E quegli ingenui abitanti di quello sfortunato luogo innalzarono invece per lui non una forca ma una statua, in una bella città capoluogo”. Si tratta di una ricostruzione storica assolutamente veritiera e in linea con quanto scrivono storici come Pietro Martini (peraltro di orientamento monarchico): “avea poca cultura di lettere e ancor meno di pubblici negozi… servo dei ministri ma più dei cortigiani”. O Raimondo Carta Raspi, secondo cui diede carta bianca ai baroni per dissanguare i vassalli. Mentre a personaggi come Giuseppe Valentino affidò il governo: questi svolse il suo compito ricorrendo al terrore, innalzando forche soprattutto contro i seguaci di Giovanni Maria Angioy, tanto da meritarsi, da parte di Giovanni Siotto-Pintor, l’epiteto di carnefice e giudice dei suoi concittadini.

Divenuto re con l’abdicazione del fratello Vittorio Emanuele I, mira a conservare e restaurare in Sardegna lo stato di brutale sfruttamento e di spaventosa arretratezza: “con le decime, coi feudi, coi privilegi, col foro clericale, col dispotismo viceregio, con l’iniquo sistema tributario, col terribile potere economico e coll’enorme codazzo degli abusi, delle ingiustizie, delle ineguaglianze e delle oppressioni intrinseche ad ordini di governo nati nel medioevo”: è ancora Pietro Martini a scriverlo.

La proposta del Comitato “Spostiamo la statua di Carlo Felice” dovrebbe a mio parere, essere dunque capita, valutata ed eventualmente sostenuta, partendo da questi corposi e oggettivi dati storici, difficilmente contestabili perché: “De evidentibus non est disputandum”!

A decidere se spostare o meno la Statua di Carlo feroce (così, a ragione, fu soprannominato dagli stessi Piemontesi), dovrà essere la nuova Amministrazione comunale di Cagliari che verrà eletta a giorni. Avrà essa un sussulto di orgoglio e dignità o continuerà, a permettere e tollerare che in una Piazza centrale della capitale sarda troneggi, come fosse un eroe, un despota, brutale e sanguinario persecutore dei Sardi?

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* Su il manifesto sardo: http://www.manifestosardo.org/ce-spostare-statua/#sthash.y5TCFUHO.dpuf

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Dietro il monumento a Carlo Felice. Rileggiamo tutta la storia della Sardegna per aiutarci a decidere “che fare” oggi
Carlo-Feroce-con-preservativo-30-ott-12-168x300Spostare una statua crea o distrugge valore?
di Giuseppe Melis Giordano*

Premessa
Una delle accuse più ingiuste e strumentali fatte ai promotori della petizione per spostare la statua di Carlo Felice è quella in base alla quale si vorrebbe “distruggere il passato”, “cancellare la storia”, “ruspare le gesta di un tempo che non c’è più”, insomma, un gruppo di facinorosi iconoclasti.
Ebbene, niente di più falso. Questo non fa parte della cultura dei proponenti, ma forse abbiamo difettato nella comunicazione, che ha indotto in errore circa le nostre intenzioni. Pertanto ci pare doveroso provare a chiarire, ancora una volta, il nostro punto di vista (uso il plurale perché almeno nelle circa venti persone che hanno dato inizio a questa proposta, quanto sto per scrivere è ampiamente condiviso).

Il valore delle statue e la loro tutela
Le statue da sempre hanno valore celebrativo e/o di abbellimento di uno spazio, pubblico o privato. In molti casi esse hanno un valore simbolico in ciò che rappresentano.
Giuridicamente tali manufatti sono dei “beni culturali” soprattutto quando danno conto della civiltà dei tempi passati e pertanto meritevoli di tutela. Oggi per fortuna ci sono leggi che disciplinano non solo la conservazione ma anche la valorizzazione. Ne discende che quanto da noi proposto avvenga nel rispetto del Codice dei beni culturali e del paesaggio adottato dallo stato italiano (http://www.sbapge.liguria.beniculturali.it/index.php?it/165/codice-dei-beni-culturali-e-del-paesaggio-testo-integrato). In particolare il comma 2 dell’articolo 2 del citato Codice sostiene che:
“Sono beni culturali le cose immobili e mobili che, ai sensi degli articoli 10 e11, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà.”
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L’ alato paradigma

Ministero TrastevereFiammate di futurismo al palazzaccio di Trastevere. Desse per caso ebbrezza aver finestre sopra cupole romane?
di Gigi Monello

