DIBATTITO. Per una nuova politica dell’accoglienza che persegua gli interessi della Sardegna insieme con quelli degli immigrati che ricercano il diritto alla vita. Contribuiamo al DIBATTITO in atto nell’intento di formulare/riprendere proposte anche immediatamente percorribili.

siamo tutti... orgosolo 13 giu 15 lampada aladin micromicroA questo scopo segnaliamo gli articoli apparsi su Aladinews, rubricati sotto la voce “spopolamento e accoglienza”, e, di seguito, ripubblichiamo un intervento di impostazione di Vanni Tola, che richiama la necessità di una nuova politica dell’accoglienza come possibile risposta ai problemi di spopolamento dei nostri paesi. Segue un’osservazione critica di Tonino Dessì, che ci invita ad approfondire il confronto. Anche l’editoriale di Antonietta Mazzette ci fa intravedere proposte di immediata operatività, sulle quali occorre far convergere ulteriori elaborazioni, e, soprattutto, l’impegno delle Istituzioni pubbliche, delle Associazioni e dei cittadini.
Una nuova operazione “Mare nostrum” per una differente politica dell’accoglienza
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sedia-van-gogh4di Vanni Tola, Aladinews 11 settembre 2014.
E’ cronaca di questi giorni. Migranti provenienti da lontani paesi dell’Africa settentrionale, in fuga dalla guerra e dalla miseria, dopo aver attraversato a piedi il deserto e affidato le loro vite agli scafisti e al mare, talvolta trovano temporaneo rifugio in alcuni paesi della nostra isola. Accade però che dopo alcuni giorni di permanenza in questi improvvisati centri di accoglienza, gli ospiti stranieri lasciano spontaneamente i loro nuovi rifugi per cercare fortuna altrove. Cosa c’è che non va nei nostri paesi, a Sadali, a Ottana, a Valledoria, a Lu Bagnu, in riva al mare della Costa Paradiso? La risposta è drammaticamente semplice. Questi luoghi di accoglienza, spesso isolati rispetto ai grandi centri abitati, mal collegati dai trasporti pubblici, non offrono che un alloggio con relativi servizi, piccoli aiuti materiali, un po’ di solidarietà della gente del posto ma anche l’assoluta certezza che difficilmente l’immigrato potrà intravvedere in tali località la possibilità di un reale inserimento sociale, di una valida prospettiva di vita, la possibilità di “mettere radici”. Meglio scappare lontano verso le grandi città. Un’altra considerazione. Più volte ci siamo occupati dell’andamento dei principali indicatori demografici dell’Isola. Dati drammatici, paesi destinati a scomparire nei prossimi decenni per mancanza di abitanti. Comparti produttivi fondamentali per la Sardegna, quale l’agro – pastorizia destinate a non avere un futuro per l’invecchiamento degli attuali addetti al settore e la mancanza di nuova forza lavoro da impiegare a causa del notevole decremento delle nascite. C’è un nesso tra l’arrivo di migranti nell’isola e la condizione di cronico spopolamento della nostra regione? Certamente sì. L’arrivo dei migranti, fenomeno in atto e storicamente irreversibile e l’eccezionale spopolamento della nostra regione, insieme, creano le precondizioni per attivare un differente approccio alla questione dell’accoglienza degli immigrati. Una programmazione organica di flussi immigratori, infatti, potrebbe perfino avere un influsso positivo per la situazione demografica della Sardegna e rappresentare nello stesso tempo una prospettiva di vita accettabile per gran parte dei migranti. Naturalmente a condizione che determini reali possibilità d’integrazione che vadano oltre le pur importanti iniziative di prima accoglienza, finora realizzate. In alcune realtà sono arrivate delle vere e proprie piccole comunità (è il caso delle venti copie di immigrati con bambini) che, se adeguatamente inserite in uno qualsiasi dei nostri paesini con saldo delle nascite negativo, scuole chiuse per mancanza di alunni, centinaia di case abbandonate nei centri storici, avrebbero potuto “fare la differenza”. Avrebbero potuto concorrere a modificare sensibilmente le tendenze demografiche in atto rivitalizzando la comunità ospitante, mantenendo in vita i servizi sociali, e la scuola fra questi, favorendo il recupero dei centri storici abbandonati, rivitalizzando la macro economia locale con l’impiego degli ospiti in lavori utili alla collettività (terre abbandonate, difesa dell’ambiente, ripopolamento aree rurali). Diversi osservatori dei fenomeni demografici, partendo dalla considerazione che in Sardegna si registrano tassi di natalità tra i più bassi al mondo e che i giovani continuano a emigrare, propongono da qualche tempo la necessità e l’urgenza di attivare interventi concreti ed efficaci per invertire la tendenza a un significativo spopolamento della Sardegna e delle zone interne in particolare. La sintesi delle ricerche effettuate ipotizza la realizzare un grande processo di riantropizzazione programmata – come avvenuto in altre aree del mondo con analoghi problemi di spopolamento – utilizzando la possibilità di razionalizzare e migliorare qualitativamente l’attuale politica dell’accoglienza dei migranti. Un progetto di reale inclusione che garantisca progetti di vita validi e accettabili a cominciare dal diritto di cittadinanza per i loro figli. Tali proposte, che potrebbero apparire il parto di fertili menti di sognatori, sono nella realtà saldamente presenti all’interno del dibattito nelle principali istituzioni della Comunità europea. Talmente presenti da essere state tradotte in un piano, il Programma Horizon 2020 per le politiche dell’integrazione che destina milioni di euro (in parte spendibili già dal corrente anno) per le politiche d’integrazione che i paesi comunitari volessero realizzare. Dedicare la dovuta attenzione a questo progetto potrebbe rappresentare per la Sardegna la possibilità di diventare un’area geografica di accoglienza e gestione programmata di flussi migratori che potrebbero, a loro volta, concorrere a rivitalizzare una società tendenzialmente minacciata di estinzione o comunque di un notevole ridimensionamento del proprio ruolo nel mondo. Non è un’operazione di poco conto, è un intervento che implica il superamento di difficoltà considerevoli, anche in termini culturali e di evoluzione del modo comune di pensare la convivenza con altri popoli e altre culture, che è cosa ben diversa dall’aiuto temporaneo e dall’ospitalità. Ma perché non provarci?

