Monthly Archives: dicembre 2017

Oggi sabato 23 dicembre 2017

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chiesa_santagostino_e_cripta_d02SA NOVENA DE PASCH’E NADALE 2017, dae su 16 a su 24 de custu mese, donnia die, in sa cresia de Sant’Austinu (via Bayle). Il testo della ‘Novena de Pasch’e Nadale’ si legge nel sito della Fondazione Sardinia alla voce PUBBLICAZIONI. Puoi seguire nello stesso sito anche la novena del 2010 in video ed apprendere musica e canzoni alla voce VIDEO.
- Approfondimenti.
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democraziaoggi loghettoPer Madrid e Barcellona non è tutto come prima
23 Dicembre 2017
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
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radici_smallSOCIETÀ E POLITICA » TEMI E PRINCIPI » SINISTRA
Una sinistra radicale, non vuol dire estremista ma anticapitalista
di PIERO BEVILACQUA su eddyburg
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La caduta delle tutele dei lavoratori è inarrestabile? Qualche segnale di inversione, come in un glorioso passato “dal silenzio alla parola”

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Il baraccone

di Gianni Loy
Sembra cronaca. Ma potrebbe essere storia. Una storia che, ripetendosi, riporta alla mente i corsi ed i ricorsi di vichiana memoria.
La cronaca di questi giorni ci informa che la potente Ryanair, dopo l’ultima offensiva dei suoi piloti ed assistenti di volo, ha capitolato. Almeno nel senso che, dopo le ripetute minacce nei confronti dei dipendenti che avessero osato scioperare, ha riconosciuto il sindacato: siederà al tavolo delle trattative.
Amazon, al contrario, continua a rifiutarsi di trattare con i lavoratori che, però, hanno deciso di incrociare le braccia e di organizzarsi sindacalmente.
Sono soltanto i fatti più recenti, e più eclatanti, delle ultime settimane che lasciano intravedere qualche elemento di rottura rispetto al progressivo peggioramento delle condizioni di lavoro e del trattamento retributivo cui si assiste, a volte persino con rassegnazione, ormai da anni.
E’ accaduto che nella gerarchia dei valori degli Stati e delle organizzazioni sovranazionali (per fortuna non tutte poiché l’Oil (Organizzazione Internazionale del Lavoro) ed il Consiglio d’Europa, (da non confondersi con l’Unione europea) remano in altra direzione, ai diritti dell’impresa viene riconosciuta sempre maggiore importanza nella gerarchia dei valori. Allo stesso tempo, i diritti fondamentali della persona, soprattutto quelli legati allo status di lavoratore, e quelli connessi con l’attività sindacale (organizzazione collettiva, sciopero) vengono retrocessi ad un ruolo subalterno rispetto alla libertà d’impresa ed alla libertà di circolazione di merci e lavoratori, orami collocati sullo stesso piano.
Dal punto di vista sociale, siamo in presenza di un conclamato fenomeno di pauperizzazione che esalta l’acuirsi dei divari, concentra il potere nelle mani di pochi, all’interno di uno scenario ormai privo di confini, e vede ridursi il potere della politica ad amministratrice degli interessi di quanti detengono il potere.
Le organizzazioni che, tradizionalmente, avevano favorito l’affermarsi dei diritti di quella composita associazione di movimenti, che si ispiravano alla classe operaria, sono state ridotte al silenzio, eppure hanno contato, e come, nella storica affermazione dei diritti dei lavoratori, penetrati nel cuore della legislazione degli Stati civilmente più evoluti. Diritti che, laddove incardinati nel sistema giuridico, sono stati gradualmente depotenziati, se non abrogati, in nome della nuova religione iperliberista cresciuta tra le macerie del muro di Berlino.
Il silenzio, in questi ultimi anni, non è stato assoluto. Tuttavia, ciò che prima era rappresentato da partiti di massa, oggi è nelle mani di formazioni assai più limitate, (che, in ogni caso, della storia del movimento operaio mantengono pervicacemente, la vocazione alla frammentazione). Organizzazioni, in definitiva, paragonabili piuttosto alle avanguardie che alle organizzazione di massa.
L’organizzazione capitalista, facendo tesoro delle nuove tecnologie, sia in senso materiale che organizzativo, ha resuscitato la plebe, le masse sfruttate ed incapaci di reazione, oggi costituite soprattutto dallo sterminato esercito di precari. Si tratta di lavoratori nuovamente esposti al rischio di perdere in qualunque momento la fonte di sussistenza ed esposti perciò al ricatto che, allo stesso tempo, costituiscono il nerbo di un novello esercito di riserva.
Hanno ripreso ad espandersi gli spazi dell’assistenza e della beneficienza, sia quelli organizzati dallo Stato, sia quelli, spontanei, che fioriscono dai buoni intenti di chi ancora pensa che tutti, indipendentemente dalla proprie condizioni, abbiano diritto ad una vita dignitosa.
E poiché lo Stato non è più in grado, non può o non vuole, farsi carico delle nuove povertà, ecco che fioriscono, soprattutto sotto l’egida delle organizzazioni religiose, le iniziative di contrasto contro le povertà estreme.
Tornano alla mente i tempi nei quali l’assistenza non era ancora entrata a far parte dei doveri istituzionali dello Stato, dei tempi nei quali, prima che incominciasse la storia del movimento operaio, solo la carità provvedeva a alleviare le pene di un proletariato sfruttato senza ritegno.
Sono molti, in definitiva, gli elementi di similitudine tra il clima della prima rivoluzione industriale e quello che ci introduce alla quarta rivoluzione industriale, quella delle intelligenze artificiali e della robotica.
In comune la distribuzione del rischio che, allora come, oggi, ricade prevalentemente sul lavoratore. E’ il lavoratore, infatti, che poteva, e può, esser facilmente espulso dal processo produttivo tutte le volte che la sua prestazione non risulti conveniente per il datore di lavoro. In comune la subordinazione personale, oggi paludata sotto forma di evanescenti tipologie contrattuali che, equivocamene intitolate all’autonomia, annullano, di fatto, ogni libertà individuale.
In comune l’avversione per le forme associative: allora, costituire un sindacato o scioperare poteva persino costituire un reato. Oggi non si arriva a ciò, ma i lavoratori, e non soltanto quelli precari, sono sempre più esposti al rischio, o al ricatto, di perdere qualche beneficio, o persino il posto di lavoro, par l’affiliazione ad un sindacato o per il solo fatto di aderire ad uno sciopero.
Oggi, come allora, è ancora una volta la Chiesa, un Papa, che leva la propria voce a difesa della dignità del lavoro e dei lavoratori, ed ancor più delle lavoratrici.
Oggi come allora, quando gli Stati proclamavano la loro estraneità rispetto al fenomeno e pretendevano che fosse regolato soltanto dal diritto civile: laissez faire, lasciate passare, gli Stati si ritraggono progressivamente dall’impegno (talvolta esplicitamente assunto in sede costituzionale) di “immischiarsi” nelle vicende del lavoro per limitare il potere eccessivo della parte forte del rapporto di lavoro.
Certo, si diceva, e si ripete, l’importante è che il rapporto sia regolato da un contratto. Mi vengono alla mente le parole di un dipendente di Amazon: come potrei realmente contrattare, da solo, le condizioni del mio contratto di lavoro, avendo di fronte a me, come controparte, l’uomo più ricco del mondo?
Queste contraddizioni, queste difficoltà, i lavoratori del secolo scorso le hanno affrontate e superate, grazie alla capacità di auto organizzarsi, riunirsi in sindacato, intraprendere forme di lotta che, gradatamente, sono state capaci di controbilanciare lo strapotere padronale.
Nella cronaca di questi giorni trova anche qualche similitudine positiva. Quelle masse di lavoratori precari che sembravano destinati a chinare la testa per sempre a costituire la nuova plebe del XXI secolo, danno segni di ribellione, incominciano ad organizzarsi. Non importa se sotto l’egida dei sindacati storici o di altre organizzazioni, incominciano ad organizzarsi ed a porre in essere forme di lotta, riscoprono la tradizionale arma dello sciopero che, piaccia o non piaccia, continua a costituire, in molti casi, uno dei pochi strumenti di lotta efficaci.
Proprio come nel passato, incominciano ad individuare i punti deboli della controparte. Riprendono a sollecitare l’attenzione di una opinione pubblica distratta, cioè dei consumatori. Chiedono la parola. Aspirano a ripetere quel processo di affrancamento che la classe operaia ha posto in essere proprio passando “dal silenzio alla parola”, secondo l’efficace sintesi di un acuto osservatore della storia operaia e sindacale (Le Goff).
La decisione di Ryanair di accettare il confronto con i sindacati, o meglio la capacità dei piloti ed assistenti di volo di riuscire ad imporglielo, ha un grande valore simbolico. Potrebbe trattarsi (unitamente ad analoghi segnali provenienti da una nuova classe di sfruttati che sembrava incapace di ribellione) dell’avvio di un nuovo processo di affrancamento, di un “ricorso storico”.
Non tragga in inganno il fatto che gli artefici siano i piloti, categoria un tempo costituita da previlegiati in possesso grande forza contrattuale. Oggi non lo sono più. In ogni caso, anche caso gli inizi della storia, le categorie più professionalizzate, quelle dotate di forza contrattuale, hanno dato un fondamentale contributo alle conquiste della classe operaia.
Una piccola, grande conquista, che ci fa credere, e ci fa sperare, che un popolo che da sempre sta sulla breccia, calpestato e diviso, fottuto e deriso, sia capace di buttarsi, non a testa bassa ma a testa alta, per mandare all’aria il baraccone, più moderno, tecnologicamente più avanzato, ma sempre baraccone.