Il fatto: lo scorso Dicembre, finite le spossanti nottate della 107, il capo-segreteria tecnica della ministra, emette seguente cogitativo, “Stiamo facendo una follia, una lucida follia (…). Il momento per fare il cambio di paradigma è questo: ora o mai più. Non si parte mai quando si è pronti al 100%, perché altrimenti non si fa mai nulla”. Pare D’Annunzio in partenza per Vienna. È invece Luccisano, 33 anni, laurea in Scienze internazionali e diplomatiche, specialista in “innovazione”, esperienze al Ministero degli esteri, ENEL e Confindustria. Insomma, un predestinato. Sta parlando di uno dei pilastri della “buona scuola”, la cosiddetta alternanza scuola-lavoro. La macchina è pronta, indietro non si torna; i risultati arriveranno; in Campania, ad esempio, dove 13 istituti superiori – mille alunni – si apposteranno attorno all’area archeologica di Pompei: quelli dell’Agrario cureranno il verde; i liceali compileranno cataloghi digitali e assisteranno turisti.
Chissà a cosa mai potrà servire ad un futuro ingegnere, avvocato o urologo, aver catalogato antichità e accompagnato turisti. Mistero. Ma son dubbi da semplicioni. Ciò che importa è innovare.
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ITS TAGSS (Trasformazione agroalimentare sostenibile Sardegna), Tecnici della trasformazione agroalimentare

ITS SS UNO 18 5 16Comunicato stampa (a cura del Comune di Sassari)
Parte a Sassari il primo corso ITS per Tecnici della trasformazione agroalimentare. Inizierà il primo settembre il corso, destinato a 25 diplomati, della durata di 2 anni che formerà tecnici con un ruolo innovativo nel sistema produttivo sardo: la figura è infatti quella del “caporeparto del futuro”, in grado di coniugare l’esperienza pratica del tecnico di linea con le competenze per gestire le differenti funzioni aziendali. La scelta di questo percorso formativo discende da un approfondito lavoro di indagine, condotto dal Comitato tecnico scientifico della Fondazione ITS presso 30 aziende di trasformazione agroalimentare, afferenti alle diverse filiere presenti in Sardegna. Attualmente in Italia sono presenti 86 ITS, di 6 diverse aree tecnologiche, distribuiti strategicamente sul territorio nazionale. L’ITS TAGSS (Trasformazione agroalimentare sostenibile Sardegna) appartiene all’area del made in Italy, è una scuola di eccellenza ad alta specializzazione tecnologica, realizzata secondo il modello organizzativo della Fondazione di partecipazione in collaborazione con impresa, università, enti locali, sistema scolastico e formativo. La finalità dell’ITS è infatti quella di formare un tecnico con alta specializzazione tecnologica per un inserimento qualificato nel mondo del lavoro, assicurato dal legame tra istruzione, formazione e lavoro, dalla didattica esperienziale, dagli stages in azienda, dal 50% dei docenti provenienti dal mondo del lavoro. Una grande opportunità per i nostri giovani.
- Iscrizioni entro il 1 giugno 2016 presso lTS Filiera agroalimentare della Sardegna via Bellini 5 Sassari tel. 079243456 info@tagss.it – www.tagss.it – segue –

Il Meridione e la Sardegna «le» risorse per arrestare e superare il declino del Paese Italia