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Commento di Tonino Dessì sulla sua pagina fb (11 settembre 2014).
Le intenzioni sono fin troppo buone, ma è una proposta non realistica e per qualche verso – detto franchissimamente – a rischio di serie incomprensioni. Non è realistica perchè i migranti non vengono in Italia per l’Italia, di cui poco sanno (le tv diffuse in Africa e in Nordafrica dedicano ben poco spazio all’Italia, che ha fama di paese cattolico, corrotto, dove impera la criminalità organizzata e il disordine politico). Approdano perchè è la sponda più vicina, ma l’occidente che sognano e che conoscono è tedesco, francese, inglese ed è li o negli USA che vogliono andare. Nè mi pare che l’economia sarda sia in grado di offrir loro più di quello che offra ai cittadini sardi. E la Sardegna non ha bisogno di scoprirsi razzista. Piaccia o meno purtroppo lo è sotterraneamente abbastanza. Perciò accoglienza organizzata e civile, per sottrarre alla mafia il flusso dell’immigrazione, ma sapendo che siamo prevalente stazione di transito e convincendo l’Europa ad aprire le frontiere, perchè è problema di tutti e non prevalentemente nostro.
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A Mazzette SS 30 dic 14La trasparenza dei processi di accoglienza e il dialogo con le popolazioni sono un antidoto al razzismo

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di Antonietta Mazzette
La vicenda degli immigrati che per la prima volta, in modo significativo, sembra riguardare anche la Sardegna, può essere l’occasione per noi di sperimentare un modello diverso di accoglienza e integrazione. Le esperienze negative che si sono diffuse altrove possono essere un monito per i nostri governanti. A tale proposito, mi permetto di sottoporre alla riflessione i seguenti elementi.

