Monthly Archives: febbraio 2018

Elezioni

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img_4633In Sardegna l’unico voto utile è quello che concretamente sbarra la strada alla destra. E io lo esprimerò
vitobiolchini blog occhialini117/02/2018 Vito Biolchini su vitobiolchini.it
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Repubblica.it, 17 febbraio 2018

Elezioni. AutodetermiNatzione, una lista elettorale ma non solo.

img_4614di Francesco Casula

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Nella competizione delle prossime elezioni politiche del 4 marzo prossimo ci sarà anche una Lista tutta sarda, autonoma e slegata dai Partiti italiani: AutodetermiNatzione. E’ un’aggregazione composta di otto gruppi, fra Movimenti, Partiti indipendentisti e sovranisti e liste civiche:cRossomori, Sardegna Possibile, Sardigna Natzione, Irs, Liberu, Sardos, Communidades e Gentes. Dopo anni di divisioni, chiusure, settarismi, la gran parte di questo variegato mondo, è riuscito a trovare una sintesi politico-elettorale unitaria: un vero e proprio miracolo.

Come simbolo ha scelto unu carrabusu (uno scarabeo) il simpatico animaletto che dovrebbe insieme significare la Rinascita e avere il ruolo di innetare e limpiare su logu (ripulire e mondare il luogo): ovvero quella Sardegna imbruttata, inquinata, devastata da un industrialismo perverso.

Ancor più simbolica la scritta:AutodetermiNatzione: una scritta politica prima ancora che elettorale. Prefigurante e polisenso. Con una pluralità di significati. Tutti convergenti. Con l’«Auto» (dal greco αὐτός) che evoca ed esprime, autodifesa, autocoscienza, autoconsapevolezza, autostima. Ma soprattutto fare da sé, con i propri mezzi, con le proprie forze. A significare che la liberazione della Sardegna dipende solo da noi Sardi. Non da qualche “Salvatore” o “Gigante” esterno. Di cui occorre sempre diffidare (Timeo Danaos et dona ferentes!). Anche quando promettono oro argento e mirra. Come faranno in occasione delle elezioni prossime i Partiti italiani. Perchè furat chie benit dae su mare! Storicamente. Sono sempre venuti per depredarci, conquistarci, occuparci, dominarci.

Ad «Auto» si aggiunge Determinazione: Ad indicare tutta la forza, la voglia, la risoluta volontà con cui l’aggregazione si prefigge di perseguire l’obiettivo.

Nel termine «AutodetermiNatzione» è incorporata «Natzione». Ovvero lo status della Sardegna: in virtù della sua storia, lingua, cultura, tradizioni. Uno status oggi prevalentemente “virtuale”, in fieri. Che per i protagonisti di AutodetermiNatzione occorre che diventi “fattuale”: con lo Stato. Con l’Indipendenza. Attraverso un progetto. Un percorso. Un processo. Una strategia.

Si tratta di un obiettivo ambizioso e di prospettiva. Di cui l’alleanza elettorale dovrebbe essere un primo passo. Inutile dire che condizione necessaria per avviare e costruire il processo di indipendenza dovrà essere il passaggio di AutodetermiNatzione da alleanza elettorale ad alleanza politica, più vasta e corposa, che si dia precisi obiettivi di programma, al di là e oltre le elezioni. Senza limitarsi ad agitare al vento facili slogan o discorsi che non riescono a far muovere i mulini per macinare grano.

L’importante sarà fare le cose non limitarsi a denunciarle, sperimentare e non solo predicare, praticare l’obiettivo, praticare scampoli di indipendenza e non aspettare l’ora x in cui questa si raggiungerebbe. L’importante è incrociare la gente, i lavoratori, i giovani, costruire trame che organizzino e compattino i soggetti sui bisogni, gli interessi, la crescita culturale e civica, favorendo l’autorganizzazione dei cittadini e il protagonismo sociale,

A tal fine occorrerà che AutodetermiNatzione si dia idealità e finalità che disegnino uno “Stato sardo” che sia il più dissimile possibile dallo Stato italiano, accentrato e centralista.E viepiù antisociale.

Ma soprattutto occorrerà che si dia una “visione”, una cultura alta e “altra”. Con la valorizzazione e l’esaltazione delle diversità, ovvero delle specifiche “Identità”: certo per aprirci e guardare al futuro e non per rifugiarci nostalgicamente in una civiltà che non c’è più; per intraprendere, come Comunità sarda, il recupero della nostra prospettiva esistenziale: la comunità e i suoi codici etici basati sulla solidarietà e sul dono, i valori dell’individuo/persona incentrati sulla valentia personale come coraggio e fedeltà alla parola e come via alla felicità. E insieme per percorrere una “via locale” alla prosperità e al benessere e partecipare così, nell’interdipendenza, agli scambi e ai rapporti economici e culturali.
(Segue)

Come siamo stati governati

img_4809Un Rapporto di “Sbilanciamoci”
COME SIAMO STATI GOVERNATI

Il bilancio delle politiche messe in atto dai tre governi succedutisi nella passata legislatura è disastroso: sta meglio un’esigua minoranza di ricchi e molto peggio la maggioranza del Paese con una massa crescente di poveri e poverissimi. Sette miliardari hanno una ricchezza pari a quella di 18 milioni di persone messe insieme. Colpiti la sanità, la scuola, il lavoro

Luigi Ferrajoli

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img_4810Pubblichiamo la Introduzione di Luigi Ferrajoli al Rapporto di fine legislatura della “Campagna Sbilanciamoci”: “Stiamo meglio o peggio di cinque anni fa?”

Oggi sabato 17 febbraio 2018

lampada aladin micromicrodemocraziaoggisardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413filippo-figari-sardegna-industre-2
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Il Comitato per l’insularità è reticente sugli sbocchi
17 Febbraio 2018

Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
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valutazione microRiflessioni
di Tonino Dessì, su fb.
Ci sono due riflessioni politiche sintetiche che avrei da condividere, prima di lasciare le palle in pace al prossimo per il resto della giornata.
Una riguarda il livello italiano.
Lo dico apertis verbis: la proposta di Di Maio sul dimezzamento (ulteriore) delle indennità ai rappresentanti eletti nelle assemblee legislative avrebbe come principale conseguenza quella di aumentare il livello di corruttibilità dei parlamentari. Punto e a capo, insomma: dalla sgradevole storia dei mancati rimborsi mi pare che proprio non stia imparando nulla.
La seconda questione, scusatemi, mi sta proprio facendo girare le scatole. (Segue)

Oltre il 4 marzo. CHE ALLA POLITICA RITORNI IL PENSIERO

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La cultura avanza le sue proposte: intervento pubblico per creare lavoro nonostante l’Europa, il capitale riportato nella legge, la funzione difesa nelle mani dell’ONU, il migrare come diritto umano universale. Un appello a candidati ed elettori

Al termine della campagna elettorale la cultura rivolge un appello ai candidati, alle candidate e all’elettorato del 4 marzo, per un ritorno al pensiero nella politica e la messa in campo di quattro grandi opzioni volte a cambiare il nostro destino. Esse riguardano la creazione di lavoro per mano pubblica nonostante il regime europeo, la riconduzione del capitale alla regola del bene comune, la pace come responsabilità e compito del Consiglio di sicurezza dell’ONU e l’adozione dello ius migrandi come diritto umano universale. Questo il testo dell’appello:

Alle candidate e ai candidati alle elezioni del 4
marzo

e
Alle elettrici e agli elettori del 4 marzo

Roma, 16 febbraio 2018

L’appassionato confronto sui valori e i dettati della Costituzione in occasione del referendum del 4 dicembre 2016 – al quale abbiamo contribuito sostenendo il No – ha visto partecipare un imponente numero di elettrici e di elettori, pur con scelte difformi, a riprova che le grandi opzioni della politica sono percepite come proprie dai cittadini quando sono messi in grado di scegliere.