Gianni Loy

auguri!

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Oggi venerdì 22 dicembre 2017

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chiesa_santagostino_e_cripta_d02SA NOVENA DE PASCH’E NADALE 2017, dae su 16 a su 24 de custu mese, donnia die, in sa cresia de Sant’Austinu (via Bayle). Il testo della ‘Novena de Pasch’e Nadale’ si legge nel sito della Fondazione Sardinia alla voce PUBBLICAZIONI. Puoi seguire nello stesso sito anche la novena del 2010 in video ed apprendere musica e canzoni alla voce VIDEO.
- Approfondimenti.
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democraziaoggi loghettoRichard Rorty aveva predetto il voto a ”un uomo forte” e la crisi della sinistra
22 Dicembre 2017

Antonio Sgobba da Il Tascabile 19.12.2017, riproposto da Democraziaoggi.
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Addio a Vincenzo Pillai

luttoLo ricordiamo affettuosamente con le sue “sconsiderate” parole su se stesso. Addio Vincenzo, militante generoso sempre e comunque sulle barricate a difendere le persone, i lavoratori e gli ultimi della società, sostenuto da ideali indistruttibili. Condoglianze e vicinanza alla figlia Sara e a tutti coloro che lo hanno conosciuto e che gli hanno voluto bene lampadadialadmicromicro133.
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addio-a-vincenzo-pillaiVincenzo Pillai così scriveva alcuni giorni fa sulla sua pagine fb.
“Se domenica 17 potessi andare all’assemblea di Roma direi così:
SONO PAZZO
SONO UNO di quelli che non cedono alla disperazione e alla rassegnazione, che non sopportano di vivere in una società sempre più incattivita, triste, impoverita e ingiusta. LAVORO ogni giorno, in comitati, associazioni, centri sociali, partiti e sindacati, nei quartieri, nelle piazze o sui posti di lavoro, per contrastare la disumanità dei nostri tempi, il cinismo del profitto e della rendita, le discriminazioni di ogni tipo, lo svuotamento della democrazia.
SONO PAZZO E SONO SARDO, devo liberarmi dal colonialismo dello stato italiano, dall’imperialismo di trump e soci, dallo strapotere delle multinazionali e da tutti gli dei antichi e moderni. Sono proprio pazzo ma sono VIVO e non riusciranno a guarirmi, non riusciranno ad uccidermi perché NON SONO SOLO”
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Vincenzo Pillai
21 Dicembre 2017
Su Democraziaoggi.
Non poteva succedere diversamente. Ho saputo della scomparsa di Vincenzo mentre parlavo con un compagno delle attività prossime venture del Comitato d’iniziativa costituzionale e statutaria, e ho fatto il suo nome. Perché Vincenzo è stato protagonista di tutte le lotte per la pace, la democrazia e l’uguaglianza di questo ultimo mezzo secolo in Sardegna […]
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vpillai

Oggi giovedì 21 dicembre 2017

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chiesa_santagostino_e_cripta_d02SA NOVENA DE PASCH’E NADALE 2017, dae su 16 a su 24 de custu mese, donnia die, in sa cresia de Sant’Austinu (via Bayle). Il testo della ‘Novena de Pasch’e Nadale’ si legge nel sito della Fondazione Sardinia alla voce PUBBLICAZIONI. Puoi seguire nello stesso sito anche la novena del 2010 in video ed apprendere musica e canzoni alla voce VIDEO.
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Scuola-Lavoro, dovere scolastico o sfruttamento obbligato?
21 Dicembre 2017

Gianna Lai su Democraziaoggi.
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Domani

iares-2017- L’evento in fb.