29 apri 16  Faddalampada aladin micromicroLa Sardegna viene spesso omologata all’interno dell’insieme più vasto del Meridione d’Italia, perdendosi così la sua specificità, sia per quanto riguarda i peculiari aspetti positivi, ma anche per quanto riguarda quelli negativi. Entrambi la rendono “unica”. Tuttavia vi sono numerosi aspetti comuni tra tutte le regioni del Meridione d’Italia che autorizzano l’assunzione dello stesso come unico oggetto d’analisi, rendendo pertanto sostenibili studi e proposte di carattere generale, che non pregiudicano la necessità di interventi specifici e differenziati per la Sardegna rispetto alle altre regioni meridionali. Pietro Greco, nelle riflessioni che avanza sull’ultimo numero del quindicinale Rocca (09, 1 maggio 2016), si occupa del Sud nel suo complesso, condividendo la tesi del presidente dello Svimez, Adriano Giannola, secondo cui “… il Sud sia una «risorsa», anzi sia «la» risorsa per la ripresa dell’intero Paese”. Riaffermando, come fanno pochi “la amico di ... Paolo Faddacentralità” della «questione meridionale». Questo dibattito – certo presente in Sardegna e in Italia – è tuttavia allo stato del tutto inadeguato rispetto all’importanza delle questioni in ballo. Al riguardo, per pertinente collegamento: ben vengano per questa finalità di ampliamento e approfondimento le iniziative come quella tenutasi ieri 29 aprile a Cagliari in Confindustria in occasione della presentazione del libro di Paolo Fadda “L’amico di uomini potenti” (Carlo Delfino Editore), su cui contiamo di tornare, anche ospitando rielaborazioni degli interessanti interventi che hanno animato il dibattito e che sono stati sacrificati dal tempo tiranno e dal protagonismo del conduttore Giacomo Mameli (a dire il vero giustificato dalla sua competenza ed esperienze professionali in materia). Ci piacerebbe pertanto che su questa news apparissero gli interventi di Antonio Sassu, di Roberto Mirasola, di Gianni Loy, di Franco Farina, di Marco Santoru, di Lucetta Milani, di Francesco Marini, di Carlo Delfino e degli altri intervenuti dei quali c’è sfuggito il nome. Come un tempo quando i quotidiani riportavano nei giorni successivi i dibattiti tenutisi nelle relative diverse occasioni d’incontro, ampliandoli e rilanciandoli. Oggi ne avremo particolare necessità.

SUD D’ITALIA
Come costruire il futuro

di Pietro Greco, su ROCCA 1 maggio 2016

C’è chi dice che il Mezzogiorno deve dedicarsi solo e unicamente al turismo e diventare la Florida d’Italia. C’è, al contrario, chi sostiene che deve accettare di tutto, dalle trivelle in Basilicata e l’Ilva a Taranto, anche a costo di rischiare un po’ di più in termini di ambiente e di salute. Inutile dire che le due ricette, specularmente opposte, per rilanciare il Mezzogiorno non tengono. E non solo perché, da un lato, nessun Paese al mondo vive di solo turismo e, dall’altro, perché le vecchie industrie inquinanti sono, appunto, vecchie e, dunque, fuori mercato. Ma anche e soprattutto perché nessuna delle due ricette tiene conto che viviamo nell’era (certo un bel po’ disordinata) della conoscenza e che per essere competitivi non basta mettere due ombrelloni al sole e neppure produrre del buon acciaio. Per essere competitivi occorre produrre beni e (e, si badi bene, non o) servizi hi-tech, con un alto tasso di conoscenza e di sostenibilità ambientale incorporato.

un grido di allarme

Eppure un merito, queste grida poco fondate – fate turismo! accontentatevi di ospitare vecchie industrie! – ce l’hanno: contribuiscono a rompere il muro dell’attenzione che da troppi anni avvolge e quasi stritola il Mezzogiorno. Costringono a pensare il futuro del Sud.

Per la verità, il merito principale di questo ritorno di attenzione sul destino del Meridione è dovuto quasi per intero al «grido di dolore» che l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno (Svimez) ha lanciato con il suo ultimo rapporto: il Sud è alla deriva. Il distacco delle regioni meridionali dal resto d’Italia e d’Europa è ormai enorme. Tanto che qualcuno sostiene sia al limite della irreversibilità. Dovesse continuare questa condizione, scrive il Presidente di Svimez, Adriano Giannola, in un libro di cui parleremo tra poco: tra pochi anni, nel 2040, ci accorgeremo che il Mezzogiorno è svanito, «senza clamore, per eutanasia».

Ben vengano dunque le grida, quelle infondate ma soprattutto quelle fondate, perché rompere il trentennale silenzio sulla irrisolta «questione meridionale» è condizione necessaria per evitare la morte in un «flebile lamento» del Mezzogiorno d’Italia.