Per questo ci rivolgiamo a tutte le candidate e a tutti i candidati di buona volontà con questo accorato e rispettoso appello.

È necessario concentrare almeno quanto resta della campagna elettorale su alcuni obiettivi di fondo che per loro natura vanno oltre il periodo del prossimo mandato parlamentare e oltre i confini dell’Italia, in quanto decisivi dell’intero futuro. Su tali obiettivi non mancano accenni e proposte nel programma di alcuni partiti, ma essi appaiono del tutto oscurati e distorti nel dibattito pubblico rappresentato dagli attuali mezzi di informazione che perseguono altri interessi e logiche contingenti, onde è necessario farli venire alla luce e metterli al centro delle prossime decisioni politiche.

La prima questione è quella del lavoro retribuito, nella specifica forma della sua assenza e precarietà.
La mancanza di lavoro sta raggiungendo tali dimensioni di massa da rendere illusori i rimedi finora proposti. La riduzione al minimo di quella che una volta si chiamava “forza lavoro” a fronte dell’ingigantirsi degli altri mezzi di produzione è tale da alterare tutti gli equilibri dei rapporti economici politici e sociali.

In Italia infatti la Repubblica rischia di perdere il suo fondamento (art. 1 Cost.) e perciò la sua stabilità e la stessa sicurezza della sua durata; in Europa l’Unione economica e monetaria perde il primo dei tre obiettivi fondamentali per cui è stata costituita e via via potenziata, ossia “piena occupazione, progresso sociale e tutela e miglioramento della qualità dell’ambiente” come prevede l’art. 3 del Trattato sull’Unione; nel mondo il sistema economico perde l’equilibrio dialettico tra capitale e lavoro, deprimendo fino a sopprimerlo il ruolo del fattore lavoro. La resa imposta a uno dei due protagonisti del relativo conflitto – il lavoro – non lo risolve, ma ne spegne la spinta propulsiva e spinge la polarizzazione delle diseguaglianze fino agli estremi di una pari ricchezza detenuta da una decina di uomini e da 3,6 miliardi di persone sulla terra.

La perdita di lavoro umano non è genericamente dovuta al progresso, ma è il frutto di scelte politiche ed economiche che hanno potuto avvalersi come mai fino ad ora dello sviluppo della tecnologia e dell’automazione; paradossalmente ciò ha finito per ritorcersi contro l’ortodossia e la funzionalità del Mercato, perché a esserne snaturato e viziato è stato proprio il meccanismo della concorrenza a causa degli squilibri nel costo del lavoro umano tra le imprese, le diverse aree produttive e gli Stati, messi in concorrenza tra loro nella corsa ad abbattere il ruolo del lavoro, fino alla minaccia del controllo elettronico dei lavoratori anziché delle macchine e dei processi produttivi. Le conseguenze della crisi scoppiata si fanno sentire pesantemente, il Pil dell’Italia è ancora inferiore del 6,5% sul 2008, l’attività industriale è calata oltre il 25% e secondo il prof Giovannini mancano ancora un milione di unità-lavoro rispetto al 2008.

Per ristabilire gli equilibri e una giusta concorrenza è ora necessario puntare non solo ad impadronirsi delle tecnologie e del loro uso ma creare nuovo lavoro in settori finora considerati meno interessanti dal punto di vista del reddito, anche se più di recente anch’essi sono stati invasi dal mercato che ne distorce pesantemente l’utilizzo a fini di profitto. Questi interventi possono essere creati dall’unico soggetto in grado di farlo, cioè il soggetto pubblico, nelle sue varie articolazioni e competenze, sia in Italia che in Europa che a livello globale. Non si tratta solo di proporre una nuova fase dell’intervento dello Stato quanto di un più generale intervento pubblico, da sviluppare in modo coordinato tra le diverse sedi istituzionali. In particolare c’è da coprire l’enorme fabbisogno di lavoro umano per la conservazione e il miglioramento dell’ambiente, la riconversione ecologica delle strutture esistenti, la prevenzione delle calamità, la salute come bene primario universale, l’educazione, i nuovi servizi alle persone, in particolare all’infanzia e al crescente numero di anziani, ecc.; così è necessaria una strategia di riduzione e redistribuzione degli orari di lavoro.

A tal fine l’Italia dovrebbe riaprire il capitolo dell’intervento pubblico nell’economia e riproporlo all’Europa, anche per una nuova interpretazione del Trattato europeo che deplora gli “aiuti di Stato”, che in realtà non sono aiuti ma la manifestazione stessa delle scelte della comunità politica sovrana come soggetto anche economico.

Come rivendicazione politica immediata dovrebbe assumersi pertanto un’abrogazione o rinegoziazione degli artt. 107-109 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (“Aiuti concessi dagli Stati”). In ogni caso, anche in assenza di modifiche, si dovrebbe ritenere verificata, per l’Italia ma anche per l’Europa impoverita, la clausola che secondo l’art. 107 reintegra a pieno titolo gli “aiuti di Stato” nel mercato interno europeo: la clausola cioè, prevista dall’art. 107, 3 del Trattato, che ci siano regioni “ove il tenore di vita sia anormalmente basso, oppure si abbia una grave forma di sottoccupazione”. Clausola innegabilmente adempiuta quando in Italia ci sono 5 milioni di persone che vivono “in povertà assoluta”, 18 milioni “a rischio di povertà e di esclusione”, e la disoccupazione è all’11 per cento con 3 milioni di disoccupati, tra cui il 37 per cento dei giovani.

Analoga rivendicazione, sia per l’Italia che per l’Europa, dovrebbe farsi per un nuovo approccio fiscale volto a finanziare questi interventi che, in coerenza con la progressività prevista dall’art 53 Cost. , alleggerisca il prelievo fiscale su lavoro e pensioni e lo estenda alla intera ricchezza prodotta e ai grandi patrimoni.

Allora diventerà nuovamente possibile dare effettività all’art. 3 della Costituzione.