Per una critica in profondità alle attuali politiche sociali sulla base di un possibile diverso modello di riferimento

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Dal welfare attivo al welfare condizionale*

di Remo Siza**

1. Verso un modello unico di welfare
La cultura e l’operatività delle politiche di welfare stanno cambiando. I cambiamenti che sono avvenuti in questi anni oramai coinvolgono il sistema dei servizi alla persona nella sua interezza e buona parte dei servizi di welfare, coinvolgono quelle differenti sfere di azione e di vita che abbiamo imparato a valorizzare o a porre in discussione sin dalle prime ricerche e studi sul welfare mix: è cambiato il ruolo delle famiglia ed è cresciuta a dismisura la sua capacità di compensazione, è cambiato il ruolo e la consistenza della rete locale dei servizi, gli effetti delle prestazioni monetarie erogate direttamente dallo Stato, il ruolo del terzo settore, i processi di legittimazione e di riconoscimento del privato. Le politiche di welfare sono cambiate anche nelle rappresentazioni e nella percezione collettiva e ora il senso di quello che fanno le persone che operano nel sociale è sempre meno riconosciuto e valorizzato. Il welfare emergente riattualizza distinzioni che operatori e cittadini avevano reso obsoleti, quella tra poveri ritenuti meritevoli (deserving poor), vittime incolpevoli di circostanze e di crisi di carattere collettivo; e poveri i cui valori e comportamenti moralmente riprovevoli (undeserving poor) sono ritenuti la causa primaria del loro stato. Su questa base si differenzia la qualità delle prestazioni di welfare e si valuta il senso degli interventi e degli operatori sociali che li erogano. Il neoliberismo orienta per molti aspetti le possibili scelte e i valori sociali: ora non è più soltanto una concezione politica ed economica da condividere o a cui contrapporsi, ma è diventata una parte non secondaria del nostro senso comune, del nostro modo di osservare e di valutare le azioni e i comportamenti degli altri, delle persone in difficoltà
Le politiche di welfare sono tradizionalmente finalizzate a proteggere le persone dai rischi sociali della società industriale (prima modernità), come la disoccupazione, la malattia, la vecchiaia, la disabilità, e dai nuovi rischi delle società della seconda modernità quali la precarietà, la non autosufficienza, la fragilità delle reti primarie, le difficoltà crescenti che le persone incontrano nel conciliare la vita lavorativa con la vita familiare. Allo stesso tempo, le politiche di welfare intendono operare anche in una secondo versante, con una logica di investimento sociale che sposta l’asse delle politiche sociali dal presente al futuro (Morel et all. 2012), con politiche di attivazione finalizzate alla crescita delle persone e delle famiglie, della loro capacità di creare relazioni di benessere e di cura, alla prevenzione dei rischi connessi ai cambiamenti occupazionali; all’acquisizione di capacità di lavorare insieme per scopi comuni, di associarsi e di partecipare alle scelte collettive.
Per quanto riguarda il primo obiettivo le assenze sono numerose: troppi rischi sociali accompagnano le scelte individuali di vita che riguardano il lavoro, il reddito, la malattia, la maternità e in questo ultimo decennio molte tutele di welfare si sono ulteriormente indebolite. Sul versante dei processi di attivazione e di investimento sociale, l’arretramento è per certi versi ancora più significativo: la capacità delle politiche di welfare di operare nelle comunità, di valorizzare le competenze delle persone, di investire sull’infanzia e su politiche familiari, di creare valori comuni e nuove forme associative, si sono ridotte ulteriormente. Il riferimento del welfare italiano è diventato il modello adottato da molte nazioni europee in cui il sistema pubblico convive con un sistema privato molto dinamico e finanziato prevalentemente da fondi sanitari, fondi pensionistici, welfare aziendale, un modello che rafforza il ruolo dei soggetti privati che storicamente hanno avuto in Italia un ruolo marginale.
I welfare europei stanno andando in questa direzione attenuando sensibilmente le differenze tra i vari sistemi nazionali. Ciò che sta emergendo in Europa, sostanzialmente, è una sorta di modello unico di welfare, una configurazione che possiamo definire “ibrida” o “mista” che combina, in termini ritenuti finanziariamente più sostenibili, modalità d’intervento storicamente privilegiate dai sistemi di welfare liberale con modalità dei sistemi di welfare socialdemocratico, limitate risorse pubbliche e crescenti risorse private. Le risposte ai nuovi rischi sociali sono cercate nel proporre nuove soluzioni economiche di mercato o nuovi interventi pubblici. Tutto quello che è al di fuori di questa combinazione è ritenuto insignificante.

2. La crescente dualizzazione
Il sistema di welfare che si sta consolidando in Europa, tende a non riconoscere la rilevanza di risorse e relazioni di cura che si sviluppano nella famiglia, con minor frequenza promuove azioni per valorizzare le relazioni informali. Per rispondere ad una crescente domanda di servizi e prestazioni in una epoca in cui le risorse pubbliche diminuiscono, la soluzione diventa un utilizzo massic-cio di risorse private. Le relazioni intersoggettive non si ritiene che possano integrare, modificare le combinazioni tra stato mercato, ciò che accade in que-sta sfera di vita è sostanzialmente irrilevante per l’organizzazione dei servizi di welfare: si dà per scontato che la famiglia e le relazioni di aiuto informali si stiano indebolendo e che nulla possa essere fatto per invertire questa deriva. Si ragiona con una logica sostitutiva: nuovi modi di creare sostegno reciproco, di socialità, le innovative forme di domiciliarità e di abitare leggero che si stanno rapidamente diffondendo, non sono riconosciute nella loro rilevanza, non si avviano azioni per valorizzarle e sostenerle, ma per sostituirle con più consistenti e stabili risorse di mercato.
Il risultato complessivo di queste concezioni del welfare è il rafforzamento di alcuni principi, modi di intendere, valori, che chi opera nel sociale contrasta e stenta a riconoscere come propri, ma che nel loro insieme rischiano di diventare il nuovo quadro di riferimento delle politiche sociali.
Il modello emergente è un welfare dualizzato, in cui la maggioranza delle famiglie potrà contare su un sistema pubblico universalistico sempre meno efficiente e che garantisce una copertura dei rischi sempre meno estesa. Le famiglie con redditi e condizioni lavorative soddisfacenti potranno integrare le prestazioni pubbliche con assicurazioni private e con ulteriori benefici, quali il welfare aziendale, derivanti dalla loro posizione lavorativa. Le altre famiglie, invece, inevitabilmente potranno accedere in termini molto limitati alle prestazioni private. Il modello di riferimento delle trasformazioni auspicate da molte forze politiche e sociali è quello adottato da anni da molte nazioni europee in cui il sistema pubblico convive con un sistema privato molto più dinamico di quello italiano e finanziato prevalentemente da fondi assicurativi.
In Italia storicamente la dualizzazione del welfare ha riguardato essenzialmente soltanto due ambiti d’intervento: la protezione dalla perdita del lavoro e il sistema pensionistico. Per quanto riguarda il mercato del lavoro, le protezioni sono state sempre molto differenziate tra gli insiders – i dipendenti pubblici, i lavoratori delle grandi imprese ed alcuni settori dell’industria – e gli outsiders – gli occupati in piccole imprese, nel settore edile, nel commercio, una parte considerevole dei lavoratori autonomi – che ricevono misure di sostegno molto basse in caso di disoccupazione. Il sistema pensionistico non ha svolto storicamente una funzione redistributiva e si è limitato a riproporre queste distinzioni differenziando significativamente le prestazioni economiche garantite e avvantaggiando le categorie occupazionali più protette dai rischi di disoccupazione.
Ora la dualizzazione è diventata un principio sulla base del quale si riorganizzano tutti gli ambiti di vita (una differenziazione nel sistema dei trasporti dall’alta velocità ai treni dei pendolari, nell’organizzazione degli spazi urbani, nello sviluppo economico di aree territoriali differenti) e si costruisce una società dinamica e moderna, senza alcuna preoccupazione sulle troppo estese disuguaglianze e separazioni che inevitabilmente contribuisce a creare.