Condizione necessaria, ma purtroppo non sufficiente. Non basta essere consapevoli e persino gridare che il re è nudo. Occorre anche rivestirlo e restituirlo alle sue funzioni. Occorre, fuor di metafora, un piano che eviti al Mezzogiorno il suo triste destino. Occorre riproporre in termini nuovi l’antica «questione meridionale». Molti osservatori nei mesi scorsi – da Eugenio Scalfari su Repubblica a Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera – hanno suggerito, in maniera più o meno esplicita, questa seconda necessità. Ma pochi l’hanno declinata. Pochi hanno indicato la strada possibile per evitare che il Mezzogiorno prosegua nella sua deriva.

non un peso ma una risorsa

GIANNOLA_libro SudAdriano Giannola, invece, ha scritto un libro in cui non solo denuncia il colpevole silenzio sulla deriva del Mezzogiorno, ma indica anche la strada per riprendere la rotta verso un porto sicuro. Il libro si intitola, un po’ a sorpresa, Sud d’Italia. Una risorsa per la ripresa (Salerno Editrice, Roma 2015, pagg. 108, euro 8,90) e dopo un’efficace ricostruzione storica dell’origine e dell’evoluzione del dualismo tra Settentrione e Meridione d’Italia indica come «costruire il futuro».

Adriano Giannola guarda al Sud non solo come a un pezzo d’Italia alla deriva, ma anche come a una risorsa per la ripresa dell’intero Paese. È piuttosto significativo che questa visione non sia stata sottolineata neppure da Scalfari e da Galli della Loggia. Questa differenza segna il grado di consapevolezza, non esaltante, che anche gli intellettuali italiani più acuti hanno oggi del problema.

un Sud blocca Nord?

C’è, tra questi intellettuali avvertiti, chi pensa che il Sud sia il vagone piombato di un treno-Paese che impedisce alla locomotiva, il Nord, di correre a briglia sciolta. Adriano Giannola ne cita uno autorevole, come Massimo Cacciari, che pone la «questione settentrionale» in questi termini: «il peso che il Nord deve sostenere per i conti generali del Paese è un dato oggettivo [...] perché lì ‘al Sud’, una grande fetta dell’economia è in mano alla criminalità [...]. O si ricomincia dalla locomotiva o non c’è ripresa. Mica i vagoni possono portare avanti il Paese [...] e allora cerchiamo di non strozzare la gallina». In altri termini, risolviamo la «questione settentrionale» e poi, vedrete, anche il Sud sarà trascinato verso lo sviluppo.

C’è chi pensa che le due questioni, quella settentrionale e quella meridionale, siano collegate e che siano aspetti di una più generale «questione Italia». Anche se poi stentano a definire cosa sia questa «questione italiana».

Ma pochi sostengono – come fa Giannola nel suo libro – ©. E, dunque, pochi affermano la centralità della «questione meridionale».

Nel suo libro, come abbiamo detto, Adriano Giannola ripercorre la storia del dualismo Nord/Sud, con rapide ma efficacissime pennellate. Torneremo in un altro momento su questa ricostruzione, illuminante. Prendiamo in considerazione, ora, la parte di analisi che riguarda il presente e la parte progettuale: come costruire il futuro. Il futuro dell’Italia, beninteso, non solo della sua parte meridionale alla deriva.
L’analisi lega alcuni fatti.
1. La «questione italiana» non è contingente e non nasce con la crisi finanziaria mondiale del 2007. L’Italia è in una fase di declino relativo, che secondo Giannola dura da vent’anni e secondo noi da almeno trenta. Sono due, anzi tre, decenni pieni che l’Italia corre meno degli altri Paesi europei, per non parlare di quella dozzina di Paesi cosiddetti a economia emergente dell’Asia sud-orientale (Cina in testa) e di altri paesi sparsi in America Latina e persino in Africa e nel Medio Oriente dilaniato da infinite guerre.
2. La crisi italiana è strutturale. E ha origine nella specializzazione produttiva del sistema Paese. La nostra specializzazione produttiva è nei beni a media e bassa tecnologia e nei servizi a medio e basso tasso di conoscenza aggiunto. Con la cosiddetta «nuova globalizzazione» e l’entrata sulla scena dell’industria e del commercio mondiale di Paesi con un basso costo del lavoro, il modello di produzione italiano, da alcuni definito «senza ricerca», è entrato inevitabilmente in crisi.
3. La risposta del sistema Italia alla «nuova globalizzazione» è stata ed è tuttora miope. Si è pensato di conservare il vecchio modello produttivo e di accettare la sfida dei Paesi meno avanzati cercando di agire sul costo del lavoro (stipendi minori, maggiore flessibilità, erosione dei diritti) invece di cercare di cambiare specializzazione produttiva e accettare la sfida dei Paesi più avanzati nei settori a maggior tasso di conoscenza aggiunto. Gli effetti di questa scelta, messi in luce da Giannola, sono stati devastanti: sul piano economico hanno prodotto la desertificazione industriale del Mezzogiorno e la diminuzione del mercato interno, determinando un avvitamento della crisi; sul piano sociale e politico hanno prodotto una «narrazione artefatta e consolate»: l’idea che il rallentamento del treno Italia fosse prodotto dal Sud incapace e in mano alla criminalità. Di qui una serie di politiche tese a «sganciare» il vagone piombato, abbandonandolo al suo destino, e a «liberare» la locomotiva del Nord.