La seconda questione riguarda il controllo e la regolazione delle attività e dei movimenti finanziari, compresa la tassazione della produzione e dei consumi nei Paesi in cui avvengono.
La dominanza del capitale finanziario, la sua libertà di movimento globale, il suo potere di ricatto verso gli Stati nazionali, l’assenza di controlli sui movimenti finanziari, la cui provenienza è fin troppo spesso illegale, l’uso speculativo dei capitali finanziari hanno creato uno squilibrio di fondo tra il ruolo ancora essenziale degli Stati e il capitale finanziario globalizzato.

Non basta invocare un ritorno del ruolo degli Stati che pure deve esserci, ad esempio sui bitcoin che sono l’ultima forma speculativo-finanziaria del tutto fuori controllo; purtroppo con grande ritardo si sta comprendendo che consentire lo sviluppo di questa forma di moneta porta alla crescita esponenziale di speculazioni e alla crescita di aree di economia fuori da ogni controllo. Malgrado la crisi scoppiata nel 2008 sia stata del tutto paragonabile a quella del 1929 gli interventi per evitarne il ripetersi non sono paragonabili a quelli adottati dopo la crisi del 1929, senza sottovalutare che perfino molti degli strumenti all’epoca adottati sono stati rimossi, lasciando campo libero ai movimenti speculativi e a comportamenti infedeli a danno dei risparmiatori, fino allo svilimento delle forme di controllo. Vanno rivisti i ruoli nel sistema del credito distinguendo tra credito per gli investimenti e banche di raccolta e uso del risparmio, così come vanno intensificati e resi cogenti strumenti e regole per il controllo dell’operato degli operatori bancari e finanziari, introducendo deterrenti adeguati a tutela del risparmio, contro amministratori e operazioni infedeli. Questo sulla base di precise regole di trasparenza e di uso del risparmio, comprese dissuasioni penali adeguate. Occorre rivedere a livello europeo e mondiale gli accordi che regolano, o meglio non regolano, i movimenti di capitali, sulla base del principio della reciprocità, di un controllo sull’adeguatezza dei comportamenti degli Stati nei controlli sulla base degli accordi. Occorre ripensare le politiche di governo dei debiti pubblici in modo solidale a livello europeo e puntare ad accordi a livello sovranazionale, anche nelle politiche fiscali nazionali oggi usate per la concorrenza tra Stati distorcendo la concorrenza tra imprese. La lotta all’elusione e all’evasione fiscale – cruciale e strategica per il nostro Paese – con un’azione sistematica di contrasto e di nuove normative va inquadrata in una decisa lotta ai paradisi fiscali e alla concorrenza fiscale tra gli Stati, nell’epoca del dominio del capitale finanziario, che è in larga misura all’origine dello squilibrio nei rapporti di forza a danno del lavoro reso sempre più mera merce, per di più sottovalutata. Per questo il sistema di regole e di controlli è indispensabile. L’accento non è più sulla libertà di scambio nel reciproco interesse, ma per evitare pratiche di dumping tra lavoratori e tra Stati occorrono regole e controlli severi sui movimenti e sui comportamenti dei capitali finanziari.

Di conseguenza diventerebbe possibile l’attuazione dell’articolo 41 della Costituzione.

La terza questione cruciale è quella della pace, oggi purtroppo negata da gran parte della politica nazionale e mondiale.
La pace è fin troppo negata dalla nostra politica nazionale, con il formale rovesciamento del ripudio costituzionale della guerra, da quando il nuovo Modello di Difesa italiano, sostituendosi nel 1991 al vecchio Modello concepito in funzione della difesa dei confini nazionali (la famosa “soglia di Gorizia), adottò la formula della “difesa avanzata” degli interessi esterni dell’Italia e dei suoi alleati. Tale difesa comprendeva anche quella degli interessi economici e sociali, ovunque fossero in gioco, “anche in zone non limitrofe”, a cominciare dall’area del Mediterraneo e del Medio Oriente, supponendo (già allora!) l’Islam come nemico dell’Occidente in analogia al conflitto arabo-israeliano che veniva ideologicamente interpretato come una “contrapposizione tra tutto il mondo arabo da un lato ed il nucleo etnico ebraico dall’altro”.

L’art 11 della Costituzione è contraddetto dalla politica nazionale quando si estende la formula della difesa fino all’invio di Forze Armate in Africa per intercettare le carovane di profughi nel deserto o per attivare la Marina libica alla caccia e alla cattura dei migranti nel Mediterraneo, fino alla negazione di ogni umanità nei campi profughi.

La pace è negata dalla politica nazionale quando l’Italia non approva, non firma e non ratifica il Trattato dell’ONU sull’interdizione delle armi nucleari, mentre rifornisce di armi Paesi che ne bombardano altri e primeggia nel mercato degli armamenti realizzando uno dei più alti avanzi commerciali del settore, svuotando di significato la legge nazionale che prevede trasparenza e precisi divieti in materia di commercio delle armi e un controllo delle transazioni finanziarie ad esse collegate. Il divieto dell’esportazione di armi in zone di guerra deve essere ripristinato, così il divieto della fabbricazione di mine e il divieto assoluto di produrre e usare armi all’uranio impoverito di cui si stanno scoprendo le tragiche conseguenze anche per la salute dei militari.

La pace è negata dalla politica internazionale quando Trump reintroduce nelle opzioni americane la risposta nucleare a offese “convenzionali” e perfino al terrorismo.

La pace è negata dalla politica internazionale quando l’ONU viene esclusa dal compito che dovrebbe svolgere di fronteggiare le minacce e le violazioni alla pace, le violazioni della sovranità e gli atti di aggressione. Nessun intervento di polizia internazionale o di interposizione fuori dai confini nazionali deve essere possibile senza una specifica decisione dell’Onu e il suo controllo. L’Onu pur con evidenti limiti è l’unica sede internazionale dotata di legittimità per azioni di polizia internazionale

La pace è negata dalla politica internazionale quando le Potenze nucleari respingono il bando delle armi nucleari, e quando Stati o sedicenti Stati alimentano la guerra mondiale diffusa già in atto e avallano e praticano politiche di genocidio.

L’Italia deve firmare e ratificare il Patto per l’abolizione delle armi nucleari approvato da 122 Paesi e firmato finora da 56 Paesi e ratificato da 4; che l’Italia non fornisca armi all’Arabia Saudita, al Kuwait, ad Israele e alla Libia; che respinga la richiesta degli Stati Uniti e della NATO di aumentare le sue spese militari fino al 2 per cento del prodotto interno lordo, che rappresenta da solo i due terzi di quanto l’Europa consente a uno Stato membro di indebitarsi al di sopra del PIL; che l’Italia si batta con gli altri Paesi europei e con la NATO per una riformulazione della filosofia delle alleanze militari dell’Occidente e per dare attuazione al capo VII della Carta dell’ONU che postula una forza di polizia internazionale comandata dai cinque Membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, finora impedita dalla divisione del mondo in blocchi; che si riprenda la grande proposta avanzata ma non accolta alla fine della guerra fredda di “un mondo senza armi nucleari e non violento”. Un mondo, si può oggi aggiungere, sollecito verso la propria conservazione e salvaguardia anche fisica secondo le analisi e le sollecitazioni della intera comunità scientifica fatte proprie anche dalla stessa Enciclica “Laudato sì”.