3. La rilevanza delle politiche di controllo
Nelle strategie emergenti nei welfare europei, il welfare attivo si trasforma in un welfare condizionale in cui le relazioni di cura perdono rilevanza e prevalgono politiche di controllo nelle prestazioni di welfare, l’accesso ai servizi dipende dal comportamento responsabile del beneficiario. I beneficiari che non si comportano in modo responsabile (hanno comportamenti moralmente riprovevoli, non rispettano le prescrizioni, non si impegnano a cercare un lavoro, non accettano il lavoro offerto, non frequentano corsi di aggiornamento) subiscono la riduzione o la sospensione dei benefici previsti.
I beneficiari di prestazioni di welfare (dalle persone che abitano case popolari ai senza dimora) sono soggetti al rispetto di numerose condizioni, in termini di stringenti requisiti di accesso (reddito, condizioni occupazionali, disabilità), ma soprattutto devono assumere determinati comportamenti, in caso contrario si procede alla revoca parziale o totale del beneficio. Chi opera nel sociale esprime preoccupazione nei confronti del destino di coloro che perdono il lavoro e perdono, a causa di sanzioni, anche i benefici di welfare. Ma adottare questo modello di intervento è diventata una prassi scontata e indipendente dalla collocazione politica dei governi in carica, come se ci fossero delle consistenti e indiscutibili evidenze scientifiche che supportano queste scelte.
In Italia, le disposizioni del decreto istitutivo del Reddito di inclusione (REI) introducono una condizionalità significativa, prevedono sanzioni molto severe, sospensioni e decadenze dai benefici previsti per chi non rispetta accordi e prescrizioni. Eppure molte ricerche empiriche hanno evidenziato che questo sistema di sanzioni rischia di promuovere piuttosto che la crescita delle persone, distacchi e allontanamenti dalle relazioni di cura delle persone che presentano maggiori difficoltà e che persistono nell’assumere comportamenti riprovevoli. La scarsità delle risorse destinate al finanziamento del REI produce effetti sulle relazioni sociali non secondari: sono stati introdotti requisiti di accesso e priorità nella scelta dei beneficiari che non rappresentano indiscutibilmente condizioni di maggiore deprivazione, rischiando in questo modo di creare competizioni tra gruppi sociali che vivono condizioni simili e che temono scelte discrezionali, conflitti tra le persone che temono di essere escluse dal lavoro e anche dagli interventi di sostegno economico. In un welfare che marginalizza la qualità sociale delle relazioni di aiuto, i progetti personalizzati di attivazione previsti dal REI rischiano di subire una attuazione molto riduttiva, una loro riduzione a beneficio economico accompagnato da progetti personalizzati molto deboli, sbrigativi, che prevedono sanzioni più che articolate relazioni di sostegno. Il timore che emerga una sorta di “accanimento selettivo”, un’applicazione severa e punitiva delle norme e dei criteri di accesso alle prestazioni sociali che esclude le persone non affidabili né come lavoratori né come cittadini, mentre le persone con maggiori strumenti culturali e maggiori relazioni riescono comunque ad ottenere un’applicazione delle norme e dei criteri di accesso più favorevoli.

4. Lo sviluppo unidimensionale del welfare attivo
Il welfare condizionale è il punto di arrivo di una lunga evoluzione del welfare attivo, per certi versi ne risolve le ambiguità che storicamente lo hanno caratterizzato privilegiando decisamente una direzione. Un welfare attivo nasce da quadri di riferimento di politica sociale molto differenti – liberisti, socialdemocratici, comunitari – e può condurre a delineare prospettive di azione e, soprattutto, responsabilità sociali e impegni di cura per le famiglie e le persone molto differenti. L’attivazione del beneficiario è stata adottata come obiettivo prioritario dai sistemi di welfare europei sin dai primi anni Novanta, sollecitata da varie raccomandazioni e rapporti dell’OCSE, soprattutto in riferimento al mercato del lavoro. I welfare europei adottando questo approccio hanno enfatizzato, di volta in volta, differenti relazioni e sfere di vita: un’attivazione strettamente connessa alla partecipazione al mercato del lavoro; un’attivazione dei cittadini come clienti e consumatori di prestazioni di welfare, attraverso la loro libertà di scelta, la capacità di muoversi autonomamente nei servizi di welfare; oppure il riconoscimento del diritto dei familiari di svolgere una funzione attiva in termini di cure informali e di conciliare esigenze di vita ed esigenze di lavoro.
In questo ultimo decennio, gli orientamenti “attivanti” delle politiche sociali sono sempre più frequentemente esposti a sviluppi applicativi riduttivi, non sono intesi nelle pluralità delle dimensioni e nell’equilibrio delle sfere di vita che possono comprendere. Gli attuali sviluppi rischiano una standardizzazione su politiche di attivazione fondate sul lavoro, che adottano mezzi e tempi che non tutti riescono a condividere; frequentemente sono finalizzate ad attivare le abilità professionali, mentre le altre risorse di cui le persone dispongono in differente misura – affettive, relazionali, valoriali – diventano secondarie, almeno fin quando non interferiscono con la vita lavorativa e restano nell’ambito delle relazioni private.
Molti programmi di welfare, definiti “work first”, hanno come unico obiettivo quello di incoraggiare le persone disoccupate, soprattutto attraverso sanzioni, ad entrare nel mercato del lavoro il più velocemente possibile anche accettando un lavoro non appropriato rispetto alla qualifica posseduta. Spesso, però, le persone che sono quasi pronte ad entrare nel mercato del lavoro e possono essere inseriti in programmi come questi, costituiscono una piccola quota della popolazione disoccupata, mentre una crescente percentuale di essi presenta svantaggi e problematiche multidimensionali e il loro inserimento lavorativo, pertanto, richiede più intensivi programmi sociali di intervento (Dean 2003).