Il primo è di tipo conoscitivo. Considerato che il numero di persone, seppure destinato a crescere, è abbastanza modesto (si aggirerebbe intorno alle 2-3 mila unità), sarebbe opportuno conoscere le vite di ognuna di queste persone. E, giacché, dalle parole del questore di Cagliari, emergerebbe il fatto che non si tratterebbe di una fase di provvisoria sosta, bensì della “meta definitiva”, sarebbe utile capire da quale sistema (seppure dissestato) sociale, culturale e di regole questi immigrati provengano.

Il secondo riguarda la necessità, fin da subito, di creare un canale comunicativo tra le nuove popolazioni e quelle locali. Per far ciò, è preliminare insegnare a questi stranieri la nostra lingua, non solo perché gli addetti ai lavori (forze dell’ordine, volontari, intermediari culturali e amministratori) siano messi in condizione di lavorare meglio, quanto, soprattutto, per consentire agli stranieri di conoscerci. I luoghi più idonei di insegnamento sono le scuole che, nella fase estiva, possono rimanere aperte a questa esigenza.

Il terzo elemento, conseguentemente, ha a che fare con il dare ai nuovi arrivati gli strumenti per capire in quale contesto sociale essi si trovino e quale sistema di regole debbano rispettare, non ultimo perché, al pari di ogni altro cittadino, anche per loro il rispetto dei diritti dovrebbe andare di pari passo con quello dei doveri.

Il quarto è far sì che il processo di integrazione non appaia ai sardi come un’usurpazione delle risorse, di per sé scarse. Ciò è tanto più necessario quanto più è elevato il livello di sofferenza dei sardi in termini di disoccupazione e povertà. Perché ciò non accada, è necessario coinvolgere più attori sociali e istituzionali (comprese l’università e la scuola) ed anche rendere noti e trasparenti tutti i passaggi, in particolare quelli riguardanti il concreto uso dei finanziamenti (a chi vanno, come vengono spesi, chi ne beneficerà anche in termini lavorativi). Le variegate forme di razzismo e intolleranza che si stanno diffondendo nel resto d’Italia, a partire dal Nord, sono anche il frutto di una cattiva gestione e di politiche che troppo spesso si alimentano di lacerazioni e contrapposizioni sociali, ma anche di poca trasparenza.

Il quinto elemento riguarda il bisogno di evitare forme di segregazione e ghettizzazione. Non solo perché ciò creerebbe disagi oltre che per gli stranieri, anche per le popolazioni locali, inducendo il cosiddetto effetto NIMBY (non nel mio giardino), ma anche perché l’accoglienza si tradurrebbe prevalentemente in una questione di controllo dell’ordine pubblico piuttosto che di controllo sociale. Mi rendo conto che c’è una prima fase di emergenza in cui gli stranieri devono essere accentrati, controllati (anche per motivi di salute pubblica), e così via. Ma la fase successiva la dovrebbero gestire direttamente i singoli territori e le amministrazioni comunali, naturalmente sotto la regia complessiva del governo regionale.

La vicenda degli arrivi di bambini, uomini e donne che fuggono dagli orrori della guerra e dalla fame è un fenomeno complicato ma che può essere governato con intelligenza, umanità e senza sprechi. I diffusi fatti corruttivi che hanno accompagnato anche questo fenomeno e di cui continuano ad arrivare mediaticamente gli echi, dovrebbero sollecitare la nostra attenzione ed allerta, a partire da quella degli amministratori.

La trasparenza dei processi di accoglienza e il continuo dialogo con le popolazioni locali costituiscono un antidoto certo. Inoltre, per i tanti giovani laureati e no, potrebbe costituire un’occasione (anche lavorativa) per mettersi in gioco, così come può esserlo per tutti quegli adulti che potrebbero prestare la loro opera volontaria: penso ai tanti insegnanti ora in pensione. Ciò che appare evidente è che le istituzioni regionali non devono essere lasciate sole in un momento così difficile.
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[I grassetti sono della redazione di Aladin]
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- Horizon2020, per saperne di più

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