Allora diventerà nuovamente possibile dare effettività all’art. 11 della Costituzione che riteniamo un principio fondamentale.

La quarta questione cruciale è quella del diritto di cittadinanza, nella specifica forma del suo disconoscimento a quanti, abitanti in uno Stato, non ne siano considerati cittadini.
È una questione che riguarda l’Italia ma che egualmente va posta dinnanzi all’Europa e all’intera comunità internazionale, perché oggi è questa la dimensione necessaria degli interventi.

La discriminazione di cittadinanza che sopravvive a tutte le altre discriminazioni che almeno in via di principio sono cadute (di sesso, di razza, di religione ecc.) deve ora essere superata attraverso politiche programmate e controllate di accoglienza, protezione e integrazione, mirate a realizzare lo ius migrandi già proclamato come diritto umano universale all’inizio della modernità, e a tradurlo gradualmente e con regole nella stabilità dello ius soli.

La realtà delle migrazioni è un prodotto irrecusabile della globalizzazione da noi voluta e perseguita. Non è possibile nasconderla, segregarla o reprimerla perché questo porta con sé in nuce il genocidio. La xenofobia è una nuova declinazione del fascismo, e il genocidio è il suo destino.

Nel mondo di oggi i muri non sono più verosimili. Quello delle migrazioni non è più pertanto un problema esterno degli Stati, ma un problema interno dell’unica Nazione umana e del suo ordinamento giuridico sulla terra, da affrontare con politiche e regole graduali, in grado di promuovere integrazione.

L’Italia per la sua posizione geopolitica, ma ancora di più per il suo DNA, deve essere all’avanguardia nell’ avviare questo processo e nel rivendicarlo dagli altri, prima che la catastrofe avvenga.

In tali modi l’intera Costituzione e la nostra Repubblica, l’Unione europea e l’Ordinamento delle Nazioni Unite, unite dal diritto come base per affrontare i problemi diventeranno forza e garanzia della nostra stessa vita.

Proponiamo che al più presto si tenga una tavola rotonda per una prima ricognizione e discussione su questi temi con la partecipazione di quanti vorranno dare un contributo al loro approfondimento e agli sviluppi futuri.

Francesco Baicchi, Leonardo Becheri, Mauro Beschi, Carmen Campesi, Sergio Caserta, Riccardo De Vito, Mario Dogliani, Luciano Favaro, Nino Ferraiuolo, Luigi Ferrajoli, Umberto Franchi, Domenico Gallo, Sandro Giacomelli, Alfiero Grandi, Raniero La Valle, Maria Longo, Sara Malaspina, Silvia Manderino, Tomaso Montanari, Alessandro Pace, Giovanni Palombarini, Pancho Pardi, Livio Pepino, Maria Ricciardi, Giovanni Russo Spena, Mauro Sentimenti, Giuseppe Sunser, Giulia Veniai, Massimo Villone, Vincenzo Vita.
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Gli editoriali (e altro) di Aladinews

lampadadialadmicromicroimg_4794Il 68 dei cattolici
di Dolores Deidda, su Rocca, ripreso da Aladinews.
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Faber Faber Bomeluzo testonesedia di Vannitola
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democrazia-economica-510 Lo Stato non si abbatte, si cambia! Verso la ricerca instancabile di democrazia. La politica non sempre è garante della natura libertaria del “paternalismo” dello Stato. Gianfranco Sabattini su Aladinews.
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Lo Stato non si abbatte, si cambia! Verso la ricerca instancabile di democrazia.

democrazia-economica-510
La politica non sempre è garante della natura libertaria del “paternalismo” dello Stato