4. Queste politiche hanno prodotto un avvitamento della crisi. Il Sud è diventato un deserto industriale, il reddito è stato attaccato, la povertà è aumentata, l’ambiente si è degradato, i giovani (i pochi giovani) laureati o comunque qualificati sono emigrati. Nel medesimo tempo le aziende del Nord hanno non solo tenuto a fatica il passo con quelle dei Paesi di nuova industrializzazione, ma hanno assistito alla caduta del mercato interno.

come interrompere la crisi

Come si interrompe questa crisi che si è avvitata su se stessa? Adriano Giannola propone una ricetta – un piano industriale – che solo agli occhi di chi non ne ha compreso la natura appaiano spiazzanti. a) Capire finalmente che siamo entrati nella società della conoscenza. E che solo la capacità di competere nei settori ad alto tasso di conoscenza (scientifica ma anche non) può rilanciare la nostra economia. b) Considerare il Sud non come il vagone piombato del treno Italia, come un pozzo senza fondo che assorbe le ricchezze prodotte al Nord (analisi che, peraltro, non ha fondamento alcuno), ma come «la» risorsa per la ripresa.

c) Giannola individua anche tre settori in cuiilrilanciodegliinvestimentialSudpuò tradursi in un fattore importante di ripresa per l’intero Paese: il settore energetico; la logistica a valore; il territorio.

Cop 21, la recente Conferenza delle Parti che hanno sottoscritto la Convenzione delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici tenuta a Parigi, ha ormai dichiarato irreversibile la transizione dai combustibili fossili alle fonti di energia rinnovabili e carbon free. Ne deriva che non le trivelle della Basilicata, ma il solare, l’eolico, la geotermia sono le fonti del futuro. E il Sud d’Italia è nella condizione di produrre energia da queste fonti, regalando all’intero Paese una maggiore autonomia energetica.

Il Mezzogiorno d’Italia è un grande porto al centro del Mediterraneo, ovvero del mare a più alta intensità di traffico commerciale del mondo. Con l’ampliamento del Canale di Suez il traffico navale nel Mediterraneo è destinato ad aumentare. In particolare sono destinati a aumentare i traffici con Cina e India. Il Mezzogiorno, lavorando con un’ottica sistemica, può (anzi, deve) proporsi come snodo principale di questi traffici.

primo: rigenerazione

Giannola ritiene, infine, che la rigenerazione urbana ed ambientale sia la terza opportunità per il Mezzogiorno. Rigenerazione significa rilancio di un’edilizia di qualità e non di quantità; ma anche nuova industrializzazione (industrie della conoscenza); difesa del territorio (dal dissesto idrogeologico; dal rischio sismico e vulcanico); valorizzazione non dei giacimenti (conservazione passiva) ma delle fucine culturali: facciamo sì che la tutela integrale dei beni archeologici, per esempio, diventi occasione di nuovi lavori ad alto tasso di creatività.

Le città meridionali nel primo decennio del XXI secolo hanno perso il 3,3% della popolazione, mentre quelle del Nord hanno fatto registrare un incremento del 4,8%. Un’ulteriore sintomo del malessere e del depauperamento economico e culturale del Mezzogiorno. Siano le città del Sud il centro di una nuova industria, di un nuovo «piano del lavoro» che comprenda e integri l’intero territorio.

Se tutto questo avvenisse, il Sud potrebbe portare anche il Nord fuori da quella condizione di declino che interessa l’Italia intera, sia pure con modalità diverse, da trent’anni.

È dalle risposte che la classe dirigente nazionale (politica, ma non solo politica) ma anche europea saprà dare alle domande poste dalla «questione meridionale» sapremo, conclude Giannola, «come sarà, se ci sarà, questa nuova Italia». Perché oggi più che mai è valido l’ammonimento di Giustino Fortunato: «il Mezzogiorno, sappiatelo pure, sarà la fortuna o la sciagura d’Italia!».

Pietro Greco

rocca 09 1 mag 16

Rocca – Cittadella 06081 Assisi
e-mail rocca.abb@cittadella.org

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