5. Le tre zone della coesione sociale
Il modello di welfare che si sta consolidando in Italia si basa su un’analisi semplificata della società italiana e delle condizioni economiche della famiglie italiane. Si immagina che maggior parte della popolazione possa essere progressivamente esclusa da una parte consistente delle prestazioni pubbliche di welfare in quanto, superati questi anni di crisi, potrà disporre di una parte del suo reddito per assicurarsi prestazioni sociali e sanitarie private di qualità, realmente protettive rispetto ai rischi della non autosufficienza, di una malattia prolungata.
La realtà è molto più articolata: la società italiana non riesce a rendere compatibile le esigenze dello sviluppo con la qualità del lavoro, i livelli retributivi e la qualità delle relazioni umane, a governare le dinamiche, gli squilibri e i nuovi raggruppamenti sociali che continuamente produce.
I risultati dell’indagine annuale Eu-Silc (ISTAT 2017) mostrano che nel 2016 il 30,0% delle persone residenti in Italia è a rischio di povertà o esclusione sociale, registrando un peggioramento rispetto all’anno precedente quando tale quota era pari al 28,7%. Il 20,6% (in aumento rispetto al 19,9% del 2015) delle per-sone risulta a rischio di povertà. Oltre la metà (53%) dei redditi individuali è compresa tra 10.001 e 30.000 euro lordi annui, circa un quarto (il 24,4%) è al di sotto dei 10.000 euro e il 18,5% è tra 30.001 e 70.000; solo nel 2,8% dei casi si superano i 70.000 euro.
Le tre zone di coesione sociale individuate da Robert Castel (2003) in suo saggio molto noto, possono essere utilizzate per rappresentare i cambiamenti intervenuti in Italia in questi ultimi decenni e i rischi sociali emergenti. Castel individua una “zona di integrazione” caratterizzata da contratti di lavoro a tempo pieno, possibilità di partecipazione alla vita sociale e benefici di welfare adeguati, una “zona di vulnerabilità”, la zona della precarietà, del lavoro temporaneo, dei lavori mal retribuiti, di insufficienti risorse di welfare e fragilità delle relazioni primarie. Secondo Castel, la zona di integrazione si sta riducendo, la zona di vulnerabilità e precarietà si sta espandendo e alimenta continuamente una terza zona, la “zona della disaffiliazione” o dell’esclusione (esclusi dal mercato del lavoro e spesso perdita di buona parte delle tutele sociali).
In Italia, fino alla prima metà degli anni Novanta, la zona dell’integrazione era molto estesa, comprendeva le persone con redditi elevati, le classi medie e buona parte della classe operaia. Se ci riferiamo agli studi più accreditati sulla stratificazione sociale, possiamo stimare che un 70 per cento della popolazione condivideva questa condizione di integrazione (Sylos Labini 1975). La stabilità lavorativa e le retribuzioni medie consentivano di soddisfare le tradizionali aspettative di queste famiglie: la proprietà della casa, l’accesso agevole alle cure sanitarie, l’istruzione per i componenti più giovani, opportunità di mobilità sociale, la sicurezza di una pensione adeguata, la possibilità di vacanze anche brevi. Le disuguaglianze nei redditi e nelle ricchezze ricominciava a risalire, ma ancora comunque non determinava una frammentazione elevata del tessuto sociale. Le prestazioni di welfare erano sostanzialmente stabili o crescenti. La seconda zona, quella della vulnerabilità si presentava sostanzialmente circoscritta (stimabile nel 20 per cento della popolazione) e riguardava i lavoratori con limitate tutele contrattuali, precarietà, condizioni di lavoro e retribuzioni molto inferiori da quelle condivise dai lavoratori protetti. Anche la zona dell’esclusione riguardava gruppi sociali ben individuabili (il restante 10 per cento), che vivevano condizioni di povertà per lungo tempo, esclusi dal mercato del lavoro, ma con qualche possibilità di rientro in lavori a bassa retribuzione e scarsamente qualificati.
In anni più recenti, e soprattutto dopo la crisi economica e finanziaria, la situazione è cambiata radicalmente, incidendo profondamente nella solidità delle tre sfere di vita (famiglia, lavoro, welfare) nelle quali si costruisce l’integrazione sociale. La zona dell’integrazione è diventata molto ridotta (può essere stimata nel 30 per cento della popolazione) e comprende le persone con redditi alti e una parte limitata della classe media (ISTAT 2017a; ISTAT 2017b; Siza 2017). In questa zona, la precarietà delle relazioni primarie non è vissuta mediamente come rischio incombente, talvolta è una scelta, i suoi effetti, nella maggioranza dei casi, rimangono nell’ambito della sfera affettiva. La zona della vulnerabilità è diventata, invece, molto estesa (attorno al 50 per cento della popolazione) comprende una parte rilevante delle classe media e quasi tutta la classe operaia. Processi di dualizzazione e la riduzione delle prestazioni di welfare hanno indebolito fortemente la capacità operativa del welfare. Questa parte della popolazione utilizza crescentemente prestazioni private nell’ambito della sanità, dell’istruzione: in molte regioni una applicazione dell’ISEE rigorosa ha escluso una parte significativa di queste famiglie dall’accesso agevolato a molti servizi comunali (asili nido, sostegno domiciliare, servizi residenziali). Precarietà e rottura delle relazioni diventano un rischio che coinvolge profondamente il vissuto delle persone, il reddito, l’abitazione e tutte le sfere di vita.
Infine la zona della esclusione e della povertà (il restante 20 per cento) composta dai gruppi sociali stabilmente esclusi dal mercato del lavoro, con possibilità di rientro molto basse, che hanno subito in questi anni una riduzione significativa di tutte le prestazioni welfare. Accanto alle povertà persistenti si consolida la presenza di famiglie e persone che vivono condizioni di povertà transitorie – di breve durata, occasionale oppure oscillante – con oscillazioni di reddito frequenti fra povertà e severe ristrettezze finanziarie, che vivono una fragilità delle condizioni di vita per il diffondersi di instabilità nel mercato del lavoro e nelle relazioni familiari, di isolamento dalle rete informali di aiuto. Persone che vivono situazioni particolarmente fluide, dai contorni non ben definiti, in cui tutti i soggetti sono consapevoli che le cose possono mutare, in un senso o in un altro, non sono stabilmente acquisite o stabilmente perse.
Le società italiana non ci appare a questo punto caratterizzata soltanto da una elevata povertà e disuguaglianza, polarizzata tra poveri e ricchi, ma anche una società caratterizzata dalla presenza di molte posizioni intermedie fortemente impoverite, con condizioni di vita instabili, che non costituiscono più un tessuto connettivo di relazioni e di valori su cui poggia il vivere sociale e il legame tra differenti gruppi sociali (come storicamente sono state la classe operaia e le classi medie). A queste esigenze il welfare risponde molto parzialmente, sebbene queste condizioni di vita costituiscano una delle criticità più rilevanti per la coesione sociale.