Gianfranco Sabattini*

Il paternalismo dello Stato suscita non poche riserve da parte di chi lo subisce; sono molti quelli che lo aborrono, perché, a parere di Cass Sunstein, professore di diritto costituzionale all’Università di Harvard, essi “pensano che gli esseri umano debbano essere lasciati andare per la propria strada, anche a costo di finire in un fosso”. Sunstein in ”Effetto nudge. La politica del paternalismo libertario”, nega che ai consumatori debba essere lasciata la libertà assoluta di effettuare le proprie scelte, contestando il cosiddetto “principio del danno” formulato da John Stuart Mill; secondo questo principio, il solo aspetto della condotta individuale del quale ognuno “deve rendere conto alla società è quello riguardante gli altri: per l’aspetto che riguarda soltanto lui, la sua indipendenza è, di diritto, assoluta. Su se stesso, sulla sua mente e sul suo corpo l’individuo è sovrano”.
Le obiezioni di Sunstein contro il principio milliano del danno sono motivate dal fatto che le persone sono spesso propense a commettere errori, mentre “gli interventi paternalistici potrebbero rendere le loro vite migliori”. In tutte le circostanze in cui ciò può accadere vi sarebbero “forti argomenti” a favore del paternalismo.
Gli economisti, afferma Sunstein, generalmente hanno concentrato le loro argomentazioni in ossequio al principio della “sovranità del consumatore”, sui mezzi utilizzabili e non sui fini da perseguire; il loro obiettivo (quello degli economisti) è stato di creare una architettura istituzionale idonea a rendere “più probabile che gli individui riescano a promuovere i propri fini, così come essi stessi li intendono”. Sunstein, però, intende andare oltre il paternalismo libertario degli economisti, inteso come forma di pressione (nudge) esercitata sui consumatori per influenzare le loro scelte senza coercizione, con l’intento in ogni caso di conservare la pressione entro i limiti di un “paternalismo debole”, rendendolo così libertario.
Le argomentazioni di Sunstein, tuttavia, per quanto supportate da esempi calzanti, non si sottraggono al limite che le pressioni, anche se esercitate debolmente, risultino eccessivamente, se non in assoluto, inficiate dagli effetti della discrezionalità con cui lo Stato regola il comportamento del consumatore, sino a trasformare il suo paternalismo da libertario in autoritario.
Questo pericolo, presente nell’analisi di Sunstein, è dovuto al fatto che egli fa esclusivo riferimento ai beni economici intesi in astratto, mancando di tener presente, da un lato, la distinzione fra “beni privati” e “beni pubblici” e, dall’altro lato, il fatto che, proprio con particolare riferimento ai beni pubblici, gli economisti hanno elaborato un’opportuna organizzazione delle istituzioni economiche del sistema sociale, con cui estendere il paternalismo dello Stato non solo ai mezzi, ma anche ai fini, per contenere gli esiti della discrezionalità nell’esercizio del paternalismo.
Dal punto di vista economico, i beni privati sono definiti dalla presenza dei principi della “rivalità nel consumo” ed dell’“escludibilità dal consumo”. Il primo principio postula la condizione che il consumo di un bene da parte di un soggetto impedisce ad altri di consumare lo stesso bene; il secondo, invece, afferma che dall’offerta complessiva di un dato bene sul mercato è esclusa la possibilità di impedire il consumo di quel bene da parte di uno qualsiasi dell’intera platea di consumatori. Al contrario dei beni privati, i beni pubblici sono definiti sia dall’assenza della “rivalità” nel consumo, che dalla “escludibilità” dal consumo. Una caramella è un bene privato; se un soggetto ne compra una per mangiarla, nessun altro la può mangiare; d’altra parte, dal consumo di una caramella, delle tante disponibili nel mercato, nessuno può essere escluso. I segnali di un faro collocato su un promontorio a tutela dei naviganti sono un bene pubblico; il loro “consumo” da parte di un navigante non impedisce il “consumo” anche da parte degli altri naviganti; il fatto che molti naviganti possano “consumare”, contemporaneamente o in momenti successivi, i segnali del faro non riduce la disponibilità complessiva dei segnali del faro per tutti i naviganti che si trovino a passare in prossimità dello scoglio sul quale è collocato il faro.
Inoltre, sempre dal punto di vista economico, se in un sistema sociale coesistono beni privati e beni pubblici, il mercato può funzionare correttamente solo quando tutti i soggetti economici, dal lato del consumo, rivelano le loro preferenze e, quindi, le disponibilità a pagare per le diverse quantità che è possibile consumare dei beni disponibili, ed inoltre quando tutti soggetti dal lato dell’offerta (i produttori) producono ed offrono i beni domandati in funzione delle preferenze rivelate e delle disponibilità a pagare i prezzi di mercato per l’acquisto quei beni.
Nei sistemi economici ad economia di mercato, queste due condizioni (rivelazione delle preferenze e della disponibilità a pagare) per i beni pubblici non sussistono, perché l’organizzazione delle istituzioni economiche del sistema sociale non motiva i consumatori a rivelare le loro preferenze e la loro disponibilità a pagare. Gli operatori economici, in quanto produttori, perciò, sono disincentivati a produrre e ad offrire i beni pubblici secondo la quantità e la qualità desiderate dai consumatori; ciò comporta il cosiddetto “fallimento del mercato”, al cui superamento provvede lo Stato, il quale fissa, attraverso procedure istituzionali, da un lato, quanti e quali beni pubblici produrre e, dall’altro lato, come ripartire il costo della loro produzione tra tutti i contribuenti dell’intero sistema economico.
La supplenza dello Stato, pur non presupponendo necessariamente che la produzione e l’offerta dei beni pubblici debbano essere da esso direttamente organizzate, è attuata attraverso il ricorso a “procedure istituzionali” che dal punto di vista economico costituiscono un “quasi-mercato”, espresso dalla contemporanea azione di istituzioni che nell’insieme simulano un mercato vero e proprio. In questo modo, lo Stato provvede alla produzione e alla distribuzione dei beni pubblici, con risultati prossimi a quelli del mercato di concorrenza.
Non tutti i beni pubblici sono consumati dalla generalità dei componenti del sistema sociale; esistono dei beni pubblici che i consumatori sono liberi di consumare nella quantità desiderata, o di non consumare affatto, pur essendo loro offerti. In questo caso si dice che i beni pubblici per i quali esiste questa libertà (di consumo o di non consumo) non hanno la natura di “beni pubblici puri”. Esistono, però, beni pubblici per i quali il fenomeno della libertà di consumare o di non consumare è rimosso, rendendo obbligatorio il consumo di tali beni, soprattutto in considerazione della “posizione di debolezza” del consumatore rispetto alla capacità di valutare con sufficiente razionalità gli esiti di tale consumo; sono questi i beni aventi natura di “beni pubblici puri di merito”, quali, ad esempio, i servizi dell’istruzione, quelli sanitari e quelli ambientali, per via della loro rilevanza dal punto di vista delle esigenze esistenziali dei consumatori. In questo caso, il paternalismo dello Stato è esercitato, oltre che sui mezzi, anche sui fini.
L’obbligatorietà che caratterizza il consumo dei beni pubblici puri di merito, tende ad evitare che il non consumo possa danneggiare, per cause imputabili a conoscenza imperfetta o a comportamenti opportunistici, l’interesse generale della comunità. L’implicazione dell’obbligatorietà del consumo dei beni pubblici puri di merito è che ogni singolo consumatore di una data collettività non possa essere l’unico “giudice” di ciò che è “bene” o “male” per sé. Pertanto, l’intervento dello Stato è giudicato necessario per correggere l’esito delle decisioni disinformate dei consumatori, in quanto componenti di una comunità. In tutti questi casi, l’opzione di stabilire il livello di consumo e la qualità dei beni consumati viene avocata a sé, e poi esercitata, dallo Stato.
La natura dei beni pubblici puri di merito non deriva tanto dall’obbligatorietà del loro consumo, ma dal fatto che questo consumo è determinato dall’esistenza di “rapporti diretti” tra i consumatori; nel caso di beni pubblici non-puri, un consumatore, in quanto facente parte di un insieme più ampio di soggetti, si trova nella condizione di dover effettuare il consumo di determinate quantità di tali beni per evitare di procurare un danno agli altri soggetti. Chi è portatore di una malattia deve curarsi, per evitare danni a se stesso ed agli altri componenti la comunità di appartenenza.
Nel caso dei servizi dei beni pubblici puri di merito, il consumo avviene in presenza di “rapporti diretti e di reciprocità tra tutti consumatori”; si ha perciò la configurazione di “uno stato di bisogno indivisibile, comune all’intera collettività”. Tale stato di bisogno è soddisfatto col comune concorso di tutti, in quanto ciascun consumatore, in condizioni di reciprocità, lo avverte congiuntamente agli altri componenti la comunità. Per questo motivo, per i beni pubblici puri di merito è appropriata l’espressione di beni comuni (commons, secondo la terminologia anglosassone) e il loro consumo, da parte di chi lo effettua, oltre ad essere vantaggioso per se stesso, lo è anche per gli altri, e viceversa.
Quanto sin qui detto consente di definire meglio il ruolo e la funzione del paternalismo libertario del quale parla Sunstein. Con riferimento ai beni pubblici puri di merito, la “presenza meritoria” dello Stato non può tuttavia oscurare del tutto l’autonomia valutativa dei consumatori dei servizi dei beni comuni riguardo alla loro quantità e alla loro qualità. E’, infatti, il rispetto delle valutazioni dei consumatori, circa la quantità e la qualità dei beni comuni desiderati, che assegna rilevanza alla natura libertaria del paternalismo dello Stato. A tal fine, per neutralizzare l’eccesso di discrezionalità dello Stato, è necessario che i servizi dei beni comuni siano prodotti e distribuiti all’interno di un quasi-mercato; ciò, per evitare che i servizi dei beni comuni, prodotti, offerti e consumati non siano totalmente estranei al consumatore, in quanto “non consumatore ubbidiente e passivo”, ma “consumatore interessato” ad orientare ed a controllare le decisioni riguardanti le sue esigenze esistenziali.
Per raggiungere questo obiettivo è necessario che lo Stato assicuri alla produzione, all’offerta ed al consumo dei servizi dei beni comuni alcune garanzie, nel senso che i servizi prodotti, offerti e consumati devono essere di “alta qualità”, prodotti in modo “efficiente”, erogati con “efficacia”, “rispondenti” alle aspettative dei consumatori, fiscalmente “giustificabili” e distribuiti secondo “equità”.
La qualità riguarda le modalità di soddisfazione delle esigenze del consumatore sul piano della premura, della velocità e della competenza con cui i servizi devono essere resi accessibili. L’efficienza, considerato il livello delle risorse impiegate, deve implicare che tale livello sia il migliore possibile in termini di quantità e qualità. La rispondenza alle aspettative dei consumatori deve essere volta a garantire il rispetto delle esigenze esistenziali del consumatore, in considerazione del fatto che per ogni soggetto il consumo di una determinata quantità di servizi resi da beni comuni deve risultare compatibile con il principio dell’autonoma determinazione individuale delle scelte di vita, mentre l’autonomia decisionale che deve sottostare al consumo dei servizi dei beni comuni deve essere assicurata attraverso la realizzazione da parte dello Stato delle condizioni utili allo scopo.
La giustificazione fiscale deve essere fondata sulla necessità che la rispondenza alle aspettative di consumo dei componenti la collettività sia controbilanciata dall’accettazione di una pressione fiscale condivisa e sostenibile, al fine di evitare che in determinate circoscrizioni territoriali (a causa, per esempio, della presenza di immigrati esentasse) le preferenze dei soggetti, in quanto contribuenti fiscali, non coincidano con le preferenze degli stessi soggetti in quanto fruitori di determinate aspettative in termini di servizi. Infine, la distribuzione equa dei servizi dei beni comuni deve comportare una omogenea distribuzione territoriale dei consumi, in modo tale da annullare qualsiasi ostacolo che possa tradursi in una discriminazione sociale intraterritoriale e interterritoriale.
Sono queste le garanzie che possono rendere libertario il paternalismo del quale parla Sunstein; non sembrano sufficienti i livelli di “pressione” deboli o forti ai quali egli fa di continuo riferimento, a seconda del tipo di bene consumato. La considerazione unilaterale di tali livelli da parte dello Stato implica un eccesso di discrezionalità che è plausibile considerare, pur anche all’interno di un mercato regolato da un regime politico democratico, non adeguato al rispetto del principio di autonomia di giudizio del consumatore in quanto cittadino, ma anche ad evitare che i singoli consumatori con le loro scelte arrechino danni ad altri.

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* Anche su Avanti online

Oggi venerdì 16 febbraio 2018

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“La guerra dei tori” a Pula: la vinceranno i nostri eroi? Quant’era bello e semplice Su Padru! E si potrebbe usare il lazo come i cowboys o i gauchos.
15 Febbraio 2018
Gianni Pisanu su Democraziaoggi.
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img_46334 marzo. La legge elettorale un vero disastro
16 Febbraio 2018
Alfiero Grandi, vicepresidente Coordinamento democrazia

4 marzo. La legge elettorale sempre più si rivela un vero disastro. Le responsabilità del Pd. In gioco Lega e Berlusconi. Parte raccolta di firme per cambiarla in Senato. L’ipotesi di un referendum abrogativo. Su Democraziaoggi.
—————————CoStat-martedì 20 febbraio 2018—————-
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Mercoledì 21 febbraio 2018 Storie di migranti

LA PRIMA VOLTA CHE HO VISTO IL MARE
Storie di immigrazione in forma teatrale
partendo da Seui
(di Gianni Loy)
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con: LIA CAREDDU, MARCO BISI, ELEONORA GIUA

colonna sonora: ALESSANDRO OLLA

regia: CRISTINA MACCIONI

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Mercoledì 21 febbraio 2018 – ore 17,30 al TEATRO DEI CIECHI,
Via Nicolodi 104 (Prolungamento viale S. Ignazio).

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Faber

Faber Bomeluzo testonesedia di VannitolaDe André, la Messa è finita, andate in pace. Abbiamo celebrato il rito della visione della fiction sulla vita di Fabrizio De André. Non potevamo non farlo, per molti di noi ha rappresentato e rappresenta ancora oggi una sorta di colonna sonora della nostra vita, ne conosciamo le canzoni, lo ascoltiamo spesso, lo rapportiamo ai nostri ricordi, a episodi della nostra vita. La fiction, era inevitabile, evidenzia alcuni aspetti della sua vita, delle sue scelte, delle sue paure e fragilità, del suo grande impegno creativo. E’ naturale che si riaprano discussioni, che ci siano elogi e critiche per il filmato, delusione, nostalgia. Perché allora l’invito iniziale “andate in pace”. Penso che ciascuno di noi conservi un’impressione, un’idea molto personale, un modo originale di interpretare l’opera e le scelte di questo grande personaggio che è compositore, musicista e poeta. Teniamoci la nostra personale lettura di Fabrizio e continuiamo a viverlo come abbiamo sempre fatto. Lasciamo ad altri le disquisizioni inutili.
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Oggi al Villaggio dei pescatori di Giorgino.

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Oggi giovedì 15 febbraio 2018

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“La guerra dei tori” a Pula: la vinceranno i nostri eroi? Quant’era bello e semplice Su Padru! E si potrebbe usare il lazo come i cowboys o i gauchos.
toro15 Febbraio 2018

Gianni Pisanu su Democraziaoggi.
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M5S: autoriduzione delle indennità, mele marce e candidature
15 Febbraio 2018
Nessun commento
Amsicora su Democraziaoggi.
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pap_tondoeddyburgSu Eddyburg
Potere al popolo, il nostro impegno per l’ambiente e i territori
Potere al popolo, il nostro impegno per l’ambiente e i territori. il manifesto, 15 febbraio 2018, ripreso da eddyburg. Mentre la lista di “estrema” sinistra Potere al popolo (dove sono le “sinistre” non estreme?) sta superando la soglia per entrare in Parlamento, ecco un finalmente un documento politico che affronta i problemi che gli altri trascurano
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Aladiningironline

SOCIETÀ E POLITICA » EVENTI » 2015-LA GUERRA DIFFUSA
img_4801Il caso serio delle bombe italiane
di ADRIANA COSSEDDU

cittànuova.it, 13 febbraio 2018, ripreso da eddyburg e da aladinews. Le leggi non mancano, a partire dalla nostra Costituzione, ma continua imperterrita la violazione del diritto alla pace, intrinsecamente legato ai due diritti fondamentali: il diritto alla vita e il diritto alla libertà. (i.b.).
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«Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza». (Antonio Gramsci, sul primo numero di L’Ordine Nuovo, primo maggio 1919)

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Il 68 dei cattolici

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di Dolores Deidda, su Rocca.