6. Conclusioni
Il benessere delle persone e la promozione delle responsabilità collettive non dipende soltanto dalle combinazioni fra stato e mercato, tra pubblico e privato, coinvolge i cittadini, la capacità di mobilitare le risorse di cura di cui dispongono. Relazioni informali, lavoro, welfare sono le tre sfere di vita nelle quali si costruisce l’integrazione sociale. Le politiche sociali non sono riducibili alle politiche del lavoro e il termine attivazione non significa soltanto formazione e inserimento nel mercato del lavoro. Il welfare to work può diventare l’accettazione obbligatoria di qualsiasi lavoro, pena l’interruzione di ogni forma di sostegno economico, un avvio forzoso a lavori scadenti, e la contestuale riduzione di tutte le altre spese di welfare. Oppure una politica sociale di accompagnamento e di responsabilizzazione che tenga conto delle differenze, l’avvio di un percorso di recupero alla vita sociale e lavorativa, che sostiene la persona e la sua famiglia nella pluralità delle sue esigenze. In questa seconda prospettiva, alle persone povere può essere richiesto di essere più responsabili, ma questo può essere l’obiettivo dell’intervento, nella prima prospettiva, invece, è il requisito per un primo accesso ai programmi di welfare.
L’esigenza è quella di contrastare la povertà e l’impoverimento con azioni realmente attivanti le capacità delle persone, con progetti di inserimento personalizzati, promuovere relazioni collaborative fra i cittadini, riaffermare interventi più ampi che riguardano i valori e le regole della convivenza. Per la maggioranza delle famiglie italiana si pone l’esigenza di difendere il principio universalistico che regola i più significativi settori del welfare italiano nella consapevolezza che un ulteriore indebolimento del welfare pubblico aggraverebbe le condizioni di vita della maggioranza delle famiglie italiane: sono famiglie che rischiano di non poter disporre di sufficienti servizi pubblici, che avranno scarse possibilità di accesso ad un welfare integrativo, non hanno lavoro o hanno inserimenti in aziende di piccole dimensioni che non assicurano ai loro dipendenti prestazioni di welfare, hanno condizioni lavorative difficilmente conciliabili con la vita familiare anche in presenza di un programma di sostegno.
Un welfare civile consistente e consapevole delle sue ragioni, può proporre e sostenere un’altra rappresentazione delle esigenze delle persone, può mettere in discussione la logica delle attuali combinazioni tra pubblico e privato, operando concretamente e proponendo in molto ambiti di welfare modalità di intervento che coinvolgono relazioni umane e le risorse di cura che esprimono. La crisi finanziaria ed economica che stiamo vivendo ha creato un disorientamento profondo, ma nel medio e nel lungo periodo potrebbe consentire il consolidamento di nuove relazioni collaborative e rappresentare nuove opportunità di crescita sociale e un nuovo modo di vedere il mondo.
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* Rielaborazione dell’intervento effettuato nel Convegno sul lavoro del 4-5 ottobre 2017, organizzato dal Comitato d’Iniziativa Costituzionale e Statutaria in collaborazione con Europe Direct Sardegna-

**Remo Siza svolge attività di ricerca e formazione in Italia e nel Regno Unito.
remo.siza@gmail.com

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Riferimenti bibliografici

Castel, R. (2007) La metamorfosi della questione sociale, Avellino: Sellino Editore.
Dean, H. (2003) Reconceptualising welfare to work for people with multiple problems and needs, Journal of Social Policy, n. 32, pp. 441-59.
Istat (2017a) Rapporto annuale 2017, Roma.
Istat (2017b) Condizioni di vita, reddito e carico fiscale delle famiglie nel 2016, Roma.
R. Siza e C. Deeming (a cura di) Il Declino della classe media: i limiti delle politiche sociali, numero speciale di Sociologia e politiche sociali, n. 2.
Sylos Labini, P. (1975) Saggio sulle classi sociali, Bari: Laterza.

DOCUMENTAZIONE

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Caritas Sardegna e position paper

Magnificat

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simone-martini-annunciazione
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maria-di-m-cacciari[Repubblica] In “Generare Dio” (Il Mulino) il filosofo Massimo Cacciari si dedica “intenerito” a raccontare i quadri del XV e XVI secolo nei quali è raffigurata la Madonna. Descrizioni non da storico dell’arte, ma da psicologo e fine osservatore. “Non sappiamo se Cacciari sia credente, ma certamente il suo linguaggio è pieno di pietà, compassione e ammirazione”, osserva Augias. Racconti, di Corrado Augias. Libri come bussole per orientarci in un confuso presente. Racconti per estrarre da un libro il condensato delle sue pagine. In sostanza il racconto come un saggio e ogni saggio come una minuscola lampada. – Augias

Oggi mercoledì 20 dicembre 2017

democraziaoggisardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413filippo-figari-sardegna-industre-2
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chiesa_santagostino_e_cripta_d02SA NOVENA DE PASCH’E NADALE 2017, dae su 16 a su 24 de custu mese, donnia die, in sa cresia de Sant’Austinu (via Baylle). Il testo della ‘Novena de Pasch’e Nadale’ si legge nel sito della Fondazione Sardinia alla voce PUBBLICAZIONI. Puoi seguire nello stesso sito anche la novena del 2010 in video ed apprendere musica e canzoni alla voce VIDEO.
- Approfondimenti.
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SOCIETÀ E POLITICA » CAPITALISMO OGGI » CRITICA
eddyburgCapovolgere i modi di pensare e di fare
di SERGE LATOUCHE
Comune-info, 17 dicembre 2017, ripresa da eddyburg e da aladinews: Intervista di Pierre Thiesset a Serge Latouche il quale espone con chiarezza la sua tesi sui rischi che corre l’umanità se «nuova Megamacchina dalle dimensioni planetarie» continuerà la sua corsa (c.m.c.)
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democraziaoggi-loghettoCaro Pigliaru, hai già scordato la botta del 4 dicembre 2016? Sembra di sì: sulle servitù militari gabelli per conquista una situazione esistente da almeno 40 anni!
20 Dicembre 2017
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
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Oggi martedì 19 dicembre 2017

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chiesa_santagostino_e_cripta_d02SA NOVENA DE PASCH’E NADALE 2017, dae su 16 a su 24 de custu mese, donnia die, in sa cresia de Sant’Austinu (via Baylle). Il testo della ‘Novena de Pasch’e Nadale’ si legge nel sito della Fondazione Sardinia alla voce PUBBLICAZIONI. Puoi seguire nello stesso sito anche la novena del 2010 in video ed apprendere musica e canzoni alla voce VIDEO.
- Approfondimenti.
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democraziaoggi-loghettoVittorio Emanuele III, se questo è un re vittorioso…
19 Dicembre 2017
su Democraziaoggi.
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lampadadialadmicromicroGli editoriali di Aladinews. TRUMP togliere ai poveri per dare ai ricchi. usa-e-gettadi Roberta Carlini su Rocca
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FINANZIARIA REGIONALE 2018. Più soldi alle Università della Sardegna: la CSS approva ma chiede più precisi impegni degli Atenei sardi per lo sviluppo del territorio e pretende spiegazioni sul perché non investano adeguatamente nei corsi telematici, come fanno le migliori Università del mondo

elearning-convegno1lampadadialadmicromicroRiceviamo dalla Confederazione Sindacale Sarda e volentieri pubblichiamo.
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CSS loghetto NON BASTA METTERE PIU’ SOLDI PER LE UNIVERSITA’. OCCORRE VERIFICARE IL LORO UTILIZZO SEGUENDO IL PRINCIPIO CHE CHI RICEVE SOLDI PUBBLICI HA L’OBBLIGO DI INVESTIRE IN INNOVAZIONE E RICERCA CREANDO NUOVI POSTI DI LAVORO