1. Il 68 è stato un fenomeno incubato a lungo nella società italiana a causa delle crescenti contraddizioni che hanno accompagnato il boom economico del Paese ma certamente connesso con il movimento internazionale che, fin dalla metà degli anni ’60, prese piede negli USA e in Europa dove l’apice fu raggiunto dal maggio francese.
Epicentro del movimento – di quello racchiuso nel periodo di tempo che va dal dicembre del 1967 al maggio del 1668 – è l’università. A Milano, Torino, Trento e Pisa maturano le prime iniziative.
Nei primi mesi dell’anno le lotte si estendono all’insieme delle Università italiane ed alle scuole superiori. La richiesta degli studenti dell’abolizione della lezione cattedratica e la sua sostituzione con seminari di studio e di ricerca, diventa, la principale rivendicazione. Vengono proposti “controlezioni”, “occupazioni bianche”, “controcorsi”. La protesta all’inizio si concentra contro i principi autoritari, paternalistici, conformisti ed il modello di vita consumistico. I giovani rifiutano di lasciarsi integrare nelle strutture dell’apparato socio-politico dominante e arrivano a proporsi come forza sociale autonoma, con una propria identità.
Le istituzioni scolastiche sono chiaramente inadeguate a sostenere la scolarizzazione di massa verificatasi in quegli anni ma ancor più sono inadeguate ad interpretare le esigenze delle giovani generazioni.
In un quadro crescente di effervescenza politico-ideologica la contestazione diviene globale, rivolta contro tutte le organizzazioni istituzionalizzate, estendendosi alle grandi questioni internazionali dell’imperialismo e del bellicismo americano esasperato dalla guerra nel Vietnam. La scoperta della classe operaia come soggetto antagonista del sistema porta poi a ricercare un collegamento con la fabbrica interessata da un nuovo e straordinario ciclo di lotte operaie che culminerà nell’ “autunno caldo” del 69. Ma qui comincia un’altra fase del 68 italiano che lo vedrà distinguersi da altre esperienze, in particolare da quella francese, sia per le sue caratteristiche che per la sua durata e i suoi esiti.

2. Divergenti rimangono le valutazioni sul significato e la portata generale della contestazione studentesca. C’è chi sostiene, senza mezzi termini, che la rivolta sessantottina sia stata illusoria, una grande «sbornia» in una fase turbolenta della nostra storia, condividendo la stigmatizzazione di Pierpaolo Pasolini nei confronti della “ rivoluzione dei figli di papà” e la critica del sociologo tedesco Jurgen Habermas sull’incapacità degli studenti di andare oltre la fase provocatoria. C’è chi ritiene che il desiderio di “cambiare il mondo” fosse un buon proposito naufragato con le utopie marxiste o rivoluzionarie che hanno finito con il prevalere. C’è chi definisce quegli anni “formidabili” per il protagonismo assunto dalle nuove generazioni, capaci di far emergere le storture della società e di modificare in profondità i rapporti pubblici e privati. Da allora, “i rapporti tra padroni e operai, studenti e insegnanti, perfino tra figli e genitori, non sarebbero mai più stati gli stessi”, ha scritto Umberto Eco. Un processo capace, dunque, di segnare un prima e un dopo nella storia sia per il modo di porsi del mondo giovanile in rapporto alle istituzioni, sia per l’essere stato momento di avvio di una lunga stagione di azione collettiva destinata a mettere in discussione in modo radicale gli apparati di potere esistenti.

3. Sulle origini italiane del 68 sono in molti a riconoscere che una delle principali componenti va ricercata nel sommovimento che ha attraversato il mondo cattolico nella stagione post-conciliare, caratterizzata da ansie profetiche e spirito di radicale cambiamento portato dall’emergere di una coscienza nuova e contestativa negli ambienti più vivaci della cattolicità italiana, tesa a riscoprire la categoria terrena della costruzione della “città di Dio” in questo mondo.
Sui rapporti tra Concilio e Sessantotto cattolico, il giornalista Roberto Beretta sostiene che sostanzialmente si confrontano due tesi: “Quella più di destra sostiene che il Concilio ha fatto nascere direttamente il Sessantotto, rimuovendo certe solidità dogmatiche o liturgiche tradizionali della Chiesa. In pratica avrebbe scoperto una pentola dentro la quale stavano un sacco di venti nocivi che hanno creato la contestazione. La tesi più di sinistra, sostiene invece che il Sessantotto non è figlio del Concilio quanto piuttosto di una sua mancata applicazione”. Ma la sua tesi si colloca nel mezzo. “Non si può negare che ci sia stata una raccolta di linfe nel mondo cattolico, soprattutto quello intellettualmente e culturalmente più preparato che il Concilio aveva facilitato. C’era un’attesa, uno studio di testi, una circolazione di libri, di idee e di maestri, che il Concilio aveva messo in giro nel corpo della Chiesa italiana e che all’inizio soprattutto sembravano poter trovare l’applicazione migliore attraverso i moti del Sessantotto cattolico. Quindi è vero, che all’inizio è nato “conciliare”. Ma poi ha preso una sua strada. Più avanti ha scelto una strada che non era più sempre conciliare, a volte non era più neanche ecclesiale, e neppure più cristiana e religiosa”.
In effetti nel 68 italiano confluiscono altre componenti intellettuali, in particolare quelle legate a riviste quali Quaderni Rossi di Raniero Panzeri (chiusa nel 1966), capostipite di una serie di gruppi e movimenti politico-culturali, Classe Operaia di Padova, La Voce Operaia di Torino che, pur rappresentando esperienze minoritarie, si propongono l’impresa ambiziosa di revisionare la cultura della sinistra e assumono fondamentale importanza per la formazione politico-culturale della nuova sinistra.
4. I cattolici sono protagonisti fin della nascita del movimento studentesco a Milano, quando il 17 novembre 1967 viene occupata la Cattolica, l’ateneo fondato da padre Gemelli. Miglia di studenti sfilano per la città. È un fatto senza precedenti. Si avvia un dialogo tra gli studenti e le gerarchie. Il presidente dell’assemblea studentesca della Cattolica viene ricevuto in Segreteria di Stato dal Sostituto Giovanni Benelli. Ma lo strappo arriva inevitabilmente. Vengono espulsi gli studenti contestatori, a cominciare da Mario Capanna, il leader che guida l’occupazione e che, come altri leader del movimento studentesco, è cattolico praticante.
Anche alla Statale di Milano uno dei leader del Movimento Studentesco è Luigi Manconi, proveniente da una famiglia di stretta osservanza cattolica, egli stesso da studente liceale è animatore dei gruppi cattolici del dissenso in Sardegna.
All’Università di Trento (dove già nel ’66 si erano verificate agitazioni), i leader del movimento sono in prevalenza di estrazione cattolica. In particolare emerge la figura di Marco Boato (poi fondatore e capo di “Lotta Continua”), attivo in movimenti di ispirazione cristiana, nella FUCI, nelle ACLI e redattore di riviste quali «Dopoconcilio (a Trento) e «Questitalia (a Venezia). Margherita Cagol, che sarà la moglie di Curcio, ha anch’essa un passato da scout e da cattolica praticante.
Anche a Firenze, durante l’occupazione della facoltà di Giurisprudenza, si fa notare un giovane cresciuto nel cattolicesimo postconciliare che proprio in quella città aveva riferimenti di grande profilo, a cominciare da Giorgio La Pira. Piergiuseppe Sozzi da lì a pochi anni diventerà responsabile dell’organizzazione giovanile delle Acli, nel più turbolento periodo della storia dell’organizzazione.
Ma l’apporto dei cattolici al 68 non si può misurare solo per il ruolo che hanno assunto singoli leader direttamente impegnati nel movimento studentesco.