Abbiamo appreso dalla stampa che la Finanziaria 2018 tra le diverse misure di impiego delle risorse prevede 17 milioni in più, oltre ai 150 già messi in bilancio, per le Università sarde. Ovviamente non possiamo che concordare sul finanziamento all’Università che costituisce un pilastro per lo sviluppo sociale, culturale ed economico della nostra Regione. Ben vengano quindi maggiori risorse, anche se dobbiamo ricordare come quelle regionali (ed europee) in certa parte compensino i minori trasferimenti statali, avendo lo Stato italiano da molti anni deciso di sacrificare il sistema formativo pubblico, a partire dalle Università, con un progressivo depauperamento delle risorse allo stesso destinate, in attuazione di una politica miope e scellerata. Ora però – come per tutte le misure previste dalla Giunta regionale e sottoposte al dibattito e alla approvazione consiliare – vorremo andare oltre i titoli per individuare in dettaglio le destinazioni proposte. In particolare per l’Università sarda vorremo capire in quale misura le risorse stanziate e da stanziare beneficino concretamente la società sarda. Non nascondiamo la nostra insoddisfazione per l’attuale rapporto delle Università sarde con il loro primo ambito di riferimento, avvertendo in talune circostanze una estraneità delle stesse rispetto ai problemi di sviluppo del territorio. Ecco allora che vorremo entrare nel merito, anche per il diritto che abbiamo come sardi e come organizzazione dei lavoratori sardi di conoscere le politiche universitarie e per quanto lecito e auspicabile – salvaguardando la giusta autonomia delle Università – orientarne le scelte in favore delle popolazioni e territori sardi. In tale ambito chiediamo di sapere quale sia l’investimento delle Università per la diffusione dell’alta formazione attraverso le tecnologie informatiche. Lo chiediamo espressamente perché tale indispensabile investimento ci pare allo stato attuale del tutto insufficiente, perfino in diminuzione rispetto a un passato recente con la grave conseguenza di tagli all’occupazione. Eppure la diffusione dei corsi universitari con modalità telematiche costituisce una pratica ormai consolidata e in progressivo rafforzamento dei migliori Atenei del mondo. A nostra conoscenza (le fonti sono i documenti in internet), lo sviluppo dei corsi universitari in modalità telematica non è presente tra gli obbiettivi dei piani strategici degli Atenei sardi. Si aspetta forse che le altre Università del sistema italiano (ci riferiamo soprattutto alle Università del Nord) “colonizzino” il territorio sardo? Nessuna preclusione ad accordi con tutte le Università italiane, europee e del resto del mondo, ma solo, riteniamo noi, con la presenza da protagonista delle Università della Sardegna.
Attendiamo chiarimenti dalla Regione e dalle Università di Cagliari e di Sassari.
Cagliari, 18.12.2017
La Confederazione Sindacale Sarda
Giacomo Meloni, Segretario generale nazionale
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lampadadialadmicromicroPer correlazione
Quando l’Università sarda, la Regione Sarda e l’Unione Europea si impegnarono per l’Università telematica della Sardegna. E oggi?

FAKE NEWS A SCUOLA imparare a difendersi dalle false notizie

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di Fiorella Farinelli su Rocca
Fake news, notizie false. Volutamente false. C’è più di un frequentatore di Internet su due (il 52,7% del totale, il 58,8% dei più giovani) a cui è capitato, secondo l’ultimo Rapporto Censis, di incappare nelle notizie false della rete. Ma incappare vuol dire anche crederci? E a crederci sono solo i più ignoranti, la tanta gente giovane e vecchia che in Italia ha avuto troppo poca scuola? Niente affatto. A crederci, dicono i numeri, è il 51,9% di chi ci è finito dentro per caso. E di questi più della metà è fatta di persone istruite, o almeno in possesso di titoli di studio di livello medio-alto. Diplomi e lauree. Se non è anche questa un’informazione falsa, c’è da aver paura. Di Internet ma anche della carta stampata, della televisione, della scuola, delle università. Complici, inefficaci, inerti?

il Grande Fratello dei nostri tempi
Ad essere preoccupati delle foto manipolate e delle informazioni taroccate che girano in abbondanza nel web, sono anche molti politici. Soprattutto quando battono all’uscio prossime scadenze elettorali. Il 23 novembre Matteo Renzi, segretario del Pd, ha chiesto ai social e in particolare a Facebook «di aiutarci ad avere una campagna elettorale pulita». Negli ultimi giorni i dirigenti di quel partito sono tornati insistentemente sul rischio che si scateni contro di loro – contro uno degli ultimi governi di centrosinistra in Europa – una campagna di disinformazione e di discredito manovrata da avversari particolarmente spregiudicati come Lega e Cinquestelle.
Nel clima politico statunitense arroventato dalla sospettata ingerenza russa a favore del candidato Trump nell’ultima campagna per le presidenziali, l’autorevole New York Times ha riferito che, secondo diversi analisti, oggi sarebbe l’Italia il paese più sotto tiro dell’intera Europa. E il più vulnerabile. Si moltiplicano, del resto, anche in altri paesi i tentativi di convincere gli amministratori dei social più importanti a tenere sotto controllo il fenomeno delle fake news, anche rimuovendo le pagine incriminate. Chris Norton, portavoce di Facebook, ha dichiarato che il suo amministratore sta cercando di eliminare gli incentivi economici che alimentano la pubblicazione di notizie false e che a questo scopo sta investendo in tecnologie che potrebbero risolvere il problema. Chissà, vedremo. Sembra però improbabile che al Grande Fratello dei nostri tempi – miliardi di dati personali regalati dagli utenti, miliardi di finanziamenti in pubblicità sparata su quei dati – si possano tagliare facilmente le unghie.

rischio di censura
Le richieste di chiusura delle pagine che contengono notizie false possono del resto suonare, alle orecchie di molti, come un tentativo di censura. Tanto più insopportabile se a chiederlo è una politica, è ancora il Censis a dirlo, la cui credibilità è precipitata a minimi spaventosi. È l’84% degli italiani a dichiarare di non avere nessuna fiducia nei partiti politici, con il 74% che non ne ha neanche per il governo, In caduta libera sono anche i mitici «corpi intermedi», con 180mila tessere perdute nell’ultimo anno dai sindacati tradizionali. Mentre nei sondaggi, si sa, vola il partito-non partito, il movimento «antipolitico» dei Cinquestelle che come veicolo principale del rapporto con gli elettori ha scelto, non per caso, il digitale.
Non aiuta, quindi, che a denunciare il pericolo delle fake news sia la politica. Perché quella denuncia può apparire, e forse lo è davvero, solo un argomento pro domo sua. Ma il problema c’è, è molto serio, riguarda la qualità della vita democratica. Riguarda, prima ancora, la qualità della testa della gente. Si può fare qualcosa? E come?