5. Certo è che nel 1968 il fenomeno del “dissenso”cattolico risulta molto esteso nelle diverse aree del Paese, toccando anche piccoli centri tradizionalmente assenti dai fermenti culturali. Si tratta di una galassia di realtà spontanee e di base (centri di studi politici e sociali, centri culturali, associazioni, gruppi parrocchiali, che comincia dialogare con il neonato movimento dell’università. Spesso i gruppi nascono intorno a riviste che sviluppano temi di impegno politico e culturale: Quest’Italia a Venezia, Note di Cultura e Testimonianze a Firenze, il Gallo a Genova, il Tetto a Napoli, solo per citare quelle più note.
Alcuni episodi di contestazione ecclesiale e di rottura di appartenenze politiche consolidate fanno da detonatore per tutta questa realtà: le forzate dimissioni di Raniero La Valle, direttore dell’Avvenire d’Italia, divenuto una delle voci più autentiche del rinnovamento conciliare; il successivo manifesto di accusa firmato da decine di associazioni, realtà di base, circoli (tra questi molti delle Acli) sulle responsabilità della gerarchia nel bloccare un discorso libero e pluralistico tra i cattolici; la presa di distanze di molti gruppi dal documento dell’episcopato italiano sul voto dei cattolici nel gennaio del 1968 (ancora proteso a raccomandare il voto unitario, ovvero democristiano); le dimissioni di Corrado Corghi dalla DC, dopo venticinque anni di responsabilità al suo interno, giustificate dall’inconciliabilità tra la sua coscienza di cristiano e le posizioni di politica estera del partito con riferimento alla tragedia del Vietnam; la candidatura di Gian Mario Albani, presidente delle Acli della Lombardia, nelle liste della sinistra indipendente; le dimissioni di Lidia Menapace da consigliera regionale e nazionale della DC; il cosiddetto “controquaresimale di Trento”, dove uno studente cattolico contesta pubblicamente il predicatore nella cattedrale; l’occupazione della cattedrale di Parma da parte di gruppi di giovani del dissenso all’insegna di una “chiesa dei poveri”; l’inizio della contestazione dell’Isolotto, il quartiere periferico di Firenze dove si consuma la rottura tra il parroco don Mazzi e il vescovo di Firenze, Florit.
L’Isolotto diventa immediatamente l’emblema della contestazione cattolica del ’68 e un riferimento anche per i non cattolici, esprimendo una “opzione per i poveri, i rifiutati, gli oppressi, gli affamati e assetati di giustizia”. E mentre la comunità di base di Firenze si collega con diverse realtà in lotta, costruendo legami con la Cattolica di Milano e con varie altre università, la Lettera ad una professoressa di don Milani diventa una sorta di “libretto rosso”, il manifesto del nuovo modello di educazione che il sessantotto intende introdurre: un’educazione non più nozionistica, paternalistica, autoritaria, classista.
6. I cattolici del dissenso alimentano il fenomeno dell’associazionismo. Aprono il confronto con altre esperienze provenienti da diverse radici culturali e politiche. Guardano ai gruppi di estrazione marxista o comunque laica che manifestano posizioni critiche nei confronti dei partiti della sinistra storica e con essi cominciano a creare esperienze di collaborazione. Guardano al movimento studentesco come soggetto in grado di operare nella prospettiva di un’innovazione profonda degli scopi della scuola e dell’università, perseguendo un cambiamento laico e anticlassista delle strutture culturali ed educative, trasformando i rapporti di potere interni alle medesime, agendo autonomamente, senza investiture partitiche.
Ricercano nuove forme di fare politica, attraverso la partecipazione dal basso, con uno spirito critico e dialettico, non riconoscendo più ai partiti tradizionali la volontà di operare per una vera e profonda trasformazione della società italiana e la rappresentanza delle nuove istanze sociali -pur non proponendosi come alternativa al sistema dei partiti.
La rivista Questitalia, diretta da Wladimiro Dorigo, si fa portatrice di un progetto di collegamento tra i circoli e gruppi spontanei caratterizzato dalla ricerca di un nuovo rapporto tra credenti e non credenti per la costruzione di una nuova sinistra. In questo ambito non si contesta solo la copertura ideologica che la gerarchia ecclesiastica offre al sistema capitalistico, comprimendo la presa di coscienza delle masse popolari cattoliche, ma anche le responsabilità della sinistra storica tesa a garantismi concordatari e a dialoghi opportunistici nonché alla conservazione di privilegi confessionali che impediscono la liberazione politica dei cattolici e l’affermazione della laicità dello Stato, contribuendo così a mantenere l’immobilismo del sistema.
Di fatto, se la gerarchia ecclesiastica reagisce duramente rispetto ai “dissidenti cattolici”, l’intera classe politica dimostra di non saper dare risposte efficaci alle istanze sollevate dagli studenti. La reazione di chiusura delle istituzioni accademiche alla domanda di innovazione di metodi e contenuti della didattica, la dura repressione con misure di ordine pubblico delle iniziali forme di lotta non violente, influiranno non poco sull’evoluzione del movimento verso forme di lotta violente.
Sul piano politico la logorata maggioranza di centro sinistra, basata sull’alleanza tra Dc e Psi, incapace di attuare le promesse riforme, si chiude a riccio. I partiti di opposizione di sinistra, il Pci e il Psiup, mostrano inizialmente una maggiore apertura nei confronti del movimento. Il Pci non tarderà a modificare il proprio atteggiamento, dimostrando prima un crescente sospetto e poi un’ aperta ostilità verso un movimento che fuoriesce dal suo ambito d’influenza. Nelle elezioni politiche che si tengono in maggio, il Pci registra una lieve avanzata mentre il neonato Psiup, cui va la maggior parte dei voti del movimento, raccoglie un certo successo.

7. Al cinquantesimo anniversario del 68 parteciperanno in molti, protagonisti di allora e critici del dopo. L’Università e la città di Pisa hanno già indetto la celebrazione dei 50 anni delle Tesi della Sapienza – un documento considerato il punto d’avvio delle elaborazioni, delle proposte e delle proteste che sfociarono da lì a pochi mesi nel movimento del 1968.
Sull’apporto dato a questo processo da esperienze di gruppi e di circoli cattolici – nonché da singole individualità che in quel periodo si imposero con la forza delle loro posizioni e soprattutto, delle loro opposizioni – non c’è discussione.
La discussione è semmai sulla capacità che queste componenti ebbero di distinguersi nella fase in cui la crescita della radicalizzazione ideologica portò prima all’affievolirsi della carica innovatrice del movimento studentesco e poi ad una deriva che sfociò nelle conseguenze nefaste rappresentate dal terrorismo rosso, trasformando in tragedia personale e collettiva quella che doveva essere l’“immaginazione al potere”.

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