che può fare la scuola?
Uno dei terreni più promettenti è la scuola, 8 milioni e più di giovani, 24-25 milioni di familiari direttamente interessati, più di 730mila gli insegnanti. La più grande macchina di cultura del Paese. Si può fare? C’è qualche norma o regolamento che lo impedisce? Niente affatto, anzi. Imparare a distinguere il vero dal falso è costitutivo della conoscenza e dell’apprendimento. E imparare a farlo per muoversi con discernimento nella vita sociale è parte integrante di quell’obiettivo scritto a lettere d’oro che è l’«educazione alla cittadinanza».
Lo si sta facendo? Qua e là, come tante altre attività che in una scuola ci sono e in un’altra no, che possono durare qualche mese (i «progetti») e poi inabissarsi nel dimenticatoio. Dipende dagli insegnanti, e da tante altre variabili. Ma esperienze ce ne sono, e spiegano bene come si fa. Prendiamo un caso tipico di fake news, quelle che sostengono che Auschwitz è una bufala, che le immagini delle migliaia di persone sterminate dallo Zyklon B sono fotomontaggi, che si trattava solo di un ordinario campo d’internamento o di lavoro per disertori o per soldati nemici, che la dimostrazione è che gli aerei inglesi dall’alto lo vedevano benissimo e avrebbero quindi potuto facilmente, se davvero lì si gasava e si cremava ogni giorno della gente (prigionieri britannici compresi), raderlo al suolo. Insomma che la storia di Auschwitz è tutta un imbroglio, ordito dai vincitori della seconda guerra mondiale (dai sovietici, dai comunisti, dagli ebrei, da Israele, dagli americani…). In una fake news come questa – e nelle tante altre analoghe che l’algoritmo richiama immediatamente sullo schermo di chi ha intercettato la prima – ci si può incappare per caso, o andarci direttamente perché è l’insegnante che chiede di farlo. Che si fa a questo punto? Nella scuola di un tempo l’insegnante poteva decidere di lasciar perdere per una mattina il libro di testo e fare una lezione coi fiocchi, portare in aula la documentazione di cui era in possesso o facilmente reperibile, offrire una bibliografia, affidare a qualche studente particolarmente curioso o diligente di leggere un libro sull’argomento e poi riferirne in aula. C’era spesso chi lo faceva – le fake news non nascono con i social – ma ci voleva molto tempo e magari poi non se ne trovava più (i programmi, si sa, incombono) per tornarci sopra. Agli studenti rischiava di restare in testa solo una cosa, che l’insegnante aveva detto quelle cose perché di parte politica diversa o perché di mamma ebrea, La ricostruzione, insomma, a proprio uso e consumo della storia.

metodi e strumenti didattici
Anche ora non è facile, ma con Internet è molto diverso, si può lavorare più rapidamente ed efficacemente perché il lavoro possono farlo gli studenti. L’insegnante infatti può affidargli di fare in proprio una ricerca sul web che vada oltre la raccolta dei «commenti» (perché quelli sono solo opinioni che segnalano che il tema è controverso, non prove), si può farla fare intotale autonomia oppure indicare da subito o in progress studi, archivi storici, atti di processi, i giornali del tempo, i musei dedicati all’Olocausto, le testimonianze, libri, siti, filmati. Anche gli aerei inglesi che non hanno bombardato pur intuendo o sapendo che cosa si faceva ad Auschwitz è un tema studiato in una quantità di saggi storici che spiegano le alchimie della politica (che c’è sempre anche nei conflitti, sebbene si usi dire che la guerra nasce a causa dei fallimenti della politica). C’è una montagna di documentazioni in proposito, basta cercarle, leggerle, confrontarle. Un’azione didattica di questo tipo non ha come obiettivo quello di far cambiare idea agli studenti che alla bufala ci hanno creduto, ma di far sperimentare a tutta la classe, loro compresi, che è da superficiali (pigri, ingenui, ignoranti: ognuno scelga) dar retta al primo che ti dice una cosa. Perché su quello stesso argomento ci sono molte altre fonti cui è possibile accedere facilmente per farsi un’idea più precisa. O almeno per trovare dei buoni motivi per avere dei dubbi. È un metodo che si può applicare ai temi più diversi, compresi quelli di tipo scientifico, e che in effetti viene usato in molte scuole. Con maggiore velocità, ovviamente, in quelle provviste di banda larga in cui può esserci un personal computer collegato su ogni banco. Più lentamente quando si può ricorrere solo agli smartphone o ai computer di casa.
È in questo modo, comunque, che in parecchie scuole si è lavorato tempo fa attorno all’argomento controverso dell’obbligo di vaccinazione. E che si lavora attorno a quelli, altrettanto controversi, relativi all’immigrazione, dove le fake news abbondano. Le migliaia di rifugiati che approdano ogni giorno sulle nostre coste, i 20 milioni di immigrati che si sono stabiliti in Italia, i 5 milioni di musulmani, gli stranieri che rubano i posti di lavoro, e così via.
Ma questi sono solo metodi e strumenti didattici. Utili a far crescere una familiarità con gli strumenti base della ricerca ma insufficienti a sviluppare negli studenti l’habitus della curiosità culturale, il rispetto del pluralismo, il fastidio per il conformismo e l’omologazione, lo spirito critico. Per questo ci vuole altro, prima di tutto insegnanti che danno l’esempio nell’insegnamento di tutti i giorni. Solo così le fake news scivolano addosso senza lasciare traccia.
Fiorella Farinelli
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La storia non si cancella

Vittorio Emanuele III riportato in Italia di nascosto, per la vergogna! E per paura dell’opposizione dei democratici
18 Dicembre 2017
RED su Democraziaoggi.
“Complice del fascismo e della guerra, 80 anni fa le leggi razziali“
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La storia non si cancella. Francesco Casula su Aladinews. scibolettaLe 4 “Infamie” di Vittorio Emanuele III, di Francesco Casula su Aladinews.
La salma di Vittorio Emanuele III tornerà in Italia, Con il beneplacito di Mattarella. Una vergogna. Ma è stato “il padre della patria”. No, è stato il padre di 4 ciclopiche infamie. Che niente e nessuno potrà cancellare né dimenticare.
1. Vittorio Emanuele III e la Prima Guerra mondiale
La decisione di entrare in guerra fu presa esclusivamente dal sovrano, in collaborazione con il primo ministro Salandra, desideroso com’era di completare la cosiddetta “unità nazionale” con la conquista di Trento e Trieste, ancora in mano austriaca. Il conflitto fu, come noto, tremendo per le forze armate italiane, che andarono incontro ad una spaventosa carneficina, tra il fango, la neve delle trincee e tra indicibili stragi e sofferenze. [su Aladinews]
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